[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1488279035406{padding-bottom: 15px !important;}"]Il patriota Marc Bloch: lo storico che amò la verità[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 28/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1488278724206{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nel campo accademico della storiografia Marc Léopold Benjamin Bloch è una leggenda, sia per quello che è stato in vita, ma anche per come ci ha lasciato. Lo storico francese sembrava il perfetto borghese del novecento: pacato, con baffi e occhialini tondi da intellettuale. Diversamente dietro l’apparenza – come vedremo – vi era qualcosa di inaspettato. Marc Bloch nasce nel 1886 a Lione, per via di suo padre – professore all’università - e quasi subito si trasferisce a Parigi: patria per eccellenza nel campo dell’istruzione.
Il giovane ragazzo cresce nel clima parigino, dove studia in uno dei grandi licei della capitale, il “Louis-le-Grand” e successivamente entra presso “l’École normale supérieure”. Tutto è nella norma, tranne un dettaglio: quel cognome che suona tedesco: Bloch. Difatti proviene dall’Alsazia (Alsace) e la famiglia dello storico è di origine ebraica: quando nel 1870, dopo la guerra franco-prussiana, il Reich tedesco si impadronisce dell’Alsazia e della Lorena. Ai cittadini francesi viene offerta l’opzione di rimanere (acquisendo la cittadinanza tedesca) o andarsene e restare francesi. La famiglia Bloch decide di tornare in Francia. Sono francesi al 100% i Bloch, sono ebrei , ma l’origine ebraica non viene assolutamente avvertita come elemento di rilievo all’interno dell’identità famigliare.
A ventotto anni Marc Bloch è professore di liceo, ha già fatto il servizio militare ed è sergente della riserva, ma gli eventi storici iniziano ad entrare nella vita di questo straordinario personaggio: siamo nel 1914 e scoppia il primo conflitto mondiale. Marc viene mobilitato come sergente di fanteria e combatte tutta la guerra fino al 1918, raggiungendo il grado di capitano. All’interno della gerarchia militare iniziare la carriera da semplice sergente ed essere promosso a rango di capitano, significa aver operato una brillante carriera e essere propensi per il mestiere di soldato, tanto che nei quattro anni di trincea viene citato per ben quattro volte per atti di valore all’ordine del giorno. Aver combattuto al fronte, significa avere vissuto le atrocità della guerra e Bloch nei suoi diari ricorderà con lucidità anche i dettagli più crudi: “quando la pallottola colpisce il cranio da una determinata angolatura, lo fa esplodere. In questo modo morì il mio amico Luis: metà del volto pendeva come un’imposta scardinata e si vedeva l’interno della scatola cranica, quasi vuota. Con un asciugamano ricoprii quell’orribile ferita: volevo nasconderla ai miei soldati. (…) I contadini e gli operai, considerati dei «duri» spesso sono particolarmente impressionabili. Da parte mia sopporto senza troppe difficoltà gli spettacoli cruenti”.
[caption id="attachment_7988" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini da sinistra verso destra: il sergente Marc Bloch nel 1914 in posa per una foto; Il capitano Bloch (il secondo da sinistra) in una foto con altri ufficiali d'armata; soldati francesi posano in una foto nel 1918 a conflitto terminato.[/caption]
Nel 1918 concluso il conflitto, viene smobilitato e riporta dalla guerra una salute compromessa: ferito leggermente due volte, in cinque mesi di trincea ha contratto il tifo che gli lascerà un’artrite alle mani – portata dietro tutta la vita – che gli renderanno difficoltoso il suo mestiere di storico e scrittore. Il bagaglio di esperienze portate dalla guerra gli saranno utilissime per il suo mestiere. Ha constatato quanto è labile la memoria umana: lo storico avrà difficoltà a ricordare esattamente tutti i suoi ricordi del fronte, presenti come tanti fotogrammi inseriti in punti diversi della memoria, che gli impediscono di ricostruire un filo mnemonico completo. Dalle sue riflessioni nascerà un problema comune a molti storici nella ricostruzione degli eventi, poiché lo studioso fonda i suoi documenti su i ricordi degli individui e su come sono stati scritti. Marc Bloch metterà in dubbio proprio la “testimonianza storica” delle fonti.
Insieme all’amico e collega Lucien Febvre fonderà la rivista Les Annales (“Annales d'histoire économique et sociale”), probabilmente, il più importante raggruppamento di storici francesi del XX secolo, che divenne celebre per aver introdotto rilevanti innovazioni metodologiche nella storiografia (nouvelle histoire).
I due amici spesso avevano accese discussioni: “gli storici sono giudici istruttori” - asseriva dire Bloch -, dove lo storico è colui che conduce un’inchiesta, mentre Lucien Febvre ribatteva come a livello accademico, gli storici non dovevano “giudicare”, ma descrivere. Asserì in una sua famosa frase: “Il bravo storico, assomiglia all’orco delle leggende: quando sente odore di carne umana, sa che lì c’è la sua preda”.
Altra indagine importante è quella sulle false notizie in tempo di guerra: il francese inizia una ricerca sulla metodologia usata dalle truppe riguardo il giudizio valutativo degli accadimenti bellici, poiché quando un evento quadra con i pregiudizi di una persona, questa inizia a credere alle contingenze, le quali corrispondono alla sua aspettativa. Questo agire è di grande rilievo nella storia accademica di tale mestiere, poiché significava porsi delle domanda, che all’epoca non erano mai state concepite: non si discute sui “fatti”, ma sulla psicologia collettiva. Come ragiona l’individuo? E’ un problema storico. Uno dei grandi saggi di Bloch, scritti dopo il primo conflitto mondiale, si intitola “I Re Taumaturghi” dove si analizza la credenza collettiva: in passato le persone credevano che i Re di Francia potessero curare una certa malattia (la scrofola) toccando i malati. Regolarmente – fino alla fine del settecento – i Re di Francia inscenavano queste cerimonie in cui venivano i malati, i quali venivano “toccati” dal Re, e vi era sempre qualcuno che “guariva”. Prima di Marc Bloch gli storici asserivano che tali questioni fossero meramente popolari e di carattere superstizioso: di poco interesse in ambito accademico.
Altra questione di rilievo per lo storico di Lione è il contatto con il popolo francese: in guerra Bloch – da intellettuale parigino – incontra contadini e minatori, già scossi per via dell’invasione tedesca della Francia, fermata poi con la battaglia della Marna. L’effetto dei profughi francesi che si ritirano dai territori occupati dai tedeschi gli farà avere un senso di colpa molto forte: “questi contadini di Francia, in fuga da un nemico da cui non potevamo proteggerli”.
Bloch, il militare che sta perdendo la grande guerra, si sente responsabile verso una popolazione civile che non può difendere e da quel momento la sua attenzione è rivolta verso i ceti meno abbienti della società. Era rispettoso verso le persone meno fortunate di lui, che non avevano studiato, ma che sapevano ragionare e vivevano il mondo con la loro intelligenza. Osservare, dunque, il mondo con altri occhi: ragionare con il punto di vista degli altri, per giustificare usi e costumi diversi, per capire le differenze fra agricolture, architetture e prodotti enogastronomici. La ricerca di Bloch scende nel dettaglio: dagli attrezzi utilizzati nei campi – con differente posizione geografica – al modo di lavorare diverso che spaziava da regione a regione. Si poneva domande semplici come conoscere la fisionomia di un aratro medievale e venire a conoscenza del periodo in cui il manufatto si evolve e di conseguenza cambia. Sono domande che oggi possono sembrare banali, ma nel dato periodo storico non lo erano affatto. Il primo ventennio del novecento è un periodo epocale per la storiografia e Marc Bloch è un protagonista di questo rinnovamento accademico.
Conclusosi il conflitto, in Europa si apre un mondo nuovo: durante la pace gli viene assegnata la cattedra all’università di Strasburgo – nell’Alsazia recuperata ai tedeschi – e rimarrà nella cittadina per quasi tutta la sua vita. A Strasburgo nel 1929, Marc Bloch e Lucien Febvre pubblicano il primo numero della già citata rivista de “Les Annales” all’interno della quale si sforzano – insieme ad altri storici di comprovato valore – di creare l’innovazione in campo accademico storiografico. La storia economica entra al centro della questione accademica: prezzi, monete, lavoro. Lo storico abbraccia un campo di studio più grande, grazie a Bloch: deve conoscere l’economia, deve comprendere la differenza fra i gruppi sociali, deve divenire antropologo; insomma si vuole porre un freno alla separazione delle discipline. Altro scopo che la rivista si poneva era l’abbattimento delle barriere ideologiche e dei pregiudizi storici, come ad esempio il medioevo da sempre considerato “un evo oscuro”. Allo studio dello storico interessa tutto.
[caption id="attachment_7989" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini da sinistra a destra: Marc Bloch, Lucien Febvre e un numero della rivista "Les Annales".[/caption]
Sempre alla fine della guerra Bloch si sposa – siamo nel 1919 – con una ragazza ricchissima e molto bella - anche lei ebrea - Simone Vidal e sarà un matrimonio felice dal quale saranno concepiti sei figli. La famiglia dello storico francese appartiene all’alta borghesia che all’epoca significava possedere tre persone di servizio in casa – la cuoca, la domestica, la bambinaia -, possedere un automobile e una casa di campagna (tra la città e la campagna vi era molto distacco), avere il telefono (lo possedevano negli anni venti pochissimi fortunati). La vita di campagna oggi non esiste più, così come la poteva concepire uno storico dell’epoca, il quale lavorava – chiuso nel suo studio – tutta la giornata per apparire solo a colazione e a pranzo, essendo aiutato soltanto dalla moglie nella stesura a macchina dei suoi scritti. La figura della moglie all’epoca, diveniva per lo storico fondamentale poiché questa rileggeva e scriveva in bella tutto l’immenso lavoro prodotto dal marito: oggi non è più così, tranne rarissimi casi.
Arrivano così gli anni trenta e nessun europeo in questo periodo storico può vivere – specialmente un intellettuale che conosce gli eventi geopolitici – una vita serena, senza apprendere i grandi mutamenti europei con l’affermazione del partito nazionalsocialista in Germania.
