[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1486911165831{padding-bottom: 15px !important;}"]Il testamento di Pier Paolo Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex 12/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1486912173358{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

Gli anni settanta sono stati per l'Italia un periodo storico molto particolare con eventi capaci di lasciare tracce indelebili all'interno delle coscienze delle persone. Il terrorismo politico, l'incessante illegalità dei partiti, una classe dirigente che portava avanti una “tolleranza repressiva” nei confronti di chi presentava un lucido sospetto, fascisti contro comunisti, risse, manifestazioni contro una polizia la quale picchiava duro, l’Italia della DC e della P2. I legami che avvenivano tra i tavoli degli uffici del Palazzo, stavano giocando il destino del popolo italiano, il quale faceva capo a un Paese che vedeva all'orizzonte un'unica e sola via: quella di una spoliticizzazione senza nessuna cura. In questo clima controverso, il 10 Gennaio del 1976 arrivava delle sale cinematografiche "Salò o le 120 giornate di Sodoma", del regista Pier Paolo Pasolini  dopo un’anteprima parigina del 22 Novembre 1975.

[caption id="attachment_7828" align="aligncenter" width="1000"] Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) è l'ultimo film scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Avrebbe dovuto essere il primo lungometraggio di una seconda trilogia di film considerata idealmente come la Trilogia della morte, successiva alla Trilogia della vita. L'idea di base s'ispira al libro del marchese Donatien Alphonse François De Sade Le centoventi giornate di Sodoma e il film presenta riferimenti incrociati con l'extratesto dell'Inferno di Dante, tra l'altro presenti nello stesso De Sade.[/caption]

Salò rappresentò l’ultima grande opera di Pasolini, nella quale il tema trattato e il modo in cui l’autore lo affrontò, lasciarono nelle coscienze un vero e proprio testamento della sua vita. L’animo polemico del regista - nello stesso tempo amante della sfida a se stesso, ma soprattutto alla società - si incarna alla perfezione in quella pellicola che, per fatalità, sarà la sua ultima produzione. In quest’opera cinematografica, che sarebbe dovuta essere la prima di una seconda trilogia, intitolata “trilogia della morte” e successiva alla precedente “trilogia della vita”, si è concretizzato cinematograficamente uno dei temi più significativi dell’operato generale di Pasolini: l'analisi di un Potere che reprime con un’anarchica violenza la volontà e la corporeità dell’individuo. Una tematica come questa trova, come perfetto adattamento nella rappresentazione, la logica dantesca della suddivisione in gironi nell'Inferno della Divina Commedia. Il film suddiviso in quattro parti, inizia con un Antinferno e prosegue con i tre gironi, rispettivamente: delle manie, della merda e del sangue. Suddivisione che tra l’altro Pasolini decide di adoperare in un secondo momento, in cui si accorge che anche Sade - da cui mutua il titolo della sua opera e varie tematiche nei confronti del sesso - aveva alluso a Dante. Scrive, infatti, riguardo al film: “Mi sono accorto tra l'altro che Sade, scrivendo pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il film in tre bolge dantesche”. Un Potere che abbatte la soggettività del singolo e che si muove consumando, nel più grottesco dei modi possibili, le peggiori atrocità che possono essere compiute nei confronti dell’umano.

Pasolini tocca esattamente quell’assurdità generata dall’anarchica e priva di logica volontà di un potere, il quale vuole soltanto l’assoggettamento ad esso in quanto tale. La suddivisione in diverse parti che Pasolini attua nei confronti della sua opera è funzionale alla comprensione delle varie sfaccettature con cui il comando può manifestarsi sul soggetto, rendendolo - di conseguenza - un oggetto inerme del suo volere. Non è soltanto un potere che giostra la sua attività sul dolore fisico, visto come prodotto di lesioni e lacerazioni che portano alla morte - poiché questa tipologia è rappresentata nell’ultimo girone dedicato al sangue -, ma non visualizza l’unica tipologia di esecuzione del potere sull’individuo. Prima di arrivare alla morte del singolo, vi è una forma di tortura: quella sulla dignità, inflitta tramite le altre due logiche che il potere usa per annientare la singolarità del soggetto, la sua anima, la sua identità. Tipologie, quest’ultime, che trovano rappresentazione negli altri due gironi, delle manie e della merda.

  [caption id="attachment_7831" align="aligncenter" width="1000"] Alcune delle scene cruente e blasfeme del film.[/caption]
In Salò, ricorre in modo particolarmente incisivo, il tema della sessualità come strumento utilizzato dal potere, e dunque di chi lo incarna, per opprimere il soggetto. Un approccio alla sessualità, quello di Salò, che si discosta dal precedente approccio che Pasolini ebbe nei confronti della medesima, in quella che fu “la trilogia della vita”. Steve Della Casa , un critico cinematografico italiano, scrive nei riguardi di Salò: “Dopo aver raccontato l’ingenuità naturale del sesso in altre epoche (è questo il tema della “trilogia della vita”), Pasolini vuole con Salò raccontare come il sesso sia diventato a sua volta uno strumento di consumo, di oppressione sociale”.
Se prima il sesso veniva rappresentato attraverso la bellezza dei corpi che consumavano l’atto in sé, adesso questo diventa uno strumento per fare del corpo, non più un mezzo, ma un misero oggetto della perversione. Questi temi ricorrenti nel film e che Pasolini aveva maturato attraverso la lettura del Marchese De Sade, trovano ampio sviluppo anche nell’aria culturale parigina, dove a operare parallelamente vi era uno dei più grandi pensatori del Secolo, Michel Foucault. Quest’ultimo - anch’egli lettore del Marchese De Sad - nel 1976, anno di uscita di Salò in Italia, pubblicava “La volontà di sapere”, primo saggio di un’imponente storia della sessualità in tre volumi. In questo suo lavoro Foucault parla non più della sessualità in generale, ma della stessa come oggetto di sapere attraverso cui il potere può controllare l’uomo. Nelle ricerche foucaultiane, emblematico è l’approccio genealogico, che mutua dal metodo di Nietzsche, nei confronti del Potere che pervade la nostra società e dei rapporti che intercorrono tra questo e il Sapere, espresso attraverso le pratiche discorsive. La sessualità diventa un dispositivo di controllo, inteso come un insieme di accorgimenti localizzati sul metodo che tale sistema sviluppa per tenere sotto controllo - diventando a sua volta repressivo - in quanto da un lato viene reso interessante al singolo, poiché lo proibisce e dall’altro rappresenta una forma di assoggettamento dei corpi, sui quali si scaglia la volontà di chi esercita un potere.
[caption id="attachment_7822" align="aligncenter" width="1000"] Paul-Michel Foucault (1926 – 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese.[/caption] Altro tema riscontrabile nell’opera di Pasolini - che parallelamente possiamo vedere affrontato nell’approccio foucaultiano - è il tema della prigione, rappresentata nel film tra esterni della Villa Aldini, nei pressi di Bologna e gli interni della Villa Sorra, nei pressi di Castelfranco Emilia. L'elemento costruttivo della prigione, viene inteso come una struttura, all’interno della quale vi è un controllo pervasivo assolutamente impossibile da sfuggire: il risiedere all’interno porta l'individuo, attraverso un processo di autoanalisi che il soggetto attua su di sè, a comportare una mutazione antropologica dell’essere. Foucault scrive nel 1975 “Sorvegliare e punire”, saggio in cui affronta il tema della nascita della prigione all’interno del quale sviluppa il tema dei cosiddetti “corpi docili”, ovvero quei corpi che presentano la qualità della docilità, considerata  come la qualità che conferisce al corpo la caratteristica di essere sottomesso, manipolato o trasformato senza che vi sia poi di contro una forte resistenza che possa impedire tale processo. Scrive Foucault: “(...) la nozione di 'docilità' che congiunge al corpo analizzabile il corpo manipolabile. E’ docile un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato(...)”. Parole che possono essere utili per guardare con occhio analitico come il regista bolognese sottopone i corpi dei ragazzini, che vengono rintanati dentro la Villa, alle crudeli volontà, sessuali e non, dei quattro signori che guidano la volontà generale all’interno di quella che si rivela essere una vera e propria prigione da cui è impossibile scappare. Impossibile è l’optare per una via d’uscita da un destino che è stato imposto dall’esterno. Quella Villa, quella struttura, rappresenta l’incarnazione materiale di una volontà di dominio verso cui non vi è alcun modo di opporre una resistenza che abbia un esito che sia positivo e atto a trasformare una situazione già data. A riguardo, un altro richiamo a Dante che viene servito, con una raffinatezza che soltanto un intellettuale come Pasolini possiede: è quello del Virgilio alle porte dell’Inferno, quando legge la scritta che narra "(...) lasciate ogni speranza, voi ch’intrate (...)”. Il richiamo a questo specifico momento dantesto, che rappresentò il passaggio dall’Anti-inferno all’Inferno, viene rappresentato da Pasolini attraverso le parole che il Duca - dal balcone della Villa - guardando i ragazzini raggruppati pronuncerà dicendo: “Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti (...)”. [caption id="attachment_7824" align="aligncenter" width="1200"] Pier Paolo Pasolini, durante le riprese di Salò.[/caption] Toccanti e incisivi fino al più profondo cunicolo dell’anima sono i disparati temi affrontati in questa narrazione cinematografica, la critica mossa al sistema che attraverso il potere crea gli individui già assoggettati ad esso, dunque mutati nella loro condizione antropologica. Consumo, capitalismo e potere manipolatore sono le tessere di un mosaico che costituisce le forme di sapere, quest’ultime create da una realtà retrostante che dice Si o No, che legittima o meno. Pier Paolo Pasolini era ben consapevole di chi sfidava,con i suoi scritti "da corsaro" e con le sue allegorie cinematografiche cariche di peso concettuale. Sapeva che il suo approccio, a dir poco genealogico, nei confronti del concreto che non riusciva ad essere tale, sarebbero state arginate in una modalità altrettanto potente quanto le sue invettive. Salò, ha rappresentato l’ultimo capolavoro che vide acquisire la fisionomia di un vero e proprio testamento nei confronti delle generazioni future, dei giovani che lui tanto amava, in quanto rappresentavano un capitale sociale che potesse riporre nella terra i pilastri per l’avvenire. Non mancarono certamente le polemiche sul suo lato sessuale e le critiche sulla tematica che troppo spesso è stata politicizzata dalla sinistra o dalla destra. Un film, quello di Salò, che ovviamente può disgustare nella sua realissima e cruda rappresentazione al primo impatto, ma che certamente richiede un sforzo interpretativo come per tutti i film del maestro bolognese. Pier Paolo Pasolini, vive dentro chi lo vuole ricordare per quello che è stato: una guida per la cinematografia italiana, un'ispirazione per chi leggeva i suoi scritti e ne carpiva la potenza artistica della sua cultura e del suo operato, facendone forza creatrice, controverso - sicuramente - a livello umano. E oggi, nel 2017, il regista bolognese vive ancora dentro le coscienze, facendo vibrare la propria presenza al richiamo del singolo.
 
Per approfondimenti:
_Michel Foucault, la volontà di sapere, Milano, 1978
_Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, 1976
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1486565071866{padding-bottom: 15px !important;}"]Dell’accademia neoplatonica rinascimentale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Liliane Jessica Tami 08/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1486572100611{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Marsilio Ficino nel 1462, per incarico di Cosimo de’Medici, creò l’Accademia Neoplatonica presso la Villa "Le Fontanelle" -  successivamente traslata nella Villa di Careggi - dove vi restò sino al 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico.
Il contesto culturale in cui l'Accademia si trovò ad operare era allora fortemente segnato dal platonismo, rinato in Italia verso la fine del XV secolo, attraverso l'umanesimo. Fu in particolare l'istituzione di cattedre di greco nelle principali università - dovuta a diversi episodi come la provvisoria riunificazione tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente del 1438 - che permise l'uso diretto dei testi di Platone, pressoché sconosciuti nel Medioevo, i quali diedero avvio alle traduzioni in latino.
Studiosi ed artisti frequentavano assiduamente il luogo: Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, Angelo Poliziano, Sandro Botticelli, Cristoforo Landino, Leon Battista Alberti.
Dopo la scomparsa di Lorenzo il magnifico l’accademia si spostò presso la Villa di Bernardo Rucellai, assumendo posizioni anti-medicee e repubblicane, dove restò sino al 1524. Successivamente venne frequentata da uomini illustri come Niccolò Machiavelli, Iacopo da Diacceto e Luigi Alamanni. A differenza del rinascimento veneto - di stampo aristotelico e legato alla sensualità, raffigurata in campo artistico dalla tecnica della tonalità adoperata presso le botteghe dei pittori lagunari - il capoluogo toscano era invece fortemente influenzato dai testi di Platone e Plotino tradotti da Marsilio Ficino, nonché dall’opera letteraria di Dante Alighieri, che in arte si manifesta nei delicati ed eterei acquarelli del Botticelli.
[caption id="attachment_7798" align="aligncenter" width="1000"] Benozzo Gozzoli, Presunto ritratto di Lorenzo de' Medici da giovane, particolare dell'affresco del Corteo dei Magi nell'omonima cappella.[/caption]
A Firenze l'Accademia, significava la riapertura simbolica dell'antica Accademia di Atene, costituendo un importante cenacolo di artisti, filologhi e intellettuali. Difatti Platone era considerato il capostipite di concezioni filosofiche, appartenute anche ad autori successivi e cristiani, come Agostino o Boezio.
Cristoforo Landino, segretario della fazione Guelfa, nel 1481 curò personalmente la prima edizione a stampa fiorentina de "La Commedia" di Dante, arricchita da un suo commento generato da anni di profondi studi e riflessioni.
La prima edizione contava 19 disegni di Sandro Botticelli, che inizialmente comprendevano svariate scene della commedia su più fogli. In seguito, su richiesta di Lorenzo di Pier Francesco de’Medici - cugino del Magnifico - Botticelli eseguì tra il 1484 ed il 1490, 101 disegni su pergamena, di cui uno doppio per rappresentare ogni cantica. Delle opere eseguite con l’inchiostro - su schizzo in punta d’argento o grafite -, solamente tre sono state arricchite con il colore.
Alcune di queste pergamene sono state smarrite - ne restano solamente 92, di cui 7 vennero acquistate da Cristina di Svezia e successivamente (dopo la sua morte) donate alla Biblioteca Vaticana - e le restanti 95 furono acquistate da un ambasciatore inglese nel 1882, per il Governo Prussiano.
Sempre in quegli anni, nel 1490, il Landino scrisse "De Vera Nobilitate", rifacendosi al libro "De Nobilitate" pubblicato nel 1440 da Poggio Bracciolini, in cui asserisce che la vera nobiltà derivi esclusivamente dalla virtù e non dall’antichità della stirpe e dalla ricchezza. L’unica vera nobiltà possibile, secondo Landino, è la medesima espressa da Dante nel IV trattato de "Il Convivio": quella d’animo, che grazie alla sapienza permette di agire con modo coerente col raggiungimento del Sommo Bene. In modo affine a Dante, anche Landino ripropone l’idea della Monarchia universale, rappresentata dall’impero e dalla tradizione Romana, come unica cura per lenire tutti i mali del mondo.
Come Platone ne il "Simposio", l’oggetto centrale è il concetto di Bontà dell’Animo. Il testo "De vera Nobilitate", la cui fonte d’ispirazione politica si trova nel dantesco "De Monarchia", piacque così tanto alla famiglia De’Medici che onorarono il Landino donandogli una torre in Cosentino.
[caption id="attachment_7801" align="aligncenter" width="1024"] Domenico Ghirlandaio, dettaglio rappresentante Cristoforo Landino (il terzo da sinistra a destra), nella scena dell'Annuncio dell'angelo a Zaccaria - Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze.[/caption]
Secondo Marsilio Ficino esisteva una tradizione filosofica che andava - senza soluzione di continuità - da Pitagora all'orfismo, passando per Socrate, Platone e Aristotele fino a giungere al neoplatonismo. Le idee del filosofo toscano ebbero una straordinaria influenza nella cultura del tempo e vennero riprese anche in seguito, soprattutto da quei filosofi con forti interessi religiosi. L'uomo - come già teorizzato durante l'umanesimo della prima metà del secolo - era visto come copula mundi, ovvero quell'armonica interazione tra anima e corpo in cui ciascuno è padrone del proprio destino. Gli accademici riconoscevano come massima aspirazione umana la felicità, ma non vedevano come suo sbocco naturale l'azione, e in particolare la politica, ma piuttosto la speculazione filosofica. Grazie all'esercizio di essa infatti gli spiriti più nobili ed eletti possono sperimentare la felicità e raggiungere la conoscenza del vero dopo la morte.
A lungo la nobiltà è stata considerata una semplice titolarità acquisibile per mera nascita. Essa si è plasmata col patrimonio economico della famiglia ed il rango, di contro - seguendo il pensiero neoplatonico - la vera nobiltà è uno stato dell’anima acquistabile con la meticolosa introspezione e l’arguto operare nel mondo che ci circonda. I titoli nobiliari come il marchese ed il conte, acquistabili  all'epoca, sono stati una delle cause della lotta sociale e dei sanguinosi scontri tra fazioni di classi avverse. La vera nobiltà dovrebbe essere estesa a quante più persone possibili, le quali studiano e dedicano la propria esistenza verso il linguaggio del Bello e del Buono: trama seguita dalla scuola Neoplatonica.
Essendo le arti strumento di dialogo con il popolo, per educarlo ed elevarlo verso alla nobiltà, un forte rilievo venne concesso agli artisti, che si assursero ad interpreti e divulgatori della conoscenza esoterica filosofica. Le botteghe di Antonio Pollaiolo (1431-1498) e di Andrea Verrocchio (1435-1488), furono fondamentali per la diffusione degli ideale neoplatonici nelle belle arti.
La bottega di Andrea Verrocchio in cui si eseguivano opere d’oreficeria, pittura e scultura, fu il luogo d’istruzione dei più grandi artisti rinascimentali: il Perugino, Botticelli, Leonardo da Vinci. L’amore per le teorie neoplatoniche e per il mito del Verrocchio è testimoniato dalla sublimazione dei temi trattati negli anni: legato ad una concezione monoteista, cristiana e semitica della filosofia, ci ha lasciato splendide Madonne ornate d’oro ed un giovane e volitivo David biblico di Bronzo, conservato al museo del Bargello. Grazie a Botticelli  - suo allievo - l’amore per la Sapienza nelle arti figurative, abbandona l’angusta gabbia biblica per concedersi al paganesimo con il capolavoro della  "Nascita di Venere". L'opera trasuda tutto quell’erotico anelare verso la perfezione che ha agitato i cuori dei Fedeli d’Amore neoplatonici e dei Grandi Iniziati descritti da Lorenzo de Medici, il quale volle che tale conoscenza - attraverso l’arte - venisse diffusa in tutta la penisola italica.
L'elemento della Venere-Humanitas viene esortato in una precedente lettera di Marsilio Ficino a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. A partire da questo spunto, lo storico dell’arte Ernst Gombrich intuì che la "Venere" di Botticelli, non rappresentava soltanto la Bellezza e non alludeva semplicemente al giardino delle delizie decantato da Poliziano, ma era la personificazione del principio neoplatonico dell’armonia. La presenza della Dea ne "la nascita di Venere", rimanda alla duplice natura dell’amore descritta nel Simposio di Platone e rielaborata da Ficino: Venere Urania (l’amore divino), e Venere Pandemia, (l’amore terreno).
A questo si aggiunge la concezione ficiniana dell’amore secondo i tre aspetti di Piacere (Voluptas), Castità (Castitas) e Bellezza (Pulchritudo), perfettamente esemplificati dai personaggi a destra: l’impeto amoroso di Zefiro, la Voluptas, travolge la Castitas di Clori provocando la sua trasformazione in Flora, che genera una rigogliosa primavera su tutta la terra, rappresentando così la Pulchritudo. Le Grazie rappresentano il principio vitale dell’universo, mentre la temperanza di Mercurio all’estrema sinistra si oppone all’impetuosità di Zefiro; il suo gesto di “togliere il velo delle nubi” alluderebbe, secondo lo storico dell’arte Edgar Wind (1900-1971), al “dis-velare“, cioè all’interpretare il mistero del cosmo.
La lettura neoplatonica del dipinto è solamente una delle molteplici possibilità di lettura, ma certamente la sua profondità e organicità col contesto storico in cui visse Botticelli la rendono una delle più affascinanti e plausibili.
[caption id="attachment_7802" align="aligncenter" width="1280"] Sandro Botticelli, La nascita di Venere - 1482–1485 - tempera su tela, 172×278 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.[/caption]
Lorenzo de Medici commissionò a Luca Signorelli - allievo di Piero della Francesca -  un’opera esoterica importantissima: l’educazione di Pan. Questo quadro, raffigurante la divinità campestre Pan, è stato però distrutto dagli anglo-americani durante i bombardamenti a Berlino del 1945. Gli altri personaggi attorno a Pan alludono a vari temi filosofici dell’Accademia neoplatonica, in cui i miti antichi sono ripresi in chiave filosofica e cristiana. Gli anziani ad esempio rappresentano la saggezza derivata dall’esperienza e la meditazione, la fanciulla a sinistra è un simbolo di bellezza e perfezione, e i musici ricordano la trasposizione delle armonie naturali in armonie musicali grazie all’attività della mente.
Un altro dipinto di grande rilievo per il suo contenuto esoterico ci proviene da Tiziano - artista veneziano che ha saputo rielaborare le dottrine filosofiche fiorentine -  "Amor Sacro ed Amor profano". Il volto della donna è il medesimo, seppur impersonata in due diversi corpi: come l’amore carnale e l’amore spirituale trovano la loro apoteosi sommandosi l’un’altro ed intersecandosi perfettamente, anche la filosofia monoteista cristiana di matrice giudaico-africana, se interpretata ed apprezzata in qualità di esercizio letterario di un popolo semitico (non di dogma universale), può esser serenamente vissuta accanto alla filosofia pagana ed all’eroismo dei miti europei.
[caption id="attachment_7803" align="aligncenter" width="1449"] Tiziano Vecellio, L'Amor sacro e Amor profano - olio su tela (118 × 279 cm) 1515 circa, Galleria Borghese, Roma.[/caption]
Come insegna Marsilio Ficino - depositario delle più grandi tradizioni iniziatiche antiche -  è proprio l’Eros, descritto dalla Sacerdotessa Diotima a Socrate, dell’opera "Simposio" di Platone, che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello delle idee. Non è un caso che la Divina Commedia - massima descrizione delle dottrine cristiane - inizi proprio con Publio Virgilio Marone, grande cantore dell’Eneide e della volontà degli uomini pagani di assurgere allo stesso piano degli Dèi mediante l’eroismo. Finché il clero, figlio del monoteismo nato tra le dune del deserto, continuerà - di contro - ad imporsi come unica realtà possibile escludendo a priori ogni discorso ariano e pagano, pena la scomunica e l'eresia, non resta che l'attesa nel pianto. 
 
