[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484323168730{padding-bottom: 15px !important;}"]L’unidimensionalità: un concetto mai superato[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 22/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484327416374{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Se c’è un dato che possa essere caratteristico nel processo di identificazione dello spirito del tempo, questo è localizzato sul concetto di alterità. Oggi l’alterità - quell’idea di altro rispetto al sé, di diverso rispetto alla propria personale identità - è quell’oggettività situata nel mondo esterno dal proprio sé, la quale rappresenta un qualcosa di irrilevante per la logica del sistema unidimensionale odierno, proprio perché implicito nella sua intenzionalità, dove avviene un processo di soddisfazione di bisogni e obiettivi puramente individuali. La logica dell’homo-homini-lupus di Hobbes portata all’eccesso pone l’individuo in una stato belligerante con il proprio prossimo, quest’ultimo visto come un ipotetico e possibile ostacolo del bisogno soggettivo primario di giungere al proprio obiettivo.
Questa è una società la cui ontologia si fonda sulla competizione che genera un’inconsapevole forma di odio verso l’altro. Fu Marcuse a parlare di “paralisi della critica” , a proposito di una società senza opposizione, quella società industriale contemporanea, sulla quale effige scolpiva nella coscienza e nella cultura del suo tempo “l’uomo a una dimensione”. Nell’introduzione scrive: “se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione”. Marcuse nel 1964, decostruendo il suo avvenire e la sua società secondo i paradigmi del tempo, lotte di classe, subalternità dell’individuo nei confronti di uno Stato implicitamente repressivo, andava delineando l’identità di un assetto sociale che sotto forma di plagio implicito della mente degli individui rendeva fuorviante ogni forma di dissidenza nei confronti dei suoi dettami. Parlava di bisogni politici legati indissolubilmente ai bisogni e alle aspirazioni individuali. Queste erano la personificazione indiscussa della stessa ragione, cioè all’interno di una razionalità, la quale portava ad una violenta volontà di dominio sul suddito rendendo l'unica ragionevole via l’imposizione coercitiva che tale società attuava: essere conforme ad essa e non fuoriuscire dal processo di oggettivazione dell’identità su cui si sviluppava la sua ontologia dell’esistenza.
[caption id="attachment_7432" align="aligncenter" width="1000"] Herbert Marcuse, (1898 – 1979), è stato un filosofo, sociologo e politologo tedesco naturalizzato statunitense.[/caption]
Ma oggi , perché sembra così tristemente attuale un ritorno a una critica sociale come quella mossa da Marcuse negli anni del’68? I tempi sono cambiati e la volontà di potenza del super-uomo nietzschano ha fatto il suo corso nell’interiorità dell’individuo che si trova protagonista della "società liquida"*. Ma ciò su cui dobbiamo improntare i nostri quesiti trova sempre alla base quel paradigma, geniale e profetico, che Pasolini - mentre Marcuse scriveva e produceva idee - fornì al mondo: la differenza tra ciò che è il “progresso” e ciò che è lo “sviluppo”.
Oggi la nostra società ultra-capitalistica volge lo sguardo soltanto verso un interesse nei confronti di un materialismo che genera solo prosperità del singolo, rappresenta un mero e becero sviluppo della stessa società unidimensionale che analizzava il filosofo tedesco. Società in cui già allora l’alterità non era presa in considerazione, proprio perché ci si serviva di strumenti per il raggiungimento della soddisfazione dei bisogni individuali. Una realtà che ha la propria razionalità all’interno di una logica dello sviluppo senza un progresso di fondo. Lo sviluppo non è cambiamento, ma evoluzione, ingrandimento di un qualcosa preesistente. Dunque, per una dialettica del concetto di sviluppo - implicitamente a questo -  vi è di fondo una non-presenza di cambiamento, condizione senza la quale  non vi sarebbe il progresso (il quale però non esiste in nessun orizzonte di speranza).
Compreso il concetto che la nostra società si sviluppa senza  progresso e noi in quanto individui ci troviamo ancora in un’unica dimensione, dobbiamo anche prendere in esame il fatto che l’alterità, rappresenta una forma di coesione sociale attraverso la quale l’individuo carpisce tutto ciò che vi è di positivo nell'evento, e all'interno del quale potrebbe fare esperienza del negativo, inteso come rapporto di confronto con ciò che è diverso (che fa resistenza alla mia identità in quanto differente dal mio sé).
La lezione di Enzo Paci sul negativo come forma di risorsa ci introduce nel tema, poiché giustifica come "Negativo" ciò che è sottrazione della mia identità, nel senso di una identità non uguale al mio sé, poiché diversa e si può parlare di rapporto con l’altro che rappresenta il negativo-diverso: una risorsa esistenziale.
Parafrasando Hegel della Fenomenologia dello Spirito, sulla scia della lezione esistenziale del negativo come risorsa di Paci, possiamo asserire che all’interno del sistema sociale in atto vi è quell’eccessiva proliferazione del sentimento individuale di autodeterminazione, a discapito di tutti quegli enti al di fuori del mio sè, che vengono visti come forza operante dal di fuori sull’individuo: una competitività portata all’eccesso, che impedisce quel processo di autocoscienza del sé, che appunto Hegel sviluppa nel capitolo IV dell’opera.
[caption id="attachment_7434" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine: Romina-37 di Giuseppe Biguzzi[/caption]
Questa società unidimensionale e irreversibilmente individualistica ed egoista, non può che remar contro ad un processo di autocoscienza come lo intende Hegel: “l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza”.
Tale frase emblematica ci giunge in aiuto per comprendere la risorsa esistenziale del negativo paciano, poiché l’altro è una forma di risorsa in quanto detiene il potere di dar significato al mio sé. Se si abbatte la pulsione verso l’altro, visto in un ottica di confronto per avvalorare il mio sé interiore, il sentimento che muove la coscienza dell’individuo non può che essere puramente individualistico ed egoistico. E’ come se la realtà dell’oggi fosse la concretizzazione pura e reale di quelle forma di impedimento nel raggiungimento dell’unità dell’autocoscienza che Hegel riscontrava nello stoicismo. Lo stoico offuscato dall’unica idea di preservare la sua interiorità a discapito del mondo si identifica con l’individuo che oggi non si ritrova più in posizione dialettica con "l’altro da se", con il suo diverso, perché completamente interessato a preservarsi servendosi unicamente di se stesso. L’autocoscienza, forma di eloquio tra le anime dei singoli, non trova posto all’interno della società unidimensionale che ha come etica di fondo la soddisfazione dei bisogni individuali. Un’assurdità dell’egoismo che diviene condizione costituente della fisionomia ontologica della struttura sociale. Ciò che dovrebbe premere l’individuo come se fosse una forza pulsionale che muove la coscienza è il chiedersi in che modo potrebbe essere ribaltato un sistema come questo basato su ciò che Marcuse chiama “repressione fondamentale” dell’istintualità e che pone gli uomini in una posizione che cita come, “repressione addizionale”? In poche parole parliamo di un sistema che si basa sul processo di oggettivazione della vita, verso un’unica e generale forma uguale per tutti. La repressione addizionale di Marcuse è quella forma di repressione che fa da fondamento alla logica di dominio che muove la struttura sociale , oggi più che mai sviluppata e che vede tutti contro tutti. Ciò che potrebbe risultare incisivo per gettare le basi di una critica alle fondamenta di una società unidimensionale e ultra-capitalistica come quella in questione, non può che essere la formazione di un intelletto operante nell’attività di decostruzione: un intelletto che possa smuovere il sentimento pulsionale della soggettività che prende coscienza e che cessi di essere un oggetto passivamente costituito. La repressione nei confronti degli istinti soggettivi persuade l’individuo e lo porta ad un auto convincimento del fatto che non c’è spazio per ascoltare le proprie chiamate interiori verso ciò che si decide di voler diventare.
Lo spirito del nostro tempo è esattamente questo: uni-dimensionalità non soltanto sociale ma anche esistenziale. L’individuo non può più scegliere per sé in quanto si avvale delle sue intrinseche capacità auto-poietiche** ma deve far fronte alla forza oggettivante che sta al di fuori di sé e alla quale non può opporsi, poiché secondo la logica di dominio risulterebbe come diverso e dunque come resistente a una volontà generale di dominio oggettivante e alienante del sé. La dissidenza nei confronti di un sistema alienante e oggettivante come questo potrebbe trovare identità nell’atto di preservare la propria interiorità tramite l’utilizzo dell’alterità, come forma di esperienza del negativo, per giungere a una perfetta comprensione di quale forma si decida di dare alla propria vita.
Note
*Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo;
**Il termine autopoiesi è stato coniato nel 1980 da Humberto Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ovverosia creazione.
 
