[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1490357736328{padding-bottom: 15px !important;}"]L'architettura del Duomo di Modena nella lotta tra papato e impero[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino 24/03/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1490357865943{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il duomo di Modena è uno dei monumenti più importanti dell'arte romanica. Sono diverse le peculiarità di questa chiesa magnifica, a partire dalle condizioni che ne determinarono la costruzione nel XI secolo. Dopo la fine dell'impero carolingio, iniziò il periodo cosiddetto della lotta per le investiture che vide contrapporsi da un lato gli imperatori e dall'altra il pontificato, ciascuno dei quali voleva riconosciuta la propria supremazia sull'altra fazione. Il pretesto fu l'opposizione del Papa nell'investitura dei vescovi da parte del sovrano laico. In realtà in gioco c'era il riconoscimento del potere su tutta l'Europa.
Dopo la morte di Carlo Magno, il continente era stato di nuovo vittima di invasioni barbariche da parte dei normanni sulle coste tedesche e francesi, degli ungari in Europa centrale e dei saraceni che erano giunti sulle coste meridionali sino a conquistare la Sicilia e che ancora detenevano il potere in gran parte della penisola Iberica.
[caption id="attachment_8256" align="aligncenter" width="1000"] La morte di Carlo Magno, miniatura dal manoscritto. Fr. 2820 della Biblioteca nazionale di Parigi[/caption]
In questa difficile situazione politica - aggravata da carestie e malattie, nel X e XI secolo - i villaggi si erano andati sempre più organizzando intorno a grandi e ricche abbazie: prima tra tutte quella di Cluny, in Francia. Le abbazie erano centri di cultura, oltre ad essere vere e proprie cittadelle, spesso fortificate e completamente autosufficienti. Allo stesso modo nelle città, i vescovi avevano sempre più preso potere ed erano diventati veri e propri amministratori del potere non solo religioso ma anche temporale.
Era dunque normale che sia il Papa che gli Imperatori si contendessero il potere della loro investitura per garantirsi indirettamente il controllo dei territori che i vescovi amministravano. La situazione era degenerata nel 1075 quando papa Gregorio VII aveva emanato la bolla "Dictatus Papae" in cui si dichiarava che il pontefice, essendo guida spirituale della cristianità, era superiore all'imperatore che deteneva solo il potere temporale e che conseguentemente poteva essere deposto attraverso la scomunica. La reazione dell'imperatore non si fece attendere: radunò i vescovi a lui fedeli e depose il Papa. Seguì un lungo periodo in cui papi ed antipapi - eletti dal clero e degli imperatori -  imperatori scomunicati ed eredi cospiratori, si contesero il potere e la supremazia in Europa, ma soprattutto in Italia. Nel frattempo però nella nostra penisola andava nascendo una nuova classe sociale che sempre più accumulava ricchezze e potere: la borghesia, retta dal commercio.  Le città si preparavano a combattere per la propria indipendenza: tale situazione condusse molti comuni - o floride repubbliche marinare - verso l'autogestione.
In tale contesto storico, anche l'architettura muta: una delle innovazioni nel duomo di Modena la riscontriamo già nell'edificazione del manufatto, il quale fu edificato per volontà popolare, in un momento in cui la cattedra vescovile era vacante. Fu deciso da tutti i cittadini - di ogni estrazione sociale - e fu finanziato in gran parte proprio dalla classe commerciante, come simbolo della propria potenza, autonomia e ricchezza. Quando il nuovo vescovo venne ad installarsi in città, trovò il cantiere già attivo.
[caption id="attachment_8258" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini, la facciata principale, posta ad est, uno spaccato assonometrico e il dettaglio della porta con le statue zoomorfe, raffiguranti i due leoni.[/caption]
Le firme dei due artisti, rarissime nel medioevo, denotano l'inizio del cambiamento sociale di queste figure: pensato fino ad allora come un semplice artigiano, l'artista iniziava a diventare invece un personaggio importante e riconosciuto, proprio come i mercanti cominciavano a diventare signori e gli artigiani iniziavano a raggrupparsi in associazioni per avere maggior riconoscimento del loro lavoro. Lanfranco e Wiligelmo sono dunque due nomi che fanno da battistrada ai successivi grandi del rinascimento.
La chiesa è in stile romanico e comprende anche la torre campanaria dette Ghirlandina. La struttura, dopo la scomparsa di Lanfranco, fu continuata dai maestri campionesi, provenienti dall'area alpina tra la Lombardia e la Svizzera e quindi aggiornati sulle tecniche costruttive d'oltralpe. La chiesa, a tre navate e priva di transetto, si presenta con una facciata a salienti in tre campiture divise da grandi paraste. Sei archi con trifore scandiscono il ritmo della parte superiore e continuano lungo la navata. Il portale maggiore è sormontato da un protiro su due livelli con un'edicola sorretta da due leoni stilofori di origine romana.