Per approfondimenti:
_René Guenon, l’esoterismo di Dante, Atanor Editrice, Roma
_Dante, templare ed Alchimista, Primo Contro, editrice Bastogi, Biblioteca massonica
_I pittori italiani del rinascimento, Bernard Berenson, edizioni BUR
_Dante Alighieri, Convivio, a cura di Giorgio Inglese, edizioni BUR
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1485984914897{padding-bottom: 15px !important;}"]La legittima difesa nel mondo: modalità esecutive[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi 06/ 02/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1486381362290{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nell’ambito penalistico, la “legittima difesa” è universalmente riconosciuta come “causa di giustificazione”: anche l’Italia accoglie una simile posizione, tramite il disposto dell’articolo 52 del codice penale.
A tal proposito, un aspetto che accomuna i vari ordinamenti si può rinvenire in una clausola spesso utilizzata, ossia quella di “proporzione tra la reazione e l’offesa”. In Italia, Francia, Albania, Svizzera e Danimarca è prevista esplicitamente; in Slovenia e in Spagna è deducibile in via indiretta.
La Germania, invece, conta su una legislazione che non fa alcun cenno al requisito della proporzionalità: essa non è ricavabile dal dato normativo né direttamente, né indirettamente. Pertanto la prassi tedesca, informandosi riguardo ai principi generali dell’ordinamento, considera il requisito della proporzionalità come un fondamento implicito della legittima difesa, al fine di tutelare quei soggetti che, dopo aver commesso un illecito non eccessivamente grave, rischiano di essere puniti in maniera oltremodo aspra. Nel novero dei limiti etico- sociali della legittima difesa, inoltre, le posizioni assunte dai vari Paesi sono interessanti.
Il codice penale austriaco esclude che sia giustificato il fatto, allorché risulti evidente che il danno causato all’aggredito sia di minima entità e la sua reazione incidesse in modo eccessivo sui beni dell’aggressore, pur essendo presenti tutti i normali estremi della legittima difesa.
L’articolo 48 del codice norvegese fa eccezione all’applicabilità della scriminante quando, avuto riguardo alla gravità dell’aggressione, alla colpevolezza dell’aggressore e al diritto leso, debba essere considerato assolutamente inaccettabile cagionare con la reazione un danno grave quanto quello minacciato dall’azione. La dottrina tedesca si allinea su questa visione: reputa coessenziale alla natura della legittima difesa che la reazione debba essere particolarmente moderata di fronte a determinate caratteristiche:
_dell’aggressore (es. un minore, un malato di mente, un soggetto che agisce in errore o uno stretto parente)
_dell’aggressione ( es. quando essa consiste in un fatto bagatellare)
_o nel caso in cui l’atto lesivo sia stato provocato dall’aggredito stesso.
Un altro aspetto rilevante da tenere in considerazione è la “presunzione” di legittima difesa, che molti ordinamenti hanno scelto d’introdurre. Con questo espediente, si è voluto estendere la possibilità d’incriminazione alle aggressioni che si concretizzino in danno del domicilio e delle sue dipendenze. Come? In Italia la “novella del 2006” ha previsto l’ipotesi di “intrusione domiciliare”, ad esempio.
Il codice spagnolo propone una visione affine all’articolo 20.4; il codice francese tratta l’argomento nella rubrica dell’articolo 122.6.
Quanto alla situazione francese, tuttavia, la disciplina prescritta dall’art 122,6 subisce delle deroghe. Di fatto, i Tribunali e la Corte di Cassazione francese ritengono la suddetta “presunzione di legittima difesa” in termini relativi, non assoluti. Pertanto una simile presunzione difetta allorquando si dimostri che, al fine di difendersi, l’agente abbia commesso atti di violenza fuori dei casi di necessità attuale e in assenza di un pericolo grave e imminente.
Quindi si può desumere una regola generale, in virtù della quale l’eccesso rispetto ai limiti in cui è ammessa la reazione conduce alla punibilità dell’agente. Tuttavia la punibilità risulta esclusa, quando ,chi agisce per difendersi, eccede nella reazione a causa di motivi realativi a un turbamento, a un’eccitazione incontrollabile o a ingestibili situazioni di panico.
In ogni caso, la rinuncia all’inflizione della sanzione non discende dalla legittima difesa in sé, ma da una scusante particolare. I principali riferimenti normativi possono essere rinvenuti nei codici penali tedesco ( art 33 c.p.); sloveno (art. 11 c.p.); portoghese (art.33 c.p.); danese (art. 13,2 c.p.); polacco (art. 25 c.p.); svizzero (art 32,2 c.p.); turco (art 27,2 c.p.).
Con le eccezioni del tedesco, del turco e del danese, tutti i codici sopra citati prevedono anche, nel caso di eccesso punibile, una riduzione di pena, generalmente facoltativa, rispetto a quella che sarebbe normalmente applicabile per il fatto doloso realizzato in assenza degli estremi della scriminante.
Il codice polacco si spinge addirittura oltre: lascia al giudice l’opzione tra la mera diminuzione della pena e la sua esclusione. La mitigazione della pena, per altro, è tradizionalmente prevista anche dal sistema inglese.
Il sistema Irlandese, poi, si caratterizza per un aspetto peculiare: in caso di eccesso nella legittima difesa riferito a un caso di murder (omicidio di primo grado), si ha una derubricazione dell’accusa a “man- slaughter” (omicidio di secondo grado).
Si badi però, che le disposizioni adottate dagli ordinamenti esteri non corrispondono in toto all’articolo 55 del codice penale italiano e non ne costituiscono un riscontro. Esse infatti si riferiscono alla sola legittima difesa e non a tutte le scriminanti.
A proposito dell’eccesso di legittima difesa, molti Paesi si sono cimentati nell’elaborazione dottrinale di alcuni principi di fondo: ciononostante, gli ordinamenti stranieri non prevedono una specifica disciplina dell’eccesso colposo.Perché, questo? Probabilmente perché ,tali ordinamenti, si riservano di ricondurre la figura criminosa in questione entro la più ampia e ordinaria disciplina della colpa. Inoltre, i medesimi, si occupano dell’eccesso doloso e non di quello colposo.
 