Per approfondimenti:
_H. Marcuse, l’uomo a una dimensione, Bergamo, Einaudi, 1974
_P.P.Pasolini, Scritti corsari, Milano , Garzanti, 1975
_G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484743835157{padding-bottom: 15px !important;}"]Nascita del Melodramma: le origini di una visione[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Edoardo Cellini del 20/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484928541589{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Come tasselli di un variegato mosaico, furono molti i contributi culturali e le influenze estetiche che arrivarono a comporre l’immagine di una forma spirituale e culturale completamente nuova, che si andava formando in Europa: l'Umanesimo. Senza dubbio furono fondamentali uno spazio e un’epoca, la Firenze del cinquecento; ma le tensioni intellettualistiche che animavano dall’interno questa innovazione culturale, seppero farsi cifra stilistica universale in grado di affermare il valore di una espressione artistica in tutta la sua dirompente visionarietà e sorprendente carica innovativa.
Con il termine Opera, o Melodramma, non ci si riferisce solamente ad un dato genere musicale: esso sta ad intendere, nella sua stessa radice etimologica, la natura dualistica che lo compone: l’espressione del canto (dal greco ‘melos’) e la componente scenico-rappresentativa entro cui si esprime (il dramma, appunto). In termini rigorosi, infatti,“l'Enciclopedia della Musica" (ed. Garzanti) definisce l’Opera come: lo spettacolo entro cui l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto”, aggiungendo, “(...)poiché si avvale di scenografie e, spesso, di azioni coreografiche l’ Opera può essere considerata una delle manifestazioni artistiche più complesse”.
[caption id="attachment_7499" align="aligncenter" width="1000"] Pieter Paul Rubens, Arrivo della regina a Marsiglia (particolare) - 1622-1625[/caption]
Ma l’intento di coniugare tra loro, parole e musica, recitazione e canto, lirismo e dramma, non nasce da un semplice contributo unitario: occorre anzitutto calarsi nel contesto di un’epoca (sulla fine del XV, inizi XVI secolo) per analizzare da vicino le dinamiche intellettuali e le molteplici influenze artistiche che daranno poi alla luce la moderna Opera lirica. Alla base del nuovo genere ci furono due grandi cambiamenti negli aspetti principali che lo compongono: lo storico Massimo Mila (1910- 1988), nella sua “Breve storia della musica" (ed. Einaudi) annovera in campo musicale “l’avvento della monodia” e in campo letterario “il gusto intellettuale ed umanistico della resurrezione del teatro antico nella sua supposta completezza di parola cantata ed azione scenica”.
Veniamo al primo elemento: occorrerà anzitutto ricordare come la ‘monodia’, (canto ad una sola voce, privo di accompagnamento musicale) viveva già come espressione artistica di largo uso nella musica popolare agli inizi del Medioevo. Da contraltare al canto monodico, le classi intellettuali agli ordini dei signori feudatari e i ceti religiosi dominanti, prediligevano una forma musicale più complessa, quale la polifonia (sovrapposizione di due o più voci) fino a creare lo stile del ‘contrappunto’ (punto contro punto, nota contro nota) quale “arte di sovrapporre due o più linee melodiche (...) come avvenne in tutta la produzione vocale colta fino alla fine del ‘500, o in forme strumentali posteriori”. Le due istanze però non si tennero separate a lungo e presto si dovette assistere alla vittoria della ‘popolare’ monodia sulla ‘colta’ polifonia, con un effetto tale da far piegare le rigidità formalistiche in cui s’era evoluta quest’ultima, verso le forme di un canto sempre più permeato da un maggiore senso tonale: una forma musicale più semplice e - per questo - più ‘sentita’, che costituiva il centro su cui si veniva ad orientarsi ogni ramo della musica profana, dunque, popolare.
Il secondo aspetto, sottolineato dallo storico Mila, che concorse alla creazione dell’Opera fu il suddetto elemento letterario, che portò con sé, sia la rottura con un’epoca, sia la riscoperta delle sue eredità classiche. Se la ‘monodia’ irrompe nelle Chiese e porta il canto a confrontarsi con il vento di rinnovamento che circolava nella piazze comunali sul finire del Quattrocento ad essere messa in discussione fu addirittura gran parte, se non l’intero, dell’ impianto della cultura sino a quel periodo dominante. Gli aspetti e le ragioni, per cui sorse nel nostro Paese un fenomeno unico che coinvolse - nella sua portata - l’intero mondo occidentale di allora, sono molteplici. Ma un dato è certo: il nuovo gusto intellettuale che prese piede nel cinquecento in Italia, fu uno dei maggiori impulsi per la genesi del Melodramma. Gli intenti del nascente Umanesimo partivano da un presupposto chiaro: andare alla riscoperta della parola antica per esprimere intorno al suo valore, le ansie e le attese della modernità. Questo aspetto assunse ben presto i caratteri di una vera e propria “caccia al tesoro”; ad emergere per primi furono i testi del teatro antico, nello specifico, i classici greci. Che valore aveva la parola nel dramma antico? E se essa era sorretta da un valore musicale, in che modo veniva a confrontarsi con esso?
Presto l’interrogativo - preminenza nei drammi classici della musica sulla parola - fu posto nei termini di una vera e propria sfida intellettuale cui gli umanisti risposero in maniera raffinata e sorprendente. Per gli studiosi dell’epoca, assetati com’erano di una ricerca che desse risposte il più possibile ‘armoniche’ e circolari, il quesito non si poneva: la parola nel teatro antico doveva essere cantata e vivere - si supponeva - in perfetta completezza con il dramma dell’azione scenica. Ma la vividezza e la novità con cui tale visione s’impose non deve corrompersi se consideriamo che già in opera medievale si possono rintracciare in talune forme di spettacolo, i germi della futura Opera lirica. Su tutti la celebre rappresentazione “Le Jeu de Robin et Marion” di Adam de la Halle, data alla corte di Napoli nel 1282. Per taluni storici si tratta di una sorta di opera ante-litteram, secondo altri studiosi invece: “non sempre è ravvisabile in questi sporadici tentativi una continuità diretta con la futura opera. Essa è invece reperibile nei vari spettacoli popolari, soprattutto feste e drammi liturgici, che erano diffusi nel Medioevo”. Da qui emerge come anche le ‘sacre rappresentazioni’ erano permeate dall’abbraccio di musica e teatro; sintomatico è però il fatto che tra i primi drammi liturgici di inizio Rinascimento, si scelse di recuperare proprio tematiche classiche: un “Orfeo” del Poliziano fu rappresentato a Mantova nel 1471, “cui si aggiunse una 'Rappresentazione di Febo e Pitone' o di 'Dafne' avvenuta sempre a Mantova nel 1486” (Massimo Mila, op.cit.).
[caption id="attachment_7500" align="aligncenter" width="1000"] Il Teatro Comunale di Bologna fu costruito da Antonio Galli da Bibbiena nel luogo in cui, un tempo, sorgeva Palazzo Bentivoglio, distrutto nel 1507. Una parte dei resti formano gli attuali Giardini del Guasto, compresi tra via del Guasto e Largo Respighi, dove invece c'è l'ingresso artisti. Nella foto: sala Bibiena del Teatro Comunale di Bologna.[/caption]
Gli spettacoli, pur conservando la veste della officialità sacra, sembrano affermare uno spirito del tutto laico e pagano, affrontando tematiche mitologiche e dunque profane. Tali rappresentazioni non devono apparirci come antenati della moderna Opera, quanto piuttosto come veri e propri tasselli del mosaico che andrà a comporne l’immagine completa solo un secolo più tardi. Tra le maggiori influenze alla base del nuovo genere, oltre agli spettacoli sacri, o drammi liturgici, va annoverata quella singolare forma degli ‘intermedi’: episodi scenici e coreografici che fondevano ballo, canto e recitazione, fungendo da intervalli tra un atto e l’altro di drammi, feste o commedie. Ancora dall'Enciclopedia della Musica: “l’avvento della monodia- canto ad una sola voce (n.d.a)- accompagnata e la cura sempre maggiore ad essi dedicata dai musicisti, resero spesso gli intermedi la parte più interessante ed espressiva del complesso spettacolo rinascimentale, facendone gli immediati antecedenti del Melodramma”. Tali intermedi assunsero presto una importanza spropositata, come è possibile constatare nella prefazione della commedia del Lasca, dove è la Commedia stessa - in forma di persona - che si esprime: “Misera, da costor che già trovati fur per servirmi e per mio ornamento, lacerar tutta e consumar mi sento”.
Infine se da un lato gli spettacoli, come commedie o drammi liturgici, assunsero ben presto un carattere ‘popolare’, non è da sottovalutare l’apporto - per la creazione dell’Opera - di un altro ‘sotto-genere’ della stessa: la favola pastorale.
Tale rappresentazione fu la forma prediletta dalla società intellettuale agli inizi del Cinquecento e i motivi si possono scorgere facilmente: gli episodi scenici presentano tematiche simbolico-allegoriche di forte rimando idillico-bucolico, un carattere musicale che presupponeva l’alternanza tra recitato e cantato (nella nuova forma della melodia) ed infine l’inclusione di forme coreografiche e balletti. Tra le rappresentazioni le più note furono sicuramente: “L’Egle” di Giambattista Giraldi Cinzio, e il “Sacrificio” di Agostino de’ Beccari, del 1554. Quest’ultimo sicuramente interessante perché fondato su una concezione del canto nettamente monodica, ferme restando, le influenze ‘severe’ del canto gregoriano. Alfonso della Viola - Maestro di Cappella del duca Ercole II d’Este - fu uno dei musicisti più attivi, sue furono le musiche del “Sacrificio”, ma anche dell’ “Aretusa” su testi del Lollio (1563) e “Lo Sfortunato” dell’ Argenti (1567). Stante la popolarità dei suddetti generi, fu solo nel 1589 che, convenzionalmente, si vedono per la prima volta affiorare le radici del Melodramma.
[caption id="attachment_7501" align="aligncenter" width="1000"]gaspard-dughet-aminta Gaspard Dughet (1615 – 1675), Aminta nel salvataggio di Silvia - 1633-35[/caption]
Quell’anno infatti vide le nozze, a Firenze, del Granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena; all’evento parteciparono quasi tutti i musicisti che poi diedero vita al nuovo corso: durante la festa vennero rappresentati circa 26 intermedi nei quali, al virtuosismo dei cantanti, facevano da sfondo lussureggianti ornamentazioni. L’evento dovette mutare radicalmente la concezione della ‘forma spettacolo’ che albergava già nella mente degli artisti fiorentini. Questi, ben prima di creare gli intermedi di quel 1589, avevano l’abitudine di riunirsi a Firenze nel palazzo di proprietà del conte Giovanni Bardi di Vernio (1534-1612) per formare una schiera di intellettuali che discutesse circa quel problema di fondo che li assillava: si poteva davvero conoscere l’antica musica dei Greci? In che modo essi potevano farla rivivere nei tempi moderni?
Il circolo del conte presto ribattezzato la "compagnia de’ bardi", seppe approdare al compimento di una poetica che rappresentava la visione unitaria e organica dei vari tentativi messi in atto sino ad allora. Le forme della rappresentazione greca, secondo gli studiosi, potevano e dovevano essere rinnovate solo attraverso l’uso accorto della monodia. La parola antica per rinascere nel dramma moderno, doveva essere dunque spogliata degli orpelli contrappuntistici fino ad imitare la lingua stessa del parlato, ridonandole - grazie ad una sola linea di canto - nuova luce e significato. Tale processo fu sintetizzato, in maniera esemplificativa, nella nuova teoria del “recitar cantando”; detta forma, del ‘recitativo’ appunto, viene descritta come lo “stile di canto tendente a riprodurre, attraverso una recitazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata”. Viene inoltre specificato che tale stile “è caratterizzato da due elementi fondamentali: un ritmo libero e irregolare, modellato su quello verbale (...) e la mancanza di un’autonoma struttura formale, che, che è sostituita da un libero modellarsi della musica sui nuclei sintattici del testo”.
L’idea di adoperare il canto per mettere in luce la parola fu accolta con entusiasmo dai musicisti fiorentini. Tra i principali ispiratori della nuova teoria troviamo, membri della "compagnia de’ bardi", il liutista Vincenzo Galilei (1533- 1591), autore di un trattato, dal titolo significativo: “Della musica antica e della moderna” (1581), il cantore romano Giulio Caccini (1550-1618), il fiorentino Jacopo Peri (1561-1633) e il romano Emilio de’Cavalieri (c.1550-1602). Ma tra i musicisti che avevano preso parte all’allestimento degli intermedi fu probabilmente Caccini il primo che adoperò il nuovo stile musicando in forma di Opera la Dafne di Ottavio Rinuccini.
I testi di quest’ultimo furono musicati anche da Peri, il quale si propose di “imitar col canto chi parla”. La storia di Mila (op.cit.) riporta le parole di Caccini che sposano appieno le tesi del compagno, quando dice, nella prefazione alla propria “Euridice”: “non avendo mai nelle mie musiche usato altr’arte che l’imitazione dei sentimenti delle parole”.
[caption id="attachment_7503" align="aligncenter" width="943"] Nelle immagini, da sinistra a destra: Vincenzo Galilei, Jacopo Peri, Giulio Caccini.[/caption]
Gli umanisti fiorentini seguirono l’impianto di tale poetica con tutta la radicalità che una nuova scoperta porta con sé. Sicchè le prime opere risentirono inevitabilmente degli schemi intellettualistici entro cui erano mosse, presentando - nella messa in scena dei primi drammi una netta preminenza del ‘recitativo’ - scarne modulazioni (passaggi da una tonalità ad un’altra), e artificiosità meccanica del ritorno alle solite tonalità (quasi sempre contrapposizione di modo maggiore con il modo minore, oppure transizione alla dominante). Nel ‘recitar cantando’ vi era anche, per dirla con Massimo Mila (op.cit.): “la libertà del discorso, l’assenza di ogni quadratura strofica, la perfetta adesione all’organismo sintattico del testo” a conferire al genere “una duttilità inesauribile”.
Fu questo dunque il percorso che, passando per il recupero degli schemi precedenti (drammi liturgici, intermedi, favole pastorali), seppe superare tali influenze, che pure avevano dato un contributo determinante in termini espressivi, per giungere alla creazione di una forma di rappresentazione artistica destinata a durare nei secoli.
 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
_Enciclopedia della musica, edizioni Garzanti
_Massimo Mila, Breve storia della Musica - Edizioni Einaudi
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a cura di Radio9
Il presidente della associazione Arch.Giuseppe Baiocchi disserta sull'associazione Das Andere e spiega il programma culturale 2017 "FUTURO-PASSATO. Oltre il già detto". Annunciato anche il prossimo evento che andrà in scena per il 28 Gennaio 2017 a cura del giornalista romano Sebastiano Caputo.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484755139234{padding-bottom: 15px !important;}"]C’erano una volta uomini come Sergio Leone e Jack London[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Guido Dell'Omo del 18/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484764539318{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Di righe su Jack London ne sono state scritte senza riserbo, come non si è certo risparmiato inchiostro per parlare di Sergio Leone. Il primo, uno dei più grandi scrittori americani, fu reporter fotografico e marinaio per vocazione naturale, sulla cui storia e figura sono stati scritti ben 40 libri postumi alla sua morte. Il secondo, uno dei più grandi registi italiani, fu geniale e allo stesso tempo poco raffinato, come ha spesso ricordato anche l’attore e amico Carlo Verdone, il quale lo conosceva intimamente.
[caption id="attachment_7528" align="aligncenter" width="1000"]london Jack London, nome completo John Griffith Chaney London (1876 – 1916), è stato uno scrittore e giornalista statunitense, noto per romanzi quali Il richiamo della foresta, Martin Eden, Zanna Bianca, Il tallone di ferro.[/caption]
Eppure Leone è stato dotato dalla provvidenza di una sensibilità fuori dal comune. Come si afferma sovente: con l’intelligenza si fa poco, poichè questa è spesso nient’altro che mero nozionismo. Per scrivere - o per produrre quella che a noi umani piace chiamare ‘arte’ - bisogna avere una sensibilità pronunciata, altrimenti il percorso può diventare arduo. Ma cosa c’entra uno degli scrittori americani più pagati della storia letteraria statunitense con il regista della "Trilogia del Dollaro" e della "Trilogia del Tempo"? Si può iniziare il discorso, prendendo in considerazione quello che senza dubbio è il vero capolavoro di Sergio Leone: "C’era una volta in America". Il film si è rivelato per il regista un vero e proprio lavoro ventennale, comportandogli uno sforzo sovra-umano. Il film, del 1984, ha dovuto metabolizzare in decenni quella mole di emozioni che il regista aveva elaborato nel corso di tutti quegli anni e che rischiava di soffocare lo stesso Leone.
[caption id="attachment_7525" align="aligncenter" width="1280"] C'era una volta in America (Once Upon a Time in America) è un film del 1984 diretto da Sergio Leone, con Robert De Niro, James Woods e Elizabeth McGovern.[/caption]
Durante la pellicola - potremmo dire quasi all’inizio, considerando che l’opera completa del maestro dura più di 4 ore - il giovane Noodles, che sarà poi interpretato da Robert de Niro - nei salti temporali adottati da Leone - una volta finito di salire gli scalini del palazzo popolare newyorkese, dove abitavano, intrattiene una conversazione con uno dei suoi compagni d’avventure di strada: “Ma che fai, non vai a casa?E cosa torno a fare? I miei litigano, mia madre prega tutto il giorno ad alta voce, ci hanno anche staccato la luce. Almeno qui in bagno riesco a leggere".
Congedatosi dall’amico, Noodles si chiude la porta del bagno comune alle spalle, si siede sulla tazza del bagno e allunga la mano alla sua destra, verso un libro legato ad una cordicina, quasi nascosto. Per un momento la telecamera indugia sul libro e questo quando viene aperto, si legge chiaramente: Martin Eden, di Jack London.
Ora è il caso di fermarsi a riflettere un istante. Tra tutti i libri della letteratura americana, Sergio Leone ha scelto di far leggere a ‘Noodles’ proprio Martin Eden. Perché? La risposta è più semplice di quanto si creda, perché forse è inutile lasciarsi andare a inutili barocchismi e sdolcinate e pompose righe. Martin Eden, di Jack London, è il manifesto della sensibilità dell’uomo. E’ la prova che anche un rozzo marinaio, sudicio, abituato a vivere nello sporco, nell’umido, a scazzottarsi con gli amici al bar dopo aver ingerito litri di birra, può amare meglio di un uomo borghese con la testa piena di grandi nomi e grandi opere. In questo momento, quando Noodles prende in mano il capolavoro di Jack London, è come se scavalcasse i decenni: tutte le differenze che possono correre tra due giovani vissuti in anni e luoghi diversi, dove pare quasi di riuscire a intravedere lo scrittore-marinaio stringergli la mano, in un cenno di paterna comprensione. C’è una pagina in particolare del romanzo autobiografico del marinaio che riassume un brandello di vita e - con questa - la storia d’amore tra Deborah – interpretata da una meravigliosa Jennifer Connelly ancora bambina – e Noodles.
Recita così, quella che forse è una delle pagine più belle mai scritte sull’amore nella storia della letteratura: "che cosa poteva avere mai a che fare l’amore con le divergenze di pensiero di Ruth con l'arte, sulle scelte di vita, sulla Rivoluzione Francese o sul suffraggio universale? Quelle erano elaborazioni mentali, mentre l’amore andava oltre la ragione, era sovra razionale (...) Grazie ai filosofi della scuola scientifica ne conosceva il significato biologico e, proprio grazie ai raffinati processi di quel pensiero scientifico, arrivò alla conclusione che l’organismo umano raggiungesse i suoi più alti scopi proprio con l’amore, l’amore che non doveva essere messo in discussione, ma doveva essere accettato come la più grande ricompensa della vita. Di conseguenza considerava l’innamorato benedetto tra tutte le creature e si deliziava a pensare a quel ‘folle amante di Dio’, che si eleva sopra tutte le cose terrene, sopra la ricchezza e la razionalità, sopra la pubblica opinione e gli applausi, si eleva sopra la vita e ‘muore in un bacio".
Ora è il caso di ricordare il discorso pronunciato da Deborah a Noodles. Lui, scugnizzo innamoratissimo di lei - meravigliosa creatura femminile - con due occhi che sono una sfida perpetua.
[caption id="attachment_7533" align="aligncenter" width="1000"] Neo fotogrammi, tre scene del film "C'era una volta in America". Deborah (Jennifer Connelly) bambina e adulta insieme a Noodles (Robert De Niro).[/caption]
Lei, troppo educata, composta, appartenente ad un ceto sociale diverso. Lo ama, ma sa che il loro amore non potrà essere realizzato. Almeno non in questa vita. Cita - allora - modificandolo per l’occasione un passo del Cantico dei Cantici, mentre si guardano negli occhi - come solo due bambini sanno fare, innamorati, dentro lo scantinato del ristorante del padre dove Deborah era solita allenare i suoi passi di danza classica: "il mio diletto è candido e rosato, le sue guance sono oro sopraffino, il suo collo è uno stelo soavissimo - anche se non se lo lava dalla Pasqua passata (...) I suoi occhi sono occhi di colomba, il suo corpo è risplendente avorio e le sue gambe sono due colonne di marmo (...) in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli - egli è tutto una delizia ma sarà sempre un pezzente da due soldi, e perciò non sarà mai il mio diletto. Che peccato!".
Non si somigliano Ruth e Deborah? Non si somigliano - forse - Martin e Noodles? Sergio Leone aveva capito prima di tutti l’affinità tra l’opera che stava portando avanti e quella già affermata di Jack London. Qual è il punto? Forse non c’è. O forse viene da pensare che ci si può impegnare molto a leggere fiumi di inchiostro, senza arrivare mai ad un pensiero così profondo. Se non si nasce con quella sensibilità che permette di soffermarsi su tutto, non vi è possibilità di creare nulla, soprattutto quando l’obiettivo è quello di diventare artisti a tutti i costi, sempre che si voglia usare questo termine iper-inflazionato.
La verità è proprio questa: oggi la maggior parte delle persone afferma di ‘voler diventare uno scrittore’, di ‘voler diventare un regista’. Ma non lasciatevi ingannare. Codesti individui vogliono solo acquisire lo status sociale dello scrittore o del regista. Vogliono - quando camminano per strada con la testa bassa - magari tenendo il bavero del giaccone stretto al collo, che la gente a bassa voce dica: “Guarda, quello è …, lo scrittore!” o “Guarda, quello è … il grande regista! Chissà dove starà andando, cosa starà pensando”. Quanto sono miseri questi personaggi.
Ridateci uomini come Jack London e Sergio Leone: veri, puri e nobili eppure sporchi e rudi, capaci di amare una donna come nessun altro, come capaci di piazzare un gancio come si deve in una rissa al bar.
 