Il grande rosone e i due portali laterali sono aggiunte del XIII secolo. Molti i materiali di reimpiego di origine romana sia per le pietre della muratura che nella decorazione. Nella struttura vi sono alcune irregolarità, dovute probabilmente ad errori di calcolo: lungo la navata infatti la serie di loggette tripartite si interrompe e lascia spazio ad una bifora. Errori di questo genere sono frequenti nelle chiese medievali e particolarmente romaniche poiché le tecniche di costruzione non erano ancora perfettamente padroneggiate e l'erezione di una cattedrale era spesso equiparata ad un miracolo. Tuttavia la struttura risulta armonica anche grazie alle sue proporzioni: l'altezza infatti è esattamente pari alla larghezza.
Originali e vivaci, le sculture di Wiligelmo animano e allo stesso tempo espletano una funzione didascalica, raccontando quattro scene della Genesi.
I quattro lastroni dovevano in origine essere visibili in facciata ma poi vennero spostati con l'apertura dei portali laterali. Troviamo la creazione dell'uomo, della donna ed il peccato originale, la cacciata dal paradiso, il sacrificio di Caino e Abele, l'omicidio di Abele e la condanna divina, l'uccisione di Caino, il diluvio universale e l'uscita di Noè dall'arca.
[caption id="attachment_8257" align="aligncenter" width="1000"] Vista prospettica sud della cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta in Cielo e San Geminiano - sita in piazza Duomo - chiamata comunemente Duomo di Modena.[/caption]
Una pietra posta all'esterno dell'abside riporta la data di fondazione della chiesa 23 maggio 1099 e, per la prima volta, il nome dell'architetto: Lanfranco. Un'altra lapide ricorda il valente scultore che decorò questo edificio, mastro Wiligelmo.
Queste scene sono narrate in modo consecutivo a gruppi di tre, come se fossero un fumetto. A scandire i tempi, gli archetti tripartiti divisi da colonnette, che riprendono la decorazione stessa dell'esterno del duomo.
Wiligelmo e la sua scuola decorarono con sculture tutta la struttura. Particolarmente interessante anche il maestro delle metope, che decorò con un originalissimo repertorio fantastico, le metope appunto, oggi conservate nel museo del duomo. Di questo artista, come del suo maestro Wiligelmo, colpisce la ricerca di volume, di movimento e di narrazione, derivati senz'altro dall'osservazione dell'antico. Le figure non sono anonime ma ben caratterizzate dai loro atteggiamenti e movimenti. Si veda Adamo che nella scena del peccato originale si porta una mano al mento in atteggiamento pensoso o come Abele si accasci in terra sotto il colpo del fratello. Le sculture risultano un efficace mezzo di narrazione e in questo perfetto esempio di romanico, narrano tutto ciò che c'è da sapere: troviamo i mesi dell'anno rappresentati con i lavori tipici di ogni periodo, il ciclo arturiano con le leggende di origine francese (precedente persino alla prima versione scritta conosciuta), interessanti raffigurazioni come la verità che strappa la lingua alla frode, scene della vita di San Gimignano (le cui reliquie sono conservate all'interno del duomo) etc.
Come scrive la Romanini “Il rapporto tra l'architettura di Lanfranco e la scultura di Wiligelmo è in questo senso esempio principe -nell'Europa romanica- di uno spazio modellato come forma plastica, identificato con il plastico snodarsi rotante di un corpo vivo”. 
[caption id="attachment_8259" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito2 Vista interna e della cripta.[/caption]
Internamente la chiesa si suddivide in tre navate, terminanti ognuna con un’abside, e senza transetto. Il presbiterio e il coro sono sopraelevati sulla cripta. Nella navata centrale si succedono colonne e pilastri, su quest’ultimi poggiano le volte della navata centrale, invece sulle colonne poggiano le volte delle navate laterali. La navata centrale è suddivisa in quattro campate, mentre le navate laterali ne hanno otto, poiché la lunghezza delle prime è doppia delle altre. Nell’interno si trova un finto matroneo. La copertura originale era costituita da capriate lignee, poi però nel XV secolo vennero create al loro posto le volte a crociera. Il rivestimento interno è in laterizio. Oltre alle sculture di Wiligelmo, il duomo contiene altre opere di grande valore artistico. Tra le tante è giusto citare il pulpito che compare nella navata nord, fatto nel 1322 da Enrico da Campione, il San Sebastiano realizzato su tavola da Dosso Dossi, il Pontile Campionese, caratterizzato dai simboli dei quattro evangelisti e dalla raffigurazione dell’Ultima Cena, una statua di marmo di San Geminiano opera di Agostino di Duccio del XV secolo, gli “stalli intarsiati” di Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara del XV secolo e alcune tele di Francesco Stringa, Bernardino Cervi e Lodovico Lana. Il duomo di Modena, oltre ad essere un capolavoro assoluto dell'arte romanica, è anche una preziosa testimonianza della crescente autonomia della comunità cittadina.
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini e Marina Righetti Tosti Croce “arte medievale in Italia”, Sansoni editore;
_Pierluigi De Vecchi, “Arte nel tempo”, Bompiani editore.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 
 

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1490093436671{padding-bottom: 15px !important;}"]26°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Storia del pensiero conservatore. Dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Di Francesco Giubilei[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1490099542718{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Riportiamo il terzo evento della stagione culturale 2017 della associazione Das Andere "Futuro-Passato. Oltre il già detto". Ospite dell'incontro - introdotto da Nicolò Cingolani e moderato dall'arch.Giuseppe Baiocchi - è stato il Dott.Francesco Giubilei che ha dissertato su: "Il pensiero conservatore. Dalla rivoluzione francese ai giorni nostri".