Per approfondimenti:
_Fiandaca Musco, Manuale di Diritto Penale
_Marinucci , Manuale di Diritto Penale
_Forsasari Menghini, Percorsi europei di diritto penale
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1486207238545{padding-bottom: 15px !important;}"]Finis Austriae: l'ultimo sole di Francesco Giuseppe[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 04/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1486302792292{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Gli ultimi anni dell’Impero asburgico vedono come assoluto protagonista Francesco Giuseppe I d’Austria – diventato imperatore a soli diciotto anni – marito di Elisabetta di Baviera, da tutti ricordata come Sissi, ed è stato per quasi sette decenni l’incarnazione della monarchia Austro-Ungarica.
La famiglia degli Asburgo segna in maniera significativa la storia europea ottocentesca, novecentesca e la morte dell’imperatore sarà notizia di immensa drammaticità per tutto l’impero che iniziava ad osservare la disgregazione politica e successivamente sociale dei suoi territori. Lo scrittore Joseph Roth immortala l’evento della morte dell’Imperatore e ce ne fa percepire l’atmosfera: “Quando fu seppellito, ero lì, uno dei tanti soldati della guarnigione di Vienna, con la nuova uniforme grigio-azzurra che di lì a qualche settimana avremmo portato al fronte, uno dei tanti che riempivano le strade. La commozione che nasceva dalla consapevolezza di vivere una giornata storica che si accompagnava alla contraddittoria tristezza per il declino di una patria che aveva educato i suoi figli all’opposizione (…) e mentre misuravo esarcerbato la vicinanza della morte, cui mi mandava incontro il defunto imperatore, mi sentivo preso dalla cerimonia per la sepoltura di Sua Maestà (…) capivo con chiarezza l’assurdità dei suoi ultimi anni, ma non potevo nascondermi che questa assurdità era stata anche una parte della mia fanciullezza (…) il freddo sole degli Asburgo si spegneva, ma era stato pur sempre un sole”.
[caption id="attachment_7740" align="aligncenter" width="1531"] Nella prima immagine: Francesco Giuseppe I d'Austria, (1830 – 1916), è stato Imperatore d'Austria (1848-1916) e Re d'Ungheria (1867-1916). Regnò sul neo riformato Impero austro-ungarico dal 1867 e sul Regno Lombardo Veneto fino al 1866. Apparteneva alla casa d'Asburgo-Lorena. Nella immagine di destra: cartina politica dell'Impero Austro-Ungarico.[/caption]
A cent’anni dalla scomparsa dell’Imperatore, la figura di Francesco Giuseppe viene valutata molto positivamente dagli abitanti della sua capitale: Vienna. Molte sono state, difatti, le iniziative e i festeggiamenti, organizzati in occasione del centenario della morte. La memoria di Francesco Giuseppe – come tutti gli altri sovrani asburgici – è molto forte in Austria e la motivazione non si ritrae solo nel “mito asburgico” celebrato dal grande filone letterario, ma è la consapevolezza storica - diffusasi nell’immaginario collettivo del paese -  che la stessa Austria è stata resa grande solo durante il periodo degli Asburgo: ovvero quel lasso di tempo storico che intercorre i secoli che vanno tra la metà del XVI secolo, fino alla prima metà del XIX secolo.
Il nome "Asburgo" deriva dall'Habichtsburg (contratto in Habsburg), castello situato nell'omonimo comune del cantone svizzero di Argovia, sulle sponde del fiume Aare. La "Rocca dell'Astore" - questo il significato in tedesco - è stata la sede originaria e feudo comitale della famiglia. Difatti erano cortigiani dell'Imperatore Federico I Hohenstaufen detto "Barbarossa", che seguivano nei cortei reggendo l'astore, da cui il nome. Il motto della dinastia A.E.I.O.U. viene in genere interpretato in: "Austriae est imperare orbi universo", tradotto "spetta all'Austria regnare sul mondo".
Il nome di Francesco Giuseppe è già di per sé singolare, poiché sembrerebbe riunire due grandi sovrani asburgici: il nonno Francesco (Francesco Giuseppe Carlo Giovanni d'Asburgo-Lorena) e lo zio Giuseppe II (Giuseppe Benedetto Augusto Giovanni Antonio Michele Adamo Davide d'Asburgo-Lorena). Per tre lunghi secoli questa famiglia porta l’eredità del Sacro Romano Impero (anche dopo la soppressione di “imperatore dei romani”).
Il cinquantesimo anno di Regno di Francesco Giuseppe è festeggiato con grandi opere pubbliche e manifestazioni imponenti. Alla soglia dei sessanta anni (nato nell’estate del 1830), è il sovrano di un impero di 624.856 chilometri quadrati con 45.000.000 di abitanti tra varie etnie: tedeschi, cechi, polacchi, ruteni, rumeni, croati, slovacchi, serbi, sloveni, italiani e ungheresi. La capitale Vienna è una delle città più vive e importanti dal punto di vista culturale in Europa e di conseguenza del mondo, come ci racconta lo scrittore austriaco Stefan Zweig, ne “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, 1942”: “Fra tutte le città europee, Vienna era sicuramente quella in cui questa aspirazione alla cultura era più appassionata. Poiché l’Austria e la sua monarchia avevano da secoli perduto ogni ambizione politica e non avevano conosciuto particolari vittorie nelle loro imprese militari, l’orgoglio patriottico aveva cominciato a manifestarsi nel desiderio di una supremazia in campo artistico. (…) Di qui erano passati i Nibelunghi, qui gli immortali sette astri della musica – Gluck, Haydn e Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms e Johann Strauss – avevano illuminato il mondo con il loro fulgore, qui erano confluiti tutti i movimenti e le correnti della cultura europea. A corte, tra i ranghi dell’aristocrazia e in seno al popolo al sangue tedesco si univano quello slavo, ungherese, spagnolo, italiano, francese e fiammingo; saper fondere armonicamente questi contrasti in una nuova e peculiare realtà – quella dello spirito austriaco, della “viennesità” – fu l’elemento di vera genialità proprio di questa città musicale. Accogliente e dotata di una sensibilità particolare, questa città sapeva attrarre a sé, conciliandole, mitigandole e addolcendole, le forme più disparate. Era dolce vivere in una simile atmosfera di intesa e di accordo spirituale in cui ciascun cittadino riceveva quasi senza rendersene conto un’educazione cosmopolita e internazionale. Quest’arte dell’assimilazione, questa capacità di cambiare e adattarsi in modo armonico e impercettibile, si manifestava già nell’aspetto esteriore della città”.
[caption id="attachment_7741" align="aligncenter" width="1024"] Nella foto scorcio di Vienna, nella Mariahilfer Stra§e ai primi del 1900.[/caption]
Tornando ai festeggiamenti per il suo cinquantesimo anno di Regno, solo una persona sembra volersene restare in disparte: è l’Imperatrice Elisabetta (Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach) che tutti nell’Impero chiamano Sissi. Dopo il suicidio del figlio Rodolfo d'Asburgo-Lorena (1889) si è progressivamente ritirata a vita privata e il 16 luglio del 1898 - su consiglio dei medici della casa reale - parte per un viaggio curativo in Svizzera. L'Imperatore spera di vederla tornare rinfrancata dall'aria di montagna, ma il 10 settembre del 1898 alle 16.30 gli perviene la tragica notizia che la moglie è deceduta dopo un accoltellamento da parte di un anarchico italiano Luigi Lucheni, il quale poco dopo l’arresto confessò alla polizia le motivazioni del suo gesto: “Perché sono anarchico. Perché sono povero. Perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi”.
Quella dell’Imperatore e della sua consorte fu una grande storia d’amore, duratura nel tempo, malgrado alcune interpretazioni sui viaggi della regina apostolica d'Ungheria, regina di Boemia e di Croazia. E’ una storia d’amore che non viene intaccata dalla diversità caratteriale dei due personaggi: Francesco Giuseppe era nato, cresciuto e educato all’interno della corte degli Asburgo; Elisabetta è estroversa, amante dello sport, si sforza di vivere a corte. I loro rapporti non vengono incrinati neppure dalle grandi disgrazie familiari della corte, né dalle loro diverse visioni politiche, con l’Imperatrice Sissi anti-italiana e protettrice degli ungheresi:  avrà peso politico nel riconoscimento dell’Ungheria del 1867, trasformando l’Impero nella duplice monarchia austro-ungarica.
Un Impero multietnico retto con saggezza dall’Imperatore che dimostra grande capacità di tenere uniti tanti popoli e tante lingue. L’Impero austriaco è una costruzione che nasce nel 1804 come monarchia ereditaria, in seguito alla formazione del primo Impero francese da parte di Napoleone Bonaparte (Napoleone I). Il primo imperatore d'Austria fu Francesco I, che al tempo aveva anche il titolo di Sacro Romano Imperatore. Questo titolo fu abbandonò nel 1806 in seguito al disfacimento del Sacro Romano Impero. Per mantenere il titolo si proclamò imperatore d'Austria.
Dopo alcuni tentativi di riforma costituzionale, per gli Asburgo arriva la pesante sconfitta militare contro l’espansionismo tedesco a guida prussiana (a guida originale degli Hohenzollern che acquisiscono il titolo reale nel 1701) che con la battaglia di Sadowa (1866) impone la guida della cultura tedesca non più agli austriaci, ma ai prussiani. Francesco Giuseppe crea così il 12 giugno del 1867 “L’impero Austro-Ungherico” per poter avere ancora sul quadro geopolitico il titolo di Imperatore e non lasciarlo solamente a Napoleone III.
L’Impero di Francesco Giuseppe ha diversi punti di forza, come la sua multi-nazionalità, multi-confessionalità e multi-culturalità che vigono come carattere unico - in quel momento storico - sul  continente. Inoltre l’imperatore – per capacità e bravura personali - era riuscito ad essere percepito come il punto di riferimento e come garante della sicurezza di tutti gli stati facenti parte dell’Impero. Tuttavia all’inizio dell’ottocento all’interno delle singole nazioni, parte un travaglio sociale – di carattere nazionalista – derivante dalla nascita, in Francia, del concetto di nazione derivato dall’illuminista Rousseau. Successivamente i moti europei del 1848, accelereranno il flusso dell’autodeterminazione, che esploderà nei moti delle “rivoluzioni del 1848” chiamate “primavere dei popoli”, che si identificarono come movimenti rivoluzionari massonico-borghesi.
Questo nazionalismo era incrementato dopo l'Ausgleich, - “compromesso” utilizzato per indicare “l'Österreichisch-Ungarischer Ausgleich" (il compromesso Austro-Ungarico) -, ovvero la riforma costituzionale promulgata il 12 giugno 1867 da Francesco Giuseppe, con il quale l'Ungheria otteneva una condizione di parità con l'Austria all'interno della monarchia asburgica, segnando il passaggio dall'Impero Austriaco all'Impero Austro-Ungarico.
L'accordo non risolse il problema etnico, facendo rimanere molte disparità tra i popoli: la duplice monarchia mantenne su un livello piramidale le varie popolazioni dell'impero multi-etnico, ponendo al vertice solo gli austro-tedeschi e gli ungheresi, ed inserendo in minoranza le popolazioni slave. Infatti in base al ristretto suffragio censitario presente in entrambe le entità statali, i tedeschi ottennero il 67% dei seggi nel parlamento di Vienna e i magiari il 90% di quello di Budapest, anche se entrambe le popolazioni non superavano il 40-50% nei rispettivi Stati.
Ironicamente Robert Edler von Musil, nel suo celebre “L'uomo senza qualità”, sul problema dell'Ausgleich si esprimeva: “Questo concetto dello stato austro-ungarico era così stranamente congegnato che sembra quasi vano tentar di spiegarlo a chi non ne abbia personale esperienza. Non era fatto di una parte austriaca e di una parte ungherese che, come si potrebbe credere, si completavano a formare un tutto, ma di un tutto e di una parte, cioè di un concetto statale ungherese e di un concetto statale austroungarico, e quest'ultimo stava di casa in Austria, per cui il concetto statale austriaco era in fondo senza patria. L'austriaco esisteva soltanto in Ungheria, sotto forma di avversione; a casa sua si dichiarava suddito dei regni e dei paesi della Monarchia austroungarica rappresentati alla Camera, che sarebbe come dire un austriaco più un ungherese meno quest'ungherese; e non lo faceva per entusiasmo, ma per amore di un'idea che gli ripugnava, perché non poteva soffrire gli ungheresi, così come gli ungheresi non potevan soffrire lui, cosicché la faccenda diventava ancor più complicata. Molti perciò si definivano semplicemente polacchi, cèchi, sloveni o tedeschi, e questo produceva ulteriori divisioni”.
Il 28 Giugno del 1900 Francesco Giuseppe e la famiglia si trovano riuniti presso la sala del consiglio di Hofburg (la residenza ufficiale dell’Imperatore a Vienna), dove l’erede al trono Francesco Ferdinando (Francesco Ferdinando Carlo Luigi Giuseppe d'Asburgo Este) pur di sposare la contessa Sophie Chotek von Chotkowa (aristocratica di rango inferiore) rinuncia ad ogni diritto di successione. Per l’anziano Imperatore - dopo i dolori causati dalle morti del figlio e della moglie - spera di essersi assicurato così una vecchiaia tranquilla.
Dal punto di vista politico – come detto – l’Impero è eroso dai vari nazionalismi, soprattutto nell’area dei Balcani a causa della progressiva disgregazione dell’Impero Ottomano e dalle mire espansionistiche della Serbia. La monarchia asburgica si sente sempre più accerchiata a Sud dalla Serbia, ad Est dalla Russia zarista e ad ovest dall’Italia, che - pur facendo parte della Triplice alleanza -, non nasconde di volersi annettere il Trentino. Solo la Germania di Guglielmo II – con il suo temibile esercito – continua a restare saldamente al fianco degli austriaci.
[caption id="attachment_7742" align="aligncenter" width="1444"] Franz von Matsch, Omaggio dei Principi tedeschi all'Imperatore Francesco Giuseppe. I principi tedeschi guidati dall'Imperatore Guglielmo II porgono gli auguri all'Imperatore Francesco Giuseppe per i sessantanni del suo Regno. La scena si svolge nella sala da ricevimento dell'Imperatrice Maria Teresa e che oggi porta il nome di Maria Antonietta.[/caption]
Il 12 Giugno del 1914 i sovrani dei due paesi alleati si incontrano per discutere le voci di una alleanza della Romania con la Russia, elementi che inquietano l’animo dell’anziano Imperatore. Il Kaiser tedesco si dichiara pronto a tutto – anche ad una guerra – pur di difendere il prestigio degli Asburgo, ma Francesco Giuseppe vuole a tutti i costi evitare un conflitto che ritiene mortale per la sopravvivenza dell’Impero. Ovunque si respira un senso di fine imminente: scrittori, artisti, filosofi, architetti riflettono su questo senso di ineluttabile decadenza che diventerà l’inconfondibile marchio di tutta un’epoca. A Vienna Karl Kraus su una rivista satirica “la Fiaccola” scrive: “tutto è in attesa della fine imminente. A vostra grazia auguro una bella fine del mondo”.
Nonostante le problematiche politico-sociali, Vienna è la culla della civiltà. La civiltà asburgica appare infatti compresa tra due poli opposti, uno malinconico di consapevole declino - sopportato con tacita dignità - e una elegante leggerezza spensierata. Due poli che sono le due facce di una stessa medaglia, due volti dell’ultima illusione mitteleuropea.
Nella sua accezione culturale, la mitteleuropa richiama la specifica civiltà vissuta dal multinazionale mondo asburgico, dov’è essenziale la componente ebraica. Si viene a creare una vita e una produzione culturale in ogni campo del pensiero e dell’arte che raggiunge vertici altissimi.
[caption id="attachment_7743" align="aligncenter" width="1648"] Tra i più noti esponenti della Finis Austriae ricordiamo Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Adolf Loos, Arnold Franz Walter Schönberg, Oskar Kokoschka, Robert Edler von Musil, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal , René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke, Franz Kafka, Aron Hector Schmitz (Italo Svevo), Joseph Roth, Karl Kraus, Elias Canetti, Alexander Lernet-Holenia, Gregor von Rezzori.[/caption]
La cultura diviene così espressione della crisi epocale dell’Occidente, intesa come perdita dell'identità del soggetto, il quale cerca di differire la fine e strapparle qualche momento di piacere e d’abbandono nella letteratura, nell'arte, nell'architettura, nella filosofia, nella musica e in ogni campo culturale. Contemporaneamente questo mondo morente si mette in maschera, vela il proprio declino di una spumeggiante gioia di vivere, evade in una superficiale e dimentica sensualità. Il Danubio giallastro e fangoso diviene azzurro, e dal disfacimento storico-politico si evade in un fugace, sentimentale e godereccio paradiso terrestre. Se la laboriosa pedanteria dell’imperatore suggerisce il mito del burocratico e silenzioso riserbo, la sua uniforme gallonata e la rigida etichetta aprono la strada alla celebrazione dei balli di corte, delle carrozze fastose e dei brillanti ufficiali. La narrativa, il teatro, la poesia e la musica creano il volto sfumato e inconfondibile della Vienna dei valzer, degli amori facili e sentimentali, e del piacere di esistere: una belle époque meno sfrenata, ma più danzante e sorridente di quella parigina. La musica - l’arte piú apolitica - era sempre stata la liberazione e la catarsi dell’anima austriaca. "L’Austria è diventata dapprima spirito nella sua musica" , dirà Hofmannsthal quando già infuriava la guerra mondiale. Negli ultimi anni dell’imperial-regia monarchia questo tentativo di alienazione, di appagamento estetico diventa piú intenso e pressante, assume delle proporzioni piú vaste e scende a un livello piú popolare; la dolce medicina si fa piú superficiale e accessibile. Dalla serenità di Mozart e dall’idillio di Schubert si giunge a Strauss e a Lehàr. Vienna capitale del piacere sarà anche capitale della musica, creando una notevole civiltà culturale per quanto riguarda il legame e l’affiatamento tra arte e pubblico. Anche i grandi musicisti come Gustav Mahler e Richard Strauss collaborano, a loro modo, allo splendore raffinato dell’età di Francesco Giuseppe. Gli anni che vedono Mahler alla direzione dell’Opera di Stato (1897-1907) segnano l’apogeo di questa festa culturale.
In campo architettonico, se i valori etici venivano ricoperti da valori estetici, dove quest’ultimi non si sviluppavano su base etica - un valore estetico che non si sviluppi su una base etica è esattamente sofisticazione -, l’architettura si trasforma proprio nel suo contrario, ovvero nel suo artificio, in una sola parola nel Kitsch.
La reazione in campo architettonico è immediata in Adolf Loos – architetto boemo, trapiantato a Vienna - che nei suoi scritti per la rivista Das Andere asserirà: “L’ornamento è delitto”. Come capitale del Kitsch, Vienna era diventata anche la capitale del vuoto di valori dell’epoca. Il lavoro, per certi versi straordinario in campo accademico e sicuramente precursore di un linguaggio architettonico successivo, portò Loos a razionalizzare l’architettura, ponendolo come uno dei padri fondatori del razionalismo europeo: semplificazione delle superfici, rigoroso studio volumetrico, superfici ampie e coperture nette, uso dell’intonaco bianco dove vige il decoro e non l’ornamento.
Il suo pensiero architettonico è alla base della salvezza di Vienna, alla base della sua purificazione - “ornamentale”- architettonica, quindi spirituale.
Lo scrittore Roberto Calasso, ne “La muraglia cinese, - la morgue dei simboli” coglie appieno il concetto, creando un parallelismo calzante con Kraus: "L'aura di queste due potenze indivise è l'equivoco. (...) In disparte «parlando nel vuoto», due esseri non concilianti insistono che fra i due oggetti sussiste una differenza: sono Adolf Loos e Karl Kraus. Rispettivamente nel 1908 e nel 1910 pubblicheranno ciascuno uno scandaloso saggio-manifesto in proposito, "Ornamento e delitto" e "Heine e le conseguenze". Già dai titoli si può capire come li spingesse una furia giuridica, che imponeva di coinvolgere la civiltà intera nelle loro insofferenze estetiche. Con uno dei suoi bruschi gesti da finto «buon americano», Loos constata subito un dato capitale - e cioè che, nel presente, «l'ornamento non ha alcun rapporto organico con la nostra civiltà» e perciò ha carattere degenerativo. Come un immenso corpo tatuato di delinquente, la città è distesa di fronte all'occhio impaurito. Sirene aberranti sporgono dalle rispettive facciate. «La casa ha un tumore, il bow-window. Sarà il surrealismo a dipingerlo: dalla casa prolifera un'escrescenza carnosa». L'insistente nominalismo ha dissolto, con un lavoro che occupa tutta la storia, il corpo delle immagini e dei simboli - la città ne è divenuta la morgue. Loos, nel suo slancio, vede già un'umanità illuminata che preferirà oggetti lisci, sgombri da immagini necrotiche, e dimenticherà l'ornamento che ha distrutto. Così non è stato: pur non avendo una apparente giustificazione liturgica, un corpo di immagini è risorto e ha ripreso possesso del mondo, guidato dalla Beatrice infera del Kitsch. Ma la nostra età è segretamente docetista e quel corpo è fantasmatico, puro involucro. Kraus volle ripercorrere all'indietro la storia della forma come involucro, fissarla nell'emblema di un nome. Incontrò Heine, veleno e ferita, il poeta disinvolto nello strazio, cosciente della degradazione e troppo dotato per non tentare di camuffarla: «Ma la forma, questa forma che è un involucro del contenuto, e non esso stesso, che è il vestito per il corpo, non la carne per lo spirito, questa forma doveva pur essere scoperta una volta, prima di stabilirsi per sempre. Se n'è incaricato Heinrich Heine». La precisione dell'attacco, che toccava la debolezza peculiare del romanticismo, incapace di produrre valori medi, per cui «ogni scivolata dal livello del genio significava uno scivolar giù a capofitto dal cosmo bel Kitsch», ha spesso impedito di vedere che in quel saggio non si osava tanto una «valutazione della poesia di Heine, ma la critica di una forma di vita». La stessa vita che trionfa oggi in una versione più scaltra. Ornamento e strumento reggono tuttora le sorti, nel chiasmo di due tendenze: «per l'una l'arte è uno strumento; per l'altra la vita è un ornamento». Questo mutuo omaggio, che corrompe l'arte e la vita, produce una compatta eufonia; ciò che va perduto è soltanto un ricordo: «l'arte mette in disordine la vita. I poeti dell'umanità ristabiliscono ogni volta il caos. I poeti della società cantano e si lamentano, benedicono e maledicono entro l'ordinamento del mondo»".
La vecchiezza dell’imperatore - monotono e puntuale - riverbera di un tono da leggenda il tramonto austroungarico, e personifica la vana e patetica fermezza contro i colpi che sgretolavano - uno dopo l’altro - la monarchia danubiana. “Mir bleibt doch nichts erspart(Proprio nulla mi è risparmiato): la frase tante volte ripetuta da Francesco Giuseppe di fronte alle sciagure familiari e politiche, riassume il passivo dramma della Finis Austriae e suggerisce subito la trasfigurazione mitica di questo crepuscolo, ammantandolo di dignitoso e burocratico senso del dovere.
Altro personaggio tangibile di tal epoca è Francesco Ferdinando Carlo Luigi Giuseppe d'Asburgo Este, individuo molto diverso dall’Imperatore: pragmatico con tendenze assolutistiche molto superiori a quelle dell’Imperatore, ha in mente un’idea dell’impero che confligge con l’idea di Francesco Giuseppe.
Francesco Ferdinando ha il sogno di trasformare la “Duplice monarchia” in una “Triplice monarchia” – il cosìdetto trialismo – dove la terza testa dell’aquila sarebbe dovuta essere quella del popolo slavo. L’imperatore – dal suo punto di vista – teme il mondo balcanico, soprattutto il suo carattere d'esaltazione, da sempre ritenuto pericoloso nei confronti degli altri popoli dell’Impero.
Inoltre, va citata, la scomoda situazione del suo matrimonio: Ferdinando si sposa nel 1900 con Sophie Chotek von Chotkowa – donna appartenente ad una antica famiglia nobiliare boema – ed essendo questa “di rango inferiore” agli Asburgo, vede la negazione da parte dello zio (l’Imperatore Francesco Giuseppe) da sempre legato ai matrimoni da un passo “politico” e non sentimentale. Francesco Giuseppe è consapevole che la grandezza degli Asburgo si è costruita tramite la politica matrimoniale, dove l’atto delle nozze è elemento fondamentale della costruzione del successo geopolitico della casata e quindi dell’impero.
Corre il 1912, quando una sera, lo scrittore Hugo von Hofmannsthal da Rodaun annotava: “La nostra vecchia Austria è assediata da ombre nere, da torbidi presagi. A volte mi domando con angoscia verso quali decenni sono avviati i nostri figli, a quale avvenire. Se fossimo uno Stato come gli altri, noi potremmo agire o rimandare l’azione ad altri tempi. Ma per l’Austria – è la mia sensazione – può venire soltanto il peggio. Nella monarchia, quanti problemi, un problema immenso. Quasi in rivolta gli slavi del Sud, non solo i serbi, ma i croati stessi (c’è la legge marziale, e gli arresti e le fucilazioni si susseguono, ma nessuno ne parla). In agguato i boemi, con gli occhi bene aperti, pronti ad approfittare e ad azzannare. In Galizia i ruteni sobillati da mestatori russi. In Italia un odio forte più dell’alleanza. E i russi che fremono, impazienti di saltarci alla gola. All’interno, metà indolenza e metà incoscienza, e problemi ormai troppo aggrovigliati, troppi nodi gordiani. Noi andiamo verso un tempo di tenebre. Ognuno, dentro di sé, lo sente. Noi possiamo perdere tutto da un momento all’altro. E, quello ch’è più grave, anche vincendo in realtà non conquistiamo nulla se non problemi e perplessità”.
Si giunge, così, al giugno del 1914. A Vienna presso il ministero della Guerra si stilano i piani per il viaggio che Sua Altezza Francesco Ferdinando, l’arciduca ereditario, compirà in Bosnia alla fine del mese. È deciso - nonostante minacce e avvertimenti - che l’arciduca assumerà il comando delle grandi manovre delle truppe imperial-regie che si terranno in quell'anno tra gli slavi del Sud. L’itinerario: Francesco Ferdinando salperà da Trieste il 24 giugno, farà una crociera tra le isole della Dalmazia, sbarcherà a Metkovic, proseguirà per Mostar e per Tercin. È deciso che vada a Sarajevo. Il 28 giugno del 1914 si compie l’assassinio dell’arciduca da parte del serbo-bosniaco Gavrilo Princip appartenente ai nazionalisti serbi della Mlada Bosna (Giovane Bosnia): è l’inizio della fine.
[caption id="attachment_7744" align="aligncenter" width="1637"] A sinistra: il serbo-bosniaco Gavrilo Princip. Nella foto centrale l'arciduca Francesco Ferdinando con la moglie, poco prima di essere uccisi. Nella foto di destra l'uniforme dell'erede al trono conservata in museo.[/caption]
Francesco Giuseppe convoca – in tutta fretta e per la prima volta in pubblico - Carlo Francesco Giuseppe Ludovico Umberto Giorgio Mario d'Asburgo-Lorena-Este (futuro Carlo I d’Austria) che fino al 1916 sarà l’erede a trono dell’Impero, dopo la scomparsa di suo zio Francesco Ferdinando.
Molti nell’Impero gridano alla vendetta, ma l’Imperatore frena, consapevole che un coinvolgimento in una guerra potrebbe portare economicamente e logisticamente l’Austria-Ungheria al collasso. L’appoggio militare incondizionato della Germania del Kaiser fanno si che il 25 luglio del 1914 l’ambasciatore asburgico rompa – senza autorizzazione dell’Imperatore – le relazioni con lo stato serbo, creando i presupposti per la guerra. Francesco Giuseppe è costretto suo malgrado a firmare la mobilitazione generale: “in questo momento solenne, sono perfettamente conscio di tutta la portata della mia decisione e della mia responsabilità davanti all’Onnipotente. Ho vagliato e ponderato tutto, con coscienza tranquilla intraprendo il cammino che il destino mi addita”. Martedì 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, credendo che il conflitto rimanga circoscritto ai Balcani, ma quando due giorni dopo anche la Russia dello Zar mobilita l’esercito è chiaro a tutti che lo spazio per la diplomazia è finito: sta per iniziare la “Grande Guerra”. Il morale a Vienna è comunque alto, altissimo: Sigmund Freud - professore straordinario all’Università di Vienna – asserirà “Tutta la mia libido ora è per l’Austria, non sono mai stato tanto austriaco”.
Francesco Giuseppe, fino all’ultimo è contrario al conflitto. Asserirà ai suoi generali “ho conosciuto la guerra, ho ancora il ricordo di Solferino” – come ci racconta splendidamente Roth nella “Marcia di Radetzky” – è un evento che traumatizzò l’imperatore e che rimane in lui come un punto di riferimento. Ma alla guerra pensa il mondo politico, militare – non soltanto austriaco – perché si pensa e si ritiene che un breve conflitto avrebbe potuto costituire un elemento di aggregazione interna e quindi eliminare il pericolo del nazionalismo. Dunque rafforzare la coesistenza dall’interno, tramite una guerra breve e di piena efficacia, contro uno stato modesto e debole.
Sotto questo punto di vista, Francesco Giuseppe sapeva osservare più lontano “della Serbia” cogliendo i rischi di un conflitto ad effetto domino, che avrebbero poi trascinato l’Austria-Ungheria in un conflitto di logoramento che non permise la sopravvivenza dell’Impero, a causa dell’autodeterminazione dei popoli impostagli dagli Stati Uniti e dalle potenze vincitrici.
Unico punto, invece, di convergenza con lo Stato Maggiore dell’Imperial-regio esercito era nell’annientamento serbo, il quale avrebbe potuto rappresentare un punto di forza per eliminare il luogo di aggregazione del mondo slavo e di conseguenza il suo tramite verso la Russia – altra potenza multinazionale, situata alle porte dell’Impero.
Dal punto di vista militare, la situazione dell’Imperial-regio esercito è buona: è considerato uno degli eserciti più efficienti d’Europa, con l’Imperatore che in prima persona si occupa di curare l’apparato bellico, dotandolo di armamenti ed equipaggiamenti moderni, costruendo una serie di infrastrutture (strade e ferrovie) di rilievo, soprattutto nella penisola balcanica.
[caption id="attachment_7745" align="aligncenter" width="1000"] Alexander Pock, 4º Reggimento di fanteria "Ordine" - 1896[/caption]
Il modello tecnologico dell’esercito, mal si rispecchiava con l’apparato gestionale di questo: si trattava di un esercito – come molti altri corpi militari dell’epoca – che era stato costruito da un punto di vista tattico per operare con manovre di tipo settecentesco/ottocentesco - secondo la tattica napoleonica - con le grandi manovre per un attacco frontale di sfondamento, che durante la guerra mondiale non sarà più possibile (per lo sviluppo tecnologico dell’apparato bellico, in particolare quello della mitragliatrice, la quale rendeva impari il movimento di offesa con quello di difesa) come già avevano appurato gli Stati Uniti nei lunghi anni della guerra civile della seconda metà dell'ottocento.
Dopo pesanti sconfitte, nel 1915 l’Imperatore propone una pace negoziata, ma nessuno dei suoi generali, né i suoi alleati tedeschi ne vogliono sapere: “le cose ci stanno andando male, forse anche peggio di come sospettiamo: un popolo affamato non può sopportare molto altro”.
La sua salute è sempre più cagionevole e il venti novembre del 1916 si ammala di polmonite, ma nonostante la febbre, continua a lavorare fino alla sua ultima ora. Si spegne alle 21:05 del giorno successivo all’età di ottantasei anni. Per nove giorni, come da tradizione, i sudditi dell’Impero accorrono ad omaggiare la salma del loro vecchio Imperatore. Il trenta novembre, giorno delle esequie, per l’ultima volta si ripete un rituale vecchio di secoli: le porte della chiesa di Sant’Agostino – sepoltura degli Imperatori d’Austria – sono chiuse; il Gran Ciambellano dell’Impero – conte di Montenuovo – per due volte picchiava al portale ed ogni volta un frate cappuccino chiedeva “chi è?”. “Sono Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria” rispondeva il Ciambellano, “non conosco Imperatori” asseriva il frate. Alla terza volta il conte di Montenuovo cambiava linguaggio: “sono tuo fratello Francesco Giuseppe, un miserabile peccatore” e le porte si aprivano. Fu l’ultimo funerale di un Imperatore d’Austria.
La scomparsa di Francesco Giuseppe, rappresenta solo simbolicamente la fine dell’Impero asburgico. Il suo lento declino va inscritto già nel “compromesso” del 1867, quando per placare la “questione ungherese” l’Imperatore concesse alla nobiltà magiara il regno in condizioni di parità con l’Austria. Questa operazione portò - come per paradosso – un aumento (e non una diminuzione) del nazionalismo, poiché a livello politico tutte le undici realtà etniche volevano pari diritti e pari rappresentanza in parlamento: diritti che non furono mai concessi e che portarono l’Austria-Ungheria a lotte intestine, molto prima del primo conflitto mondiale.
Il nazionalismo ambiva – come ci hanno tristemente descritto i regimi totalitari – alla perfezione umana. Lo stato Asburgico affidandosi alla fede cattolica – di contro – ambiva al perdono umano, dato dall’imperfezione naturale dell’uomo.
Un impero che perdonava il suo suddito – in quanto imperfetto – era una potenza tollerante, ma le regole erano rigide, proprio a protezione di quei valori cattolici che rappresentavano le fondamenta dell’Austria-Ungheria.
Questo spirito religioso, insieme ai valori, inizia a venire meno negli ultimi dieci anni dell’Impero. Lo scrittore che ne immortala l’essenza è Joseph Roth ne “La Cripta dei Cappuccini”: "Io ero miscredente, come i miei amici, come tutti i miei amici. Non andavo mai alla messa. (...) Per la verità, oggi sono credente, non so più perché l'odiassi. Era di 'di moda', per così dire. Mi sarei vergognato se avessi dovuto dire ai miei amici che ero andato in chiesa. Non c'era in loro una vera ostilità verso la religione, bensì una specie di orgoglio nel non riconoscere la tradizione nella quale erano cresciuti. Non è che volessero rinunciare alla sostanza della loro tradizione; ma essi, anzi noi - io ero dei loro - ci ribellavamo alle forme della tradizione, perché non sapevamo che la vera forma è identica alla sostanza e che era puerile scindere l'una dall'altra. Era puerile, come ho detto: e infatti noi allora eravamo puerili. La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili. Noi non la sentivamo la morte. Non la sentivamo perché non sentivamo Dio. Fra di noi il conte Chojnicki era l'unico che si attenesse ancora alle formalità religiose, ma anche lui non già per fede, bensì per il sentimento che la nobiltà lo obbligasse a seguire i precetti della religione. Noialtri che li, trascuravamo, ci considerava semianarchici. «La Chiesa romana» usava dire «in questo mondo marcio è l'unica ormai in grado di dare, di conservare una forma. In quanto racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l'elemento tradizionale delle cosiddette 'antiche usanze', procura e concede ai suoi figli tutt'intorno, fuori da questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e spazio vestibolo, la libertà di coltivare l'indolenza, di perdonare l'illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce dei peccati, già li perdona. Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo ammette implicitamente l'imperfezione degli uomini. Anzi, ammette l'inclinazione al peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla remissione. Non esiste più nobile propensione del perdono. Considerate che non ne esiste di più volgare della vendetta. Non c'è nobiltà senza generosità, come non c'è brama di vendetta senza volgarità». Era il più vecchio e il più saggio fra noi, il conte Chojnicki; ma noi eravamo troppo giovani e troppo sciocchi per tributare alla sua superiorità quell'omaggio che essa certamente meritava. Lo ascoltavamo più per compiacenza che per convinzione e, per giunta, c'immaginavamo anche di fargli una gentilezza a starlo ad ascoltare. Per noi, cosidetti giovani, era un uomo maturo. Solo più tardi in guerra, ci fu dato di vedere quanto fosse veramente più giovane di noi. Ma solo troppo tardi, troppo tardi, ci accorgemmo che in realtà noi non eravamo più giovani di lui, bensì semplicemente senza età, per così dire 'innaturalmente' senza età. Mentre lui era naturale, degno dei suoi anni, autentico e benedetto da Dio".
Concluso il conflitto 1914-1918, l’Impero Asburgico esce sconfitto e la sentenza dei vincitori è scioccante per gli austriaci: “Delenda Austriae”. Lo avevano annunciato le forze socialiste, lo avevano proclamato i settori liberali, lo avevano decretato le logge massoniche, come dimostra lo storico François Fetjö in “Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico”.
Il torto dell’Austria? Essere una “monarchia papista”, come affermava con sdegno il primo ministro francese Georges Clemenceau. Cioè un impero, che all’ideale di Fede cattolica univa inscindibilmente un ideale di Civiltà cristiana. Era proprio questo, forse, che dava tanto fastidio alle forze rivoluzionarie. Nonostante deformazioni e manchevolezze, l’Austria esalava ancora il profumo del Sacro Romano Impero - del quale era legittima erede - soprattutto attraverso la dinastia degli Asburgo. Questo, per la Rivoluzione, non era tollerabile.
In extremis, l’imperatore Carlo I, palesemente esente da colpa politica poiché era asceso al trono quasi sul finire del conflitto dopo la morte di Francesco Giuseppe (1916), si appellò al presidente statunitense Woodrow Wilson, la stella ascendente nel panorama mondiale. Da oltreoceano arrivò la stessa sentenza: l’impero andava abolito e l’Austria smembrata in nome della libertà e dell’uguaglianza, elementi che si traducevano nella “autodeterminazione dei popoli” – ideologia che poi non sarà applicata con serietà e omogeneità, dagli stessi vincitori del conflitto soprattutto in ambito coloniale. L’Impero era tramontato.
 