Solo alla metà degli anni trenta Marc Bloch comprende come il suo cognome – fuori dalla Francia – può creargli alcuni problemi, data la sua origine ebraica. Nel frattempo vorrebbe trasferirsi al “Collège de France” la massima università parigina per l’epoca. Il Collegio è l’espressione della libertà dello studioso e del sapere: si occupa di ricerche in campo storiografico e filologico, ma anche nelle discipline della fisica, della matematica, della chimica, delle scienze della terra, della psicologia cognitiva e della filosofia, spesso con intenti interdisciplinari. I suoi insegnamenti non sono diretti solo ad altri professori e ricercatori, ma rivolti a chiunque desideri seguire i suoi corsi. Nel vocabolario del Collège de France si afferma che i professori non hanno studenti ma solo uditori. Ma una volta mosse le prime telefonate e dialogato con alcune persone in grado di far scegliere lo storico nella prossima investitura universitaria (la scelta avviene per cooptazione) gli viene spesso riferito che la causa di eventuali ritardi sulla nomina è dovuta al suo cognome: ci sono troppi ebrei nel collegio. In una sua corrispondenza con Febvre affermerà: “Si, è proprio vero. Nel nostro paese sta tornando l’antisemitismo”. Lo storico si interroga anche sul suo essere ebreo, elemento etnico fino all’ora non considerato affatto, ma con il quale fare i conti; continua ancora con Febvre: “Sono ebreo, se non per la religione che non pratico – come non ne pratico nessuna -, almeno per nascita. Non ne traggo né orgoglio, né vergogna perché sono, spero, abbastanza buono storico da sapere che le predisposizioni razziali sono un mito. Non rivendico mai la mia origine tranne quando mi trovo davanti ad un antisemita”.
In Francia si ha il timore di una installazione totalitaria, come già era avvenuta nella stragrande maggioranza dei paesi europei. “Di questo passo ci faranno finire come Matteotti” asserì una volta al suo amico e collega francese di stanza a Parigi. Nel 1933 la dittatura – oltre che in Italia, Spagna, Portogallo e altri paesi europei – arriva anche in Germania: Strasburgo è sul confine tedesco e si possono osservare le sfilate naziste al di la del fiume. La sensazione da parte di Bloch è di vivere in un epoca che sta scivolando verso l’abisso dell’ennesima guerra civile europea, accorgersi che sta arrivando qualcosa di spaventoso e non si capisce bene come comportarsi nel merito.
In Francia il clima politico è pesantissimo: nel 1934 ci sono manifestazioni di piazza della destra che rovesciano il governo e molti hanno paura di essere ad un passo dall’italiana “Marcia su Roma”. Dirà sempre Bloch nelle sue lettere: “Nei licei si compra una pistola per dieci franchi”.
Ma che idee politiche ha Marc Bloch? Suo figlio Etienne sostiene di non conoscere le idee politiche del padre, ma ipotizza che sia stato un uomo di sinistra, ma era altrettanto un uomo d’ordine. In linea più generale il personaggio di Bloch nella società è inquadrabile nella borghesia, la quale non fa politica perché è ricca, il loro ceto sociale è tutto di destra, ma poco assoggettabile allo strumento della propaganda, perché colto e indipendente. Sicuramente non sono comunisti, perché hanno orrore del dogmatismo, ma hanno il senso dei movimenti popolari, delle ingiustizie sociali. La risultante di tutta questa descrizione è - agli occhi del suo mondo - l'etichettatura a “rosso”: in quell’epoca si doveva “stare” da una parte o dall’altra: se non si apparteneva all’esercito e se non si facevano proprie idee nazionaliste, allora si diventava automaticamente un “rosso”.
Lettera del dicembre 1935: “Non essendo profeta, non so dove sarò nell’agosto del 1938. Voglio dire in che mondo e se in questo, sotto che cielo o magari in che rifugio anti-aereo o in un campo di concentramento. La vita con i tempi che corrono non abbonda in certezze”.
Altra lettera del 1937, da Londra: “Vorrei vedere impiccare Mussolini, Hitler e Laval (quest’ultimo è il filo-fascista francese, vissuto durante la terza repubblica della Francia). Non succederà e in fondo sarebbe una magra consolazione: uno nel suo angolino, non vede modo di far niente. Mi scusi per questi discorsi inutili, meglio lavorare, penso”. In questo momento fra le due guerre arriva l’interrogativo dello storico, addentro al corso degli eventi, con il suo sentirsi inutile, ma soprattutto la non consapevolezza di come poter operare.
Si arriva, inesorabilmente, al secondo conflitto (1939) e il capitano Marc Bloch viene richiamato per fare la guerra. Dopo la capitolazione dello stato retto dai militari in Polonia, dal settembre 1939 al maggio del 1940 lo schieramento tedesco e quello anglo-francese si osservano senza sparare un colpo.
Lo storico di Lione, potrebbe farsi esentare poiché ha cinquanta anni e possiede sei figli, ma non vuole chiedere l’esonero e va in guerra – non più in trincea – nello stato maggiore dell’armata. Anche qui, non perderà il suo consueto umorismo: “Devo essere il capitano più vecchio dell’esercito francese” dichiarerà agli amici. Sarà sistemato in ufficio, inizialmente come ufficiale di collegamento con il corpo di spedizione inglese, e successivamente gestirà tutti i rifornimenti di benzina di una armata: un compito di grande responsabilità e competenza.
Come già dimostratosi nel primo conflitto, all’interno dell’elemento bellico, il capitano Bloch si trova nel suo ambiente e tutto quello che opera, lo compie con magistrale disinvoltura. Passano i primi mesi e arriviamo al 1940 dove l’umore delle truppe francesi – dopo mesi di attesa – si guasta tra pensieri di troppo e mancanza di certezze: “Qui si vive nella noia più totale, nell’attesa di qualche cosa. Magari spaventoso, ma che renda un po’ meno assurda la nostra esistenza qui”. Il 10 maggio 1940 i tedeschi attaccano e nel giro di pochi giorni sbaragliano l’esercito francese: sfondano il fronte, invadono la Francia e gran parte dell’esercito – compresa l’armata, dove Bloch è stanziato – si trova circondato dalla wehrmacht. I francesi compiono una ritirata frenetica, per arrivare ad un porto qualunque e imbarcarsi per mettersi in salvo dai tedeschi che incalzano. Arriveranno a Dunkerque, dove la flotta inglese effettivamente riesce a salvare e a portare in Inghilterra gran parte delle forze franco-britanniche circondate da quella che gli storici definirono “La guerra lampo”.
[caption id="attachment_7991" align="aligncenter" width="1000"] Due fotogrammi: Il primo rappresenta un momento cruciale del film "Suite francese" (Suite française) del 2014 diretto da Saul Dibb, basato sulla seconda parte - intitolata Dolce - dell'omonimo romanzo di Irène Némirovsky, pubblicato postumo nel 2004, a più di sessant'anni dalla sua stesura. Viene rappresentato l'evento in cui la wehrmacht reimposta il fuso orario francese, modificandolo con quello tedesco: un simbolo dell'occupazione tedesca del 1940. Nella seconda immagine la motorizzata tedesca sfila, passando sotto l'arco di Trionfo a Parigi.[/caption]
La scrittrice ucraina, naturalizzata francese Irène Némirovsky, scriverà nel suo romanzo capolavoro “Suite francese” l'evento della disfatta, ponendo la questione sotto un profilo "umano" dell'invasore: “Non erano ancora i tedeschi ad arrivare, ma UN tedesco: il primo. Dietro le porte sprangate, dagli spiragli delle imposte socchiuse o dall'abbaino di un solaio, tutto il paese lo guardava avanzare. Il soldato fermò la motocicletta sulla piazza deserta; portava i guanti, un'uniforme verde e un elmetto con visiera sotto il quale, quando alzò la testa, apparve un volto roseo, magro, quasi infantile. «Come è giovane!» sussurrarono le donne. Inconsciamente si aspettavano una qualche visione apocalittica, un qualche mostro orrendo. Il tedesco scrutava tutto intento alla ricerca di qualcuno. Allora il tabaccaio che aveva fatto la campagna del '14 e sul risvolto della vecchia giacca grigia portava una croce di guerra e la medaglia militare, si fece incontro al nemico. Per un attimo i due uomini restarono immobili, l'uno di fronte all'altro, senza parlare. Poi il tedesco mostro la sigaretta che teneva in mano e chiese del fuoco in cattivo francese. Il tabaccaio rispose in cattivo tedesco giacché aveva preso parte alla occupazione di Mainz nel '18. Il silenzio era tale (tutto il villaggio tratteneva il respiro) che si coglieva ogni loro parola. Il tedesco domandò la strada. Il francese rispose, poi fattosi coraggio: «E' stato firmato l'armistizio?». Il tedesco allargò le braccia. «Non lo sappiamo ancora. Speriamo» disse. E la risonanza umana di quella parola, quel gesto, tutto l'insieme provava in modo evidente che non ci si trovava di fronte ad un mostro assetato di sangue, ma a un soldato come gli altri, e il ghiaccio fra il paese e il nemico, fra il contadino e l'invasore si ruppe immediatamente".
Marc Bloch è lì, nella ritirata, ed è più che mai è nel suo elemento. Conosceva tutti i luoghi di rifornimento per la benzina e nella ritirata li fa incendiare tutti: “Da Mons a Lille ho fatto bruciare a tutti gli incroci della ritirata: migliaia di ettolitri di benzina. Ho appiccato più incendi di quelli che può avere appiccato Attila”, scrisse nelle sue memorie.
Un ufficiale di mestiere durante la ritirata gli affermerà: “Ci sono dei militari di mestiere che non saranno mai dei guerrieri e ci sono dei civili che per natura sono dei guerrieri. Prima del dieci maggio non l’avrei mai immaginato, ma lei è un guerriero”. Lo storico rimarrà talmente colpito da tale affermazione che la inserirà all’interno dei suoi diari. La guerra a Bloch non piace, ma l’avventura si: riuscirà ad imbarcarsi a Dunkerque, ma una volta in Inghilterra i francesi – credendo fortemente che la guerra non fosse ancora persa – per ordine degli alti comandi vengono, la mattina successiva, rispediti nella Normandia con l’idea di rimettere in piedi l’esercito e continuare la guerra. Nel frattempo l’esercito tedesco avanza inesorabile e dai diari di Bloch si evince come l’alto comando francese non avesse minimamente compreso l’innovazione della macchina bellica tedesca: “Ogni giorno ci spostavamo indietro di venti chilometri: non abbiamo mica capito che dovevamo spostarci di duecento chilometri! Non avevamo capito niente”.
Il professore si reca a Rennes e dopo qualche settimana, uscendo dal suo ufficio in divisa da ufficiale, osserva l’ingresso della wehrmacht nella città: i tedeschi hanno occupato inesorabilmente tutta la Francia.
Bloch, riesce a nascondersi e spogliatosi degli abiti militari, si reca nel più vicino hotel prenotando una stanza: i tedeschi non lo scoprono. Dopo aver lasciato Rennes nel mese di luglio incontra – dopo molto tempo – la sua famiglia alla quale affermerà stizzito: “dopo, ci saranno molti conti da regolare”. Emerge in lui – nel mezzo dello sfracelo della Francia - una sorta di durezza e di spietatezza verso gli alti comandi, ma soprattutto verso il sistema politico francese prima del conflitto, incapace di autoregolarsi spaccando ideologicamente il paese. Con la famiglia si reca nella casa di campagna, tagliata fuori dalla nazione, invasa da una forza straniera e vive alla giornata.