L'evento si è svolto presso la Sala Cola dell'Amatrice dove l'editore Giubilei ha tracciato la storia culturale del conservatorismo dalle origini ai giorni nostri soffermandosi sull’Europa centro-occidentale e sull’Italia. Ponendoci le domande del “perché nel nostro paese non esiste un partito conservatore?”, e “quali sono le cause e le motivazioni storico, politico, culturali?” Abbiamo analizzato opere e profili biografici di decine di pensatori conservatori, sforzandoci di far emerge un quadro organico del conservatorismo europeo.
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Essere conservatori non significa restaurare il passato in modo aprioristico o rigettare in toto le innovazioni, ma rimettere in discussione il mondo contemporaneo dominato dal materialismo e dall’individualismo, dove i valori spirituali e il concetto di comunità sono ormai al crepuscolo.
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Bellissimo dibattito finale - come di consueto - con il pubblico, sempre numerosissimo, ed al quale va il nostro ringraziamento. L'associazione ringrazia i politici ascolani presenti all'iniziativa.
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In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Regione Marche
_Comune di Ascoli Piceno
_Fondazione Carisap
_la Confartigianato
_Libreria Rinascita
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1489929388824{padding-bottom: 15px !important;}"]Stefano Rodotà: Lettura giuridica sul diritto d'amore[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi 19/ 03/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1489930454130{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Tra gli scaffali d’una libreria mi sono imbattuta in un volume di modeste dimensioni e dalla copertina di colore rosso vermiglio. Il titolo, al contempo laconico e denso, dà voce a un’endiadi ideale di parole diverse, ma irrimediabilmente connesse tra loro: diritto e amore. L’autore, nel primo capitolo, s’interroga su quale sia il rapporto che intercorre tra gli anzidetti vocaboli, che al giorno d’oggi sembrano non avere molto in comune.
Diritto e amore sono compatibili, pronunciabili insieme, oppure appartengono a delle logiche conflittuali, tanto che l’uno e l’altro tentano di sopraffarsi? Il diritto è stato usato come sistema di neutralizzazione dell’amore, quasi che, lasciato a se stesso, l’amore rischiasse di dissolvere l’ordine sociale?”.
A una prima analisi la risposta sembra essere affermativa. Il diritto, per esigenze legate alla propria natura, richiede uguaglianza, regolarità, uniformità. È evidente come le sue premesse di fondo divergano da quelle che sottendono alle ragioni dell’amore. In effetti, volgendo il pensiero a un avveduto Montaigne, torna subito alla mente la definizione che questi diede alla vita: “un movimento ineguale, irregolare e multiforme”.
Se si facessero convergere amore e vita in un solo significato di più ampio respiro, sarebbe semplice individuare la netta antitesi che si pone tra questi termini e la parola “diritto”, intesa nella maniera precedentemente proposta.
Dunque, bisogna concludere che “l’amore è allergico alle goffagini del diritto civile”, come notava il giurista francese F. Terré, nella sua opera “Fait-on un bon droit avec de bons sentiment?” Sembra di sì, considerato che il diritto ha spesso confinato l’amore senza legge in uno stato d’eccezione. Si pensi, per esempio, alla disciplina codicistica del diritto di famiglia. Nella modernità occidentale, fino a tempi piuttosto recenti, il vincolo giuridico del matrimonio si basava su un rapporto tra coniugi innestato su alcune categorie tipiche del diritto patrimoniale. Prima tra queste, “la proprietà”: ciascun coniuge vantava un diritto sul corpo dell’altro.
[caption id="attachment_8215" align="aligncenter" width="1000"] Stefano Rodotà (Cosenza, 30 maggio 1933) è un giurista, politico e accademico italiano.[/caption]
In seconda istanza, “il credito”; giacché il diritto di esigere prestazioni sessuali connotava la relazione matrimoniale, all’interno della quale compariva il “debito coniugale”.
Tuttavia, com’è noto ai più, la posizione dei coniugi non godeva della parità che ad oggi qualifica le parti contraenti in altri rami del diritto. Basti pensare che l’error virginitatis (la mancata verginità della donna al momento della consumazione, ndr) rendeva nullo in radice il matrimonio stesso. La ragione che in passato sorreggeva tale pretesa va individuata nel fatto che un errore sulle “qualità personali del coniuge” non sembrava conforme a quella logica monogamica fondata sull’esclusivo possesso di una donna.
Tuttavia Ludovico Mortara, presidente della Corte d’Appello di Milano, in una sentenza del 1911 si espresse con un’opinione dissenziente rispetto all’ideologia ben radicata al tempo e più risalente.