Per approfondimenti:
_Marco Bellabarba, L'impero asburgico - Edizioni Il Mulino
_H. Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, - Editori Riuniti 1981
_Gilberto Forti, Il piccolo almanacco di Radetzky - Edizioni Adelphi 1983
_Hugo von Hofmannsthal, L’Austria e l’Europa: saggi 1914-1928 - Edizioni Marietti, Casale Monferrato 1983
_Joseph Roth, La cripta dei Cappuccini - Edizioni Adelphi 1988
_Robert Musil, L’uomo senza qualità - Edizioni Einaudi 1970
_Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo,1942 - Edizioni Mondadori
_Claudio Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna - Edizioni Einaudi 2009
_Karl Kraus, Detti e contraddetti - 1992
_Alexander Lernet-Holenia, Lo Stendardo - Edizioni Adelphi
_Thomas Mann, Considerazioni di un Impolitico - Edizioni Adelphi
_Joseph Roth, La Marcia di Radetzky - Edizioni Adelphi
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1485975940461{padding-bottom: 15px !important;}"]Joseph Joachim, quando la perfezione si fa spirito[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Carlotta Travaglini 02/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1485988403446{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Joseph Joachim fu un violinista, didatta, direttore d’orchestra e compositore ungherese vissuto nella seconda metà dell'ottocento, fino ai primi del novecento. A seguito del trasferimento con la famiglia nella città di Pest, iniziò gli studi col primo violino del teatro dell’opera della sua città, Serwaczynski (più tardi anche maestro di Wieniavski), il miglior violinista della città. Nonostante i suoi genitori non fossero esperti nel settore, furono istruiti nella scelta di un maestro “non ordinario”. All'età di otto anni fa la sua prima esecuzione pubblica, a seguito della quale si sposterà a Vienna, dove seguiterà gli studi al locale Conservatorio sotto la guida di M. Hauser, uno dei violinisti di maggior virtuosismo dell'epoca e G. Hellmesberger. In seguito ebbe modo di perfezionarsi più a fondo con Joseph Bohm, fondatore della moderna scuola violinistica ungherese. Allievo dell'insigne Pierre Rode a Budapest, fu particolarmente impegnato come camerista; faceva parte di un quartetto che collaborò anche con Ludwig Van Beethoven, del quale eseguì la prima del Quartetto d'archi op.12.Di lui Joachim ricorda in particolare ed elogia l'innata capacità nell'arte del fraseggio: aveva infatti una straordinaria ed immediata comprensione dell'idea musicale che gli si proponeva, ed era perfettamente in grado di rendere le intenzioni di qualunque autore, il suo violino aggirava qualunque impedimento tecnico o lacuna interpretativa.
[caption id="attachment_7699" align="aligncenter" width="1024"] Adolph von Menzel, Clara Schumann e Josep Joachim in concerto -1854[/caption]
Sua cugina, Fanny Figdor, lo ospita a Lipsia: qui Felix Mendelssohn è direttore della Gewandhausorchester Lepzig, orchestra tra le più antiche e prestigiose del mondo. Il maestro, che ne nota le precocissime doti e ne rimane strabiliato, sceglie di seguirlo personalmente, rendendolo un suo protetto. Joseph Joachim si esibirà così svariate volte sotto la direzione del maestro, come insigne solista. La sua prima esecuzione è quella del Concerto per violino di Heinrich Wilhelm Ernst, ma sarà ma sarà quella del Concerto per violino op. 61 in re maggiore di Beethoven a Londra nel 1844 che gli consegnerà gloria imperitura.
Negli anni in cui si distinse nell'attività orchestrale, come primo violino di spalla, iniziò a dedicarsi anche alla composizione, in particolare di brani virtuosistici per violino: i primi brani risalgono al 1848 ed arrivano fino agli ultimi anni della sua vita. Dopo la morte di Mendelssohn è al primo leggio della Gewandhausorchester Leipzig assieme al violinista Ferdinand David. In seguito, a Weimar, ha modo di suonare anche nell’orchestra di Franz Liszt, con la cui musica avrà esperienze contrastanti. Liszt infatti è attualmente uno degli esponenti più agguerriti della “Nuova Scuola Tedesca”, assieme ad Hector Berlioz e Richard Wagner, la quale, in sostanza, si faceva promorice e sostenitrice dell'estetica del contenuto, della volontà di subordinare, in ambito musicale, la forma al contenuto. Ciò consisteva nel prediligere il carattere descrittivo della musica, la sua capacità di rappresentare elementi di varia natura, da aspetti del concreto a concetti elevati oggetto di altre arti. La conseguenza di questo rivoluzionario modo di pensare sarebbe stato un rinnovamento totale e subitaneo dell'intero sistema musicale, nella modifica radicale del lascito delle tradizioni e nell'abbandono di musiche ormai considerate obsolete perché troppo rigide per rispondere a questo imperativo morale. Una forma statica non avrebbe potuto rappresentare nulla: le strutture portanti del passato si sgretolano, in nome della fusione delle arti, dei generi, dei tempi all'interno di un singolo brano, ed il futuro della musica sembra non essere altro se non quello di una “corrente impetuosa e continua”, caratterizzata dalla perenne generazione e rigenerazione.
Joachim dapprima sembrerà apprezzarne le nuove idee musicali: ne è la prova, ad esempio, un Concerto per violino in un movimento, in sol minore, da lui composto nel 1851 e dedicato a Franz Liszt. In seguito, tuttavia, si schiera dalla parte opposta, assolutamente a favore della cosiddetta “musica del passato”. In una lettera al maestro dell'agosto 1857 troviamo scritto:
«Non mi è assolutamente simpatica la tua musica; contraddice tutto ciò che dalla prima giovinezza ho appreso come nutrimento per la mente dallo spirito dei nostri grandi maestri».
[caption id="attachment_7700" align="aligncenter" width="1503"]copertina-per-sito1 Nella immagine, particolare di dipinti raffiguranti: Franz Liszt, Hector Berlioz e Richard Wagner - tre degli esponenti principali della “Nuova Scuola Tedesca”.[/caption]
Ad Hannover, nel 1853, avviene uno degli incontri più significativi della sua vita: quello con Johannes Brahms, impegnato in una tournée europea con il violinista Eduard Reméniy. Con il maestro, già noto pianista ed astro nascente della composizione, nasce subito un’intesa, destinata a consolidarsi negli anni. Nel 1860 un folto gruppo di musicisti decide di esprimere il proprio pensiero contro le nuove tendenze “progressiste” della musica in Germania; tra di essi figurano Joseph Joachim e Johannes Brahms.
Fitta è la loro corrispondenza in proposito, negli anni precedenti. «Sono sovente tentato di attaccar briga e scrivere contro Liszt» confessa Brahms in una lettera a Joachim del 1859; spesso rigetta le composizioni del maestro indicandole come “fandonie”; non sembra mai entrare in polemica, invece, con Richard Wagner La pubblicazione viene accolta con biasimo, e gli assertori vengono tacciati di conservatorismo. I due maestri non entreranno più nel fulcro di dibattiti pubblici.
In questi anni riceve numerosi stimoli alla composizione. Scrive numerose tipologie di brani, e mette per iscritto anche numerose Cadenze ai più famosi concerti; celebre è quella del Concerto per violino e orchestra di Johannes Brahms, da lui eseguita per la prima volta nel 1879 ed ora frequentemente ripresa dai moderni esecutori. Si distingue anche come camerista: nel 1869, con Robert Hausmann (violoncello), Karel Halíř (2° violino) ed Emanuel Wirth (viola), fonda il celebre Quartetto Joachim, che ottiene una risonanza a livelli europei.
È il primo violinista a registrare brani per una casa discografica; nel 1903 incide due lati per la Grammophone Company, lascito utilissimo per avere un’idea concreta della maniera di suonare il violino ottocentesca.
Si dedica, fin da giovane, anche alla didattica violinistica: insegna al Conservatorio di Lipsia e fonda a Berlino la Royal Academy of Music nel 1866. È infatti una delle figure centrali della moderna scuola violinistica tedesca insieme a Ludwig Spohr, che ne è il fondatore. 
 