Per approfondimenti:
_Jack London, Martin Eden, Edizioni Einaudi 2009
_Sergio Leone, C’era una volta in America - (1984) film storico-drammatico
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484655200605{padding-bottom: 15px !important;}"]22°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]The Young Pope. Estetica e narrazione della serie Tv. Alessandro Poli[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484655949026{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L'associazione per il secondo anno consecutivo entra negli istituti superiori statali. Quest'anno siamo stati presenti all'interno del progetto ministeriale "La notte nazionale del Liceo Classico".
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Argomento trattato "The Young Pope. Estetica e narrazione nelle serie Tv", a cura del Dott.Alessandro Poli, introdotto dal Professor Marco Ritrecina. Un ringraziamento speciale va al preside del Liceo Classico Arturo Verna, che ha acconsentito allo svolgimento della conferenza.
[caption id="attachment_7485" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto da sinistra a destra: Marco Ritrecina, Alessandro Poli, Giuseppe Baiocchi[/caption]
Attraversando la figura di Lenny Belardo (Jude Law) il dott.Poli ha dissertato sul significato spirituale che la tematica presentava, la quale è stata incastonata mirabilmente da Paolo Sorrentino nel suo consono gusto per l'estetica e la narrazione piena di significati e metafore.
L'associazione ringrazia il pubblico presente, che ha visto molti studenti del quinto anno ascoltare con attenzione l'interessante argomento cinematografico.
Prossimo appuntamento il 28 Gennaio con il giornalista romano Sebastiano Caputo: "Alle porte di Damasco, viaggio nella Siria che resiste".
Nel finale, sempre l'interessante dibattito che come di consueto viene lasciato alla cittadinanza e agli studenti. In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Liceo Classico Statale "F.Stabili - E.Trebbiani" di Ascoli Piceno
_la Confartigianato
_Celluloide
_Tipico Ascoli
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484568447805{padding-bottom: 15px !important;}"]Il cieco, l'orologiaio e il triangolo. Metafore e sistemi in Condillac[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Sirianni del 16/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484568072120{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

«Volete imparare le scienze con facilità? Cominciate con l’imparare la vostra lingua.» (Condillac, 1977, pp. 225). Con questa sentenza breve e fulminante si conclude il Traité des systemes di Étienne Bonnot de Condillac. Una condanna aspra rivolta a tutti quei filosofi che, secondo lui, hanno fatto un uso acrobatico della lingua, a quei pensatori che hanno preferito elaborare metafore inconsistenti come postulati per i loro sistemi teorici inadempiendo alla deontologia del linguaggio scientifico che deve basarsi solo su prove empiriche. Una dichiarazione severa. Una presa di posizione chiara. Volete costituire un sistema che renda ragione di concetti, cose, fatti, teorie? Bene, potete farlo, ma solo a una condizione: dovete parlare fuor di metafora.*