Questi evidenziò come <<Elevare la verginità fisica della donna a qualità essenziale, il cui difetto, se non è stato prima dichiarato, diviene causa di annullamento delle nozze, significa abbassare il matrimonio a livello di un contratto commutativo, nel quale l’oggetto principale sarebbe costituito dal corpo degli sposi; vuol dire estendere al matrimonio i principi della garanzia che il venditore deve al compratore per i vizi e i difetti occulti della cosa venduta, assegnando precisamente al difetto di verginità la funzione di un vizio redibitorio, per la quale si considera la sposa deflorata non atta a raggiungere i fini del matrimonio; nello stesso modo che si soleva nel Medioevo subordinare la validità dei contratti di compra-vendita delle schiavette di Levante e Barberia alla condizione che la giovane fosse “non fatta” ma “sana, integra in tutte le sue parti e senza macchia”>>.
[caption id="attachment_8216" align="aligncenter" width="1000"] Lodovico Mortara (Mantova, 16 aprile 1855 – Roma, 1º gennaio 1937) è stato un avvocato, politico e docente universitario di Diritto Costituzionale italiano, divenne ministro della giustizia con il primo governo Nitti.[/caption]
Può l’amore essere associato alla subordinazione?
Nel 1942, all’alba delle discettazioni sulla nuova codificazione civile, il celebre giurista Francesco Carnelutti si espresse in questi termini : << Lo ius in corpus o in corpore dell’un coniuge verso l’altro è più vicino che non sembri al diritto nascente per l’imprenditore verso il lavoratore del contratto di lavoro>>. Dunque, considerate simili costruzioni culturali, è agevole comprendere il motivo per il quale nel codice civile del 1942 al “marito” venisse ancora assegnato il ruolo di “capo famiglia” ex articolo 144 c.c., rimasto in vigore fino alla riforma del 1975.
La lettera dell’art 144 c.c. disponeva << Il marito è il capo della famiglia. La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede di fissare la sua residenza>>.
Questa corrente di pensiero all’epoca dominante spiega la difficoltà della Corte Costituzionale nel cancellare la discriminazione tra le diverse condizioni del marito e della moglie in caso di tradimento. In danno del primo non erano previste pene, contrariamente a quanto accadeva per la seconda, che era imputabile di “reato d’adulterio”.
In ogni caso, sembra che un composito gruppo di giuristi avversasse la condizione paritaria di uomo e donna finanche nel matrimonio . Tra questi figuravano Vittorio Emanuele Orlando, politico e fondatore del diritto pubblico italiano; Piero Calamandrei e Francesco Saverio Nitti.
 
 
Per approfondimenti:
_Diritto d’amore -Stefano Rodotà.
_Teoria generale del diritto – F.Carnelutti
_Politica e amore – A. Tonelli
_Fait-on un bon droit avec de bons sentiments – F. Terré
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1489653215028{padding-bottom: 15px !important;}"]La Follia in musica. Variazioni su un tema popolare[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Edoardo Cellini 16/ 03/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1489657192036{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La Follia è uno dei temi musicali più antichi della storia europea ed individua, nello specifico, una melodia portoghese in uso nei secoli XVI e XVII. Le sue origini si fanno generalmente risalire al diffondersi di rappresentazioni - in forma di danza e di canto - che accompagnavano feste di carattere popolare e profano, già nel tardo Medioevo.
Fu soltanto in forza del progressivo distacco dalle primordiali forme coreografiche che la Follia, preso il nome dal carattere vivace e mosso della danza che la sosteneva, si fece idea musicale autonoma e riuscì ad emergere come prezioso strumento armonico e melodico in grado di farsi strada negli ambiti della musica colta conquistando, in particolare, i favori delle corti europee sul finire del cinquecento. Una struttura semplice eppure ricca di molteplici possibilità espressive, con cui i compositori dei secoli successivi, di volta in volta vinti dal suo mistero, si confrontarono arrivando ad elaborare alcune tra le più toccanti e suggestive “variazioni su tema”.
[caption id="attachment_8195" align="aligncenter" width="1000"] Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220x389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.[/caption]
Anche ai fini di un’analisi generale è bene ricordare come dietro le forme più “nobili” entrate nel patrimonio linguistico-compositivo della musica classica, vi si possa spesso leggere la cristallizzazione di temi e melodie dalle origini più “umili” legate alle festività del mondo contadino e ai riti che vi si svolgevano. In altri termini, rispetto al tema di ogni “ciaccona”, “sarabanda”, “pavana” o “giga”, vi è all’origine una danza di carattere popolare e profano che riflette il complesso intrecciarsi delle vicende storiche del paese in cui è nata, sino ad identificarsi con la sua anima più profonda. D’altro canto, dietro le “Danze Ungheresi” di Listz o le “Polacche” di Chopin, non bisogna solo leggere le orgogliose rivendicazioni (siamo in epoca romantica) di compositori fieri delle proprie culture di appartenenza, quanto piuttosto il recupero di melodie popolari tradizionali rilette attraverso una spiccata sensibilità moderna, altrettanto aperta alle sperimentazioni.
Il tema della Follia non si sottrae certo a tutto questo e la sua storia lo mostra in maniera evidente: convenzionalmente infatti, si suole dividerne l’intero corso in due tronconi, il primo, detto quello della “primitiva” Follia e l’ultimo, cosiddetto della “tarda” Follia, a noi certamente più nota. La prima parte della storia evidenzia, come in parte anticipato, uno stretto legame della melodia con il contesto dai toni “accesi” e popolari in cui nacque.