Durante questo periodo terribile, Marc Bloch torna a scrivere e lo fa con la produzione di un altro piccolo capolavoro della storiografia: “La strana disfatta”, una lucida e perfetta disamina della guerra, con l’analisi delle motivazioni politiche e sociali di questa grande sconfitta. Scriverà: “noi eravamo vecchi e i tedeschi erano giovani. Noi eravamo comandati da vegliardi. Noi abbiamo combattuto una guerra di altri tempi: una volta si facevano le guerre coloniali e noi con il fucile sconfiggevamo i neri armati di zagaglie. Qui è stata la stessa cosa, solo che noi eravamo quelli con la zagaglia e i tedeschi quelli con il fucile. (…) I tedeschi correvano in macchina, con i motori e noi non abbiamo capito niente di che cosa era questa guerra”. Successivamente nei suoi scritti analizzerà anche la nazione francese prima della disfatta, non ritenendo possibile che la Francia si sia spaccata prima del conflitto. Vi erano manifestazioni operaie in piazza: rumorose, piene di rancore, pugni alzati e ostili, ma Bloch vi intravedeva anche tanta speranza nei manifestanti. La classe dirigente francese, invece, memore dell’esperienza russa, prese paura: i politici, i militari, il clero, gli industriali. La classe dirigente è spaventata e nell'alternativa preferirebbe un uomo forte come Hitler alla controparte “rossa” e su questo punto viene meno – per Bloch – l’unità del paese che ha smarrito il vero pericolo: il nemico tedesco.
La riflessione porterà un’interrogazione anche sul periodo intercorso fra le due guerre, dove il paese francese non ha prodotto molto – a differenza di quello tedesco – se non lo studio accademico. Ripartisce la colpa della disfatta anche alla sua categoria: quella degli storici, i quali convinti che gli eventi si plasmano intorno al movimento delle masse, sono rimasti immobili e passivi davanti agli eventi.
Dopo l'invasione tedesca, la Francia viene suddivisa il 10 luglio del 1940 in tre zone di influenza: una nazista, una francese ed una italiana. Bloch si rifugia nello “Stato francese” che successivamente verrà denominato “Governo di Vichy” con l'eccezione della zona di Mentone, occupata dall'Italia, e della costa atlantica, governata dalle autorità tedesche. Mantenne la sua neutralità militare - ma non politica, vista la dipendenza dai nazisti - nel corso di tutto il conflitto che ne seguì.
In una Francia dipendente, umiliata e sconfitta, Bloch inizialmente continua ad insegnare, ma viene spedito in una piccola università di provincia senza poter tornare a Parigi, occupata dai tedeschi e dalle famigerate Schutz-staffeln.
La sua casa a Parigi è confiscata dai vincitori ed affidata agli ufficiali di stanza nella capitale, così come la sua biblioteca che sparisce per sempre in Germania.
Marc Bloch insegna in un clima di antisemitismo crescente e successivamente anche la Francia di Vichy viene occupata dai tedeschi. Lo storico alsaziano è costretto a nascondersi per via delle sue origine ebraiche e nel 1942 la famiglia si rifugia nella casa di campagna, mentre i due figli maggiori li fa espatriare in Spagna con la speranza di poter dar loro la possibilità di raggiungere de Gaulle comandante della “Francia libera” in Africa. Sistemata la famiglia si reca a Lione e contatta la resistenza francese clandestina che lo accoglie tra le sue fila. Il movimento è quello promosso da Georges Altman della frangia dei “Franchi-tiratori”. Dopo essersi distinto in varie operazioni rischiose, come portare lettere e giornali clandestini, anche la resistenza si rende conto della sua bravura e Bloch torna per la terza volta in “guerra” contro lo storico nemico.
Inizia così a fare carriera all’interno del suo movimento, arrivando ad esserne il rappresentante del direttivo della resistenza della Francia meridionale. In maniera provvisoria diventerà anche capo di tutto il direttivo della resistenza non comunista (la resistenza comunista opera in maniera individuale) in tutta la Francia meridionale: possiede degli uffici clandestini, delle identità false e una moltitudine di uomini sotto il suo comando. La raccolta informazioni e l’invio di notizie false ai tedeschi è all’ordine del giorno nella cittadina di Lione, dove – nel frattempo – a comandare la Gestapo (Polizia segreta di stato) arriva l’ufficiale Nikolaus Barbie detto Klaus, il quale diverrà tristemente noto come il “boia di Lione” e verrà processato solo negli anni ottanta dopo aver collaborato per anni con gli Stati Uniti nel dopoguerra.
[caption id="attachment_7994" align="aligncenter" width="1000"] Nella prima immagine, cartina politica della Francia nel 1941. Nelle due immagini successive Nikolaus Barbie detto Klaus (Bad Godesberg, 25 ottobre 1913 – Lione, 25 settembre 1991) è stato un ufficiale tedesco. Fu il comandante della Gestapo nella suddetta città francese durante l'occupazione nazista della Francia. Scampato al processo di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale ha partecipato ad attività di intelligence, lavorando per i servizi segreti americani e nascondendosi, dal 1955, in Bolivia, dove operò attivamente per i servizi boliviani sotto lo pseudonimo di Klaus Altmann, venendo infine arrestato e processato negli anni ottanta.[/caption]
Mentre la Gestapo di Klaus Barbie cerca di annientare la resistenza, Bloch continua il suo operato clandestino ed è un organizzatore nato: preciso, intelligente, astuto. Inizia una caccia alla volpe per l’ufficiale tedesco che non ha precedenti nella Francia occupata. Bloch contatta stabilmente tutte le organizzazioni clandestine, coadiuvandosi con loro e una volta al mese si reca addirittura a Parigi per partecipare alle riunioni. Sempre nella capitale in totale segretezza, torna a trovare l’amico Febvre con il quale si promette che dopo la guerra, dovranno essere tra coloro che rifonderanno la scuola universitaria del paese. Prepareranno anche un futuro assetto istituzionale francese, poiché i vertici della resistenza operano anche in questa direzione e pianificano anche i movimenti da attuare quando gli anglo-americani sbarcheranno sulle coste francesi: Bloch è un patriota, tutto deve essere pronto per la rivincita.
Con il passare dei mesi il clima a Lione si fa sempre più pesante, perché Klaus Barbie è bravo a fare il suo mestiere e Bloch si rende conto pian piano che le sue operazioni sono sempre più rischiose e che ogni giorno le probabilità di un arresto aumentano. A Febvre confida: “Ogni tanto ho delle premonizioni di una morte orribile”. L’ultima lettera alla moglie la scrive il mattino dell’otto marzo del 1944: “Lo so che sei sola e ci sono tante decisioni da prendere. Scusami se sono lontano”, poi uscito di casa, una macchina della Gestapo si ferma davanti al suo portone: dopo averlo rincorso lo arrestano su un ponte di Lione. Negli stessi giorni di quel fatidico mese di marzo, verrà arrestata l’intera direzione regionale della resistenza francese meridionale: qualcuno, sotto tortura, ha confessato. L’importanza del nostro storico la si denota dalla stampa di Vichy, la quale dopo l’arresto annuncia: “la resistenza a Lione è distrutta. Il capo dei terroristi era un ebreo”. I tedeschi sono ancora più espliciti, tramite il Völkischer Beobachter (“Osservatore popolare”) il giornale del partito nazista: “un ebreo dirigeva i terroristi in Francia”. L’ambasciatore tedesco a Vichy scrive al ministero degli esteri a Berlino asserendo: “il capo della direzione del movimento di resistenza a Lione era un ebreo francese, chiamato Bloch”.
Marc Bloch viene condotto al quartier generale della Gestapo, a casa di Klaus Barbie e ci pervengono informazioni da un leader della resistenza – rimasto libero - che ha raccontato il susseguirsi degli eventi a Lione: “il 14 marzo, lo storico Marc Bloch è stato arrestato a Lione. (…) 20 marzo Marc Bloch è stato visto in un corridoio: il viso tumefatto e insanguinato. (…) A Lione Marc Bloch è stato torturato: immersioni nell’acqua gelida, bruciature della pianta dei piedi, tre costole rotte. E’ appena uscito da una broncopolmonite (la Gestapo, con l’immersione nell’acqua gelida, spesso comprometteva la salute degli interlocutori, i quali venivano curati in ospedale e successivamente interrogati per avere altre informazioni) ed è chiuso nella prigione di Montluc a Lione, insieme a centinaia di altri uomini catturati”.
Il sei giugno del 1944 gli anglo-americani sbarcano sulle coste della Normandia, dando inizio all’operazione “Overlord” e questa sarà l’ultima notizia che il nostro storico riesce a conoscere sul conflitto: sbarcati gli americani, i tedeschi si preparano ad evacuare la Francia senza lasciare dietro prigionieri vivi. Le Waffen-SS cominciano a fucilare tutti i prigionieri di Montluc: in totale tra giugno e settembre vengono uccisi 713 prigionieri. Marc Bloch è fra i primi, il 16 giugno, viene scortato ammanettato su un camion e condotto fuori Lione dove– insieme ad altri trenta – viene abbattuto in piena notte da raffiche di mitra. In queste fucilazioni collettive, in piena notte, succedeva abbastanza spesso che qualcuno si salvava: dei trenta portati fuori con Bloch, due vengono solo feriti ed in qualche modo riescono a salvarsi ed hanno raccontato - finita la guerra - cosa è successo veramente quella notte. Dirà uno dei due superstititi: “ho sentito molti compagni cadere gridando «addio mamma», oppure «addio moglie», oppure «viva la Francia». (…) Hanno portato fuori dalla camionetta i primi, abbiamo sentito le raffiche di mitra e Bloch mi ha detto «quel che c’è di buono è che non si ha il tempo di soffrire»". Questa frase si tramuterà in una leggenda ben diversa - che si diffonde già nel 1945 – la quale narra che prima di morire Bloch aveva accanto a se un ragazzo che tremava di paura (non c’era nessun sedicenne tra i condannati) e il professor gli afferma poco prima dell’esecuzione: “non aver paura piccolo, non fa male”. Per riprendere il suo saggio sulle “false notizie” oserei affermare come il professore alsaziano, ancora una volta, si sarebbe divertito a smontare “i falsi miti”. Ripropongo - per concludere - le parole del suo testamento, pochi mesi prima del suo omicidio, quando chiese funerali civili: “non ho chiesto che sulla mia tomba fossero recitate le preghiere ebraiche, anche se le loro cadenze hanno accompagnato all’ultimo riposo tanti dei miei antenati e anche mio padre. Non l’ho chiesto, ma mi sarebbe ancora più odioso che qualcuno potesse vedere in questo mio sforzo di sincerità un rinnegamento. Affermo dunque, davanti alla morte, che sono nato ebreo e che non ho mai pensato di negarlo. Non voglio preghiere, perché anche in questo caso non voglio mentire: non ci credo. Vorrei che sulla mia pietra tombale fossero incise queste semplici parole: «dilexit veritatem» (amò la verità)".
 