[caption id="attachment_7462" align="aligncenter" width="1000"] Étienne Bonnot de Condillac (1715 – 1780) è stato un filosofo, enciclopedista ed economista francese. Contemporaneo di Adam Smith e d'ispirazione liberale, è stato un esponente di spicco del sensismo, ma viene ricordato anche per il suo contributo alla psicologia, alla gnoseologia e alla filosofia della mente.[/caption]
Il Trattato inizia dando una definizione esauriente di sistema: «un sistema non è altro che la disposizione delle diverse parti di un’arte o di una scienza in un ordine in cui tutte si sorreggano a vicenda, e in cui le ultime si spieghino mediante le prime. Quelle che rendono ragione delle altre si chiamano princìpi e il sistema è tanto più perfetto quanto minore è il numero di pincìpi: sarebbe perfino auspicabile ridurli a uno solo» (ivi p. 3). Dopodiché, il filosofo francese distingue i sistemi in tre classi che contrappone in due schieramenti. Il primo schieramento, quello a cui lui si oppone, è formato dalla classe dei sistemi astratti e da quella delle ipotesi: «chiamerò sistemi astratti quelli che poggiano esclusivamente su princìpi astratti; ipotesi quelli che si fondano solo su supposizioni» (ivi p. 6).
Il secondo, quello che lui promuove, è formato dalla classe dei sistemi delle scienze, gli unici ritenuti validi: «è sui princìpi di quest’ultima specie che si fondano i veri sistemi»(ibidem). Egli prende posizione da subito sostenendo il secondo schieramento, quello della classe dei sistemi delle scienze, basati sulla massima newtoniana dell’hypotheses non fingo (non invento ipotesi), fondati solo su fatti accertati sperimentalmente attraverso un’analisi di tipo empirico. Condillac, dunque, come ho già premesso, si scaglia contro quei filosofi che per costruire i loro sistemi ricorrono ad un linguaggio retorico, basandosi su princìpi astratti e metafore inconsistenti.
«I filosofi** volevano spiegare una cosa? Cercavano che rapporti poteva avere con le nozioni comuni; stabilivano dei paragoni, si impadronivano di un’espressione metaforica, e costruivano dei sistemi» (ivi p. 49). Per Condillac è inammissibile che un sistema si basi su metafore o su princìpi astratti: «chiedete a un filosofo che cosa intenda con questo o quel principio; se lo incalzate, non tarderete a scoprire il lato debole; vedrete che il suo sistema verte soltanto su metafore, su paragoni stabiliti alla lontana; e allora potrete demolirlo con la stessa facilità con cui lo attacchereste» (ivi p. 53). Ancora: «il loro linguaggio si riduce a un tessuto di metafore mal scelte e di espressioni forzate che spesso neppur loro capiscono» (ivi p. 199). Non manca poi una forte avversione verso le analogie e i paragoni: «i paragoni non danno le idee delle cose: valgono solo a familiarizzarci con le idee che abbiamo già» (ivi p. 61). Il suo giudizio su queste figure diventa esaustivo in un passo della critica al sistema di Malebranche: «il fenomeno su cui poggia si riduce a questo principio: “Le idee e le inclinazioni stanno all’anima come le figure e il movimento stanno alla materia”, principio a cui giunge paragonando due sostanze del tutto diverse. Non c’è dunque da stupirsi se il suo tentativo di formarsi delle idee esatte ha sortito così poco successo»(ivi p. 69). Nella critica al sistema filosofico leibniziano egli si esprime così: «ha creduto di render ragione dei fenomeni quando si limita a usare il linguaggio poco filosofico delle metafore; e non si è accorto che quando si è costretti a impiegare questo genere di espressioni si dà prova di non aver idea della cosa di cui si parla. Si tratta di errori abituali a coloro che costruiscono sistemi astratti»(ivi p. 99). Ancora contro Leibniz e le metafore: «Questo filosofo non dà alcuna nozione della forza delle sue monadi; non ne dà di più delle loro percezioni; in proposito impiega soltanto metafore; alla fine si perde nell’infinito. Non fa dunque conoscere gli elementi delle cose; non rende propriamente ragione di nulla»(ivi p. 103).
Criticando i sostenitori delle idee innate, invece, condanna totalmente il linguaggio figurato: «quando parliamo dell’anima, delle sue idee, dei suoi pensieri, di tutto ciò che essa prova, adottiamo un linguaggio figurato, e non potremmo fare altrimenti. […] Ora, i filosofi sono stati ingannati da questo linguaggio come il popolo; perciò hanno creduto di spiegar tutto con le parole» (ivi p. 51-52).
C’è da dire che il filosofo francese non fu il primo a combattere l’uso del linguaggio figurato e della retorica in filosofia. Già Platone si schierò contro la retorica affermando il bisogno di depurare il linguaggio dall’alone di oscurità in esso presente. Per Platone la retorica «non possiede alcuna conoscenza della natura del soggetto cui si rivolge» (Platone, 2010, p. 127, 465a). Condillac su questo sarebbe d’accordo, e anche sull’adozione della dialettica come linguaggio filosofico piuttosto che la retorica, ma aggiungerebbe che questa dialettica deve essere sostenuta da un’analisi rigorosamente empirica, incentrata sui sensi. Per Condillac, dunque, il linguaggio deve essere il veicolo che ci permette di comprendere l’esperienza che è data dai sensi. Per far sì che ciò avvenga, è necessario depurarlo da massime astratte e ipotesi ingiustificate, che spesso sono basate su analogie o paragoni con fatti empirici. Risulta chiaro quanto l’aspetto linguistico sia fondamentale per il filosofo di Grenoble, soprattutto se si ha l’ambizione di erigere una gnoseologia affidabile ed esplicativa. Addirittura, egli sostiene che l’intera ragione di fonda sulle regole dettate dalla lingua: «l’arte di ragionare si riduce ad una lingua ben costruita» (Condillac, 1977, p. 220). È la lingua che garantisce la comprensione di una scienza: «una scienza rettamente trattata si riduce a una lingua ben costruita, non c’è scienza che non debba essere alla portata di un uomo intelligente, poiché ogni lingua ben costruita è una lingua comprensibile»(ivi p. 223). Ma come deve essere questa lingua? Cosa intende per ben costruita? Egli afferma che: «L’arte di ragionare si riduce a un linguaggio rigoroso»(ivi p. 26). Per arte di ragionare intende un linguaggio scientifico basato sull’esperienza e sull’analisi di fatti e cose tangibili, afferrabili attraverso i sensi.
Con linguaggio rigoroso, invece, intende l’uso di una dialettica formata da proposizioni dimostrate, scevra da qualsivoglia forma di linguaggio figurato o metaforico basato solo sull’immaginazione. Il linguaggio deve essere dunque rigoroso, dialettico. Com’è possibile notare, la posizione di Condillac sul tema della metafora all’interno di un sistema risulta chiaro: essa è poco filosofica, non dà idea di ciò di cui si parla, non rende ragione di nulla. Per la costituzione di un sistema valido, affidabile, il linguaggio filosofico deve essere ben costruito, rigoroso, in tre parole: fuor di metafora.
[caption id="attachment_7465" align="aligncenter" width="1000"] Jean Huber, pranzo filosofico - Olio su Tela 1772/1773[/caption]
Ma una condanna così aspra verso l’uso del linguaggio metaforico può far correre dei grossi rischi. Se si sostiene che la metafora vada letteralmente bandita dalla filosofia, bisogna stare attenti a non utilizzarla inconsapevolmente. Bisogna verificare che ogni singola parola che si enuncia non sia metaforica. Una cosa del genere sarebbe molto poco umana, soprattutto in filosofia. A livello linguistico, la metafora non è qualcosa di cui ci si può sbarazzare, non è qualcosa di superfluo, non è una pesante zavorra priva di contenuto. La metafora è uno strumento necessario per favorire la comprensione e, in alcuni casi, l’unico mezzo che abbiamo per poterci esprimere. Spesso si utilizzano tantissime espressioni metaforiche senza che ci si renda conto della loro presenza, oppure le si utilizza proprio quando si ha intenzione di criticarle. Questo e il caso di Condillac, che non è esente da questi meccanismi. In questo spazio non riporterò tutte le metafore presenti nel Trattato dei sistemi, nemmeno le metafore composte da singole parole, sarebbe quasi impossibile e neanche tanto corretto perché paradossalmente, significherebbe prendere troppo alla lettera l’opinione di Condillac. Riporterò, dunque, solo alcune grandi metafore, quelle che ritengo più palesi, e che portano in contraddizione il pensiero dell’autore dell’Art de raisonner (arte del ragionamento).
Nel Traité des systemes Condillac utilizza otto grandi esempi per dimostrare l’inesattezza dei sistemi astratti. Alcuni di questi sono capitoli dedicati interamente a una critica analitica dei sistemi di filosofi come Malebranche, Leibniz, Spinoza. Altri invece sono degli esempi inventati appositamente per rafforzare il proprio argomento. Ricordiamo che in retorica gli esempi sono «una particolare forma di argomentazione […] sono storici e inventati: tra questi ultimi si classificano le favole di tipo esopiano»(Mortara Garavelli, 2008, p. 132-133). Condillac, nel capitolo quarto del Traité, per evidenziare gli errori derivanti dai sistemi astratti, chiama esempi ciò che in realtà sono due grandi metafore. La prima è quella del cieco nato: «Un cieco nato, dopo molte domande e molte riflessioni sui colori, credette infine di scorgere l’idea di scarlatto nel suono della trombetta. Indubbiamente bastava dargli degli occhi per fargli capire quanto la sua fiducia era mal riposta. Se vogliamo andare a vedere come aveva ragionato riconosceremo la maniera dei filosofi»(Condillac, 1977, p. 28). Condillac criticando l’analogia dello scarlatto con il suono della trombetta, compie egli stesso un’analogia tra questo modo di ragionare del cieco e quello dei filosofi che lui critica. La seconda metafora che utilizza è quella dei sette pianeti e delle sette note musicali: «È manifesto, comincerò col rilevare, che, come ci sono sette note musicali, così ci sono sette pianeti. In secondo luogo posso supporre che chi si rendesse conto della grandezza di questi pianeti, delle loro distanze o di altre qualità, troverebbe fra di esse una proporzione simile a quella che deve sussistere fra sette corpi sonori posti in ordine diatonico. Ammesso questo (si può supporre tutto ciò che non è impossibile: e chi, d’altra parte, potrebbe provare il contrario?), niente impedirebbe di riconoscere che i corpi celesti formano un perfetto concerto»(ivi p. 29-30). In questo caso, utilizza lo stesso sistema della prima metafora solo con tono più sarcastico. Critica l’assurdità dell’analogia tra le note musicali e i pianeti, usando questo argomento come analogia con il modo di ragionare dei filosofi che utilizzano sistemi astratti. E il bello è che conclude questo capitolo con la seguente affermazione: «gli uomini dovrebbero servirsi di espressioni metaforiche soltanto con grandi precauzioni. Si fa presto a dimenticare che sono solamente metafore: si prendono alla lettera e si cade in errori ridicoli»(ivi p. 32). Un’altra metafora evidente si trova nell’articolo quinto del capitolo ottavo del Traité, quando critica il principio di Leibniz che vede ogni singola monade capace di avere un’infinità di percezioni e di rappresentare tutto l’universo. «Se dicessi: un lato di un triangolo ha dei rapporti con gli altri due lati e coi tre angoli; dunque questo lato rappresenta la grandezza degli altri due e il valore di ciascun singolo angolo, la falsità della conclusione sarebbe manifesta. Ciascuno sa che per una simile rappresentazione non basta la conoscenza di un lato. Allo stesso modo io dico che la rappresentazione dell’universo non può essere racchiusa nella conoscenza di una sola monade» (ivi p. 101).
Per criticare un principio astratto, basato su concetti inventati, inventa un’analogia con il mondo della geometria, che all’apparenza può sembrare più accreditabile, ma sempre di analogia si parla, quindi, di traslazione semantica, di metafora. Un’altra macro-metafora si trova nel capitolo quattordicesimo, in cui, attraverso una supposizione, vuole render ragione della natura del filosofo naturalista. «Supponiamo che un uomo privo di qualunque nozione nel campo dell’orologeria e anche della meccanica tenti di dar ragione dei movimenti di un orologio a pendolo: ha un bell’osservare come suona a certe ore e come si muovono le frecce, dato che non conosce la statica, gli è impossibile spiegare tali fenomeni in modo ragionevole. […] apritegli l’orologio a pendolo, spiegategliene il meccanismo; subito egli coglie la disposizione di tutte le parti, vede come agiscono le une sulle altre e risale al primo congegno da cui dipendono. Solo da questo momento in poi conosce con sicurezza il vero sistema che rende ragione delle osservazioni che aveva fatto. Quest’uomo è il filosofo che studia la natura»(ivi p. 204). Il filosofo della natura è l’uomo che impara il meccanismo dell’orologio; più metafora di questa. Non utilizza neanche l’avverbio come, dice propriamente che quell’uomo è il filosofo. Non è quindi soltanto un esempio o un paragone, ma una metafora vera e propria. Il filosofo francese sembra andare spesso in contraddizione utilizzando di continuo ciò che critica così aspramente. C’è un passo del capitolo terzo in cui, criticando i filosofi che fanno divenire le definizioni di parole delle definizioni di cose, promuove una metafora del suo filosofo preferito: «Ma somiglia, come osserva Locke in un caso analogo, a uomini che, senza denaro e senza cognizione della moneta in corso, contassero delle somme rilevanti con gettoni a cui dessero il nome di luigi, lire, scudi. Qualunque calcolo facessero, il risultato si ridurrebbe sempre a gettoni; qualunque ragionamento faccia un filosofo come quello di cui parlo, le sue conclusioni saranno sempre soltanto parole»(ivi p. 23). In questo caso, la metafora dell’empirista inglese è accettabile, anzi, necessaria per chiarire il concetto.
A questo punto mi si potrebbe muovere l’obiezione che alcune delle metafore da me individuate in realtà sono esempi tratti dall’esperienza. Condillac sembra esprimersi su questo, quando ammette di usare le supposizioni e le analogie: «Nella mia logica ho spiegato la sensibilità, la memoria e quindi tutte le abitudini dello spirito. È un sistema in cui ragiono sulla base di supposizioni; ma sono tutte supposizioni suggerite dall’analogia. I fenomeni ci si sviluppano naturalmente, si spiegano con molta semplicità; tuttavia riconosco che supposizioni come le mie, quando si fondano soltanto sulle analogie, non hanno la medesima evidenza di quelle suggerite e confermate dall’esperienza stessa; infatti, se l’analogia può non permettere che si dubiti di una supposizione, solo l’esperienza può conferirle evidenza; e, se non si deve respingere come falso tutto ciò che non è evidente, non bisogna neanche guardare come verità evidenti tutte le verità di cui non si dubita»(ivi p. 193).
Piuttosto che dire che è l’esperienza a conferire evidenza alle sue analogie, io direi che sono metafore dell’esperienza. Il fatto che Condillac tragga dall’esperienza le sue analogie, parlando di un cieco nato, di un orologiaio, dei lati di un triangolo, non lo pone in una posizione differente dai filosofi che lui stesso critica. Questo perché ogni volta che utilizza queste metafore lo fa sempre per spiegare qualcos’altro. Muove una sostituzione, una traslazione semantica. Quando parla dell’uomo che impara le regole dell’orologeria, non lo fa per parlare di meccanica o di orologeria, lo fa per dire che bisogna conoscere ciò di cui si parla per poter costruire un sistema. Usa la metafora di un fatto particolare per mettere in evidenza un qualcosa di più grande, che è il suo discorso sui sistemi di pensiero.
La figura della metafora è debitrice di Aristotele e della parte del suo pensiero riguardante la retorica e la poetica. «Alla metafora Aristotele assegna un posto centrale: addirittura la facoltà di conferire chiarezza all’elocuzione, oltre che piacevolezza ed eleganza, poiché la sua funzione principale sta nel cogliere i nessi di somiglianza (le analogie) tra cose distanti. L’abilità metaforizzante è comune al retore e al poeta: è qui che poetica e retorica si incontrano, come anche nella considerazione del metro, nella poesia, e del ritmo, nella prosa»(Mortara Garavelli, 2008, p. 28-29).
[caption id="attachment_7471" align="aligncenter" width="1280"]aristotele Aristotele 384 a.C. o 383 a.C. - 322 a.C.) è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico. Con Platone, suo maestro, e Socrate è considerato uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, che soprattutto da lui ha ereditato problemi, termini, concetti e metodi. È ritenuto una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del mondo antico, sia per la vastità che per la profondità dei suoi campi di conoscenza, compresa quella scientifica.[/caption]
Per Aristotele la metafora può essere di quattro tipi diversi. Egli sostiene che il più rilevante tra questi sia il quarto, ovvero l’analogia, infatti, dichiara: «dei quattro tipi di metafora, le più popolari sono quelle per analogia»(Aristotele, 2011, p. 333, 1411a). Nella Poetica, Aristotele introduce i quattro tipi di metafora e spiega esaurientemente come funziona l’analogia: «Metafora è l’imposizione di una parola estranea, o da genere a specie, o da specie a genere, o da specie a specie, o per analogia. Da genere a specie: “la mia nave è ferma là”. Infatti essere ancorata è una specificazione di “star fermo”. Da specie a genere: “Mille cose buone ha fatto Odisseo”: mille è molto, e qui sta al posto di “molto”. Da specie a specie: “attinse la vita col bronzo” e “tagliò l’acqua col lungo bronzo”: in un caso ha detto “attingere” per “tagliare”, nell’altro “tagliare” per “attingere”, perché entrambi sono specificazioni di “togliere”. Per analogia: quando il secondo elemento sta al primo come il quarto sta al terzo: si dirà allora il quarto al posto del secondo oppure il secondo al posto del quarto. Talvolta si mette anche ciò a cui si riferisce la parola sostituita. Per esempio, la coppa sta con Dioniso nello stesso rapporto dello scudo nei confronti di Ares: si potrà dunque chiamare la coppa “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure la vecchiaia ha nei confronti della vita lo stesso rapporto della sera nei confronti del giorno; si potrà dunque chiamare la sera “vecchiaia del giorno”, o, come Empedocle, la vecchiaia “sera della vita” o “tramonto della vita”»(Aristotele, 2006, p. 47, 1457b). Dagli esempi tratti da Aristotele si evince, dunque, che l’analogia è un particolare tipo di metafora, la sua variante più significativa. Da Aristotele ad oggi, nel corso dei secoli, nulla è cambiato riguardo la struttura dell’analogia. Essa funziona ancora come una proporzione matematica, ma non è una proporzione matematica. È una metafora.
In conclusione, nonostante Condillac giustifichi le sue supposizioni perché basate sull’analogia, non significa che queste vengano spiegate matematicamente. L’analogia che il francese usa è propriamente l’analogia aristotelica, cioè una metafora. Che la sua referenza si collochi nel mondo empirico, non cambia nulla sulla sua natura. Le metafore, da sempre, servono a rendere più chiaro il discorso, a dire quello che altrimenti non si saprebbe come dire, a rendere l’idea, a spiegarsi, a dire in altre parole, o semplicemente a dire. E soprattutto in filosofia, empirista o razionalista che sia, nella costituzione di un sistema di pensiero, non si può fare a meno di questa facoltà.
 