Il termine Follia - in portoghese “folia” - indica letteralmente: “baldoria, divertimento sfrenato, follia” ed appare subito chiaro, sebbene non ci siano pervenute trascrizioni, quanto lo stesso nome richiami alla mente il carattere di gioiosità e convivialità - oltre che di eccessi -, delle rappresentazioni che accompagnavano le danze rurali. Un richiamo a tale universo è compiuto dal “padre nobile” del teatro rinascimentale portoghese, il commediografo e poeta della corte di Lisbona Gil Vincente (1465-1536), il quale menziona in numerosi suoi testi una “folia” come una danza ballata da pastori e contadini ed accompagnata da canti vivaci, probabilmente a fronte di talune festività ricorrenti.
Il fatto che il tema musicale sia dunque di origine popolare e che le sue origini rimandino alla parte più occidentale della penisola iberica, il Portogallo appunto, sembra essere confermato anche dal celebre trattato: “De musica libri septem”, pubblicato nel 1577, ad opera di Francisco de Salinas (1513-1590) che fu musicologo, organista ed erudito umanista e che visse gran parte della sua vita tra Roma e le varie corti castellane tra cui Salamanca, dove insegnò nella Università locale. Non bisognerà aspettare molto però, perché la Follia arrivi a strutturarsi nel tema con cui noi oggi siamo abituati a pensarla: la seconda parte della sua storia presenta un’idea musicale che si sveste del vecchio tessuto grezzo, dalle tonalità chiassose ed allegre, per indossare i panni austeri e finemente ricamati con cui farà poi il suo ingresso nelle corti d’ Europa.
La “tarda” Follia, pur mantenendo un forte richiamo alla melodia originaria, si schematizza e diventa una progressione accordale (ripetizione di una medesima formula partendo da note diverse) basata su un tempo ternario e diviso in due parti di quattro battute ciascuna. La più antica composizione pervenutaci, di detto tema in tali vesti, risale alla metà del secolo XVII; ma numerosi sono i riferimenti precedenti verso uno schema compositivo che recupera la melodia ben nota nella penisola iberica per farsi formula musicale su cui l’autore poteva, rispettando una linea di basso ripetuto, impiantare vari contrappunti ed essere libero di comporre, anche improvvisando, numerose “diferencias”, in spagnolo “variazioni”, appunto. Nel “Tratado de glosas” del 1553, Diego Ortiz, presenta vari richiami a questa serie di variazioni adoperando il clavicembalo per costruire le armonie sul basso ostinato della Follia, onde sviluppare progressioni accordali in cui veniva affidato alla viola il compito di liberarsi in evoluzioni melodiche dal respiro già virtuosistico. Una fonte anonima di detto schema armonico e formale risale inoltre al “Cancionero de Palacio” (1475-1516) nella canzone anonima: “Rodrigo martinez Adoràmoste”. Successivamente se ne occupa la versione per organo di Antonio de Cabezòn del 1557, senza escludere il contributo fondamentale di Juan del Encina, di poco antecedente, che risale al 1553. 
La maggior parte dei musicologi però è concorde nel ritenere che il primo ad introdurre il tema della “tarda” Follia nella musica colta europea sia stato il compositore Jean- Baptiste Lully (1632-1687), fiorentino di nascita (Giovanni Battista Lulli) poi naturalizzato francese nel 1661, che fu attivo per gran parte della sua vita alla corte di Luigi XIV. Il suo apporto allo sviluppo dell’estetica musicale francese, con particolare attenzione alle forme del balletto classico, fu di grande importanza; ma ai fini di questa analisi preme di ricordare come egli fu il primo a richiamarsi espressamente ad un tema noto come “Folies d’ Espagne” in forma di marcia, probabilmente destinata ad essere eseguita dalla Grand Ecurie, la banda militare della corte del Re Sole.
[caption id="attachment_8191" align="aligncenter" width="1200"]le-roi-danse Jean-Baptiste Lully o Giovanni Battista Lulli (1632 – 1687) è stato un compositore, ballerino e strumentista italiano naturalizzato francese. Trascorse gran parte della sua vita alla corte di Luigi XIV, ottenendo, nel 1661, la naturalizzazione francese. Lully esercitò una considerevole influenza sullo sviluppo della musica francese; molti musicisti, sino al XVIII secolo, faranno riferimento alla sua opera. Suoi collaboratori o seguaci furono il contemporaneo Marc-Antoine Charpentier, Pascal Collasse, Marin Marais, Henry Desmarest, Jean-Philippe Rameau e Christoph Willibald Gluck.[/caption]
L’antico tema portoghese non è più molto inerente con la formula ormai in uso presso le corti europee: queste identificano la melodia con l’intera penisola iberica e così essa viene diffusa grazie all’opera dei compositori dei secoli successivi, i quali porteranno a compimento l’idea di uno schema musicale che, sopra l’incedere grave e solenne di una linea di basso, prevedeva delle progressioni accordali sulle quali impiantare melodie lasciate libere all’istinto dell’interprete di turno. Una formula dunque affine alla “passacaglia” o alla “ciaccona”, che garantirà grande libertà d’espressione pur nei suoi stilemi ormai codificati.