Per approfondimenti:
_Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico - Edizioni Einaudi, Torino, 1998;
_Marc Bloch, La guerra e le false notizie - Edizioni Donzelli, 1994;
_Marc Bloch, La strana disfatta - Edizioni Einaudi, 1995
_Marc Bloch, I re Taumaturghi - Edizioni Einaudi, 2005
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1488048294954{padding-bottom: 15px !important;}"]La civiltà dei Campi delle Urne: la crisi mediterranea dell'età del bronzo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Alberto Peruffo 26/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1488047927832{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La fine del XIII secolo e l'inizio Del XII secolo a.C. vide grandi sconvolgimenti nel Mediterraneo orientale e nel vicino oriente con la distruzione di grandi città e la caduta di importanti imperi come quello egizio e quello ittita. Le distruzioni e le battaglie che ci sono state tramandate dai resoconti egizi sono però solo una parte di quello che accadde in quel periodo mentre, nel resto dell'Europa, non essendoci culture dotate di scrittura, non sappiamo cosa accadde esattamente in quest'epoca di grandi cambiamenti. Come per la caduta dell'impero romano, dove i primi responsabili dei cambiamenti furono i Germani, alla fine dell'età del bronzo furono invece i misteriosi "Popoli del Mare" a portare lo scompiglio tra le civiltà del Mediterraneo orientale. Dell'origine di queste popolazioni si è molto dibattuto e ancora non si è raggiunto una visione concorde tra gli storici. Fino a pochi anni fa si riteneva che i popoli che formavano questa coalizione marina, fermata da Ramesse III nella battaglia del delta del Nilo, provenissero per la maggior parte dall'Anatolia e dalla Libia. In realtà oggi si comincia a accettare l'idea che questi popoli appartenessero a un più grande contesto di migrazioni e spostamenti epocali che interessarono aree anche molto lontane dal Mediterraneo orientale.
Nella seconda metà del II millennio fu gran parte dell'Europa continentale a essere interessata da importanti spostamenti di popolazioni alla ricerca di condizioni di vita più favorevoli in un momento in cui le temperature globali si abbassavano, rendendo più difficoltosa la vita nell'emisfero settentrionale.
Proprio alle trasformazioni climatiche e a un veloce irrigidirsi del clima nel corso del XIII secolo a.C. che si deve imputare una serie di spostamenti di popoli da nord a sud del continente europeo, migrazioni i cui protagonisti più famosi furono la cosiddetta cultura dei Campi delle Urne, popoli indoeuropei che andarono ad interessare in particolare l’Europa centro occidentale e l’Italia.
[caption id="attachment_7962" align="aligncenter" width="1200"] La distruzione dell'Impero romano, di Thomas Cole. Dipinto allegorico (ispirato molto probabilmente al sacco di Roma dei Vandali del 455), quarto della serie "Il corso dell'Impero" del 1836,[/caption]
Gli storici non conoscono i nomi di questi popoli, definendoli come appartenenti a un unica cultura materiale indoeuropea con il nome di “Cultura dei Campi delle Urne”, chiamati così per le loro usanze funebri di incenerire i morti. Civiltà proto celtica ma anche proto italica che si diffuse in Italia, in Francia e nei Balcani in quel periodo sottomettendo le popolazioni autoctone.
In Italia a farne le spese furono le locali e ricche e fiorenti culture delle Terramare costituite da popoli di razza Alpina e Mediterranea, presenti fin dal Mesolitico con l'antica cultura della ceramica Epi-Cardium. La fine delle Terramare sarà traumatico con lo spopolamento di intere zone lungo l'asta del Po e la conseguente migrazione verso l'Appennino centro meridionale. Se vaste zone dell'Italia settentrionale resteranno spopolate altre saranno occupate dai nuovi venuti, portatori della nuova cultura dei Campi delle Urne.
Molti i popoli di questa cultura che a più riprese varcheranno le Alpi verso l'Italia nel corso del XIII secolo a.C., i nomi delle stirpi coinvolte in questo processo epocale non ci sono note direttamente. Possiamo dedurre che la cultura Atestina sia l'espressione dei Paleoveneti, i cui mercanti e artigiani almeno due secoli prima del XIII secolo a.C. avevano cominciato a stanziarsi nell'Italia nord orientale, come dimostrano le prime necropoli a incinerazione della regione . Paleoveneti che, per il mondo accademico slavo, polacco e sloveno in particolare, presentano forti legami con la cultura di Lusazia (attuale Polonia), cultura affine a quella dei Campi delle Urne anche se con peculiarità proprie.
Interessante notare che in quella stessa area in epoca alto medioevale vi era stanziato il popolo Vendel che perpetua la sua esistenza nelle attuali popolazioni slave, così come i Vandali originano da quella stessa regione. Si può, poi, ipotizzare che i Veneti celtici dell'Armorica, protagonisti della prima battaglia navale oceanica documentata durante la conquista della Gallia da parte di Cesare, originassero dallo stesso ceppo dei Veneti stanziati alla fine dell'età del bronzo in Italia.
Parenti stretti dei Veneti dal punto di vista linguistico furono gli Illiri e i Latini, appartenenti alla cultura dei Campi delle Urne. Questi ultimi, insieme agli Italici, si stanzieranno in Italia centrale intorno al XIII secolo a.C. trovandosi isolati dal resto dei popoli dei Campi delle Urne più a nord separati dalla cultura Villanoviana, fusione quest'ultima tra i nuovi venuti indoeuropei e gli autoctoni che crearono una loro peculiare civiltà.
In Italia settentrionale i Campi delle Urne sono rappresentati dalla cultura di Canegrate che soppianta l'autoctona cultura di Polada, affine alle Terramare, la successiva assimilazione tra le nuove popolazioni indoeuropee e gli antichi abitanti genererà la cultura di Golasecca le cui genti rimarranno sempre in contatto con i popoli a nord delle Alpi condividendone l'evoluzione culturale. Le regioni dell'Insubria faranno da collegamento tra il mondo Mediterraneo e le culture centro Europee (in particolare con la cultura di Hallstatt), grazie proprio al facile accesso ai valichi alpini che garantiranno una certa prosperità a quei popoli stanziati nella Padania settentrionale.
Ci si può ora chiedere se queste conquiste dei popoli dei Campi delle Urne in Italia e nei Balcani di questo periodo possano essere connesse agli sconvolgimenti nel Levante e alla distruzione dei grandi imperi. Sempre più studiosi ritengono infatti che popoli provenienti dalla penisola italica possano essere stati coinvolti nella più famosa e studiata invasioni di quegli anni turbolenti in quella che fu la confederazione di vari popoli di diversa natura e provenienza, anche se ancora misteriosa per molti aspetti, che gli storici catalogano sotto il nome generico di Popoli del Mare così come vengono menzionati dai documenti egizi.
Viene oramai generalmente accettato che la civiltà Nuragica sia da associare al popolo dei Shardana o Sherden che già all'epoca di Ramesse II erano impiegati come mercenari dagli Egizi dopo che, da tempo, subivano i loro atti di pirateria.
Recenti ritrovamenti archeologici nel Mediterraneo occidentale indicano come questa bellicosa popolazione isolana costituisse una importante realtà talassocratica con ramificazioni importanti sulle coste spagnole dove, nella piana di La Mancha nella regione della Castiglia, si sono scavati torri fortificate concentriche simili ai nuraghi appartenenti alla cultura detta Los Millares risalente all’inizio del II millennio, civiltà bellicosa associata alla cultura megalitica e a quella della cultura dei Vasi Campaniformi entrambe diffuse nell’Europa di quel tempo, che aveva il monopolio dei minerali presenti in Spagna, in particolare lo stagno fino al 1800 a.C. quando venne soppiantata dalla cultura detta di El Argar anch’essa collegata commercialmente con la Sardegna e l’area micenea. La composizione etnica della Sardegna mostra inoltre una continuità dal suo sviluppo fino all'arrivo dei Punici in età storica.
Nel periodo delle invasioni dei Popoli del Mare i Shardana ebbero un ruolo determinante all'interno della coalizione, sempre presenti ad ogni tentativo di conquista dell'Egitto. È possibile che abbiano anche avuto la guida di popoli molto diversi tra loro, questi erano gli Ekwesh, Teresh, Lukka, Peleset, Tjekker, Sheklesh, Danu (Denyen), e Weshesh, oltre agli Shardana.
Tra questi interessanti sono i Teresh che diversi studiosi associano ai più tardi Tirreni.
Se si accetta l’assonanza dei nomi con i Teresh, associata alla loro perizia marinara sviluppatasi nel Tirreno intorno al XIII secolo a.C., si può pensare a un popolo di cultura Villanoviana installatosi in quel periodo lungo le coste dell’Italia occidentale, strettamente collegato alla cultura centro-europea dei Campi delle Urne che usava cremare i corpi nello stile appartenente ai popoli indoeuropei di quel periodo, tanto che questa cultura materiale viene spesso considerata come proto-celtica. Dai dati antropologici relativi agli Etruschi abbiamo una certa variabilità dei resti ossei, dove, pur rimanendo la morfologia mediterranea quella più diffusa, si trovano anche etnie provenienti da oltralpe come il tipo Dinarico e, più raramente, quello Nordico, ciò a conferma che vi fu comunque una contaminazione da parte dei popoli di cultura villanoviana che rimase nei caratteri morfologici degli Etruschi storici. Così come dal punto linguistico troviamo diversi termini di origine indoeuropea, molto probabilmente desunti dagli invasori dei Campi delle Urne i quali, una volta assimilati dagli indigeni non indoeuropei, cederanno molti termini del loro idioma alla lingua etrusca, in un processo non dissimile a ciò che accadde alla lingua dei Longobardi con l'italiano, tributario di molti termini germanici una volta che il processo di assimilazione tra i due popoli si concluse.
[caption id="attachment_7964" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini: Ulpiano Checa, "L'Invasione dei barbari" 1887. Nella cartina di sinistra: L'Italia divisa in aree culturali e sociali.[/caption]
Una importante prova della relazione tra i Tirreni e il mondo Egeo è la Stele di Lemno, in cui è incisa una lingua dai caratteri molto simili all'etrusco, dove alcuni studiosi vedevano la possibile origine degli etruschi nell'area dell'Egeo orientale. Vi è però la difficoltà nello spiegare come gli abitanti del territorio angusto di questa piccola isola abbiano potuto colonizzare ed influenzare una vasta regione dando vita ad una civiltà del tutto nuova. Inoltre non vi sono notizie storiche antecedenti ai Popoli del Mare di questo popolo stanziato in Egeo e, anzi, successivamente avremo la presenza dei Teresh nelle aree palestinesi e del Mediterraneo orientale.
A ogni modo già molti autori dell’antichità ritenevano la cultura etrusca autoctona e non influenzata da significativi apporti orientali, Dionigi d’Alicarnasso era convinto assertore dell’origine autoctona degli Etruschi mentre per Tito Livio sarebbero giunti in Italia dal nord. Alcuni antichi autori greci come Porfirio affermarono che l’isola di Lemno non fosse altro che una colonia, fondata in tempi remoti, dai Tirreni e non la loro patria d’origine.
Lo stesso Mirsilo di Lesbo (III sec. a.C.) racconta di come i Tirreni si dispersero verso l'Egeo e il Levante dopo una grave carestia in Italia.
Strabone poi riporta una tradizione che indicava come i Tirreni fossero salpati dai porti di Regisvilla o da Maltano nei pressi di Tarquinia e Vulci, unendosi a popolazioni sicule per imperversare nell’Ellade per poi stabilirsi lungo le coste orientali dell’Egeo. L’accenno ai Siculi è interessante poiché i Teresh sono spesso associati ai Shekelesh nei documenti egizi così come forte doveva essere la loro alleanza con i Shardana che li vedeva colonizzare insieme i territori della Palestina e dell’Anatolia.
L’ipotesi che associa i Shekelesh ai Siculi li vedrebbe come un popolo indoeuropeo associato alla cultura dei Campi delle Urne discesa nella penisola italica con altri popoli proto italici proprio durante il XIII secolo a.C., andando a formare la cultura Villanoviana. Alcuni storici hanno collegato i Siculi trasferitisi in Italia con l’antico popolo ungherese dei Siculi (Székely in ungherese, Secui in rumeno, in latino Siculi) che rimase in Pannonia ed oggi è presente in Transilvania dove si caratterizzano come una minoranza etnica coesa che li vede uniti nel chiedere una sempre maggior autonomia al governo centrale rumeno.
Al tempo delle invasioni dei Popoli del Mare i Shekelesh/Siculi non avevano ancora raggiunto la Sicilia ma si trovavano sul continente tanto che una tradizione latina riferita da Dionigi di Alicarnasso li vuole stanziati nel territorio laziale, nell’area di Albalonga, per un certo periodo di tempo prima della loro conquista della Sicilia orientale dove si stabilirono definitivamente, imponendosi sulle popolazioni autoctone degli Elimi e dei Sicani, la vicinanza dei Siculi con i latini verrebbe peraltro confermata dall’analisi linguistica fatta su iscrizioni del V secolo a.C. che indicherebbero il siculo imparentato al latino avvalorando la stirpe osco-ausonica dei Siculi. La stessa ricerca archeologica ha messo in evidenza la presenza di capanne nei pressi di Lentini uguali a quelle ritrovate sul Palatino a Roma.
Probabile che lo spostamento e la nuova migrazione dei Siculi dall'Italia centrale verso la Sicilia sia stato causato dall'arrivo successivo di nuove popolazioni indoeuropee come gli Osco-Umbri.
Un altro collegamento tra la Cultura dei Campi delle Urne e i nuovi arrivati nel Mediterraneo si ha con i ritrovamenti archeologici. Ad esempio il vaso a staffa di Skyros, dell'inizio del XII secolo prima della nostra era, presenta una nave con il motivo decorativo a prua della testa d’uccello in tutto uguale a quella delle navi dei Popoli del Mare, denotando un associazione culturale di questo simbolo nel Mediterraneo e l’Europa centrale della cultura indoeuropea dei Campi delle Urne dove il motivo ornamentale dell’uccello sulla prua della nave (Vogelbarke, letteralmente “nave uccello”) era molto diffuso, con la decorazione dei due cigni che trainavano la nave del sole, leggende che si tramanderanno fino all’epoca medioevale e oltre nei cicli epici del Graal e del Lohengrin.
[caption id="attachment_7965" align="aligncenter" width="1000"] Reperti bronzei e di rame, raffiguranti la "Vogelbarke".[/caption]
Vi è da notare poi come la diffusione delle “spade terribili”, cioè le spade Naue II o Griffzungenschwert (letteralmente “spade con impugnatura a forma di lingua") sia associata alla diffusione degli Indoeuropei in quel periodo in tutto il bacino del Mediterraneo. Queste “spade terribili” rappresentano una delle armi più longeve, venendo impiegate in Europa per oltre 700 anni, avendo il loro centro di maggior sviluppo in Europa settentrionale per poi raggiungere le zone toccate dalle incursioni dei Popoli del Mare.
L'ipotesi che alcuni popoli dei Campi delle Urne che si affacciavano allora sul Mediterraneo abbiano, in una certa misura, partecipato alla coalizione dei Popoli del Mare è accreditato da diversi studiosi, come Renato Peroni che presume come i Micenei presenti in Italia abbiano indotto gli Italici a seguirli in scorribande lungo le loro rotte del Mediterraneo orientale, o come Gilda Bartoloni che intravvede rapporti pacifici tra le comunità italiche e quelle micenee. Più probabile che, come dice lo storico Alberto Palmucci, gli Italici e i loro alleati abbiano solamente sfruttato le conoscenze delle rotte dei Micenei stanziati in Italia non facendosi scrupolo di distruggere tutti i loro empori nella Penisola, come infatti è attestato dai recenti studi archeologici.
Di certo la fine del II millennio prima della nostra era fu un periodo di grandi migrazioni e di spostamenti di popoli indoeuropei, tra cui Persiani e Medi nell’altopiano iranico, e Semiti che si ricollocarono spesso a spese di civiltà stanziali dalla cultura materiale più progredita. In Europa la cultura dei Campi delle Urne rappresentò il fenomeno più importante di migrazione armata mai verificatosi fino ad allora, paragonabile alle invasioni germaniche del primo medioevo, questo portò ad un cambiamento nella composizione etnica di gran parte del continente e non vi è da escludere che alcuni Popoli del Mare possano essere appartenuti all’ampia famiglia della cultura dei Campi delle Urne che sottomisero con la forza varie popolazioni autoctone dell’Europa mediterranea, per poi andare a minacciare le civiltà più progredite del Levante, finendo poi per essere sconfitte da Ramsete III nella grande battaglia anfibia alle foci del Nilo.
 