Note
* «La metafora è una figura retorica che consiste nel trasferire ad un oggetto il termine proprio di un altro secondo un rapporto di analogia» . Le definizioni tradizionali e vulgate della m. (in gr., metaphorá, da metaphérō «io trasporto», da cui il calco latino translatio, da transferre, donde deriva traslato) si possono compendiare nella seguente: sostituzione di una parola con un’altra il cui senso letterale ha una qualche somiglianza con il senso letterale della parola sostituita (Mortara Garavelli, 2008, p. 237).
** Con il termine “filosofi”, Condillac si riferisce in maniera fortemente critica ai pensatori come Decartes, Malebranche, Leibniz, Spinoza. Egli afferma che tali pensatori, basando i loro sistemi filosofici su supposizioni e princìpi astratti, credono di spiegare delle cose, ma in realtà non riescono a render ragione di ciò di cui si occupano.
 
Per approfondimenti:
_Aristotele. (2006). Poetica. Roma-Bari: Laterza.
_Aristotele. (2011). Retorica. Milano: Mondadori.
_Condillac, E. B. (1977). Trattato dei sistemi. Roma-Bari: Laterza.
_Hume, D. (2008). Trattato sulla natura umana. Roma-Bari: Laterza.
_Lo Cascio, V. (1995). Grammatica dell'argomentare. Firenze: La nuova Italia
_Lumbelli, L. (1989). Fenomenologia dello scriver chiaro. Roma: Editori Riuniti
_Meyer, M. (1997). La retorica. Bologna: Il Mulino.
_Mortara Garavelli, B. (2010). Il parlar figurato. Roma-Bari: Laterza.
_Mortara Garavelli, B. (2008). Manuale di retorica. Milano:Bompiani.
_Perelman, C. (1981). Il dominio retorico. Retorica e argomentazione. Torino:Einaudi
_Perelman, C. & Olbrechts-Tyteca, L. (2001). Trattato dell'argomentazione. Torino: Einaudi.
_Platone. (2010). Gorgia. Milano: Bompiani
_Platone. (2013). Protagora. Milano: Bur
_Platone. (1966). Opere. Roma-Bari: Laterza.
_Squarotti, a. c. (2008). Dizionario di retorica e stilistica. Torino: Utet.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1483876820710{padding-bottom: 15px !important;}"]La chiesa ritrovata: storie della Roma Bizantina a S.Maria Antiqua[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino del 14/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484391031253{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sono stati versati fiumi d'inchiostro sulla chiesa di Santa Maria Antiqua, questo perché si tratta di uno dei luoghi di culto più emblematici ed importanti dell'alto medioevo romano. La sua origine risale al VI secolo, quando i bizantini, guidati dal generale Belisario, riconquistarono gran parte dell'impero romano d'occidente, tra cui anche Roma. Nel periodo in cui la città eterna fu sotto il loro dominio, vennero ripristinati gli acquedotti, ricostruite le vie di comunicazione, i palazzi, le terme e molti antichi edifici. L'imperatore Giustiniano sognava di ripristinare la gloria dell'antico impero e non badò a spese per cercare di restituire alla capitale la sua antica gloria. Fu in questa occasione che, riutilizzando parte di una struttura precedente (di epoca domizianea) fu fondato uno dei primi edifici dedicati al culto della Vergine di cui si abbia notizia, la così detta Santa Maria Antiqua. La nuova chiesa si ergeva ai piedi del colle Palatino nel pieno centro di Roma in una zona particolarmente importante dal punto di vista simbolico poiché in quest'area sorgevano le antiche residenze degli imperatori.
Il riutilizzo di edifici precedenti fu piuttosto comune in epoca medievale, sia per ragioni economiche che pratiche. Tuttavia a Roma quest'uso, iniziato già in epoca paleocristiana, assunse anche un valore simbolico di continuità e riconversione: ciò che era pagano diventa cristiano, ciò che era degli imperatori diventa della chiesa, ciò che un tempo era gloriosa testimonianza del grande impero può rivivere trasformandosi. Questo è il secondo edificio di culto cristiano ad installarsi nel cuore della città,  dopo il foro e la chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Ma gli eventi gli riserveranno una storia radicalmente diversa. La nuova struttura cambierà gli ambienti preesistenti: come si legge in “Santa Maria antiqua tra Roma e Bisanzio” “(...) il quadriportico, probabilmente su due livelli e con impluvium centrale, fu trasformato in tre navate e gli ambienti di fondo diventarono rispettivamente protesi, diaconico e presbiterio, dove solo in un secondo momento fu aggiunta, scavandola nel muro di fondo,l’abside”.

Tuttavia la particolarità di questo edificio sta nei suoi 250 metri quadri di decorazione pittorica, tutti in stile “bizantino” e tra i pochi esempi rimasti perfettamente conservati di quest'epoca perché sopravvissuti all'iconoclastia e non soggetti ad interventi posteriori. Santa Maria antiqua venne infatti isolata completamente nell'847, quando un terremoto la rese inagibile: fu quindi ricoperta di terra e ricostruita con il nome di Santa Maria Nova (oggi santa Francesca Romana). La chiesa fu scavata e studiata solo nel 1900 a cura di Giacomo Boni e presto divenne quello che La Mantia definisce “(...)un monumento che, per l’eccezionalità delle sue decorazioni pittoriche, sarebbe ben presto divenuto una ‘bussola’ nella storiografia artistica alto medievale”. Quello che ci è arrivato è dunque una testimonianza diretta di un'epoca travagliata, in cui Roma fu centro di influenze diverse, tra cui quella bizantina che a più riprese lasciò tracce in questa chiesa incredibile. Ad oggi vi sono ben sette strati ben identificabili ed alcuni databili con precisione grazie ai personaggi presenti con il nimbo quadrato e quindi ancora viventi all'epoca dell'esecuzione degli affreschi. 