Tra le più riuscite composizioni impiantate sul tema spicca senza dubbio l’opera di Arcangelo Corelli (1653-1713) il quale diede alla luce una “Follia” tra le più celebri in assoluto. Corelli fu compositore di grandissima fama, ricercato per le sue doti di esecutore e didatta. Il suo nome si lega al fondamentale sviluppo che impresse alla musica strumentale occidentale: egli incentrò infatti gran parte del suo lavoro nella forma della sonata a tre, o della sonata per violino solo e basso (col termine sonata si intendeva ancora una successione di vari tempi in forma di suite- Enciclopedia della musica ed. Garzanti) mirabilmente espressa nella “Sonata op.5 n.12, a violino, violone o cimbalo” pubblicata nel 1700.
La sua “Follia” appare come la dodicesima di detta raccolta e arriva a coronamento non solo di tale opera, quanto anche della storia del tema stesso: da qui in poi infatti tutti i successivi compositori non potranno che confrontarsi con quanto scritto da Corelli, il quale appare come uno dei vertici espressivi più riusciti e basati sul fiero tema iberico, in quanto - oltre al recupero dell’antica melodia - il compositore arriva a sviluppare attenti cambi di ritmo, studiate dissonanze e ad elevare, sopra le fondamenta del basso continuo (clavicembalo), una serie di variazioni affidate in gran parte ad un violino dal respiro ora deciso, ora lirico, quasi “virtuosistico”.
[caption id="attachment_8193" align="aligncenter" width="1648"] Hugh Howard, Ritratto di Angelo Corelli (particolare) del 1697.[/caption]
Così si esprimerà Francesco Geminiani, allievo di Corelli, dichiarando: “Non pretendo di esserne l’inventore: altri compositori, della più alta classe, si sono avventurati nello stesso tipo di viaggio e nessuno con maggior successo che il celebrato Corelli, come si può vedere nell’opera quinta sull’ Aria della Follia di Spagna. Io ho avuto il piacere di discorrere con lui su tale soggetto e l’ho udito di riconoscere quanta soddisfazione ebbe nel comporla, ed il valore che gli attribuiva”.
Un altro nome illustre legato alla Follia è senza dubbio quello del compositore Antonio Vivaldi che scrisse una sua versione del tema nel 1705 nella sua “Sonata op.1 num.12”. Senza dimenticare l’opera precedente di Marin Marais nel suo “Secondo libro per viola” del 1701. Tra gli altri non mancarono di produrre alcune tra le più significative “follie” compositori del calibro di Alessandro Scarlatti (1660-1725) nel 1710 e Johan Sebastian Bach, che introduce il tema nella “Cantata dei contadini” nel 1742.
Lungo il IX secolo il cammino della Follia sembra subire una battuta d’arresto, o quantomeno, procedere più sommessamente dietro le numerose altre forme musicali che apparivano più in grado di avvicinarsi allo spirito dei tempi. In realtà ciò è vero solo in parte, in quanto, sebbene non così in voga come nei secoli precedenti, il tema iberico riappare in pochi, ma luminosi, episodi tali da far sembrare che l’antica forma musicale abbia recuperato la maestosità di un tempo.
Significativa la figura di Antonio Salieri (1750-1825) il quale, essendo noto come eccellente compositore e didatta, dedicò il suo ultimo lavoro alle “26 Variazioni Orchestrali de la Folia Spagnola” nel 1815.
In esso il maestro veneto, forse più intenzionato a creare una sorta di “studio” circa possibilità espressive della neonata orchestra sinfonica, che consapevole della forza innovativa della sua opera, arriva a consegnarci un capolavoro appassionato e coinvolgente: una raccolta di variazioni capace di porsi in netto contrasto con l’estetica propria delle sue composizioni settecentesche, per esprimere una sorta di sensibilità ormai alle porte del Romanticismo.
Proprio in questo periodo si avverte come il luminoso esempio di Franz Liszt (1811- 1886) preluda ad una sorta di futura riscoperta del tema della follia che avverrà nei fatti solo un secolo più tardi: la “Rapsodia spagnola”, composta nel 1863 dal pianista ungherese, costituisce tanto un compendio di virtusismo tecnico abbinato alla ricerca delle possibilità espressive dello strumento, quanto una vera e propria riscoperta dei temi musicali che, nell’ottica romantica, abbracciano l’identità culturale di un dato paese. Antecedente alla creazione di Liszt, troviamo l’opera di Mauro Giuliani (1781-1886) con le sue “Variazioni sul tema della Follia di Spagna” op.45, per chitarra. La creazione di Giuliani si distingue per esprimere, quasi sommessamente, una severa e asciutta rielaborazione del tema.