[caption id="attachment_7701" align="aligncenter" width="1746"] Quartetto Joachim: Joseph Joachim (1. Violino), Robert Hausmann (Violoncello), Emanuel Wirth (Viola) e Heinrich de Ahna (2. Violino).[/caption]
È autore di un’apprezzatissima Violinschule, compilata con Arthur Moser, insegnante di violino particolarmente interessato ai problemi dei bambini. L’opera rappresenta il primo tentativo di fornire all’allievo un metodo “globale”, dove tecnica pura ed arte del fraseggio vengono insegnati ed appresi di pari passo come facenti parte di un unico meccanismo, e non separatamente ed in contesti differenti. Musica e prassi rigorosa fanno insieme parte del dialogo tra maestro ed allievo, che va necessariamente costruito in modo sequenziale e progressivo.
Ludwig Spohr, nel suo metodo, considerando tutti gli aspetti necessari ad una ‘buona’ esecuzione musicale, esigeva dal violinista una perfetta intonazione, un rispetto rigoroso del tempo e del valore delle note, la resa dei piano e dei forti; qualora si volesse eccellere in una “bella” esecuzione, allora la si doveva arricchire di un suono bello e corposo senza cedimenti, di frasi ben caratterizzate e variegate in ciascuna minuta sfumatura e nella maestria nell'esplorazione degli infiniti timbri dello strumento; un lavoro complesso, al quale lo studente-virtuoso poteva arrivare con zelo e con una spiccata capacità creativa, importantissima nel Romanticismo.
Queste indicazioni risultano utili per comprendere come si suonasse il violino ai tempi di Joachim. Il maestro assimila ed amplia considerevolmente la lezione del predecessore: educa infatti fin da subito l’allievo all’interpretazione del pezzo, impartendogli non semplicemente una serie di regole obbligate, ma una gradualità che lo scorti dalla meccanica alla musica.
Dettagliatamente troviamo il percorso da seguirsi del giovane musicista, espletato da esempi ed immagini. La prassi musicale viene spiegata nei primi due volumi. Leopold Auer, violinista ed importante didatta ungherese, ricorda le massime del maestro come spesso “caotiche”, ed il suo metodo di insegnamento “sempre con il violino in mano”. Da una lettura del suo volume non si notano però tali incongruenze; d'altronde, tra i violinisti che si sono formati nella sua scuola, si parla di un numero maggiore di 400 elementi. Lo stesso Auer non poté non ricordare il maestro con i massimi elogi.
Nel secondo volume, in particolare, vengono trattate anche problematiche specifiche dell'intonazione, per definire i quali Joachim stesso si impegnò in studi di acustica applicata con il fisico J. Helmholtz. Vi sono, poi, descrizioni di aspetti dell'esecuzione tipici della musica romantica, come ad esempio i portamenti, piccoli glissati usati a fini espressivi, a cui dedica particolare attenzione, ed il vibrato, che distingue in tipologie diverse a seconda dell'intenzione e della dinamica musicale richiesta allo specifico suono.
Riprendendo Johannes Brahms, da "Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler", questi asseriva: "Metti per iscritto tutto ciò che senti essere divenuto vero in te, foss’anche solo una reminiscenza".
Joachim dedica il terzo volume interamente all’interpretazione, segno tangibile dell'importanza di questo aspetto nella formazione del musicista. I suoi saggi si incentrano su svariati autori; a partire da Bach, proseguono fin nell’analisi minuta dei Riporto alcuni estratti - dello stesso Joachim - dal saggio sul Concerto in mi minore op.64 di Felix Mendelssohn:
"All'età di sedici anni ho avuto molte volte il privilegio di eseguire questo concerto accompagnato dall'autore: conosco quindi bene le sue intenzioni, poiché quando se ne presentava l'occasione egli non risparmiava la critica. Il 1° tema è un tenero lamento, deve essere reso con emozione, ma piano. Si eviteranno accenti troppo marcati, pur disegnando le linee ondulate e le sfumature di colore della melodia. Se volessimo precisare queste linee per mezzo di segni, subito diverrebbero troppo evidenti. […] Si dovrà anche evitare un ritardo troppo pronunciato dove la melodia termina […] (si arriva all'abuso di esagerare la sospensione del tempo, e di opporre subito un allegro ad un adagio!). [...]".
Ancora un estratto dal saggio sul Concerto in re maggiore op.77 di Johannes Brahms:
"Il violinista solista fa il suo ingresso con un audace passo ascendente in minore che prosegue con fervore. Gli accordi in ottavi che iniziano alla 9a misura del solo, devono essere realizzati con un suono pieno, ma breve ed energico; il passaggio in quintina si esegue con estrema vivacità ma diminuendo fino alle semicrome con dinamica “piano” che, in una sonorità sempre più eterea, devono giungere al “pianissimo”. Si dovrà tener ben presente l’accompagnamento ricco di temi, ed unirvisi il più strettamente possibile. Dalle terzine dove Brahms scrive “espressivo” è concessa una maggiore libertà interpretativa, senza che per questo il “ritardando” che precede il trillo degeneri in un adagio. […] appare un nuovo episodio, colmo di fascino, che deve essere reso con uno stato d'animo intimo e raffinato, anche nelle decime, pur difficili che siano. Per l'interpretazione di queste ultime è illuminante l'indicazione “lusingando [...]".
Dalle analisi del repertorio romantico emerge come la creatività del musicista abbia un ruolo fondamentale nell’esecuzione e nella lettura del pezzo, e come si suonasse in un clima di “libertà” individuale, del cui dispiegamento una maggiore chiarezza dell’architettura del pezzo e una padronanza tecnica senza pari non possono che essere soltanto le basi. Anche il musicista fa parte del processo creativo, al pari del compositore.
Casa Schumann è uno dei più pittoreschi e fruttiferi prodotti della convivialità romantica ottocentesca. Robert Schumann è uno dei più grandi compositori dell'epoca romantica: pianista, si dedica anche all'attività giornalistica ed alla critica musicale, fondando una propria rivista, la Neue Zeitschrift für Musik [Nuova Rivista di Musica]; sua moglie, Clara Wieck, con la quale Joachim ha occasione di suonare più volte, è una delle più importanti e talentuose pianiste dell'epoca. A questa dimora sono legati vari aneddoti, tra i quali la stesura della celebre Sonata F.A.E. In occasione di una visita di Joseph Joachim, Robert Schumann, Albet Dietrich e Johannes Brahms decidono di comporre una sonata per violino e pianoforte in suo onore: di ognuno dei tempi il violinista dovrà riconoscere l’esecutore, e per farlo gliene sarà portata una copia, per non avere indizi dall'originale manoscritta. Schumann si dedica al II ed al IV movimento, Dietrich al I e Brahms al III (il celebre Scherzo). Il titolo richiamerebbe la sequenza di note fa-la-mi (F, A, E, in notazione alfabetica), utilizzate più o meno direttamente dai compositori, ma fa in realtà riferimento, in sigla, al motto di Joachim «Frei aber einsam», “Libero ma solo”.
Nuovamente troviamo questa sigla nel taccuino personale di Brahms (Album letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler), prestato per un periodo all’amico Joachim. Al suo interno, tra le citazioni di autori e filosofi noti che il compositore si premura di annotare nel corso degli anni, il violinista inserisce delle proprie riflessioni ed osservazioni firmandosi con il suo “f.a.e.”, o con la corrispettiva sigla musicale:
"Quando avvertiamo in noi un embrione di idea, sovente ci sforziamo solo, e con troppa ansia, di farlo venire al mondo il più velocemente possibile, e così si atrofizza prima che si sia riusciti a farlo crescere robusto in noi al punto che da solo, squarciando il nostro petto, come canto aneli verso il cielo".
L’unione artistica, dapprima concretizzatasi nella stesura a quattro mani del manifesto contro la musica “progressista” della Nuova Scuola Tedesca, confluisce in una fedele amicizia.
Joachim segue sempre più da vicino l’attività e la ricerca musicale del compositore, e ne incentiva e valuta il processo creativo. Significative saranno le nozioni di tecnica violinistica nel repertorio strumentale. Da questo sodalizio nascerà il celebre Concerto per violino op.77 in re maggiore (1878) del quale Joachim stesso fornirà un utile saggio di estetica e di stile nel III volume della sua Violinschule.
Nel 1884 Joachim divorzia dalla moglie Amalie, convinto di una sua presunta relazione con Fritz Simrok, l’editore di Brahms; quest’ultimo interviene con una lettera amichevole scritta a lei, ma i rapporti tra i due si raffreddano ugualmente. Verrà ripristinata solo in seguito, quando Brahms scriverà il Concerto per violino e violoncello op.102 come “offerta di pace” a Joachim.
"Ogni artista è un Edipo: se si ferma, senza risolverli, dinnanzi agli enigmi del tempo, la Sfinge lo getta nell’abisso dell’oblio ed egli non le transita innanzi verso il futuro dell’immortalità".
Joseph Joachim muore nel 1907 a Berlino, dopo una gloriosa carriera di interprete, didatta ed acuto studioso, consacrato per sempre come leggendario virtuoso del violino. Da fonte di ispirazione e sostegno all’amico Brahms si è fatto straordinario dispensatore di consigli per tutti gli altri interpreti e compositori a venire, affermandosi come uno dei protagonisti indiscussi del secolo scorso: un musicista a tutto tondo, il cui lascito è destinato ad essere in ogni tempo oggetto di confronto ed arricchimento. Concludo ancora con Joachim: "Non elogiate, non ammirate: amate, imitate!".
 
Per approfondimenti:
_Johannes Brahms, Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler, EDT, 2007
_Enciclopedia della musica Garzanti
_Enzo Porta, Il violino nella storia: maestri, tecniche, scuole, EDT, 2000
_Renato di Benedetto, Storia della musica: L’Ottocento I, EDT, 1985
_Christian Schmidt, Brahms, EDT, 1990
 
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Sabato 28 Gennaio si è svolto il primo appuntamento del programma 2017 "FUTURO-PASSATO. Oltre il già detto".

Ospite dell'associazione il giornalista romano Sebastiano Caputo, il quale ha presentato il suo ultimo saggio "Alle porte di Damasco, viaggio nella Siria che resiste". L'incontro è stato presentato dal presidente l'arch.Giuseppe Baiocchi, che ha nel finale gestito il dibattito. Sulla guerra in medio-oriente si sono dette molte notizie errate e l'associazione ha fatto chiarezza con uno dei migliori inviati di guerra sul panorama nazionale.

3 Dalle parole di Caputo: "C’è stato un tempo in cui Siria e Iraq erano ancora il nome di due Paesi, di due nazioni, non soltanto di guerre infinite. La Siria da cinque anni e l’Iraq da tre decenni sono il luogo di massacri indicibili e che pure abbiamo testimoniato. Siria e Iraq oramai esistono quasi soltanto con un acronimo: Il Siraq che a sua volta ne rievoca un altro il l’Afpak. E’ un illusione che la sconfitta del califfato porterà a soluzioni pacifiche: la guerra al terrorismo verrà sostituita ad altri conflitti perché lo Stato islamico non è la causa, ma il sintomo della disgregazione dei popoli". 56

Prossimo incontro sabato 18 febbraio con lo scrittore Orlando Donfrancesco, il quale presenterà il suo ultimo romanzo: "Il Sole a Occidente".