In particolare la parete a destra dell'abside è chiamata parete palinsesto perché è l'unica in cui questi strati sono tutti visibili. Una prima decorazione tardo-antica, a contatto con il muro in laterizio, risale al IV o V secolo ed è presente anche in altre aree della struttura. La seconda decorazione è in intonaco e risale probabilmente al secolo V: i resti di questo strato sono molto esigui. Il terzo strato, risalente al VI secolo, fu eseguito prima della realizzazione dell'abside in quanto vi è rappresentata la Vergine in trono con bambino e un angelo. Probabilmente vi era un angelo anche dall'altro lato di Maria, poiché queste composizioni erano di solito simmetriche, ma con l'apertura del catino absidale una parte della decorazione deve essere andata perduta.
Sul Palatino sorgeva in epoca imperiale il palatium degli imperatori: il nome che deriva proprio dal toponimo di questo colle. Ancora oggi viene rievocato in tutte le lingue di derivazione latina: “palazzo” in italiano, “palais” in francese, “palat” in rumeno e “palacio” in spagnolo. Il quarto strato mostra invece i frammenti del volto della Madonna e di un angelo che costituivano probabilmente un'Annunciazione. E' stato datato alla prima metà del VII secolo ed altri frammenti della stessa epoca sono stati rinvenuti in altre parti dell'edificio. Per la tecnica quasi impressionistica ed i colori splendidamente sfumati, la figura è stata soprannominata “l'angelo bello”. Del quinto strato restano solo piccoli frammenti e due volti con nimbo quadrato nella calotta absidale.

Il penultimo strato è datato al pontificato di Martino I (649-653) poiché due figure mostrano una pergamena con allusioni al concilio lateranense del 649. Il settimo ed ultimo strato risale agli inizi dell'VIII secolo e ve ne sono brani sia sulla parete palinsesto che nelle pareti laterali dell'abside. L'abside fu ridipinta per l'ultima volta sotto Paolo I tra il 757 e il 767. L'importanza di questi strati e delle loro diversità e peculiarità risulta per noi fondamentale per capire come è evoluto lo stile bizantino e come questi dipinti influenzarono l'arte a Roma durante l'alto medioevo. Secoli di concili, la fuga dall'iconoclastia, papi di provenienza e di tradizioni diverse, intenti educativi differenti, tecniche ed abilità artistiche varie, secoli di storia della Chiesa e della cristianità, di un impero in rovina e di un nuovo assetto politico, tutto questo e molto altro si può leggere sui muri di Santa Maria Antiqua che costituisce quindi “(...) un’eccezionale testimonianza dello sviluppo della pittura romana e di tutto il mondo greco bizantino alto medioevale: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. L'edificio, con i suoi dipinti, ha giocato un ruolo centrale nella cristianizzazione del Foro Romano post-classico e nel rapporto di Roma con Bisanzio e la sua cultura, in un’area strategica dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi di approvvigionamento per cittadini e pellegrini

  Per approfondimenti – Maria Andaloro, Giulia Bordi, Giuseppe Morganti, Santa Maria antiqua tra Roma e Bisanzio, Electa – Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani – Giuseppe Morganti, Giacomo Boni e i lavori di S. Maria Antiqua: un secolo di restauri, colloquium – Giulia Bordi, Santa Maria Antiqua: prima di Maria Regina, in “L’officina dello sguardo”, Gangemi editore – Serena La Mantia, ‘Santi su misura’: la parete di Paolo I a Santa Maria Antiqua, Comune di Cividale del Friuli editore © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1484245827841{padding-bottom: 15px !important;}"]L’immagine-movimento come essenza del linguaggio cinematografico[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 13/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1484302241879{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Correva l’anno 1885 e i fratelli Louis e Auguste Lumière davano alla luce quella che da lì a poco sarebbe stata la più grande forma di rappresentazione figurativa sotto forma di immagine in movimento, la cinematografia. Quest’ultima, nasce attraverso la creazione di uno strumento dall’omonimo nome, cinematografo, che i due fratelli francesi presentarono al pubblico del Grand Cafè del Boulevard des Capucines di Parigi.
[caption id="attachment_7390" align="aligncenter" width="1000"] I fratelli Lumière.[/caption]
Il cinema, oggi, vede l’incontro con il digitale - l'elemento del suo più alto sviluppo - il quale rappresenta una forma di linguaggio che trova la sua “voce” nell’immagine in movimento.
Il cinematografo proiettava sullo schermo la figura che era impressa sulla pellicola, la quale attraverso un processo fotografico, creava il movimento. Quello delle immagini, ovviamente, risulta essere una forma di linguaggio innovativo e immediato per quel tempo. Il cinema è una forma di rappresentazione del reale che nell’immediatezza dell’intuizione trova la “concretizzazione” dei propri concetti attraverso l’immagine.
A proposito dell’importanza che questa assume è lecito citare Deleuze che, parafrasando Ejzenstejn, asserisce che il montaggio rappresenta l’elemento più importante all’interno del cinema. Il montaggio, che rientra tra i codici identificativi di quest’arte, è il mezzo attraverso cui si delinea il linguaggio delle immagini. Il lavoro del montatore è al fondamento di tale disciplina, poiché è colui che decide - in base agli ordini prestabiliti con il regista - quali saranno le immagini che andranno tagliate e quali saranno, invece, quelle da tenere e raggruppare. La creazione delle “sequenze”, in seguito al raggruppamento di immagini, daranno vita ai capitoli del film.
Un sistema complesso quindi, quello del cinema, che presenta una struttura stratificata secondo cui ogni elemento o codice, che va dal montaggio, alla fotografia, alla sequenza, alla colonna sonora, ha una sua funzionalità specifica ai fini di una perfetta messa in atto di un linguaggio in movimento.
Il montaggio è una forma di composizione cinematografica, che ha la funzione di far fuoriuscire - attraverso una sua corretta messa in atto - l’idea dell’autore. Dunque quel particolare linguaggio, attraverso cui l’autore si mette in posizione dialettica con il pubblico, rappresenta un dato ineludibile e caratterizzante del cinema, dove il "movimento" rappresenta la sua più alta espressione.
Deleuze stesso fa un raffronto tra quelle forme di arte come la scultura o la pittura, che rimandano a idee immobili ed eterne nel mondo ideale e il cinema che rappresenta, attraverso quel movimento, le immagini verso una dinamicità dei concetti. Nel cinema, risiede il più grande erede delle arti figurative.
Domenico de Gaetano, che in quel meraviglioso saggio del 1995 dedicato al cinema di Peter Greenaway, riporta una frase che quest’ultimo amava utilizzare nelle sue interviste: “mi piace far riferimento alla pittura come a un modello di perfezione, una metafora della vista e dello sguardo; riconosco che il cinema è il più giovane erede di duemila anni di pittura”. Qui, in queste parole, è concentrato il senso dell’eredità del cinema e si può comprendere come una simile definizione possa essere il frutto di quel movimento dell’immagine nel cinema che Deleuze teorizza. La pittura ferma il concetto sulla tela creando il movimento nella mente dello spettatore che a sua volta decostruisce e interpreta. Il cinema crea quel medesimo movimento a partire da un movimento che ha di per-sé proprio il momento in cui viene preso in esame da mente e occhio dello spettatore e questa è un’ implicita caratteristica. Qui, ovviamente, ritorna l’importanza che assume il montaggio. Un buon montaggio determina una buona struttura del film e per "struttura" si intende un linguaggio costituito da taglio dell’immagine, fotografia, colonna sonora, sequenze, tutto un insieme che delinea alla fine l’intenzionalità del messaggio dell’autore. Il cinema è senz’altro una forma di strutturalismo determinato dalle immagini. Strutturalismo, poiché queste immagini sono messe in relazione dagli strumenti di cui si serve il cinema, strumenti che fanno da “codici” identificativi.
Il montaggio è legato alla stessa inquadratura, al piano sequenza, alla messa in scena, ed a tutti quegli elementi che fanno del cinema un sistema di relazioni e che permettono di far trapelare - attraverso la pellicola - i concetti che l’autore vuole rappresentare. All’interno di questo sistema, ricopre un’importanza rilevante il tempo e la sua rappresentazione.
[caption id="attachment_7393" align="aligncenter" width="1128"] Gilles Deleuze (1925/1995) è stato un filosofo francese. I suoi maggiori lavori "Differenza e ripetizione" (1968) e "Logica del senso"(1969). Benché ascritto all'ambito dei filosofi post-strutturalisti, il pensiero di Deleuze risulta in realtà di difficile classificazione.[/caption]
In Immagine-movimento del 1983 Deleuze descrive come il montaggio, che verte sull’immagine-movimento, è ciò che fa venir fuori l’idea, ovvero “l’immagine-tempo”. Immagine-movimento e immagine-tempo sono strettamente connessi, proprio per una virtù implicita a quel movimento dell’immagine che crea le scene dell’inquadratura. Il tempo è costruito dal movimento in atto ed è l’essenza della pratica cinematografica. Proprio in questo frangente bisogna evidenziare la capacità dinamica che quest’arte possiede nel rappresentare la realtà e nel ri-produrre l’interpretazione dei concetti. Lo strutturalismo linguistico spiega come il linguaggio è costituito da differenze dentro il sistema dei rapporti, i quali - tra le immagini all’interno del cinema - non presentano una metodologia universale che le rapporta.
Vi è una differenza nella tipologia di utilizzo dell’immagine in movimento ed è in quest’utilizzo che risiede la firma dell’autore, la firma del suo stile, la sua poetica, il suo linguaggio specifico. Un dato importante, per esempio, all’interno dell’ottica di comprensione di uno stile di un determinato autore potrebbe essere rappresentato dalla sceneggiatura. Quest’ultima, come scrive Pasolini in Empirismo eretico, è quella tecnica che fa da legame tra il cinema e la letteratura. Attraverso una sceneggiatura e i suoi dialoghi, si potrebbe cogliere lo spessore che l’autore presenta nei confronti della trattazione dei temi. Il cinema è una forma immediata di rappresentazione che si serve dell’intuito dello spettatore attraverso un’attività di coesione di più arti. Pittura e letteratura trovano la loro sintesi nel cinema. La sceneggiatura potrebbe essere un segno che riporta al suo autore, ma importante è anche comprendere - attraverso l’occhio di Deleuze - come la differenza nell’utilizzo dell’immagine-movimento possa determinare la differenziazione dell’intenzionalità che sta dietro le opere dei registi. L’autore di Immagine-movimento fa una trattazione nei diversi utilizzi del montaggio, spaziando dal cinema americano a quello europeo, mettendo in luce  il differente taglio delle immagini e il suo cambiamento nella trattazione dei temi, nell’intenzione che è alla base della rappresentazione: chi utilizza l’immagine a sfondo politico, chi a sfondo estetico, chi morale. L’intenzionalità dell’autore è indissolubilmente legata al montaggio delle scene. Un linguaggio, quello del cinematografico, particolarmente complesso che se non viene abilmente strutturato secondo i codici che lo costituiscono può facilmente decadere in una banale rappresentazione. La grandezza di un autore risiede nel comprendere, precedentemente alla messa in atto dell’idea, il cosa può far scaturire quella determinata scena (o sequenza all’interno della mente), che viene interpretata e decostruita, dallo spettatore. E’ importante comprendere che nel cinema è determinante captare il momento in cui ci si imbatte in ciò che funge da “traccia” dell’autore, come la intende Derrida. Traccia di ciò che non c’è fisicamente, un qualcosa che allude alla presenza di una non-presenza e questo qualcosa risiede nel concetto riportato dall’autore. Per una dialettica del concetto si intende ciò che non c’è fisicamente, ma che allo stesso tempo deve fuoriuscire attraverso l’interpretazione dell’immagine dello sceneggiato e tramite l’interpretazione che l’autore compie nell’estetica della scena stessa. Qui ritorna quella funzionalità, citata precedentemente, che riguarda l'operazione del montaggio, il quale fuoriesce attraverso un significato attribuitogli dall’esterno - da parte di chi guarda - dove si rischia di decostruire l'idea dell'autore: rappresentante del concetto storico sviluppato su pellicola: la traccia e il segno.
 