[caption id="attachment_8194" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito55 Nei dipinti: Antonio Salieri, Mauro Giuliani, Franz Liszt, Sergej Rachmaninov[/caption]

Bisognerà infine aspettare solo il XX secolo per assistere alla “rinascita” della Follia. Questa tornerà di nuovo ad essere uno degli schemi musicali in uso, grazie al gusto novecentesco per il recupero e l’analisi filologica (scevra dunque da ogni romanticismo) dei temi dal carattere popolare, oltre che in forza di una nuova sensibilità volta a rileggere in chiave incerta e dissonante le ansie della modernità. Su tutti gli esempi di Manuel Ponce (1882-1948) con “Preludio, Tema, Variaciones y Fuga” per chitarra del 1930 e del grande compositore russo Sergej Rachmaninov (1873- 1943), con le sue “Variazioni su un tema di Corelli” del 1931. Come un fiume che scorre dietro l’affresco delle vicende storiche, l’idea musicale su cui si basava la formula della Follia affiorerà infatti, di volta in volta, negli spartiti dei più grandi compositori, i quali si richiameranno all’idea originaria per sondarne i limiti ed alimentarne le possibilità espressive con l’apporto delle visioni proprie di ciascuna epoca.

 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
_F. Geminiani, A Treatise of Good Taste in the Art of Musik, London 1749
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1489499349026{padding-bottom: 15px !important;}"]Diritto penale: precedenza alle norme interne o europee?[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi 15/ 03/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1489583087595{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Abbandonati lo spirito golliano (c.d. “politica della sedia vuota”) e la pretesa d’accentrare le competenze penali in seno ai soli Stati Nazionali, l’Unione Europea ha dovuto vieppiù prestare attenzione a un dilemma nascente nell’ambito del proprio quadro politico e legislativo. Le regole e i principali fondamentali del riparo di competenze sono le seguenti:
1) L’Ue non gode di una competenza penale diretta, difatti i rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto penale interno devono essere analizzati alla luce del "Trattato di Lisbona" del 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
In primo luogo, non esiste una potestà sanzionatoria penale dell’UE, poiché nessuna norma dei Trattati attribuisce alle istituzioni europee la competenza a emanare norme penali incriminatrici.
Inoltre, il principio costituzionale della riserva di legge (art. 25 Cost.) impedisce l’ingresso, nel nostro ordinamento, di fonti penali europee. La riserva di legge, infatti, attribuisce esclusivamente al Parlamento nazionale (e al Governo) la competenza a emanare norme penali incriminatrici. La riserva di legge deve essere intesa, quindi, come riserva di legge statale, che verrebbe violata qualora si consentisse a norme europee di introdurre nel nostro ordinamento nuove figure di reato, individuando sia il precetto sia la sanzione, nonché nel caso in cui una legge statale rinviasse a una fonte europea per l’individuazione del precetto penale o di una parte di esso, con una formula del tipo “chiunque violi un regolamento dell’UE in materia di ... è punito con la pena di ....”.
2) L’incidenza indiretta dell’UE sull’ordinamento penale ... Il divieto, per l’UE, di introdurre direttamente fattispecie penali incriminatrici nei singoli ordinamenti statali non esclude, tuttavia, che l’UE eserciti comunque un’influenza notevole sui singoli ordinamenti. Infatti, gli atti dell’UE, e in particolare le direttive, possono prevedere:
−obblighi di criminalizzazione di determinate condotte a carico del legislatore penale statale;
−vincoli dettagliati sulla configurazione della fattispecie penale da parte del legislatore penale statale.
Da questa influenza non deriva alcun obbligo per i cittadini, che potranno essere assoggettati a sanzione penale soltanto se una legge nazionale, recependo le indicazioni provenienti dall’UE, preveda come reato il fatto commesso.
Normalmente gli Stati membri si conformano spontaneamente agli obblighi europei per evitare sanzioni. Numerosi settori del diritto penale italiano, soprattutto nell’ambito della legislazione penale complementare (si pensi, ad es., al settore del diritto penale alimentare) sono “dettati” dall’UE.
3) Sul giudice penale: il diritto dell’UE non vincola soltanto il legislatore nazionale ma anche il giudice penale. In virtù del principio di primazia del diritto dell’Unione sul diritto interno, le norme penali statali contrastanti con una norma europea dotata di efficacia diretta non saranno applicabili e devono, quindi, essere disapplicate dal giudice penale, il quale cioè non dovrà tenerne conto ai fini del processo. Le norme europee che possono rendere inapplicabili le norme statali, anteriori o successive a quelle sovranazionali, possono essere contenute nei trattati, nei regolamenti o nelle direttive (purché siano dettagliate e sia decorso il termine per la loro attuazione da parte dello Stato membro).
In caso di incompatibilità totale tra norma europea e norma penale interna, quest’ultima è neutralizzata in tutta la sua estensione: ad es., in materia di gioco e scommesse (v. l’approfondimento sulla Lezione di diritto penale n. 1), la normativa italiana (art. 4 L. 401/1989) punisce l’attività di raccolta delle scommesse svolta, per conto di una società con sede in un altro Stato membro dell’UE, in assenza di concessione o autorizzazione rilasciata dallo Stato italiano, ma la giurisprudenza ha ritenuto che tale attività non integra il reato in quanto contrasta con i principi europei di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Invece, in caso di incompatibilità parziale, la norma penale si applica nella parte in cui non sussiste contrasto con la norma europea.
Inoltre, il giudice penale nazionale ha l’obbligo di interpretare le norme interne in modo conforme alla normativa europea, scegliendo, tra le interpretazioni possibili, quella più conforme alla lettera e alla ratio della normativa europea.