78 Nel finale, sempre l'interessante dibattito che come di consueto viene lasciato alla cittadinanza e agli studenti. In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Regione Marche
_Comune di Ascoli Piceno
_Fondazione Carisap
_Intellettuale Dissidente
_la Confartigianato
_Libreria Rinascita
_Tipico Ascoli
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Albert Speer nella storiografia contemporanea è considerato un personaggio molto controverso fin dalla giovane età, quando a soli ventisei anni, dopo aver aderito al partito nazionalsocialista, – nella Germania degli anni trenta – gli vengono affidati i primi incarichi importanti. Sicuramente fu un architetto di straordinario talento, come anche un nazista convinto: scavalcò gli architetti delle avanguardie, per la sua accuratezza e grazie ad una serietà organizzativa, senza precedenti.
Di estrazione borghese e proveniente dalla Germania sud-occidentale, riesce tramite i progetti per le strutture di raduno del partito, ad entrare in stretto contatto con il cancelliere del Reich Adolf Hitler. Nel 1933 gli viene designato di progettare a Norimberga una trionfale tribuna - di impronta neoclassica - nel complesso dove già sorgevano due manufatti usati per fini propagandistici: la Liutpoldarena e il “campo Zeppelin”.
[caption id="attachment_7643" align="aligncenter" width="1754"] Planimetria del progetto della Tribuna (al centro) nel 1933. Nella foto di sinistra il manufatto della Liutpoldarena, come si presenta oggi: in uno stato di semi-abbandono, all'interno di un verde parco. Nella foto di destra: parata nazista all'interno dell'area.[/caption]
In questo progetto l’architetto tedesco di Mannheim ebbe un intuizione forte, ma nello stesso tempo elegante e delicata: progettò le “cattedrali di luce”, un sistema di potenti fasci di luce verticali dietro i palchi degli oratori e delle autorità che davano l’impressione di un colonnato. Tale idea venne per via dei raduni, i quali presentavano degli apparati di bandiere e stendardi enormi e la sua creazione – installata sull’estradosso della tribuna – diede quel senso anche di sacralità all’intera scenografia. La Germania dominava. 
[caption id="attachment_7639" align="aligncenter" width="1280"] Riproduzione evocativa del campo, in vista notturna, nel fotomontaggio.[/caption]
Ma per comprendere appieno tale atteggiamento sociale, morale e architettonico, dobbiamo necessariamente eseguire una riflessione sul contesto culturale della Germania nazista. L’architettura nei regimi totalitari novecenteschi pone una fondamentale attenzione ai piani urbanistici e alle forme architettoniche, elementi in grado di poter legittimare l’ideologia dominante sia internamente al paese, sia – parallelamente – come grandezza della nazione all’estero. Dunque, come si evince con la mano raffinata di Alber Speer, l’architettura monumentale diventa la vera propaganda del regime nazista.
Nella Germania, una volta avvenuto il totale rafforzamento del nazionalismo patriottico, torna in auge la virtù indigena: elemento da preservare dagli assalti della frammentazione moderna. Il totalitarismo si fonda sull’impressione del diritto di governo dato dal popolo, dove il III Reich muoveva con cautela i suoi passi tra l’evocazione del potere imperiale (reich appunto) e le suggestioni popolari del partito nazionalsocialista.
Il nazionalismo – come gli altri regimi totalitari, in particolare quello russo - osservava l’architettura moderna marginalmente, ma allo stesso modo la considerava una minaccia da sopprimere. Spesso, nell’imbarazzo generale, veniva considerata una novità “internazionalista” creata da un’avanguardia marginale, la quale operava indipendentemente dai valori dominanti di ordine e disciplina.
L’architettura moderna, difatti, non aveva l’obiettivo del “messaggio diretto alla nazione” come strumento utile per la causa nazista e veniva spesso indicata come “non tedesca”, quindi straniera.
L’architettura totalitaria fu monumentale per un concetto molto semplice: l’uomo era nulla davanti all’ideologia e quest’ultima era rappresentata tramite il gigantismo delle proporzioni e attraverso – in Germania – uno stile dorico neoclassico raffinato, ricercato e ripetitivo. Come per gli edifici religiosi – si pensi al Pantheon – l’uomo doveva sentirsi nullo di fronte alla grandezza del partito incarnato nel manufatto architettonico. La potenza della serialità delle immagini era elemento ineluttabile di continuità e grandezza del regime.
Nonostante ciò la Germania – a differenza della Russia comunista – fu molto più aperta all’internazionalismo di matrice architettonica, riprendendo l’economia di stampo strutturale ed anche l’immaginario della tecnologia appartenente – appunto – all’architettura moderna. In molti edifici funzionali della Luftwaffe – l’aereonautica tedesca dell’epoca – il concetto “internazionale” fu ripreso per forma architettonica e struttura, ma in linea generale rimaneva il concetto del materialismo e della mancanza di radici. Gli ideologi del nazismo asserivano sul movimento del Bauhaus: “Secondo i leader del Bauhaus le stanze devono assomigliare a studi, a teatri operanti; per loro tutto il colore deve essere bandito. Pertanto niente legno; tappeti e tappezzeria sono peccati contro lo spirito Santo della “Sachlichkeit. Il vetro invece, tutti i tipi di metallo o di pietra artificiale – questi sono i materiali eleganti! L’uomo nuovo non è più un uomo, è un “animale geometrico”. Non ha bisogno di un’abitazione, di una casa, ma soltanto di una “macchina abitativa”. Quest’uomo non è un individuo, non una personalità, ma un’entità collettiva, un frammento della massa umana. E perciò costruiscono “immobili residenziali”, blocchi di un appartamenti di un’omogeneità desolante, in cui tutto è standardizzato. Si tratta di abitazioni, non costruite per necessità, come nelle città in rapido sviluppo durante la seconda guerra metà del XIX secolo, ma per una questione di principio. Vogliono uccidere la personalità negli uomini, vogliono il collettivismo, poiché il più alto obiettivo di questi architetti è il marxismo, il comunismo”.
Dunque il regime nazionalsocialista non intravedeva nell’architettura moderna l’elemento della trasfigurazione storica e soprattutto materica.
L’accostamento al comunismo fu un’aggravante che l’architettura moderna portò con se, per via dei tetti piani, “non-germanici” che contemporaneamente davano un riflesso orientale, bolscevico ed ebreo. L’architettura moderna era vista anche come creazione semplicemente “non piacevole” e quindi non nobilitante per il popolo tedesco, ma l’elemento fondamentale che la rendeva inadeguata era il simbolismo nelle tipologie edilizie: il Reich aveva bisogno di affermare la gerarchia dei tipi edilizi come evidenza formale della gerarchia del potere. Un genere architettonico che tendeva a confondere la distinzione tra tipi edilizi non era consono a questa importante differenziazione dottrinale.
Nel clima teso degli anni trenta in Germania Erich Mendelson – ebreo – fu il primo ad espatriare e parallelamente nel 1933 la prima scuola di architettura della storia occidentale, il Bauhaus, veniva chiusa con Ludwig Mies van der Rohe come ultimo direttore. L’architetto tedesco si vide rifiutare, dalla commissione istituita dal Fuhrer, il progetto per il concorso alla Reichsbank e successivamente nel 1935 il progetto volto a rappresentare la Germania nazista all’esposizione di Parigi del 1937. Lo stile dorico – nel frattempo – si imponeva sempre più come pietra di paragone per la modernità e Mies pagò senza alcun dubbio, la sua visione architettonica “idealista” che successivamente fece fortuna negli Stati Uniti, dove emigrò nel 1937. All’esposizione internazionale fu accolto proprio il progetto dell’ architetto Albert Speer il quale presentò un manufatto di grande monumentalità, dove il gigantismo delle forme si univa alla verticalità, la quale modellava una elegante tribuna neoclassica sormontata dall’aquila nazista.
[caption id="attachment_7640" align="aligncenter" width="1648"] Nella foto di sinistra, l'architetto Albert Speer mostra ad Adolf Hitler il progetto da presentare nel 1937 all'esposizione internazionale di Parigi. A destra una immagina restaurata della parte centrale dell'Expò francese. Curiosa la "guerra fredda" che avvenne tra i padiglioni dei due paesi totalitari quali il nazismo (a sinistra) e il comunismo sovietico (a destra).[/caption]
Il classicismo fu usato da Speer, poiché lo stile classico greco rappresenta la trasfigurazione perfetta dell’elemento naturale, creato da Dio, dove la natura è vista come perfezione assoluta della creazione. L’uomo, difatti, nei secoli ha sempre cercato e trovato nell’architettura una forma di identificazione ed appartenenza che ponesse il suo essere in uno stato di felicità, dove questo elemento si pone come obiettivo ultimo. Per questo lo stile classico ha avuto sempre il suo “futuro del classico” ovvero la ripresa architettonica di quella perfezione che semplicemente noi chiamiamo neoclassico.
Particolare fu la presentazione del padiglione sovietico che presentava il progetto di Boris Iofan: un assemblaggio di immensi gradoni sovrastato da enormi figure umane, di un uomo e una donna, intenti a mostrare - anche qui - i simboli del regime comunista: energia e populismo. Le tecniche sono completamente mutate dal padiglione del 1925 di Melnikov e da quello spagnolo del 1929 di Mies van der Rohe.
Di fondamentale importanza – in questo contesto storico – è il pensiero di Adolf Hitler di lasciare dopo la “vittoria finale” una Berlino Imperiale che fosse ricordata nella storia e invidiata al mondo a livello urbanistico.
Scelse, il suo amico Speer per questo difficile compito e l’architetto tedesco si dimostrò all’altezza del gravoso incarico, che consisteva nel progettare la città che in quel dato momento storico era la più importante capitale europea, avendo a disposizione tutti i fondi desiderabili: un sogno per qualsiasi architetto.
Il modello del piano di Berlino intercorse fra gli anni 1937/1940 ed era costituito da un asse principale, ripreso dallo schema ippodameo classico, il quale doveva riorganizzare urbanisticamente la capitale attorno ad un viale lungo 5 km che attraversava il quartiere di Tiergarten – chiuso al traffico, per lasciar posto alle parate -, mentre i veicoli avrebbero dovuto utilizzare una autostrada sotterranea che correva lungo tutto il viale: una operazione di grande innovazione per l’epoca, tant’è che alcune sezioni, esistono ancora oggi.
All'estremità nord del viale, Speer pianificò la costruzione di un enorme edificio a cupola, il Volkshalle, o Sala del popolo, che sarebbe dovuto diventare il più grande spazio chiuso al mondo. Anche se la guerra iniziò prima della costruzione dell'edificio, vennero acquistati i terreni e avviati i progetti di ingegneria. Il Volkshalle sarebbe stata alto più di 200 metri, con un diametro di 250 metri, sedici volte la cupola della basilica di San Pietro in cui potevano trovare posto al coperto 180 mila persone. L'edificio mastodontico, avrebbe dovuto essere sormontato da una colossale aquila metallica, che - ad ali spiegate - affondava gli artigli in un globo terracqueo. 
[caption id="attachment_7641" align="aligncenter" width="1627"] Welthauptstadt (Capitale Mondiale) Germania era il nome dato da Adolf Hitler alla nuova capitale della Germania - Berlino -, che avrebbe dovuto sostituire e rinnovare quella esistente. Questo ambizioso progetto era parte della visione del futuro della nazione dopo la vittoria della Seconda guerra mondiale.[/caption]
All'estremità sud sarebbe invece stato costruito un arco, simile all'Arco di Trionfo di Parigi, ma anche in questo caso, molto più grande: alto quasi un centinaio di metri, avrebbe potuto contenere quello di Parigi all'interno della sua apertura.
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 fece rimandare la costruzione alla fine della guerra per risparmiare materiali strategici.
Nel 1938 le autorità decisero che il Palazzo della Cancelleria avrebbe dovuto essere ricostruito in scala di grandezza superiore al precedente e Alber Speer produsse in tempi brevissimi uno scenario adeguato. Grazie all’amicizia e al suo talento di fine disegnatore, ogni suo pensiero e proposta veniva approvata dal Führer. Grande elemento che contraddistingue l’architetto tedesco è la sua incredibile precisione, anche nel minimo dettaglio. Il salone e l’ufficio personale di Hitler si dipartivano da un lungo corridoio di stampo imperiale e neoclassico, che attraversava una serie di spazi formali per giungere in una corte d’onore, un atrio, una stanza interamente decorata da mosaici ed un salone rotondo. Dalla parte opposta, invece, si trova la sala del Consiglio dei Ministri. A livello planimetrico va concesso all’architetto grande sensibilità e eleganza nella scelta della forma assiale, con una composizione spaziale viva e un tratto elegante unito all’ornamento. L’uso di materiali pregiati – prelevati dai territori occupati e da tutta la Germania – rendeva il complesso vivace a livello cromatico, pur mantenendo la raffinatezza datagli dalle forme doriche. Nel 1945 con la sconfitta della Germania nazista questo piccolo gioiello architettonico fu interamente distrutto dalle armate comuniste e dai bombardamenti alleati. Quasi nessun edificio progettato per la “Nuova Berlino” venne mai costruito, simbolo – insieme all’abbandono della Liutpoldarena – di come in Germania la questione nazionalsocialista sia una ferita aperta, ancora da rimarginare.
E’ il 1942 e dopo la morte – per incidente – del ministro Fritz Todt, l’architetto tedesco viene nominato ministro degli Armamenti e della Guerra. La sua precisione e soprattutto l’organizzazione torneranno utili al tedesco, che organizzò la produzione dell’industria bellica nazista con grande efficacia fino a raddoppiare la produzione.
L’uso di mano d’opera tedesca sotto-retribuita e l’utilizzo di operai stranieri che lavoravano in totale costrizione coercitiva, gli furono fatali alla fine della guerra, nel processo di Norimberga.
In molti gli attribuiscono anche un grande merito: quello di aver ostacolato con tutti i mezzi il cosiddetto "Ordine Nerone", con cui Hitler ordinava di fare terra bruciata di fronte agli alleati, che avevano ormai invaso la Germania e che fecero perdere all'architetto molto consenso da parte dei vertici del partito.
L’Albert Speer del 1946 è un uomo disilluso anche nella sua fede più ferma: il nazismo e la tecnica. Scrisse nelle sue memorie di Spandau: "Abbagliato dalle possibilità della Tecnica, l'ho servita negli anni decisivi della mia esistenza. Ora, al termine di questa mia esistenza, essa, la Tecnica, trova davanti a sé il dubbio". Quale il significato di questa frase per un architetto? Speer si è servito fortemente dell’industria, ma ha compreso che questa – senza un’altra importante componente che plasma il termine architettura non ha valore e diventa dubbio.
Il problema posto da Speer non è isolato ed ancora oggi attuale per tutti coloro che studiano la scienza dell’architettura: il termine architettura si compone in archè (dal greco ἀρχή) e da tèchne (dal greco τέχνη). In maniera semplice questi due termini riassumono i principi primi a guida delle tecniche: il bello, il vero, il buono. In archè risuona tutta la filosofia dell’occidente e in tèchne viene rappresentato il mondo reale, della presenza dei manufatti tangibili. La parola architettura possiede due dimensioni tangibili: la tècne che lavora sulle cose concrete (che puoi misurare, prendere in mano, elaborare) su ciò che è visibile, mentre l’archè è quella radice che ci fa capire l’indominabilità, poiché noi non possiamo dominare la verità, la bellezza, la bontà, non possiamo dominare nulla, noi possiamo interpretare, questi indominabili. L’archè lavora su ciò che è invisibile, che appartiene all’indominabile e ciò è molto più potente del visibile e del dominabile della Tecnè. L’assenza, nel regime, del secondo elemento ha fatto crollare il suo mito, gli ha fatto capire i “limiti” dell’esserci del possibile dati dalla Tèchne.
Durante il processo fu l’imputato che parlò con maggiore sincerità e autocritica del suo coinvolgimento nel regime, riconoscendo di avere colpe e responsabilità nei crimini della Germania nazista e negandone altre che gli venivano imputate.
Speer fu certamente consapevole di molti dei crimini del regime nazista: era a conoscenza che fosse in atto la deportazione della popolazione ebraica, ma per tutta la vita negò di sapere dell’Olocausto. La sua figura è una delle più discusse nel giudizio degli storici: amico personale di Hitler, ma con scarso interesse nella formazione dell’ideologia del partito, nonostante la sua iscrizione alla fine degli anni venti. Uno dei ministri più importanti del Reich, ma poco coinvolto nell’organizzazione delle principali atrocità del regime. Forse proprio il suo “tecnicismo” fu l’elemento che non lo spinse a compiere quelle barbarie che molti dei suoi colleghi hanno compiuto.
A Norimberga venne condannato a venti anni di carcere per crimini di guerra e crimini contro l’umanità: l’uso di manodopera straniera nelle fabbriche di armamenti fu la prova dell’accusa.
[caption id="attachment_7642" align="aligncenter" width="1627"] Nella foto di sinistra: Albert Speer sul fronte orientale nel 1943 nella veste di Ministro degli armamenti. Nell'immagine di destra lo si riconosce, tra gli imputati in fondo a destra della fotografia.[/caption]
Li scontò interamente, per la maggior parte nella prigione berlinese di Spandau e durante la prigionia leggeva e scriveva le sue memorie - nella prima versione, di diverse migliaia di pagine – le quali dopo il suo rilascio confluirono in due libri autobiografici. Fu liberato nel 1966 e con lui venne rilasciato il capo della Gioventù Hitleriana Baldur von Schirach, lasciando a Spandau come unico prigioniero Rudolf Hess, che vi morì nel 1987. Dopo il suo rilascio, Speer collaborò con grande frequenza insieme a storici e giornalisti, pubblicando diversi libri sul tema della Germania nazista, continuando a riflettere sul proprio ruolo e sul proprio coinvolgimento nel regime di Hitler: “Nella mia responsabilità di alto esponente di una potenza tecnologica altamente sviluppata, che aveva usato tutto e tutti i suoi mezzi, senza coscienza né freni, contro l'umanità, cercavo non soltanto di addossarmi quanto era avvenuto, ma anche di capirlo”.
Nell’ultimo periodo di vita – dismessa la professione di architetto – la sua popolarità e la sua dignità sembravano ristabilite e scomparve così impercettibilmente come era apparso nel 1926. Il primo settembre del 1981, un infarto lo stroncava, in un viaggio lavorativo a Londra per partecipare a un programma della BBC.
Le leggende narrano che nei giorni del 24 o 25 aprile del 1945 - prima del suicidio di Adolf Hitler nel bunker a Berlino -, l’amico Speer sia passato a trovarlo un ultima volta, gesto estremo per quella amicizia che “il funzionario moderato” aveva con il leader perdente e indiscusso di un epoca. Durante il processo la corte gli chiese conto della sua amicizia con il Führer. Speer rispose con una frase secca: “Se Hitler avesse avuto degli amici, io sarei stato suo amico”. Preciso e serio fino alla fine del suo percorso. La macchia del nazismo, non ha ancora pienamente dato merito allo straordinario talento dell’architetto di Mannheim.
 