Per approfondimenti:
_Alberto Palmucci “Le origini degli Etruschi. Da occidente ad oriente e da oriente a occidentale.” Corito Tarquinia DNA mito archeologia. Roma 2013
_Alberto Peruffo, “Le guerre dei popoli del mare. La battaglia del delta del Nilo e la fine dell’età del Bronzo”. Arbor Sapientiae Editore
 
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487851542972{padding-bottom: 15px !important;}"]L'importanza del fermento culturale nella vita politica italiana[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Antonella Leonardi 23/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1487863012011{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La storia del nostro Paese, ha il privilegio di possedere radici profonde e ricche di eventi storici sulle scienze, sulle lettere, sulle arti che ancora oggi molti addetti ai lavori - delle corrispettiva discipline - studiano con vivo interesse per ricercare sempre qualcosa di nuovo nei carteggi che sono stati già visionati dai propri predecessori, ma il nobile fine di questi studiosi è la divulgazione delle informazioni storiche, in ogni ambito, ad ogni fascia di età e ad ogni livello di istruzione.
Grazie a questi contributi scientifici, riuniti in numerosi volumi con altrettante numerose firme, vi può essere una consultazione senza preconcetto e soprattutto senza la paura della scoperta di sapere cosa è accaduto nel corso della storia.
Dall’arte figurativa, alle correnti letterarie, fino alle scienze come la fisica, la medicina, la biologia o la scienza politica, abbiamo l’opportunità di consultare, in forma cartacea o multimediale, ogni genere di informazione.
E proprio l’informazione, ad oggi, in specie quella quotidiana, ci porta a partecipare alla vita politica, istituzionale, scientifica, letteraria minuto per minuto dimenticando delle volte il valore delle basi storiche.
Spesso e volentieri, si dibatte per vie multimediali di problemi attuali e si perde la via della riflessione che era svolta davanti ad un buon the o ad un caffè; si preferisce dare spazio alla tastiera piuttosto che al dibattitto faccia a faccia. Si perde l’opportunità di sentire il tono della voce, di leggere gli sguardi di chi ci comunica un pensiero o un opinione personale davanti ai quotidiani cartacei che oggi sono in forte crisi perché si è perso un modus operandi quotidiano di sfogliare un cartaceo ricco di notizie scritte in maniera, molte volte, esaustiva.
Una previsione, su questo aspetto, meditata e scritta con grande lungimiranza da Vittorio Frosini sulla "Nuova Antologia" dal titolo "I giovani e la Costituzione", Fascicolo n. 2206 (aprile - giugno 1998), p. 296, spiegava il beneficio del ruolo del mondo multimediale e dell’avvicinamento dei giovani e non, ai personaggi politici che rivestono ruoli istituzionali in carica in ogni ente: locale, regionale e nazionale con l’obiettivo di esporne i motivi.
Ma proprio su questo aspetto, nasce un problema: la crisi del cartaceo.
[caption id="attachment_7939" align="aligncenter" width="1000"] Casa museo di Giovanni Spadolini a Pian de’ Giullari. La Biblioteca è dislocata in tre sedi: nella sede della Fondazione a Pian dei Giullari (n. 139), con i volumi relativi a Illuminismo, Rivoluzione francese ed epoca napoleonica, opere di letteratura e critica letteraria, riviste e periodici del XIX Firenze e alla Toscana. Sempre in questa sede si trova la collezione d’arte con varie opere di artisti italiani dell’Ottocento e primo Novecento, stampe e documenti, la raccolta di oggetti napoleonici e risorgimentali. Nella biblioteca aperta al pubblico, situata sempre a Pian dei Giullari (n. 36/A), si trova il settore di Storia contemporanea e risorgimentale. Nella dimora storica della famiglia Spadolini, in via Cavour a Firenze, posta di recente sotto vincolo dalla Soprintendenza della Toscana quale “casa della memoria”, sono raccolti i volumi correlati all’Arte e alla storia delle città italiane, alla fondazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, oltre ad alcune sezioni minori.[/caption]
Ogni dibattito politico, fino a qualche anno fa, aveva una presenza fisica di liberi cittadini o tesserati di partito che partecipavano e dibattevano, delle volte con fervore, delle problematiche che investono l’Italia su ogni aspetto attraverso i partiti politici che esponevano le problematiche degli italiani all’interno dei palazzi istituzionali per intervenire nei tempi utili. Vige a questo punto, tenere in considerazione l’importanza dei partiti politici.
La conoscenza storica della monarchia sabauda e dei partiti politici pre-unitari, concilia perfettamente con gli eventi storici del nostro paese sin da prima dell’Unità d’Italia – risalente al 1861 – che vide movimenti strutturati per unire il Paese politicamente - tramite la figura del Re -, poiché nei decenni precedenti vi erano stati tentativi fallimentari per unificare la penisola. Se culturalmente l'Italia poteva ritenersi "unita" tramite i poeti e scrittori medievali come Dante e Boccaccio, l'intento dell'unificazione politica e geografica italiana nasce nel 1848 con Carlo Alberto. Il fermento culturale del paese è stato sempre molto forte: L’Antologia di Vieusseux (1823-1831) fu una testimonianza scritta, tutt’oggi consultabile nelle biblioteche italiane che posseggono - o hanno la fortuna di possedere - questo prezioso carteggio che attuò un processo di unità culturale e politico, ma che successivamente fu chiusa per via degli amari veti che il Gran Ducato di Toscana apportò alla rivista.
[caption id="attachment_7929" align="aligncenter" width="1000"] Giovan Pietro Vieusseux nasce in Liguria da famiglia svizzero-francese originaria di Ginevra, stabilitosi a Firenze nel 1819, dopo anni di viaggi per commercio (tra Losanna, Bruxelles, Liegi e Aquisgrana), si dedicò alla promozione culturale. Fondò nel 1820 il Gabinetto Vieusseux che, inizialmente, era pensato come un centro di diffusione della lettura di periodici e di libri stranieri (all'epoca poco diffusi in Italia), allo scopo di svecchiare la cultura nazionale. In contatto epistolare con i principali intellettuali del tempo, fondò unitamente a Gino Capponi Antologia, periodico d'informazione letteraria e politica, il cui primo numero uscì nel gennaio 1821.[1] La rivista ospitò, tra gli altri, scritti di Carlo Botta, Pietro Colletta, Ugo Foscolo, Pietro Giordani, Raffaele Lambruschini, Giuseppe Mazzini e Niccolò Tommaseo. Fu proprio un articolo di quest'ultimo che nel marzo 1833 causò la soppressione del periodico. A seguito della cessazione dell'Antologia, Vieusseux fondò nel 1841 l'Archivio storico italiano, prestigiosa rivista storica tuttora attiva. La prima serie del periodico riprendeva il lavoro di Ludovico Antonio Muratori, che era stato il primo studioso a pubblicare le fonti storiche italiane.[/caption]
Cultura e politica, sono due aspetti apparentemente distanti; nella realtà dei fatti sono un connubio inseparabile che ha bisogno di essere tutelato, salvaguardato e promosso. E nei partiti politici storici (Repubblicano, Comunista, socialista e democristiano) nessuno poteva fare politica se non aveva posto tra i primati per compiere azioni di buon governo la preparazione culturale.
Negli ultimi anni, in specie dal periodo della Seconda Repubblica, che personalmente preferisco chiamare "secondo tempo dell’era repubblicana", il sistema organizzativo dei partiti nelle fasi di reclutamento, istruzione, scuola di partito, organizzazione e soprattutto strutturazione di questo, sono venuti meno e i partiti sorti dallo scioglimento dei partiti storici, hanno preferito pensare alla comunicazione politica piuttosto che alla strutturazione e alla organizzazione del partito su ogni fronte.
[caption id="attachment_7938" align="aligncenter" width="1000"] Funerali di aldo moro. 11-05-1978 Roma. Nella foto si riconoscono i politici Ingrao, Leone, Fanfani, Andreotti, Rognoni.[/caption]
Ed in questa fase storica del nostro Paese, così complessa e confusionaria, per meglio comprendere il compito dei partiti politici, dei suoi personaggi più conosciuti e non, per capire il perché si è arrivati ad avere oggi questa condizione nelle realtà istituzionali locali, regionali, nazionali e sovranazionali, dobbiamo fare i conti con la storia. Non è semplice argomentarne, ma non è impossibile raccontarla.
Il fine ultimo di questa rubrica, è quello di conoscere la vita politica e dei partiti per avere una maggiore consapevolezza di questo momento storico, per conoscere e trarre suggerimenti al fine di proporli a chi accanto a noi, svolge l’attività politica all’interno dei palazzi istituzionali, a chi può smuovere le coscienze in un epoca storica dove la crisi culturale ha preso il sopravvento, a chi vuol cominciare o ricominciare a credere nella storia del nostro paese e nel valore aggiunto che l’Italia possiede ma che noi stentiamo a promuovere, ai valori morali e nazionali che ci appartengono; e nei partiti politici, possiamo leggere la nostra poliedrica ed inestimabile identità.
Concludo questa breve premessa a favore di questa rubrica, con una affermazione di Niccolò Machiavelli, padre della Scienza Politica: "La storia è maestra delle nostre azioni".
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487624187092{padding-bottom: 15px !important;}"]25°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Il Sole a Occidente. Il dandy contemporaneo, tra gusto, stile e decadenza. Orlando Donfrancesco[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1487624440507{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 18 Febbraio si è svolto il secondo appuntamento del programma 2017 "FUTURO-PASSATO. Oltre il già detto". Ospite dell'associazione lo scrittore romano Orlando Donfrancesco, il quale ha presentato il suo ultimo romanzo "Il Sole a Occidente".
1