Per approfondimenti:
_G. Deleuze, Immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 2002
_P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1977
_U. Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani 1968
_D. De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Torino, Lindau cinema, 1995
 
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Ho l’onore di annunciare che Sua Eccellenza Antonio Guterres è stato nominato per acclamazione Segretario Generale delle Nazioni Unite dal 1 gennaio 2017 al 21 dicembre 2021” Con queste parole l’ambasciatore russo Vitaly Churkin ha reso noto il nome del nuovo Segretario Generale, successore del sud coreano Ban Ki Moon nella carica in parola. Dopo sei turni di voto informale, noti come “straw polls” (sondaggi di paglia, ndr), l’opinione dei 193 Paesi Membri in seno all’Assemblea Generale si è cristallizzata nell’elezione di un candidato, largamente appoggiato dal placet dell’intero Consiglio di Sicurezza. Antonio Guterres Nato a Lisbona il 30 aprile 1949, ed è una figura di spicco nella politica portoghese. Ha ricoperto l’incarico di Primo Ministro del Portogallo dal 28 ottobre 1995 al 6 aprile 2002. Allo spirare del suo mandato, gli è stata affidata la presidenza del Partito Socialista. È stato altresì Presidente del Consiglio Europeo dal 1 gennaio 2000 al 30 giugno 2000 venendo nominato presidente dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) dal 15 giugno 2005 al 31 dicembre 2015.
[caption id="attachment_7370" align="aligncenter" width="1370"] António Manuel de Oliveira Guterres (Lisbona, 30 aprile 1949) è un politico portoghese, attuale segretario generale delle Nazioni Unite; è stato Primo ministro del Portogallo dal 28 ottobre 1995 al 6 aprile 2002. Fa parte del Partito Socialista e, dopo l'incarico di governo del suo paese, è stato presidente dell'Internazionale Socialista. Dal giugno 2005 fino al 2015 è stato a capo dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nell'ottobre 2016 viene proposto ed eletto dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite come nuovo Segretario Generale dopo Ban Ki Moon.[/caption]

"Le civiltà sono colpite da una forza mortale. Donne, bambini e uomini morti e feriti, espulsi dai loro luoghi. Nessuno vince con queste guerre, tutti perdono. Facciamo in modo che il 2017 sia un anno in cui tutti, cittadini, governi, leader, si sforzino per superare le nostre differenze. La pace deve essere la nostra meta e la nostra guida. Tutto quello per cui ci sforziamo come famiglia umana, dignità e speranza, progresso e prosperità, dipende dalla pace, ma la pace dipende da noi", ha aggiunto. Nel primo tweet dell’anno, il Segretario Generale ha infatti esordito con parole ferme e intrise di speranza, supportate con passione da un fervente bisogno di pace: “Decidiamo di mettere la pace davanti a tutto in questo 2017”.

 

IN CHE MODO VIENE ELETTO IL SEGRETARIO GENERALE? Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 97 della Carta ONU, “Il Segretario Generale è nominato dall’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Egli è il più alto funzionario amministrativo dell’Organizzazione”.

Di conseguenza, le selezioni sono soggette al veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Regno Unito, Francia, Cina, Russia, Stati Uniti). La Carta ONU si limita a prescrivere una disciplina normativa inerente alla nomina e al processo di approvazione del Segretario Generale; ma non estende tali previsioni ai termini massimi e al processo di selezione. Di conseguenza le suddette materie sono regolate da varie consuetudini extra normative, consolidatesi nella prassi delle Nazioni Unite. Sono stati fissati pertanto dei punti cardinali orientativi: Il limite di due mandati di cinque anni, una rotazione regionale (per continenti) in base alla nazione di origine del candidato, e la regola che il candidato non deve essere cittadino di uno dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza.