Per approfondimenti:
 _Albert Speer, Memorie del Terzo Reich - Edizioni Mondadori 1996
_ William J. Curtis, L'architettura moderna dal 1900 - Edizioni Phaidon 
 
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Sulla figura del dandy si è scritto e parlato a non finire, con una vasta letteratura in materia. Per iniziare dobbiamo porre l’attenzione sul dandy contemporaneo, una figura che ha ormai attraversato due secoli di storia del mondo occidentale.
Nato in Inghilterra all’inizio del XIX secolo, il dandy è generalmente definito come una persona di sesso maschile dall’abbigliamento ricercato ma non volgare, fedele ai principi del classico e apparentemente nemico della moda, dal carattere leggero e affettato. Il linguaggio del dandy è scelto, ricercato, colto. Il suo guardaroba è idealmente su misura; pone attenzione alla scelta dei tessuti e del taglio, conosce la storia del costume, e preferisce dar di sé un’immagine talmente classica da sfiorare o, in certi casi, toccare una moda passata nel suo abbigliamento: gli accessori fondamentali sono ovviamente quelli caratteristici del guardaroba maschile, come camicia, cravatta, papillon, giacca, panciotto, pantaloni, scarpe, cappello, berretto, mantello, cappotto, pelliccia, guanti; ma anche ghette, polacchini, canne da passeggio, gemelli da polso, solini staccabili – tanto per citare gli accessori più comuni.
[caption id="attachment_7612" align="aligncenter" width="1191"] Giovanni Boldini, Conte Robert de Montesquieu. Il conte (1855 -1921), è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.[/caption]
Tiene alla formalità, ma gioca con le regole. Giuseppe Scaraffia rileva ancora che ama parlare con leggerezza di argomenti importanti, e con gravità di argomenti seri, dando di sé un’immagine artificiosa, e forse superficiale.
Il dandy, asseriva Charles Baudelaire: “vive e dorme davanti ad uno specchio”, e non riconosce leggi altrui se non le proprie - afferma Max Beerbohm -, dichiarandosi un essere amorale – ma non immorale, precisa d’Annunzio nei suoi diari, parlando di se stesso. Il gusto raffinato del guardaroba si traduce in una condotta di vita spesso eccessiva, comunque mai banale, volentieri criticata dalla società, o dai media o dai moralisti in genere.
Disprezza il lavoro e la fatica fisica, preferisce i salotti e i circoli mondani o letterari, ma non trascura i bordelli, il gioco d’azzardo, e i vizi più o meno delittuosi. È uomo prettamente cittadino, e non può esistere se non in una capitale o in un grosso agglomerato provinciale. Può essere d’estrazione borghese o aristocratica, e dell’aristocrazia ama lo stile di vita e l’educazione. Concentra la propria esistenza alla ricerca del Bello, artistico e di costume, e non prevede altro scopo nella propria vita se non la realizzazione di una perfezione ideale e programmatica. Nega l’utilità di ciò che si dice pratico, e detesta l’idea d’essere - come asseriva Baudelaire - “utile a qualcosa”. Nega l’etichettatura, fugge le definizioni e le regole. Per tali ragioni difficilmente ha dettagliati gusti sessuali e ha pendenze politiche: spesso tali personaggi si dichiarano antidemocratici, dando al termine un’accezione più sociale che politica.
Il tempo è per il dandy un continuo scoccare di presenti, di “qui ed ora”, minacciando così ogni culto moderno fondato sul progresso e sull’affanno ideologico, morale e religioso; egli non fatica e non lavora, non entrando quindi nel circolo della produzione e del consumo di massa che tanto aborrisce. Secondo Giancarlo Maresca:“Interrompe una catena infinita di deleghe che l'individuo rilascia al gruppo ed il gruppo ad altri gruppi, assumendo su di sé ogni responsabilità”.
Simile allo snob, il dandy è tuttavia estremamente individualista, rifiuta l’idea d’appartenenza a una classe o a un circolo: egli è al centro di se stesso, uomo vitruviano senza preconcetti o idoli da imitare. Lo snob è stimolato dal manicheismo (questi accetta o rifiuta la moda o un’opinione o una persona in quanto appartenente ad un dato settore sociale ed economico), mentre il dandy verifica la bellezza dall’effetto e non dalla firma; il suo estremo individualismo lo rende più libero di spaziare in campi inesplorati, in atteggiamenti che uno snob riterrebbe sconvenienti e che al dandy donano nella massima misura.
Barbey d’Aurevilly affermava che il dandy è indefinibile; questi è, di fatto, un’astrazione talmente pura che, se non fosse evidente ieri come oggi, potremmo dire tranquillamente di averlo solo immaginato.
[caption id="attachment_7616" align="aligncenter" width="1113"] A sinistra Charles Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, nel 1862. Nell'immagine di destra una caricatura di Isaac Robert Cruikshank. sull'anatomia della "tribù dei dandy" del 1818.[/caption]
Il dandismo ha avuto protagonisti in varie epoche e dimensioni artistiche, sociali e politiche: sebbene si sia più volte trasformato nelle apparenze, non ha mai variato la sua sostanza, o filosofia di base. Per questo è sempre attuale parlare di dandismo, e per farlo iniziamo con una citazione tratta da “Tragedia e attualità del dandy”, articolo di Jervé a cura di Gustavo Alberto Palumbo del 13 Maggio 2011 sulla testata virtuale «Iconicon»:
Per quale motivo dovremmo giudicare ultracontemporaneo un movimento al quale molti attingono, per i fini più disparati, pur giudicandolo però in definitiva solo una simpatica ma datata bizzarria dell'Inghilterra vittoriana, un'etica dell'eccentricità, nata già vecchia perché intrisa della nostalgia di un'età dell'oro ideale, in contrapposizione all'orrendo avanzare di quella modernità che degrada a prostituta la Dea Bellezza? Per un motivo tanto semplice quanto tassativo: perché la figura del Dandy è fatta della stessa materia della Tragedia. Il Dandismo è tutt'altro che una patetica gardenia aulente all'occhiello del pensiero di fine Ottocento, è un futuribile pugnale di cristallo affondato nel ventre molle dell'attuale pensiero Mainstream. Allora c'erano i borghesi benpensanti da scandalizzare, per chi consacrava la propria vita all'arte, oggi c'è la trasversalissima categoria dei Mainstreamer – gli individui immersi nel flusso – da scuotere per tentarne un possibile risveglio dall’ipnosi preconfezionata che il pensiero unificato dei media diffonde in modo strisciante".
Un dandy moderno, volendo mantenere il giusto equilibrio tra eccentricità e basilare eleganza, non disprezzerà la moda in quanto tale (se non come sistema commerciale ad uso del volgo), ma riuscirà a renderla sapientemente complice del proprio stile. Mélanges espressivi di capi moderni e di capi antichi, senza cadere nell’antiquariato se non per provocazione. L’ideale sarebbe una perfetta adesione ai canoni contemporanei, una qualità eccelsa dei materiali e del taglio, ed infine una dimostrazione di un gusto superiore, sublime, che va al di là di ciò che si vede sulle riviste e nelle strade chic delle capitali. Uno stile oltre la moda, una Übermoda.
Pare chiaro come la sartoria diventi un punto nevralgico in questa delicata costruzione di sé: gli ideali non si raggiungono che tramite sforzi sovrumani. Il dandy si accontenta di poco, dacché il sarto è il suo migliore amico e poi che il dandy sia il migliore amico del sarto - questa - è un’altra faccenda.
Il mercato del vintage permette al dandy di risparmiare, e di giocare col fascino del passato. La qualità dei prodotti vintage è spesso eccelsa, anche in quello che fu pret-a-porter; se il classico è lingua morta, abbiamo perlomeno il privilegio di poterlo parlare perfettamente, visto che è oramai impossibile a evolvere, e di prendere il meglio dalle diverse epoche passate. Si tratta di equilibri tanto delicati quanto sovente incomprensibili ai più.
Appuntando una considerazione di rilievo, alle volte il troppo retrò uccide il retrò stesso, mi spiego. Figurini del 1800 vagano per le città e in internet alla ricerca di un riconoscimento pubblico. Costoro non si limitano a un´eleganza fatta di dettagli, ma, fedeli ad un ideale di dandismo piuttosto frainteso, inalberano di tanto in tanto macroscopici cenni ad una realtà che considerano teatrale: una redingote, una bombetta, una canna da passeggio, o un monocolo. Se sono coraggiosi, tutto questo messo assieme. Altrimenti procedono per gradi, a piccoli passi. Invero, sarebbe meglio dire che questi personaggi "retrocedono". Sono gli adepti, dichiarati o inconsapevoli, del retrò per il retrò. Questi signori, che per la maggior parte godono a prendersi molto sul serio, rifiutano e demonizzano ogni contatto col mondo attuale ch’essi chiamano, con un certo livore o disprezzo, "moderno". Quasi tutti loro si credono fortemente dandy perché questo par loro il meccanismo da oliare costantemente: un incontrollabile arretrare del tempo sociale e personale. Fanno pensare a certi mobili moderni, malamente intagliati nello “stile antico”, e venduti con una vernice già scrostata ed una finta patina sugli ammennicoli dorati che non hanno mai inteso brillare.
[caption id="attachment_7618" align="aligncenter" width="1113"] A sinistra: un dipinto del pittore e scrittore Massimiliano Mocchia di Coggiola. A destra "Due secoli di storia del Politecnico" di Hervé Loilier, del 1986. In particolare l'ultimo dipinto mostra come l'eleganza era usata soprattutto anche in ambito militare.[/caption]
La figura del dandy non ha una sede fisica fissa e stabile: sicuramente le grandi città offrono molto dello stile di vita che questa figura ambisce ad avere. Il dandy deve solo scegliere ciò di cui ha voglia, seguendo le proprie disposizioni spirituali. Dunque, le capitali europee e americane come Londra, Parigi, Roma, Milano, o New York e San Francisco costituiscono sicuramente i poli di attrazione più conosciuti. Il dandy dei secoli passati eleggeva domicilio in una di queste città, preferibilmente europea per via della cultura inevitabilmente infusa in tra le pietre stesse dei palazzi. Un dandy in provincia non esiste, se non nei fine settimana (e con grande fatica), o per ragioni particolarissime. Il sonno profondo in cui dorme l'Italia è sopportabile soltanto nel considerare l'eleganza che certi luoghi emanano ancora, a sprezzo dei barbarismi atlantisti importati per comodità e gusto del facile guadagno dalle nostre parti.
A partire dai quarantacinque anni in poi, almeno così pare, è difficile convincere un adulto di aver sbagliato, di aver mal giudicato, di portare i paraocchi come i cavalli da tiro. Soddisfatti della loro vita e della loro tintarella, gli intellettuali giovanilisti (già, ché spesso lo sono loro malgrado) non hanno più l’età né il fisico per addentrarsi nelle nuove correnti sotterranee che ribollono nei club delle capitali dell’arte e della mondanità mondiale. Ecco perché il dandismo di oggi è essenzialmente affare dei giovani. E non dei “giovani sessantenni”, ma dei giovani ventenni, trentenni, quarantenni.
È mancato loro un pezzetto di educazione reazionaria: raramente sono stati accompagnati dal sarto dal papà, che aveva di meglio da fare, né la governante ha insegnato loro come tenersi a tavola, visto che la governante non l’avevano. I vecchi trovano ridicolo qualcosa che fa parte della loro infanzia, dei ricordi che hanno circa i loro genitori e i loro nonni, dei quali si sono sbarazzati gioiosamente. I giovani, non avendo vissuto tutto ciò, sono abbastanza sensibili da scorgere il lato punk dell’intera faccenda.
Quando il lavoro era inteso come produzione utile al benessere economico dello stato o alla comunità, Baudelaire rifiutava i “professionismi” e dichiara di avere in orrore l’idea di essere utile a qualcuno. L’arte, ieri come oggi, non era considerata un lavoro poiché non se ne vede l’utilità. Ma il dandy moderno - se non vive di rendita e non è un artista di fama - deve a volte scendere a patti col suo tempo; da un certo punto di vista si tratta di compromessi, da un altro si vuole suggerire un adattamento ad un ambiente ostile. Come il canguro siberiano si adatterà - grossomodo - alla giungla amazzonica, così il dandy si adatta al 2000 per non morire e perpetrare il proprio stile di vita. Che si ricorda essere un bisogno concreto, e non una posa. Ricordiamo le parole di d’Annunzio: "Io sono un animale di lusso; e il superfluo m'è necessario come il respiro". Il lavoro diventa utile al dandy, il quale rifiutando la volgarità di una vita per il lavoro e del lavoro per una vita, può e deve cambiare opinioni, ha il diritto di contraddirsi, di essere ricco e povero, e quindi di scegliere tutti gli “impieghi” che gli sono a genio. Impiegato in banca prima, stilista poi, in seguito pubblicitario, clochard, pasticciere, fotografo pornografico, ballerino, attore, opinionista e via proseguendo.
[caption id="attachment_7620" align="aligncenter" width="1000"] A destra: Richard Dighton, The Dandy Club -1818. Al centro: Toulouse-Lautrec, Ritratto di Oscar Wilde - 1884. A sinistra: Ken Yang, Narcissus - 2013[/caption]
Avviandoci verso la conclusione, vi è ancora una domanda che sovente viene posta a chi studia o pratica il dandismo. Una domanda rituale, non banale ma nemmeno tanto complessa: come reagisce un dandy moderno fronte alla tecnologia? Povere creature ridacchiano nell’osservare un uomo elegante al telefono cellulare, o scoprirne il profilo su Facebook. Dicono che “stona”. Tale reazione trova origine nell’opinione comunemente condivisa che il dandy sia un personaggio retrogrado, attaccato eccessivamente al passato - un “passato” mai ben definito -, e ansioso di riportare il proprio modus vivendi ai tempi in cui Iphone e aeroplani non esistevano ancora. Un’opinione che, dicevamo, non è avulsa da una certa ingenuità, poiché si tende a credere che tali invenzioni volgarizzino in qualche maniera la qualità della vita odierna. Ma perché? Come sempre, la sostanza sta nella differenza tra il come tali mezzi siano percepiti e utilizzati da una determinata persona, e non nei mezzi (o oggetti) in sé.
"Che dite? …E’ inutile? …Lo so! Ma non ci si batte nella speranza della vittoria! No, no, è molto più bello quando è inutile!". Così Cirano de Bergerac. La rivolta del dandy era e resterà sempre inutile, al di là della visione romantica che gli storici possono dargli, o sociologica. Che il dandy si renda conto del proprio ruolo di sovversivo non è dato sapere: nel passato probabilmente no: l’eleganza, che è fatta di dettagli, saltava agli occhi degli eleganti stessi, fossero esteti o semplici impiegati. Oggi invece, più che mai salta agli occhi lo stridente contrasto tra una bruttezza violenta, permanente, alla quale tutti paiono essersi abituati, e l’eleganza dell’esteta moderno.
Inesorabile, il dandy prosegue per la sua strada; i passanti lo fermano, a volte per ridergli in faccia, a volte perché innervositi dalla sua esistenza, a volte per complimentarsi: “Ce ne fossero ancora di persone così eleganti come lei!”, dice una signora in jeans e maglietta. Una battaglia persa è sempre più chic di una vittoria schiacciante: la triste consapevolezza di battersi per un ideale già schiacciato dalla volgare baraonda dei vincitori dà altra dignità all’estetismo odierno. Non era forse un dandy nostrano, Curzio Malaparte, a parlare dell’eleganza dei vinti?
 
Per approfondimenti:
_AA.VV., I nuovi dandies; Franco Angeli, 2006.
_B. d'Aurevilly, Del dandismo e di G. Brummell; Studio Tesi, 1994.
_H. de Balzac, Trattato della vita elegante; edizioni ETS, 1998.
_Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna; Marsilio, 1994.
_M. Beerbohm, Dandy e dandies; Studio Tesi, 1987.
_Albert Camus, L’uomo in rivolta; Bompiani, 2000.
_I. Comi, Universo figurato di un dandy; Stefanoni, 2004.
_I. Comi, George Bryan Brummell; Stefanoni, 2008.
_I. Comi, Il periglioso osare nell’ineffabile – dieci fazzoletti per un dandy; Stefanoni, 2005.
_G. Franci, Il sistema del dandy (Wilde, Beardsley, Beerbohm); Pàtron, 1977.
_R. Kempf, Dandies – Baudelaire e amici; Bompiani,1980.
_S. Lanuzza, Vita da dandy; Stampa Alternativa, 1999.
_E. Moers, Storia inimitabile del Dandy; Rizzoli, 1965.
_G. Scaraffia, Dizionario del dandy; Laterza, 1981, Sellerio 2007.
_G. Scaraffia, Gli ultimi dandies; Sellerio, 2002
 
Approfondimenti multimediali:
_(ita) http://noveporte.it/IlDandy.aspx
_(fr) Savoir-Vivre ou Mourir http://francois.darbonneau.free.fr/index.html
_(eng) The Chap http://thechap.co.uk/
_(eng) Lord Whimsy  http://www.lordwhimsy.com/
_(eng) Dandyisme.net  http://www.dandyism.net/
 
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In linea di massima possiamo affermare che con la spinta illuminista, la rivoluzione borghese e il colonialismo, nel settecento inizia un nuovo modello per la creazione della ricchezza: la nascita delle fabbriche. I pilastri del concetto teorico sono la base della nuova società di cui siamo figli.
Il sistema industriale, basato sulla produzione di beni materiali in serie, ha dominato la società occidentale sino alla fine della seconda guerra mondiale e poco oltre. Nella seconda metà del secolo scorso, il progresso tecnologico con lo sviluppo organizzativo e comunicativo, unito alla forte scolarizzazione diffusa, all’interno della globalizzazione è andato affermandosi in un nuovo modello denominato dai sociologi “post-industriale” il quale si basa sulla produzione di beni immateriali (servizi), dando origine a nuovi sistemi di economia e di lavoro.
[caption id="attachment_7592" align="aligncenter" width="1247"] Foto della galleria delle macchine all'Esposizione universale del 1900 a Parigi.[/caption]
La divisione dell’assetto mondiale della società post-industriale regge su diversi tipi di paesi, a primeggiare sono le nazioni denominate “primo mondo” in cui si producono idee le quali successivamente vengono brevettate, ed è principalmente la società dei servizi.
Proseguendo con l’analisi si trovano stati “emergenti” principalmente facenti parte degli accordi Bric e Civetas e sono da considerare i paesi “fabbrica” della terra. Per concludere, vi sono i popoli che vivono in territori dove l’accumulo di ricchezza è praticamente nullo: sono i paesi del “terzo mondo” i quali sopravvivono svendendo le materie prime - di cui paradossalmente sono i maggiori possessori -, con una subordinazione militare nei confronti del primo mondo.
Grazie alla comunicazione, ai mass media, al web e soprattutto all’economia su scala mondiale, la globalizzazione ha preso il sopravvento omologando tutti quei modelli di vita e quei sistemi politici che hanno portato alla formazione del pensiero di “fine della storia”. Se nel secolo precedente il comunismo distribuiva la ricchezza in parti uguali - avendo il deficit nell’incapacità produttiva - il sistema capitalista ha prodotto ricchezza, senza essere in grado di ridistribuirla.
La nostra “storia” prosegue e nuove sintesi sono in via di sviluppo in un mondo sempre più devastato da guerre e migrazioni; consapevoli che la crescita non si è conclusa - in quanto il mondo è “finito” e globalizzato, con lo sviluppo dei paesi emergenti sempre più rapido - ma va operata una modalità di “decrescita” controllata.
Credere nella crescita e nell’aumento del PIL è sciocco, soprattutto per i paesi senza materie prime. I dati economici degli ultimi anni di tutto il continente europeo parlano chiaro: la crescita del lavoro è fittizia e basata unicamente sulla perdita di diritti, come dell’abbassamento dei salari. Grazie alla tecnica - dal greco τέχνη (téchne), "arte" nel senso di "perizia", "saper fare", "saper operare" - oggi è possibile promuovere un modello differente dove le ore lavoro possano essere minori. Il lavoro dovrebbe essere suddiviso tra lavoratori e disoccupati e insieme ad una nuova concezione basata su comunità e decrescita si arriverebbe a una nuova società improntata non più sulla diseguaglianza e l’esclusione, ma sull’inclusione e l’appartenenza alla propria comunità.
 