L'incontro - presentato dal presidente l'arch.Giuseppe Baiocchi -, ha estrapolato la figura novecentesca del dandy, tra stile, gusto e decadenza operando una vera e propria riflessione sul nichilismo e la perdita del soggetto all'interno dell'epoca contemporanea. ll Sole a Occidente è questo in fondo, un parallelismo tra secoli diversi, governati dagli stessi problemi.

Laddove i valori cadono, la nostalgia incombe; laddove l’uomo non ha più una tradizione, la società crea idoli decadenti, un nuovo che puzza di marcio. Intanto si ammirano le rovine, i segni della trascorsa Bellezza e in questo vuoto esistenziale ognuno salva il salvabile.

Donfrancesco non ha paura di usare tinte forti, cariche. Non scade mai nella volgarità, d’altronde già la modernità è la più sublime delle volgarità.

 L'Italia non è stato un paese per dandy, ma per gagà - una imitazione del dandy che abbracciava più l'arte che la vita stessa - poichè il dandismo ha affascinato l'italiano, ma solo in chiave modaiola, ed è stato il suo esatto opposto, poiché il dandy ha creato sempre la Sua moda. La vita del dandy è stata una provocazione vivente alla società ed è per questo che divenne un fenomeno scomodo, soprattutto per l'Inghilterra Vittoriana. Questo movimento è stato una possibilità che ha voluto offrire alla civiltà occidentale una alternativa alla volgarità dell'utile. Nessun dandy è voluto mai essere un esempio, ma oggi nell'epoca del nichilismo, lo è diventato proprio per il suo ideale sulla bellezza e sulla visione di un mondo, oramai inabissatosi nella Gaia Scienza di Nietzsche.

3
Nel finale, sempre l'interessante dibattito che come di consueto viene lasciato alla cittadinanza e agli studenti. In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Regione Marche
_Comune di Ascoli Piceno
_Fondazione Carisap
_la Confartigianato
_Libreria Rinascita
  Prossimo incontro sabato 18 Marzo con l'editore e libraio Francesco Giubilei, il quale presenterà il suo ultimo saggio: "Storia del pensiero conservatore".
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487539086047{padding-bottom: 15px !important;}"]Italo Balbo, l'ultimo volo del calabrone[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Davide Bartoccini 20/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1487542157365{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nel limpido cielo di Tobruk, fondamentale e indaffarata città portuale della Cirenaica libica, un solitario aeroplano rompe l’aria con le sue pale veloci nel tardo pomeriggio del 28 giungo 1940. La sua fusoliera, che nel culmine si accentua in una ‘gobba’ - particolarità che gli varrà il soprannome da parte inglese di ‘Gobbo maledetto’ (Damned Hunchback) per tutta la durata della conflitto - è quella di un S.M. 79 ‘Sparviero’: un capiente trimotore prodotto dalla Savoia-Marchetti impiegato dalla Regia Aeronautica con diversi compiti, da aerosilurante ad aereo da trasporto. Ai suoi comandi c’è un uomo importante, un italiano eccellente, un aviatore di chiara fama noto in tutto il mondo per le sue trasvolate; si chiama Italo Balbo, ha 44 anni, è stato investito dal Capo del Governo Benito Mussolini del titolo di ‘quadrumviro del Fascismo’, è governatore della Libia, ed è un personaggio molto amato in Italia -  forse troppo - sicuramente abbastanza da essere bollato come personaggio scomodo al Duce. Per questo è stato spedito a Tripoli già dal 1934 per trascorrere un altisonante esilio: esotico, rispettabile, ma pur sempre esilio.
Mentre toglie manetta e perdere quota per ingaggiare la verticale di Tobruk, quando la pista d’atterraggio è ormai prossima, Balbo e il suo secondo, Nello Quilici, notano del fumo nero che si alza dalle installazioni di cui il porto così ben protetto in quella insenatura naturale è costellato. È merito di un incursione di Bristol Blenhien inglesi: bombardieri bimotori di stazza inferiore allo Sparviero, ma dalle linee simili. Confondibili dagli occhi inesperti degli ufficiali del ponte dell’incrociatore San Giorgio che vedono l'aviatore emiliano avvicinarsi e danno ordine maledetto: “Fuoco!”.
Le Batterie contraeree riempiono il cielo appena tornato calmo sopra Tobruk. I pezzi da 100/47 del San Giorgio proiettano shrapnel a secchiate, le mitragliatrici Breda delle postazioni anti-aeree tutto intorno al porto sparano traccianti all’impazzata. Sono tutti diretti sull’indifeso e solitario trimotore che si avvicina in pace e che non ha alcuna radio a bordo. Non lo prendono. Nessuno a bordo si accorge inizialmente, ma poi abbassandosi sulla pista i colpi si avvicinano, il bersaglio si rende nitido. I colpi lo raggiungono. I motori vengono avvolti dalle fiamme, le ali si lacerano e la palla di fuoco si schianta a terra senza lasciare superstiti. Italo Balbo è morto. Vittima di un errore o di un complotto? Non lo sapremo mai.
[caption id="attachment_7895" align="aligncenter" width="1000"] Gli anni venti sono gli anni dei primi saloni aeronautici internazionali, delle trasvolate aeree e degli innumerevoli record di volo e di distanza compiuti dall'aeronautica italiana. Nella foto Secondo Mona con Italo Balbo.[/caption]
Nato nell’ultima decade del XIX secolo - 1896 - Balbo è stato allevato come un monarchico da suo padre, maestro di scuola elementare, ma per simpatia o per animo sostiene fin da giovanissimo le idee repubblicane.
Parte volontario giovanissimo per la Prima Guerra Mondiale che imperversa contro la confinante Austria-Ungheria e viene rispedito a casa. È un personaggio istrionico. Dopo essere alpino, insignito di diverse onorificenze al valor militare diviene un ‘Ardito’. Nel 1920 diventa leader dello squadrismo fascista nel ferrarese. Giovane irrequieto, si guadagna con una "violenza dosata" un posto di primo piano nel movimento fascista, che per un nazionalista - a riposto come lui -  si rivela provvidenziale. Partecipa alla Marcia su Roma del 1922, e il Partito Nazionale Fascista si rende volano perfetto per lasciarlo divenire chi desiderava essere: un uomo pubblico, un uomo da rispettare.
Balbo rispetta il leader del partito Benito Mussolini, ma non si risparmia nel criticarlo e alle volte nell’osteggiarlo, addirittura nello schernirlo amichevolmente. La sua ambizione lo porta a desiderare un ruolo da delfino del futuro Duce.
Ma il maestro di Predappio lo teme, e preferisce porlo immediatamente a capo della neonata Aeronautica nel 1929 - per non rischiare che la personalità del Balbo lo metta in ombra. Esso si rivela un errore inaspettato; perché saranno proprio le ali a renderlo l’italiano più famoso nel mondo in quegli anni.
Maresciallo della Regia Aeronautica, riorganizza l’aviazione italiana all’insegna dell’aeroplano, accantonando la tecnologia del dirigibile presa in grande considerazione. Nel 1930, dopo aver raggiunto le coste di Grecia, Turchia, e perfino Russia nelle sue prime trasvolate, organizza la prima Crociera Aerea Transatlantica: 12 idrovolanti Savoia-Marchetti S.55 in direzione Rio de Janerio, Brasile. La missione sarà un successo planetario, ma è la ‘Trasvolata del Decennale’ del 1933 a consacrarlo come aviatore leggendario. Dalle acque della laguna di Orbetello, il Maresciallo Balbo spicca il volo alla volta di Chicago. Seduto al comando del suo S.M 55X da contatto, solca le onde tenui e sale in aria. Mancano 19.000 chilometri alle Americhe. Il 15 luglio giunge con i suoi 25 idrovolanti a Chicago.
[caption id="attachment_7890" align="aligncenter" width="1000"] Il Savoia-Marchetti S.55 fu un idrobombardiere/aerosilurante bimotore prodotto dall'azienda italiana Savoia-Marchetti dagli anni venti e protagonista per un decennio in svariati ruoli nella Regia Aeronautica. Autore di celebri trasvolate oceaniche, divenne uno dei simboli dell'aeronautica militare e del progresso tecnologico italiano nei primi anni del regime fascista.[/caption]
La folla lo accoglie in tripudio. Balbo, con i suoi discorsi carismatici, con il suo pizzo da moschettiere, con il suo fare spavaldo è uno degli italiani più famosi al mondo.
Fascinoso aviatore, uomo mite ma deciso, diviene scomodo a Benito Mussolini: geloso della fama del trasvolatore e spaventato dalla sua naturale propensione ad essere acclamato per ogni progetto decida di intraprendere. Balbo è tra l’altro l’unico gerarca che tratta il Duce come un suo pari: a differenza degli altri, non lo teme.
Il 16 ottobre del 1933 il maestro di Predappio trova un modo per defenestrarlo: lo dimette dal ruolo di ministro dell’Aviazione e lo spedisce nell’inospitale Libia, una provincia dell’Impero dove è stato scelto come governatore.
È un esilio mascherato. Ma presto Balbo trasformerà anche questa nuova sistemazione in un nuovo successo mediatico. Nel 1934 smantella i campi di concentramento italiani, libera i prigionieri dalle carceri, costruisce strade, impianti d’irrigazione, villaggi. Porta in Libia 20.000 italiani per colonizzarla e Mussolini, ancora una volta, nasconde una malcelata invidia. Aprendo una piccola parentesi sulla mentalità dietro il colonialismo italiano di stampo nazionalistico, dobbiamo considerare come il Regno d'Italia sia stato uno dei paesi coloniali europei che più di tutti ha edificato in terrà coloniale (essendo presente a livello temporale molto poco). La ragione era semplicemente una: si aveva l'obiettivo di preparare la colonia ai proletari italiani che - secondo il disegno di Mussolini  - dovevano vivere nelle nuove terre africane, secondo uno stato agrario. Dunque nessun atto di bontà verso la popolazione indigena, ma un disegno lucido, il quale in seconda battuta portò innovazione ai libici, come a tutti i paesi dell'Impero italiano. Il colonialismo italiano, era distante da quello "commerciale" britannico poichè si ispirava al modello francese, il quale prevedeva che il governo dello stato in questione fosse presieduto da un europeo e fossero presenti forti contingenti di truppe nazionali. Il colonialismo commerciale di stampo britannico aveva - di contro - grossi sconti sulle materie prime, ma lasciava l'attività politica ai nativi, seppur strettamente gestiti e controllati. Il nostro governatore avvertì come, invece, la concessione di pari diritti agli indigeni avrebbe favorito l'integrazione, posta al sogno dell'Impero italiano. 
Questi nel 1937 riesce nell'impresa di concludere i lavori della strada nota come "Litoranea libica", rinominata in suo onore dopo la sua morte in "Via Balbia". Il maresciallo incaricò l'architetto Florestano Di Fausto, il quale progettò ed edificò nella Sirtica - al confine fra la Tripolitania e la Cirenaica - una grande opera architettonica celebrativa: l'ormai dimenticato arco dei Fileni. Il manufatto presentava nell'unico fornice, due colossi in bronzo raffiguranti i fratelli Fileni, leggendari eroi cartaginesi con la struttura in stile razionalista littorio. Sopra l'arco vennero collocati in una nicchia orizzontale due colossi bronzei - ritratti come sepolti vivi - sovrastati da un frontone a tre strati sovrapposti -  distinti da altrettante cornici - a simboleggiare gli strati di terreno, sotto i quali vennero seppelliti i Fileni, sui quali campeggiava la seguente iscrizione tratta dal "Carmen saeculare" di Orazio: «Alme Sol, possis nihil urbe Roma visere maius»; «O almo Sole, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggiore di Roma». La scritta fu fatta tradurre in arabo da re Idris I di Libia.  Sulla sommità dell'arco era posizionata un'ara che rappresentante la leggenda cartaginese. L'arco serviva come punto di riferimento per la lunghissima litoranea della costa.
Il successo mediatico è troppo, Balbo, seppure distante, resta un problema da prima pagina. La tensioni proseguono durante l’intervento italiano nella guerra civile spagnola cui Balbo era avverso, e nell’alleanza intrapresa con il cancelliere Adolf Hitler.
[caption id="attachment_7891" align="aligncenter" width="1000"] Nelle foto di sinistra: L'arco dei Fileni, conosciuto anche con il nome di El Gaus, fu un arco costruito sulla via Balbia al confine tra Tripolitania e Cirenaica nella Libia italiana (oggi Libia). E' stato smantellato e distrutto sotto il regime di Gheddafi. Nella foto centrale, raro scatto dell'Arco dei Fileni con la via Balbia: il setto stradale che costeggiava tutta la costa libica, dal confine con la Tunisia a quello con l'Egitto. Nella foto di destra: 1938 Italo Balbo - governatore della Libia - mostra a Sua Altezza Imperiale Vittorio Emanuele III la capitale Tripoli.[/caption]
Culmine dello scontro saranno le leggi razziali che Balbo trascurerà sempre con lucida consapevolezza. Rimarrà noto l’episodio con cui sfiderà il Fascismo in onore del suo amico d’infanzia Renzo Ravenna, podestà di Ferrara di origine ebraica. Dopo la sua destituzione, lo invitò a pranzo per festeggiarlo, e giunto dinanzi il miglior ristorante di Ferrara - dove un ebreo non sarebbe potuto entrare - sferrò un calcio alla porta spalancandola e disse prendendo sotto braccio il vecchio amico: “Adesso vediamo se non ci fanno entrare”. Difatti poco prima dell'entrata in vigore nel 1938, il governatore della Libia scrisse una nuova proposta per integrare le popolazioni indigene "italiane" in un grande disegno che riprendeva chiaramente quello dell'integrazione dell'antica Roma: pari diritti sociali e soprattutto culturali, così come fu anche la tesi di laurea di Amedeo di Savoia Duca d'Aosta. 
All’entrata nel secondo conflitto mondiale dell’Italia, il 10 giungo 1940, Balbo risponde prontamente anche se non concorde. È pronto a combattere gli inglesi in Egitto e in tutto il Nord Africa. Torna nella Regia Aeronautica e anche se è sconsigliato per un alto rappresentate del Pnf (partito nazionale fascista), decide di esporsi al rischio della prima linea. Appena 18 giorni dopo lo scoppiò delle ostilità con gli inglesi, Balbo decide di muovere una sortita oltre le linee per sorprendere e catturare delle autoblindo britanniche. Decolla da Derna in compagnia di un altro velivolo omologo al suo: un trimotore Savoia Marchetti siglato I-MANU - in onore di sua moglie, la contessa Emanuela Florio. Arrivato sulla verticale di Tobruck senza poter avvertire la base dove intende fare tappa per rifornirsi, si abbassa a livello del mare, spensierato, sorridente, irrequieto per l’azione che si avvicina. Ma la scelta gli sarà fatale.
La morte di Balbo il 28 giugno 1940 rimase a lungo avvolta dal mistero. Corrotta dall’ipotesi che il tragico errore fosse stato in vero una cospirazione macchinata dal Duce per eliminare un possibile futuro antagonista e un personaggio orami non più allineato alle logiche del regime. Quell’uomo, Italo Balbo, che anche il nemico si sentì di dover onorare, sorvolando il deserto africano e paracadutando un involucro con che tra i fiori custodiva il messaggio: «Le forze aeree britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che la sorte pose in campo avverso».
Se vi capita di passare per Orbetello, dove l’esile lingua di terra oggi collega lo splendido promontorio dell’Argentario all’italico continente, affacciatevi oltre le ringhiere orlate di ruggine e fregiate d’ali del ‘Parco delle Crociere’, dove oggi riposa ancora il ricordo di Italo Balbo: aviatore italiano che tutto il mondo ricorda, e che Benito Mussolini seppur tronfio d’ego ricordò essere: “L’unico uomo che forse, avrebbe potuto ucciderlo”.
 