 
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Si Deus est unde malum? Se Dio esiste, da dove viene il male? Come giustifichiamo la bontà e la giustizia di Dio di fronte ai mali del creato? Nel corso dei secoli, le risposte a queste leibniziane domande di teodicea (termine filosofico, introdotto da Leibniz, per riassumere il problema, presente in molte religioni, della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato) sono sempre state legate più al concetto di δίκη (giustizia) che al concetto di ϑεός (Dio).
[caption id="attachment_7344" align="aligncenter" width="1000"] Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646–1716), è stato un matematico, filosofo, scienziato, diplomatico, giurista, storico, magistrato tedesco di origine soraba.[/caption]
Già gli antichi babilonesi consideravano l'origine del male legata al dio Marduk, salito al trono grazie al dio della giustizia An. Sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, più precisamente nel libro di Giobbe, viene enucleato il concetto di giustizia retributiva, cioè che il male, il dolore, la sofferenza, fossero la punizione da scontare per aver commesso azioni ingiuste. Per Agostino d'Ippona nella teoria della non-sostanzialità del male, il male nasce da una privazione di bene e, come tale, è un non-essere. Chi commette azioni ingiuste compie una privazione di bene. L'ingiusto deve redimersi e può farlo solo attraverso la punizione e il castigo, cioè adoperando su se stesso quella privazione di bene provocata agli altri. Ma, nonostante il concetto etico di giustizia fosse il protagonista indispensabile per dare ragione dei mali del creato, in queste prospettive, il ϑεός (Dio) è sempre stato il sistema di controllo finale al quale l'etica doveva sottomettersi. Nel problema del male, l'etica non godeva di nessuna autonomia, era soltanto un braccio armato della teologia.
E se Dio non esiste, da dove viene il male? O più semplicemente: da dove viene il male? Unde malum? Non è facile emanciparsi da una petitio principii, soprattutto quando nelle premesse si presuppone l'esistenza di Dio, ma è doveroso provarci. Il dibattito è immenso, lo spazio ridotto. Cercherò di selezionare e di riassumere per sommi capi (seguendo un ordine più tematico che cronologico) le posizioni più importanti che hanno messo in discussione il concetto di ϑεός (Dio), in modo tale da giungere gradatamente al fulcro della dissertazione.
[caption id="attachment_7345" align="aligncenter" width="1000"] Mephisto di Mark Antokolski del 1883[/caption]
Già nell'enigma di Epicuro il concetto di Dio viene portato al paradosso proprio attraverso il problema dell'esistenza del male: «se Dio vuole impedire il male ma non può, non risulterebbe onnipotente; se può impedirlo ma non vuole, risulterebbe maligno; se non può e non vuole risulterebbe maligno e impotente. Ne consegue che Dio, per essere tale, può e vuole, ma dato che il male esiste, allora Dio non si interessa dell'uomo». La stessa struttura argomentativa verrà ripresa in età moderna da David Hume che, nei Dialoghi sulla religione naturale, arricchisce il tema con il suo approccio scettico. Sempre scettico l'approccio di Pierre Bayle, in seguito criticato da Leibniz per aver negato l'onnipotenza di Dio sulla base dell'esistenza del male. Per Kant invece il discorso si complica. Il suo approccio, che può essere definito come un teismo scettico, cerca di dare ragione di un male radicale negli uomini attraverso la concezione di una sorta fede filosofica. In queste posizioni, l'apparato teologico comincia a vacillare seriamente, ma continua comunque a resistere come metro di misura finale che impedisce a quello etico di emergere in maniera indipendente.
Nella teoria politica di Thomas Hobbes è possibile riconoscere "un male" non più considerato esclusivamente nel rapporto teologico uomo-dio, ma anche nel rapporto etico uomo-uomo. Hobbes, nel Leviatano (1615), sosteneva che Dio dà la legge di natura; questa legge, che determina lo stato di natura dell’uomo, prevede l’uguaglianza dei diritti per ogni ente; nello stato di natura ognuno ha diritto a ogni cosa e gli uomini ingaggiano così una guerra di tutti contro tutti: bellum omnium contra omnes, homo homini lupus. Il male trae origine dai rapporti tra gli uomini, non è più una creazione degli dei, una sottrazione del bene divino, una sentenza o un disinteresse celeste. Nonostante all'inizio della catena ci sia ancora Dio, il male per Hobbes proviene dalla nostra innata natura bellica di sopraffazione del prossimo. Il ϑεός (Dio) ha ancora l'ultima parola, ma l'etica comincia a farsi sentire.
[caption id="attachment_7352" align="aligncenter" width="1024"] L'espressione latina homo homini lupus (letteralmente "l'uomo è lupo per l'altro uomo"), il cui precedente più antico si legge nel commediografo latino Plauto (lupus est homo homini, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495), riassume efficacemente un'antica e pur attuale concezione della condizione umana che si è tramandata e diffusa nei secoli, lasciando tracce di sé sia nel pensiero colto sia in alcuni detti popolari e motti di spirito. Si riferisce all'istinto innato dell'uomo di sopraffare il proprio simile, come il lupo che, per sopravvivere, sbrana il più debole. Nella foto: gargolla sulla facciata della cattedrale di Nidaros Trondheim in Norvegia.[/caption]
Duecento anni dopo, Arthur Schopenhauer riprenderà questa visione sostenendo che la sostanza unica che accomuna tutti gli esseri viventi, la celebre volontà schopenhaueriana, sia una forza irrazionale, un desiderio incontrollabile che lotta contro il nostro intelletto per affermarsi. Il male è un problema umano, ognuno lotta per affermare la propria volontà di vivere sull'altro. Il mondo è così, anche per Schopenhauer, una lotta di tutti contro tutti, ma la differenza sostanziale con la teoria hobbesiana è che qui il ϑεός scompare definitivamente, non c'è nessuna derivazione divina, il male proviene dalla cosa in sé. Ma, anche se in questa visione l'aspetto teologico viene eliminato, l'etica di Schopenhauer arriva solo a un passo dalla totale emancipazione. Il male viene ancora giustificato attraverso una deterministica, totalizzante, metafisica cosa in sé. Per arrivare alla definitiva "dichiarazione d'indipendenza" dell'etica riguardo il problema dell'origine del male c'è bisogno di spingersi ancora più avanti di un secolo.
Nel 1962 Konrad Lorenz, il padre dell’etologia contemporanea, scrive Das sogenannte Böse: Zur Naturgeschichte der Aggression (L'aggressività: il cosiddetto male). In quest'opera Lorenz sostiene che ciò che noi identifichiamo eticamente come "male" sia lo sviluppo degenerato di un impulso aggressivo, presente in tutti gli esseri viventi. L’aggressività è un istinto, un impulso biologicamente adattivo, spontaneo e innato in tutte le specie. Niente Dio, niente cosa in sé. L'aggressività è un impulso biologico, punto. A primo acchito, la visione lorenziana sembrerebbe la naturale evoluzione secolarizzata delle teorie precedenti. Una teoria scientifica in stile novecentesco, legata sì all'etologia e alla biologia degli esseri viventi, ma che prende comunque le mosse dalla concezione di una innata condizione di peccato e corruzione. Ma la visione di Lorenz segna una frattura decisiva con i suoi predecessori e mette luce su cosa sia il male negli esseri viventi e da dove esso tragga origine. In primo luogo è necessario porre una differenza tra i termini: violenza e aggressività. Lo stato di guerra di cui parlano Hobbes e Schopenhauer è uno stato di violenza, egoista, insocievole, caotico, di sopraffazione, fine a se stesso. Gli esseri viventi del Leviatano, per sopravvivere senza uccidersi tra loro, devono rinunciare a tutti i loro diritti di natura in favore di un potere assoluto esercitato da un unico legislatore e sovrano. Il concetto di aggressività innata in Lorenz, invece, è uno strumento di organizzazione degli esseri viventi che permette la conservazione della vita. L’istinto aggressivo o combattivo ha la specifica funzione di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’aggressività permette la convivenza, addirittura, senza di essa non sarebbero possibili neanche vincoli personali come l’amicizia, l’amore e la tolleranza. In Lorenz, dunque, il concetto di aggressività ha un tono totalmente diverso da ciò che si intende comunemente con questa parola, soprattutto da ciò che intendeva Hobbes. Inoltre, Lorenz non sarebbe stato affatto d’accordo con la metafora del lupus, dato che egli notò che il lupo, ai fini di frenare il conflitto, offre all’avversario - che riconosce come superiore - il lato marcato estremamente vulnerabile del suo collo, instaurando così un rapporto di pace. L’aggressività non è violenza. In Lorenz questo termine assume un valore positivo. L’aggressività è lotta, è combattività. Io stesso, mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essere molto combattivo. Scrivere una dissertazione è una piccola lotta, ed ogni lotta, in qualunque misura venga intrapresa, è vita. Quante volte sentiamo pronunciare frasi come: "le sfide della vita", o "la vita è un eterna lotta"? Queste riflessioni dossologiche in Lorenz si confermano da un punto di vista etologico, dimostrando, attraverso lo studio del comportamento animale, l’importanza dell’istinto aggressivo. Tema fondamentale de L’aggressività di Lorenz è la lotta intra-specifica; così scrive lo stesso autore nella premessa: «il libro tratta dell’aggressività, ossia della pulsione combattiva, nell’animale e nell’uomo, diretta contro appartenenti alla stessa specie». Lorenz e gli etologi in genere, sono soliti distinguere l’aggressività rivolta a individui di specie diversa (lotta inter-specifica) da quella che si estrinseca nei confronti degli individui della stessa specie (lotta intra-specifica). Di fatto, la prima è essenzialmente diversa dalla seconda. Ciò che spinge un animale a cacciare è differente da ciò che lo spinge al combattimento con un suo simile. La domanda è: perché mai attaccare un individuo della stessa specie? Negli animali, nota Lorenz, ci sono diverse spiegazioni: il territorio, l’accoppiamento, l’istituzione di una gerarchia* per la conservazione della specie, l’evoluzione, la selezione naturale. Nell’uomo diventa più problematico. Per l'etologo austriaco, nel mondo animale non esiste un reale pericolo che una specie si estingua a causa dell’aggressività, anzi, è proprio l’opposto; nell’uomo, invece, questo pericolo è assai presente. Egli sostiene che nel caso del genere umano il ritmo dello sviluppo naturale ha creato condizioni alle quali l’uomo non è filogeneticamente preparato. Siamo nel pieno dell’involuzione. L’uomo non si adatta più all’ambiente: adatta l’ambiente a sé. Attraverso un uso improprio e degenerato della τέχνη (Techne, tecnica) crea armi di distruzione di massa, pigiando un semplice tasto è capace di decidere la sorte di interi popoli.
[caption id="attachment_7349" align="aligncenter" width="1532"] Konrad Zacharias Lorenz (1903-1989) è stato uno zoologo ed etologo austriaco. È considerato il fondatore della moderna etologia scientifica, da lui stesso definita come «ricerca comparata sul comportamento» (vergleichende Verhaltensforschung).[/caption]
I deterrenti atomici con i quali minaccia di fare la guerra da un momento all’altro, i missili intelligenti lanciati a distanza e capaci di raggiungere il bersaglio riducendo le possibilità di fallimento al minimo. Certo, è paradossale concepire il "non aver distrutto migliaia di vite" come un fallimento, evidentemente queste persone sono troppo poco aggressive. È proprio questo il punto. Lorenz sosteneva che l’uso di queste moderne armi comandate a distanza esclude il contatto diretto con l’aggredito. Ciò ne aumenta la pericolosità, perché per queste ragioni, nella specie umana mancano molti dei meccanismi auto-inibitori** dell’aggressività presenti nelle specie non umane. Il comportamento aggressivo diventa fine a se stesso, perde il suo carattere di conservazione della specie e si trasforma in folle distruttività intraspecifica. Del resto, chi avrà più traumi, chi vedrà più fantasmi, l'uomo che a distanza di migliaia di chilometri fa esplodere un ordigno atomico pigiando un tasto seduto comodamente sulla poltrona del suo laboratorio, o un uomo che accoltella un altro in uno scontro ravvicinato? Il metodo lorenziano di osservazione del comportamento animale ci consegna delle importanti informazioni sul funzionamento dell'istinto aggressivo. Se osserviamo il comportamento delle oche, delle quali Lorenz diventa genitore adottivo, notiamo che i maschi per allontanare i nemici dal loro territorio ed evitare gli scontri cantano. Inoltre attirano anche gli esemplari femmina per garantire la riproduzione. Questo processo è chiamato da Lorenz ri-direction activity, ovvero, ri-direzione dell’aggressività. Si pensi a quella specie particolare di scimmie del Congo chiamate bonobo. La loro società è improntata sulla pacifica convivenza. È una specie di Homo dotata di una sviluppata sensibilità. I suoi membri riescono ad essere gentili pazienti, altruisti, solidali. L’aggressività intra-specifica è quasi del tutto assente perché riescono ad attuare una ri-direction activity di particolare successo: incanalano l'istinto aggressivo nella pratica sessuale. Di fatto è l’unica specie vivente oltre l’uomo a praticare rapporti che vanno al di là della semplice riproduzione. Vivono in una comunità matriarcale dove persino i maschi adulti dipendono dalle madri e restano tutta la vita nel gruppo dove sono nati; dove le femmine sono il sesso forte della specie e non mostrano nessuna soggezione nei confronti del maschio al quale non viene concesso nessun diritto di precedenza; dove viene praticato, insomma, una sorta di selvaggio eterno femminino in cui la donna è simbolo in terra dell’amore, si identifica con esso e con esso si eterna. I bonobo sono dunque molto legati fra loro, pacifici, filantropi. Gli animali, dunque, attraverso il loro comportamento, ci dimostrano che in natura la pace è possibile e si ottiene incanalando l’aggressività istintuale.
Alcuni studiosi hanno considerato il problema dell’aggressività nell’uomo come conseguenza di una frustrazione. Lo psicologo John Dollard (1967), ad esempio, si basava sull’assunto di Freud che «per frustrazione intendeva lo stato psicologico di insoddisfazione, irritazione o delusione provocato dall’impedimento o interruzione di un atto tendente a soddisfare un bisogno dell’individuo. La reazione primordiale al blocco di un impulso istintivo sarebbe uno scoppio di aggressività diretta contro la persona o l’oggetto vissuto come fonte d’interferenza». Si apre così un quadro teorico che permette di ipotizzare che nell’uomo, il non ri-dirigere l’impulso aggressivo come ci suggerisce Lorenz, o il mancato compimento di una risposta-meta,*** come articola Dollard, crea degli stati di frustrazione che possono scatenare delle violente risposte aggressive intra-specifiche.
Ricapitolando queste argomentazioni possiamo finalmente azzardare una risposta sull'origine del male. Sappiamo ormai che ogni specie vivente è dotata di un istintuale, innato, impulso aggressivo. Se questo impulso, invece di essere ri-diretto in una attività pacifica che ne permetta lo sfogo, viene bloccato, genera frustrazione e una conseguente reazione violenta. Ecco da dove ha origine il male. Dalla castrazione della nostra aggressività istintuale.
Per concludere, Lorenz rivoluzionò il modo classico**** di studiare gli animali: non li esaminava in laboratorio, ma viveva con loro, ne condivideva la quotidianità e partecipava da scienziato attento e rigoroso dei loro rituali. Quest'incessante attività gli permise di capire dei lati essenziali del loro comportamento e, inevitabilmente, anche di quello umano. Grazie al suo amore per gli animali e per la scienza riuscì a emanciparsi dalle precedenti e artificiose posizioni sull'origine del male proponendo una teoria semplice, realistica, scientifica. Localizzò il problema in una dimensione biologica, lo distinse dalla mera violenza, frutto di castrazione, e propose un rimedio: la ri-direzione. Non c'è bisogno di scomodare nessuna teologia, nessun teismo, nessuna metafisica. Dunque, abbiamo così raggiunto l'indipendenza dell'etica sul problema dell'origine del male. Un'etica che, finalmente, senza ostacoli trascendentali, si può occupare del riconoscimento, della gestione e del controllo di questa pulsione attraverso l'organizzazione di attività che ne permettano una deontologica ri-direzione. Un'etica che si trova nell'educazione, nella scuola, nella famiglia, in un tessuto sociale che non si basi sulla fredda castrazione di sogni, bisogni e aspirazioni, ma che garantisca possibilità di azione e realizzazione concreta dell'individuo. Lo stesso Lorenz suggerisce che l'istinto aggressivo va incanalato verso forme di scarica periodica come le competizioni sportive, l'entusiasmo per la scienza e per le arti, gli hobby e qualsiasi altra attività che possa fungere da convoglio. Si tratta di una vera e propria catarsi, che ha come scopo quello di impedire il male, ovvero l’aggressione socialmente dannosa, la violenza, per permettere la conservazione della specie umana. Una catarsi dunque, una purga dai mali, proprio come la catarsi conclusiva del Faust di Goethe, opera tanto cara al nostro Lorenz, nella quale Faust si libera dai pesi e dai mali del mondo proprio per effetto di amore.
«Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé».
Johann Wolfgang von Goethe
 
Note
* Un principio ordinatore, senza il quale non può evidentemente svilupparsi una qualunque convivenza comunitaria fra animali superiori è il cosiddetto “principio gerarchico”. Esso consiste semplicemente nel fatto che ognuno degli individui viventi nella comunità sa chi sia più forte o più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirar indietro senza lottare davanti al più forte e possa, a sua volta, pretendere che il più debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino». (ivi pp.81)
** Ad esplicare al meglio i meccanismi auto-inibitori dell’aggressività è il concetto del «moto ri-diretto» o «re-direction activity» (ivi pp.96). In pratica l’essere accorto, si trattiene e va a sfogarsi con qualcosa di distruttibile, Lorenz afferma: «la ri-direzione dell’attacco è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui». (ivi pp.99).
*** «Atto che pone termine ad una sequenza comportamentale. Reazione che riduce l’intensità dell’istigazione in modo che venga diminuita anche la tendenza a produrre una determinata sequenza comportamentale». (Dollard, 1967. pp. 17-18).
**** Con metodo classico di studiare gli animali, ci si riferisce al metodo comportamentista (ad esempio quello di Skinner o di Pavlov), che consisteva nel fare esperimenti sugli animali al chiuso, trattandoli come semplici cavie da laboratorio.
 
Per approfondimenti:
_Agostino (2001) Natura del bene. Milano: Bompiani.
_De Caro, Mario (2005) La mente e la natura. Roma: Fazi
_Dollard, John (2007). Frustrazione e aggressività. Milano: RCS.
_Goethe, Johann, Wolfgang (2005). Faust e Urfaust (XII edizione ed.). (tr. it. Giovanni Vittorio Amoretti). Torino: Feltrinelli
_Hobbes, Thomas (2008). Leviatano. Roma-Bari: Laterza
_Hume, David (2014). Dialoghi sulla religione naturale. Milano: Bur
_Kant, Immanuel (2010) La religione entro i limiti della sola ragione. Roma-Bari: Laterza.
_Leibniz (1993). Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male. Milano: Bur.
_Lorenz, Konrad (2008). L’aggressività. Milano: il Saggiatore
_Paternoster, Alfredo (2002). Introduzione alla filosofia della mente. Roma-Bari: Laterza
_Schopenhauer, Arthur (2011). Il fondamento della morale. Roma-Bari: Laterza
_Tommaso (2007). Il male. Milano: Bompiani.
 
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