Per approfondimenti:
_Pertosa, Pallante, Solo una Decrescita Felice (Selettiva e Guidata) ci può Salvare - Edizioni Lindau
_Serge Latouche, La scommessa della decrescita - Edizioni Feltrinelli
_Massimo Fini, Il denaro «Sterco del demonio»
_Valentina Pazé, Il comunitarismo - Edizioni la terza
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1485247431265{padding-bottom: 15px !important;}"]Kuhn. Le rivoluzioni animano la scienza[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Serra 24/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1485246805043{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Una delle principali questioni sollevate da Thomas S. Kuhn[1] riguarda la crescita della conoscenza scientifica. L’interesse del filosofo americano è rivolto, in primo luogo, al procedere della scienza. Questo è, per dirla con le parole di Karl Popper, il problema centrale dell’epistemologia. L’attenzione è posta al processo dinamico di acquisizione della conoscenza scientifica piuttosto che alla struttura logica dei prodotti della scienza. La grande domanda, in definitiva, che alimenta il pensiero kuhniano è la seguente: Come si sviluppa (cresce) la conoscenza scientifica?
È soprattutto in un’opera pubblicata per la prima volta nel 1962, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009), che Kuhn argomenta e definisce la risposta al suo quesito. Già nel titolo del libro è ben evidente la posizione assunta. La scienza, ovvero, invece di progredire gradualmente, si sviluppa attraverso rivoluzioni periodiche. La tesi sostenuta da Kuhn intende rifiutare ogni forma di “presentismo” che vuole concepire la scienza come un processo diretto verso una ovvia direzione, scontata, lineare e cumulativa. La provocazione del filosofo, secondo la quale nella scienza non v’è nulla di scontato, è poi il senso autentico della sua riflessione.
[caption id="attachment_7568" align="aligncenter" width="1000"] Thomas Samuel Kuhn (Cincinnati, 18 luglio 1922 – Cambridge, 17 giugno 1996) è stato uno storico e filosofo statunitense.
Epistemologo, scrisse diversi saggi di storia della scienza, sviluppando alcune fondamentali nozioni di filosofia della scienza. Formulò un'epistemologia alternativa a quella del falsificazionismo di Karl Popper, suo principale bersaglio polemico.[/caption]
Il lavoro di Kuhn è arduo e faticoso, dal momento che ha come intento la trasformazione dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati. Egli si muove in maniera delicata, come un chirurgo o come un profeta, nel tentativo di scacciare via un vecchio e resistente pregiudizio, lo stereotipo della scienza come sapere cumulativo. Per centrare l’obiettivo, il professore invita a riconsiderare il ruolo della storia. A lui va il merito di aver inserito il fattore storico in contesto scientifico. A tal proposito, il primo capitolo de La struttura delle rivoluzioni scientifiche - capitolo introduttivo dedicato alla ricerca storica - si apre in questa maniera:
«La storia, se fosse considerata come qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati. Fino ad oggi questa immagine è stata ricavata, anche dagli stessi scienziati, principalmente dallo studio dei risultati scientifici definiti quali essi si trovano registrati nei classici della scienza e più recentemente nei manuali scientifici, dai quali ogni nuova generazione di scienziati impara la pratica del proprio mestiere. È però inevitabile che i libri di tal genere abbiano uno scopo persuasivo e pedagogico: una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione ricavata da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua. Questo saggio cerca di mostrare che essi ci hanno portati a fraintendimenti fondamentali. Il suo scopo è quello di abbozzare una concezione assai diversa della scienza, quale emerge dalla documentazione storica della stessa attività di ricerca» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 19).
Kuhn, nella sua opera, esordisce lanciando una dura accusa alla comunità degli scienziati, colpevole di aver reso la scienza una “costellazione di fatti, teorie e metodi” riportati e contenuti nei manuali scientifici correnti. La critica nei confronti di questi lavori scientifici è serrata poiché essi «sembrano spesso implicare che il contenuto della scienza sia esemplificato unicamente dalle osservazioni, dalle leggi e dalle teorie descritte nelle loro pagine»[2]. I manuali scientifici, riproducendo una storia della scienza, hanno contribuito a generare una concezione di scienza basata sull’idea di “sviluppo per accumulazione”, trattando in maniera insufficiente certe questioni scientifiche che meritano invece d’essere osservate con uno sguardo più aperto e meno rigido. Così, al fine di riprodurre fedelmente una storia della scienza, chi si è occupato dello sviluppo scientifico ha sempre determinato quando è stato scoperto o inventato un fatto, una legge o una teoria scientifica e chi è stato l’artefice o l’autore di tale scoperta o invenzione. Tuttavia, recentemente:
«Alcuni storici della scienza hanno trovato sempre più difficile adeguarsi ai compiti che il concetto di sviluppo per accumulazione assegna loro. Come cronisti di un processo incrementale, essi scoprono che ulteriori ricerche rendono più difficile, non più facile, rispondere a domande come; Quando fu scoperto l’ossigeno? Chi fu il primo a concepire l’idea di conservazione dell’energia? Alcuni di loro sospettano in misura sempre maggiore che, semplicemente, è sbagliato fare domande di questo genere. Forse la scienza non si sviluppa per accumulazione di singole scoperte e teorie» (ibidem).
Ad essere rifiutata da Kuhn è la tesi secondo la quale lo sviluppo della scienza procede per accumulazione, cioè per accumulazione di singole scoperte ed invenzioni. Ed è rigettando questo punto fermo della vecchia tradizione storiografica che il filosofo delinea una nuova immagine della scienza, un’immagine che tiene conto di svariati fattori singolari, da quello psicologico a quello sociologico. Un’immagine di scienza, dunque, che costringe inevitabilmente all’interrogazione circa il concetto di verità scientifica.
La domanda che rimane alla base del pensiero kuhniano è sempre la medesima: Come cresce la conoscenza scientifica? Nel tentativo di risposta, Kuhn pone in essere la distinzione tra “scienza normale” e “scienza rivoluzionaria (o straordinaria)”. Alla base della cosiddetta “scienza normale” c’è il concetto di paradigma, una sorta di modello o schema accettato dalla comunità scientifica. Esso ha a che fare con la fondazione della teoria scientifica, è in qualche modo il suo veicolo: «Con la scelta di questo termine [paradigma] ho voluto far presente il fatto che alcuni esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come validi - esempi che comprendono globalmente leggi, teorie, applicazioni e strumenti - forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza» (ivi, p. 30). Kuhn, è bene specificarlo, utilizza in diverse accezioni il termine paradigma: a) risultato in grado di attirare gruppi di studiosi appartenenti a diverse scuole di pensiero; b) risultato che genera dei “rompicapo”, cioè dei problemi da risolvere per la nuova comunità scientifica; c) teoria che risulta essere migliore rispetto a quella con cui è in competizione; d) come una sentenza emessa da un giudice che dà luogo ad ulteriori articolazioni e specificazioni. I paradigmi forniscono agli scienziati non soltanto un modello, ma anche delle indicazioni essenziali per costruire un modello. In ogni caso, i paradigmi secondo Kuhn non sono delle regole e non sono degli algoritmi: «Le regole, suggerisco, derivano dai paradigmi, ma i paradigmi possono guidare la ricerca anche in assenza di regole» (ivi, p. 64). Essi determinano teorie e metodi. Così, «allorché impara un paradigma, lo scienziato acquisisce teorie, metodi e criteri tutti assieme, di solito in una mescolanza inestricabile. Perciò quando i paradigmi mutano, si verificano di solito importanti cambiamenti nei criteri che determinano la legittimità sia dei problemi che delle soluzioni proposte» (ivi, p. 138).
Per cogliere in pieno questa concezione, in una delle pagine più accattivanti della sua opera [La struttura delle rivoluzioni scientifiche], Kuhn rivolge l’attenzione all’osservazione del fenomeno del “corpo oscillante”:
«Fin dalla remota antichità molti avevano visto che un qualunque corpo pesante, appeso a una corda o a una catena, oscilla avanti e indietro fino a raggiungere alla fine uno stato di quiete. Per gli aristotelici, che credevano che un corpo pesante si muovesse per sua natura da una posizione più elevata verso uno stato di riposo naturale in una posizione più bassa, un corpo oscillante era semplicemente un corpo che cadeva con difficoltà. Vincolato dalla catena, esso poteva raggiungere lo stato di riposo nel suo punto più basso soltanto dopo un movimento tortuoso e un periodo di tempo considerevole. Galileo invece, quando guardò un corpo oscillante, vide un pendolo, ossia un corpo che quasi riusciva a ripetere lo stesso movimento più e più volte all’infinito. Dopo aver osservato attentamente il fenomeno, Galileo notò anche molte altre proprietà del pendolo e sulla loro base costruì alcune delle parti più importanti ed originali della sua nuova dinamica» (ivi, p. 148).
Con questo esempio, il filosofo americano denota come lo stesso fenomeno - l’oscillamento di un corpo pesante, appeso a una corda o una catena - viene “visto” e “analizzato” dagli osservatori in maniera diversa. Come se ci fossero delle distinte prospettive, diverse interpretazioni della realtà. Per gli aristotelici, il corpo oscillante è un corpo che cade in terra con difficoltà. Alla base di questa convinzione c’è la tesi secondo la quale un corpo pesante si muove naturalmente dall’alto verso uno stato di riposo in basso. Per Galilei, invece, il corpo oscillante è il pendolo che ripete lo stesso movimento più volte. Gli aristotelici e Galilei vedevano differentemente quello stesso fenomeno naturale. V’erano due concezioni interpretative del e sul mondo naturale. Cambiava il paradigma e, nel passaggio dall’uno all’altro paradigma, si verificavano degli importanti cambiamenti in quei criteri che determinavano la legittimità del problema e delle soluzioni proposte.
La “scienza normale” è per Kuhn, in linea di massima, quell’attività che una determinata comunità scientifica svolge accettando ed adottando certe assunzioni e paradigmi. È una ricerca basata su paradigmi:
«In questo saggio, ‘scienza normale’ significa una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore» (ivi, p. 29).
Lo sviluppo della “scienza normale” è preceduto da un periodo preparadigmatico; è la fase belligerante della lotta di tutti contro tutti. Il ruolo del conflitto è da Kuhn rivalutato. Sono, d’altronde, le controversie scientifiche ad alimentare la conoscenza. Esse conducono all’abbandono di una teoria accettata precedentemente o all’adozione di una nuova. Il periodo preparadigmatico «è regolarmente contrassegnato da frequenti e profonde discussioni circa la legittimità di certi metodi, problemi e modelli di soluzione, sebbene tali discussioni servano piuttosto a definire scuole che a produrre un accordo» (ivi, p. 70). Qui si sviluppa un vivace confronto fra scuole e sottoscuole scientifiche in competizione tra loro: ciascuna di esse difende questa o quella teoria. La “scienza normale” compare allorquando la competizione si conclude con la vittoria di una posizione (di una scuola) sulle altre. Questo periodo di “scienza normale” è, potremmo dire, un periodo di pace ed armonia non destinato comunque a durare per sempre. La crescita della “scienza normale”, che è una crescita cumulativa per gradi, è scossa ed interrotta dalla potenza di una rivoluzione o crisi, ossia da una fase in cui la conoscenza non cresce più in modo cumulativo poiché si mettono in discussione e cambiano quegli elementi significativi che progredivano gradualmente nel periodo di “scienza normale”. Con la fase di “scienza rivoluzionaria” è il significato dei termini in gioco a cambiare. Nel momento in cui cominciano a sorgere dubbi sui paradigmi che costituiscono quella determinata posizione, si crea un nuovo periodo rivoluzionario che smembra ad uno ad uno tutti gli elementi di “verità” che avevano permesso a quella determinata posizione di imporsi. La conoscenza scientifica cresce in modo rivoluzionario quando una vecchia teoria viene scartata a favore di una nuova teoria del tutto differente ed incompatibile con la precedente. Quando una teoria è incapace di soddisfare le sfide a lei poste dalla logica, dall’esperimento o dall’osservazione si verifica quella che Kuhn chiama “rivoluzione scientifica”. La “scienza rivoluzionaria” dà l’input per l’affermarsi di una nuova fase di contrasto, un nuovo scontro preparadigmatico tra posizioni teoriche differenti. Uno scontro che si chiude, come al solito, con la vittoria di una posizione sull’altra, con un cambiamento, un nuovo modo di vedere il mondo. E così via, ciclicamente. La conoscenza scientifica è fortemente animata dalla rivoluzione, dalla crisi che permette di rivalutare e riporre in questione teorie ed idee riconosciute ed affermate in precedenza. All’inizio del XX secolo, il matematico Vito Volterra, il creatore della teoria delle “funzioni di linea”, scrive:
«Quasi tutte le discipline scientifiche attraversano oggi una grande crisi, crisi delle condizioni in cui si elaborano, crisi del pensiero filosofico che le informa. Forse agli occhi dei nostri posteri il momento storico attuale apparirà a noi come quello del Rinascimento, in cui il concetto del sistema del mondo cambiò la base stessa su cui erra poggiato […] Questa crisi si riverbera su tutte le scienze della natura; e intanto, così in cielo come in terra, mille cose si rivelano che la filosofia non sognava: dall’azione della luce sul movimento degli astri alle nuove fonti del calore terrestre» (V. Volterra, Saggi scientifici, Zanichelli, Bologna 1990, pp. 108-111).
La crisi, secondo quanto scritto dallo scienziato italiano, è un processo riflessivo che distrugge e rigenera, smonta e ricostruisce, muove ed eccita, irrobustendo sempre più la ricerca scientifica. Per tale ragione, è sbagliato considerare la scienza soltanto come qualcosa di statico giacché lo sviluppo della scienza riveste il massimo interesse dal punto di vista metodologico.
[caption id="attachment_7577" align="aligncenter" width="1000"] Vito Volterra (Ancona, 3 maggio 1860 – Roma, 11 ottobre 1940) è stato un matematico, fisico e politico italiano di origine ebraica. Fu uno dei principali fondatori dell'analisi funzionale e della connessa teoria delle equazioni integrali. Il suo nome è noto soprattutto per i suoi contributi alla biologia matematica.[/caption]
La conoscenza scientifica, secondo Kuhn, cresce e si sviluppa attraverso delle fasi continue. C’è, nella crescita evolutiva della scienza, un circolo che egualmente va ripetendosi e riproponendosi: fase preparadigmatica/scienza normale/fase rivoluzionaria//fase preparadigmatica/scienza normale/fase rivoluzionaria… La scienza - il suo movimento- rispetta questo circolo complesso fatto di combattimenti ed accordi, guerra e pace, avanzate e cadute, cammini ed interruzioni che conducono a nuovi orizzonti e nuovi cammini. È questa l’immagine di scienza che Kuhn intende delineare. Una scienza non statica, non rigida o ripiegata su di sé, bensì viva, attiva ed assai dinamica. La dinamicità della scienza tocca con mano il concetto di verità. L’interpretazione che si ha della verità nella scienza è singolare. Che ne è della verità? Nell’analisi minuziosa condotta da Kuhn sembra esserci una forte spinta della verità come costrutto sociale. Non esistono dati di fatto oggettivi, definitivi. La scienza appare come luogo di interpretazioni piuttosto che luogo di fatti. A tal proposito, i concetti di “corretto”, “errore”, “razionale” non valgono universalmente, ma sono applicabili solamente all’interno di una singola teoria e non oltre. Non c’è una teoria che può dirsi assolutamente corretta; allo stesso tempo, non c’è una teoria succube dell’errore. Le teorie sono incommensurabili, ciascuna ha in sé una natura peculiare ed originale. Aristotele e Galilei avevano delle interpretazioni differenti. Le loro prospettive e le soluzioni proposte ai problemi erano diverse. Ma, seguendo il lavoro realizzato da Kuhn, nessuno può dirsi “più scienziato” dell’altro, nessuno dei due ha pienamente ragione o torto. Dove Aristotele vede un corpo che cade in terra con difficoltà, Galilei vede il pendolo; dove Priestley vede l’ossigeno come aria deflogisticata, Lavoisier vede l’ossigeno come una delle componenti dell’aria. Aristotele e Galilei, Priestley e Lavoisier hanno vissuto in tempi e mondi diversi. Ciascuno, secondo i propri mezzi e schemi interpretativi, ha colto degli aspetti e dei caratteri unici del mondo naturale. La verità non è un concetto assoluto, ma storico e plastico, un seme che attraversa la storia. Segue le visioni e le percezioni degli scienziati. La verità è sempre in cammino, segnata e soggiornata dal tempo, dall’evoluzione, dalle tecniche, dalla storia.
 
Note
[1] Thomas S. Kuhn (1922-1996) è stato professore di Storia della scienza e di Filosofia della scienza nelle prestigiose università di Harvard, Berkeley, Princeton e al M.I.T. Tra i suoi testi, Logica della scoperta o psicologia della ricerca? (1970); La rivoluzione copernicana (1972); Critica e crescita della conoscenza (1976).
 
Per approfondimenti:
_Gillies, Giorello, La filosofia della scienza del XX secolo, Laterza, Roma 2010
_Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, Il Saggiatore, Milano 1987
_S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009
_Volterra, Saggi scientifici, Zanichelli, Bologna 1990
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