Per approfondimenti:
_Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo - Edizioni Bompiani
_Daniele Lembo, La Libia Italiana. Italo Balbo, l'esercito dei ventimila e la colonizzazione demografica della Libia - Edizioni IBN
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487089570722{padding-bottom: 15px !important;}"]L'inadeguatezza dell'essere all'interno della società lavorativa[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Fabrizio Fratus 19/02/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1487080286509{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il senso della vita e il lavoro sono due aspetti che vanno di pari passo con la prosecuzione della nostra esistenza. Come nel passato, anche oggi lavorare è indispensabile, ma il lavoro -nell'epoca storica della contemporaneità - si unisce ad una "necessità di scopo". Nella prosecuzione del nostro esserci nel mondo, l'uomo ogni mattina si sveglia con uno scopo, ma - oggi - il mal di vivere galoppa a pieno ritmo nella nostra società. Parlando in maniera più generica, gli individui istintivamente colgono la necessità di avere un’utilità e – spesso e volentieri senza lavoro – si ritrovano a essere prive di un fine. Il lavoro moderno è un’attività devastante, dove quasi tutti sono intercambiabili, sono “ingranaggi” di un meccanismo industriale, di un sistema. Un avvocato è normalmente sostituibile con un altro suo collega e il suo lavoro non è nulla se non quello di riprodurre quanto altri avvocati fanno ogni giorno. Lo stesso vale per un commercialista come per un operaio. Il lavoro non ha più la componente soggettiva, come indicativo dell’identità di una persona. Se in passato essere un avvocato collocava la persona in un ceto sociale specifico con un’educazione e un modo di rapportarsi agli altri, oggi nulla di tutto questo è rappresentabile in un avvocato come in un qualsiasi altro mestiere. Il lavoro, quindi, non è più una componente che contribuisce a dare sicurezza emotiva e psicologica, ma resta solamente un mezzo per ottenere denaro in cambio di tempo.
[caption id="attachment_7846" align="aligncenter" width="1000"] Nell'estratto fotografico, l'attore londinese Charlie Chaplin viene immortalato nella celebre pellicola "Tempi Moderni": film interpretato, scritto, diretto e prodotto dallo stesso Chaplin. Fu proiettato la prima volta il 5 febbraio 1936.[/caption]
Secondo lo scrittore francese Gustave Flaubert: "In fin dei conti il lavoro è ancora il mezzo migliore di far passare la vita" amava asserire, difatti lavoro e tempo sono aspetti importantissimi per tutta la durata del ciclo vitale di una persona.
Se si considera l’aumento di servizi e di beni con la diminuzione del lavoro umano, molti hanno creduto si andasse verso una liberazione dal lavoro, ma in realtà la questione non sta propriamente stabilita in questi termini.

Nei paesi sviluppati tecnologicamente il lavoro è diviso in tre diverse funzioni ripartite in:

_creativo;
_esecutivo;
_di fatica.
Il lavoro sta divenendo sempre più un privilegio, poichè - ancora oggi - permette l'entrata dei lavoratori, tra gli individui che "producono" e di conseguenza gli viene concessa la possibilità di consumare. Di contro, la forza lavoro  da impiegare diminuisce progressivamente col progredire della tecnica, aumentando quindi una massa di disoccupati - con molto tempo da impiegare - che spesso vengono colpiti da noia, depressione, devianza e solitudine.

La risultante è proprio "il lavoro", il quale nella società attuale - post industriale - diminuisce sempre più, ponendo le basi all'impossibilità di possedere un reddito:

_meno lavoro
_maggiore tempo a disposizione
_minore capacità di dare un senso alla propria esistenza.
Questo processo continuo e progressivo, con la mentalità capitalista - dove l’abbassamento dei costi e il profitto sono lo scopo supremo, con le rivoluzioni industriali connesse - che ha portato un meccanismo di azione contro il progresso tecnologico eliminando via via l'impiego (il movimento denominato "luddismo"), oggi deve virare la rotta su un lavoro praticabile e socialmente condivisibile. Il processo in atto è evidente: coloro che perderanno lavoro non saranno in grado di consumare per impoverimento progressivo e la diminuzione dei consumi ci farà giungere ad una stagnazione dei medesimi, con la conseguenza di una sovra-produzione.
La popolazione che potrà acquisire nuovi prodotti diminuirà: processo è già in atto. La società post-industriale è in declino e volendo mantenere il modello capitalista e consumistico come principio economico, l’unica soluzione è una ridistribuzione della ricchezza a tutti coloro che restano e resteranno tagliati fuori dal lavoro.
[caption id="attachment_7847" align="aligncenter" width="1000"] Ned Ludd o Ned Lud è l'individuo da cui prese il nome il movimento denominato poi "luddismo". La sua azione fu di ispirazione per il personaggio popolare del "capitano Ludd" che divenne l'immaginario leader e fondatore dei luddisti. Sebbene non esistano prove certe della sua reale esistenza, si ritiene che provenisse dal villaggio di Anstey, presso Leicester. L'episodio che ispirò la trasformazione di questo uomo comune del XVIII secolo nell'eroe ottocentesco del proletariato, fu la distruzione da lui compiuta di un telaio meccanico in uno scatto di rabbia, che sarebbe avvenuto nel 1768, piuttosto che all'epoca dei luddisti negli anni 1820.[/caption]
Adriano Olivetti affermava come: "Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo". 
Da questa affermazione si evince come in un passato non troppo lontano, l'impiego poteva essere una fatica fisica di difficile sopportazione, ma aveva una importanza di rilievo sociale - la predisposizione a sottoporre la propria esistenza verso il lavoro, poiché si possedevano dei figli - e tale caratteristica dava un senso e una capacità di sopportazione alla fatica, oggi certamente impossibile da concepire. La mansione svolta rappresentava proprio l’identità socio-identitaria e proprio l'individuo che non era riuscito a ben sopportare la mole lavorativo, trovandosi alla base della piramide sociale, possedeva l’aspirazione legittima e sensata di progradire verso l’alto per migliorare la propria condizione di vita socio-identitaria. L’avvento dell’eguaglianza di massa, insieme alla distruzione delle classi sociali, ha livellato al ribasso producendo danni incalcolabili. L’inciviltà, come la maleducazione, sono divenuti comportamenti comuni, tanto quanto l’irresponsabilità: invece di migliorarsi e progredire, ci si livella sempre più nella mediocrità. Se in precedenza vi era una ingiustizia sociale riferibile alla redistribuzione della ricchezza, ma nel contempo vi erano maggiori sensi di appartenenza ad un sistema sociale visto come "comunità", oggi - al contrario -  vi è una maggiore disponibilità di consumare prodotti (per lo più inutili all’esistenza dell’uomo) ma allo stesso tempo si percepisce un maggior senso di inadeguatezza alla vita e al proprio ruolo sociale. "Fare il ministro del lavoro in un paese dove il lavoro non c’è, è come fare il bidello di una scuola a Ferragosto!", per riprendere una famosa citazione del comico Maurizio Crozza.
 
Per approfondimenti:
_Giuseppe Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l'Italia e per l'Europa - Edizioni gruppo Abele
_Daniel Choen, Tre lezioni sulla società postindustriale - Edizioni Garzanti
_Emilio Gerelli, Società post-industriale e ambiente - Edizioni Laterza
_Serge Latouche, L’economia è una menzogna. Come mi sono accorto che il mondo si stava scavando una fossa - Editore Bollati Boringhieri
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1491981996942{padding-bottom: 15px !important;}"]L’architettura del Male. La città nella cinematografia noir. Fioravanti[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1491981676625{padding-top: 45px !important;}"]  
11 dicembre 2016 – Libreria Rinascita, Piazza Roma n°7 – 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Alessandro Poli
Interviene: Andrea Fioravanti
 

Il cinema noir possiede una ambientazione prettamente urbana dove la città appare allo spettatore maligna e nello stesso tempo si impone per la sua monumentalità. Il noir ci descrive una società in gran parte priva di spirito comunitario: demistifica un mondo ove si è erosa sia la fede nella lealtà verso un bene comune, sia la fiducia, disattesa, nell’American Dream. Questo genere cinematografico, che accresce la sua diffidenza e critica sociale dopo il crollo di Wall Street, si lega sin da subito all’architettura, se non in senso stretto l’urbanistica: questa è la vocazione e base socio-spaziale del genere e della disciplina, dove l’incontro negato e la mancata realizzazione del naturale bisogno di comunione si discostano dall’ambizione duratura dell’architettura. Spesso nel cinema noir i paesaggi urbani diventano i veri attori assoggettando, attraverso l’ortogonalità e la longitudinalità della prospettiva, i protagonisti, sempre più inseriti in un contesto meccanico e schizofrenico. La crisi del soggetto è quindi uno dei temi centrali e più indagati nel cinema americano dagli anni Venti e fino agli anni Quaranta grazie ai capolavori di grandi maestri quali Friedrich Wilhelm Murnau, Howard Hawks, Fritz Lang, John Huston, Otto Preminger, Orson Welles, Billy Wilder.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487417384001{padding-bottom: 15px !important;}"]Intervista a Jant TV del 17/02/2017[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1487417360720{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Jant TV
 

Il presidente della associazione ha rilasciato una breve intervista sul canale televisivo Jant, condotto da Carlo Di Giovanni. L'intervista ha permesso di spiegare i fini culturali che l'associazione persegue, dando uno sguardo alle criticità del territorio marchigiano in ambito culturale.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1487113436799{padding-bottom: 15px !important;}"]Intervista a R9 - Rubrica "Il Pungiglione" 13/02/2017[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1487114972665{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Radio9
 

Il presidente della associazione Arch.Giuseppe Baiocchi disserta sul prossimo evento che andrà in scena per il 18 Febbraio 2017 "Il Sole a Occidente. Il dandy contemporaneo, tra gusto, stile e decadenza" a cura dello scrittore romano Orlando Donfrancesco. Viene raccontata anche la collaborazione con la libreria "Cultora" di Roma di Francesco Giubilei, per quanto concerne la scelta politica che l'associazione ha intrapreso nel campo dell'Editoria. Infine viene dissertato il programma culturale 2017 "FUTURO-PASSATO. Oltre il già detto".

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1486310030638{padding-bottom: 15px !important;}"]Terra umbra: le "strutture sorelle” della Longobardia Minor[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino 14/ 02/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1486396724330{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La chiesa di San Salvatore a Spoleto è uno dei più importanti edifici di epoca longobarda, appartenente alla Longobardia Minor. Fu realizzato, come d'abitudine, con materiali di riuso di epoche precedenti ed è oggi considerato una delle più importanti testimonianze architettoniche alto-medievali italiane, nonché rappresenta il maggiore monumento spoletino dell’antichità.
Di origine germanica, i Longobardi, si videro protagonisti dal II fino al VI secolo da una migrazione che li fece giungere dal basso corso dell'Elba fino all'Italia, dove entrarono in contatto con la politica mediterranea e la cultura bizantina. Nel 568 d.C. una volta insediatosi in Italia Re Alboino, diede vita ad un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio sulla massima parte del territorio italiano continentale e peninsulare.
[caption id="attachment_7771" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, la posizione dove è situata la basilica di San Salvatore con adiacente il sottostante cimitero civico, progettato nel 1836 dall’architetto Ireneo Aleandri. Nella foto centrale, la facciata della basilica romanica. Nella cartina di destra l'Italia suddivisa in zone di influenza longobarde e bizantine. La Langobardia Minor era il nome che, in età altomedievale, veniva dato ai domini longobardi dell'Italia centro-meridionale, corrispondente ai ducati di Spoleto e di Benevento. Dopo la conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno, nel 774, rimase ancora a lungo sotto controllo longobardo.[/caption]
Casta militare separata dalla popolazione romanica, i Longobardi si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola (bizantine e romane). La fusione tra i germani e i romanici pone la base per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei periodi successivi.
Spoleto conobbe in quei secoli un certo splendore poiché divenne ducato e centro di potere: come era consuetudine in quel periodo, spinti sia da ristrettezze economiche, da ovvie ragioni pratiche ma anche da motivi ideologici, la chiesa di San Salvatore a Spoleto fu realizzata quasi interamente con materiali di riciclo e si trova leggermente disassata rispetto al borgo medievale cittadino.
L'edificio si presenta a tre navate, dove lungo quella centrale corre un fregio dorico di spoglio, sorretto da grandi colonne doriche e corinzie, appartenenti all’età classica.
Se i Longobardi non sempre riuscivano nell'intento di dare agli ambienti - da loro concepiti - l'armonia degli edifici romani qui “Nel restauro di San Salvatore a Spoleto viene tuttavia raggiunto un risultato di straordinaria coerenza classicista, sia dal punto di vista della struttura architettonica, con il grande ordine corinzio a colonne e semicolonne del presbiterio, sia come imitazione dei motivi decorativi romani (...)”.
Sulla facciata si aprono tre portali e tre finestre, tutti decorati con splendidi elementi di reimpiego: sulle architravi dei portali sono scolpite girali fitomorfe tipicamente classiche, dentelli e volute che hanno ispirato generazioni di decoratori successivi in tutta la regione. La pietra dell'architrave centrale pare provenga da un monumento funerario romano risalente al I secolo d.C..
[caption id="attachment_7772" align="aligncenter" width="1000"] Viste interne della basilica di San Salvatore a Spoleto.[/caption]
Si pensa che l'origine della basilica del Salvatore risalga addirittura al IV o V secolo: si racconta che fu ivi sepolto il corpo del martire Concordio e che sui resti di un'antica villa fu costruita questa chiesa in memoria del santo. I primi dedicatari dell'edificio furono proprio Concordio e Senzia, ma probabilmente il nome fu cambiato verso l'VIII secolo, quando i Longobardi effettuarono dei lavori di ristrutturazione a seguito di un incendio e fu così chiamata San Salvatore.
Vi è, non lontano da Spoleto, un altro edificio che ha suscitato la curiosità e la perplessità degli studiosi per molti secoli, il cosi detto tempietto del Clitunno. L'edificio è situato nel comune di Campello sul Clitunno (PG), nella frazione di Pissignano. E’ iscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011.
Si tratta di una piccola chiesa ("chiesa di San Salvatore"), a forma di tempietto corinzio. In passato era ritenuto essere un sacello romano riconsacrato come chiesa, ma la presenza di una croce al centro del timpano, coerente e integrata al resto della decorazione scolpita, sembra provare che fu invece sin dall'inizio un edificio di culto cristiano. La costruzione dell'edificio è stata attribuita al IV-V secolo. 
Sull'architrave si trovano, rispettivamente sui lati ovest, sud e nord, le seguenti iscrizioni in caratteri maiuscoli romani quadrati, rarissimo esempio di epigrafia monumentale alto-medievale.
Il manufatto è costituito da un basamento con camera, accessibile da un portale sul fronte, e da una parte superiore in forma di tempietto. L'ambiente ricavato nel basamento, coincideva con i resti di un più antico edificio pagano. La parte superiore conserva la facciata tetrastila corinzia in antis (a quattro colonne). Il fusto delle colonne si presenta scanalato a spirale e sorreggono la trabeazione ed il frontone. L'accesso alla parte superiore avveniva per mezzo di due scalinate laterali con protiri e, in origine, precedute da un proprio pronao, che venne demolito nel XVIII secolo per riutilizzarne i blocchi.
[caption id="attachment_7775" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito3 Nascosto tra gli alberi e poco visibile dalla strada principale, il Tempietto del Clitunno sorge ad 1 km di distanza dall’ingresso alle Fonti. Come descrive Plinio il Giovane in una lettera ad un amico, lungo il corso del fiume sorgevano diversi templi in onore del Dio Clitunno, che oggi per la maggior parte sono andati perduti.[/caption]
Internamente è presente la cella o naos, coperta da volta a botte, con un’edicola che inquadra l'abside sul fondo. Sono presenti affreschi del VII secolo (il Salvatore tra i santi Pietro e Paolo e Angeli), che hanno somiglianze con quelli di Santa Maria Antiqua a Roma.
Nonostante la scarsa propensione dei duchi longobardi ad accogliere la contemporanea rinascita anticheggiante che si sperimentava a Roma, gli interventi sul tempietto raggiunsero - come poco più tardi la chiesa di San Salvatore a Spoleto - una coerenza classicheggiante eccezionale, sia nella struttura architettonica sia nella ripresa dei modelli decorativi romani.
Questa struttura è il frutto di elementi di riporto che ne rendono molto difficile la datazione, con la maggior parte degli ornamenti scolpiti - a differenza di altre opere architettoniche longobarde – che sono manufatti originali e non reimpieghi di elementi di età romana.
Le analogie tra i due edifici sono così evidenti che Judson Emerick li chiama “sister buildings” praticamente “strutture sorelle” e li mette in stretta relazione cronologica. Anche il tempietto del Clitunno infatti presenta elementi di riporto e una decorazione eterogenea che lascia dubbi sulla datazione. Come la chiesa di San Salvatore, si tende a datarlo verso l'VIII secolo, in epoca longobarda.
Come la cripta longobarda di S.Eusebio a Pavia, San Salvatore – così come il tempietto del Clitunno - presenta un'eccezione nella cultura dei nuovi invasori. Questi esempi rappresentano l'uso diffuso - da parte dei Longobardi - nel creare edifici utilizzando parti diverse di architetture più antiche, le quali furono riadattate con una certa creatività e un certo gusto.
Questi due edifici testimoniano ancora un periodo che per secoli è stato buio e che per la mancanza di dati scritti risulta ancora di difficile lettura per gli storici dell'arte, di contro – invece - ha lasciato chiare tracce di una volontà di conservare e allo stesso tempo innovare, lo stile classico riadattandolo alle nuove esigenze del culto.
 
Per approfondimenti:
_Judson Emerick, The Tempietto del Clitunno and San Salvatore near Spoleto: Ancient Roman Imperial Columnar Display in Medieval Contexts in "Architecture and the classical tradition from Pliny to Posterity", Harvey Miller Publishers
_Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani
 
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