4) Il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Così come le norme europee non possono introdurre fattispecie incriminatrici nei singoli Stati, delineandone il precetto e la sanzione, anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non può incriminare determinate condotte né prevedere le relative sanzioni, perché ciò contrasterebbe con il principio di legalità e di riserva di legge in materia penale (art. 25, co. 2, Cost.).
Le norme Cedu:
a) assicurano la tutela (anche penale) di dei diritti fondamentali, ponendo dei limiti alla libertà di azione statale per proteggere la persona da arbitri e abusi, attraverso tre tipologie di limiti (VIGANÒ):
- divieto di violazione diretta, da parte del legislatore penale nazionale, dei diritti fondamentali della persona;
- divieto di incriminare condotte che costituiscono esercizio di diritti fondamentali;
- obbligo di incriminare condotte lesive di diritti fondamentali.
[caption id="attachment_8181" align="aligncenter" width="1000"] La Corte europea dei diritti dell'uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU) è un organo giurisdizionale internazionale, istituita nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, per assicurarne l'applicazione e il rispetto. Vi aderiscono quindi tutti i 47 membri del Consiglio d'Europa. Sebbene abbia sede a Strasburgo, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo non è un'istituzione che fa parte dell'Unione europea; non dev'essere confusa con la Corte di giustizia dell'Unione europea con sede in Lussemburgo, istituzione effettiva dell'Unione europea.[/caption]
Rispetto ai diritti fondamentali la Corte europea dei diritti dell’uomo accade spesso che la Corte europea interpreti le norme Cedu attribuendo al soggetto una tutela più ampia di quella riconosciuta dai giudici nazionali nell’interpretazione delle norme costituzionali corrispondenti. In queste ipotesi, le norme Cedu come interpretate dalla Corte europea arricchiscono il contenuto delle norme costituzionali, elevando il livello di tutela dei diritti fondamentali, e tale nuovo contenuto delle norme costituzionali vincola il legislatore italiano che debba legiferare su quella materia, il giudice penale che debba applicarle e il giudice costituzionale che debba valutare la legittimità costituzionale delle leggi penali.
Se si prende ad esempio l’art. 8 Cedu, questo disciplina il diritto al "rispetto della vita privata e familiare": la Corte europea dei diritti dell’uomo ne ricava una serie di limiti alla possibilità, per lo Stato, di disporre l’espulsione dello straniero che abbia forti legami familiari o affettivi nello Stato dal quale dovrebbe essere espulso. Tali limiti devono essere rispettati dal legislatore nazionale nel prevedere i casi di espulsione dello straniero, dal giudice penale italiano nell’applicare la legge che disciplina l’espulsione dello straniero e dal giudice costituzionale che si trovi a valutare la legittimità della relativa disciplina.
Per quanto riguarda, invece, gli obblighi contenuti nella Cedu, rivolti ai singoli Stati, di incriminare determinate condotte, il principio di legalità ex art. 25 Cost. impedisce al giudice penale di rimediare alla mancanza di una norma penale incriminatrice conforme agli obblighi contenuti nella Cedu estendendo la portata di altre norme incriminatrici o introducendo nuove figure di reato: il giudice penale - ad esempio - non può rimediare in via interpretativa alla mancanza, nel nostro ordinamento, del reato di tortura.
b) Le norme Cedu, contengono obblighi internazionali alla cui osservanza il legislatore italiano è tenuto in base all’art. 117, co. 1, Cost., che impone al legislatore di osservare la Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e, appunto, gli obblighi internazionali. Ciò significa che il legislatore deve conformarsi agli obblighi internazionali e che una legge contrastante con tali obblighi sarà costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117 Cost., a meno che gli stessi obblighi internazionali siano in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione (c.d. controlimiti). Pertanto, anche le norme Cedu devono essere interpretate alla luce dei principi costituzionali.
Prima di rivolgersi alla Corte costituzionale, però, il giudice deve tentare di interpretare le norme penali in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali. Pertanto, dovrà interpretare le norme in modo tale da armonizzarle con la Cedu (e con le altre norme internazionali), anche per non esporre lo Stato italiano a una responsabilità sul piano internazionale. Se il contrasto tra norma interna e norma Cedu non è superabile in via interpretativa, deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione dell’art. 117 Cost.
Il contrasto tra norma interna e norma Cedu non può quindi essere risolto dal giudice penale disapplicando la norma interna contrastante con la Cedu, come invece accade in caso di contrasto tra norma interna e diritto europeo: il giudice penale deve, in prima battuta, verificare se sia possibile risolvere il contrasto in via interpretativa con un’interpretazione della norma penale conforme alla Cedu e, laddove ciò non sia possibile, rimettere la questione alla Corte costituzionale.
5) Effetti espansivi ed effetti riduttivi del penalmente rilevante. Per quanto riguarda gli effetti concreti che il diritto europeo e le norme Cedu possono produrre sul diritto penale interno, possiamo individuare effetti espansivi ed effetti riduttivi delle condotte penalmente rilevanti (precetto) o dell’afflittività delle norme penali (sanzione).
Gli effetti riduttivi possono essere l’esito di un’operazione di interpretazione della norma penale interna conforme alle norme europee o alle norme Cedu o di una dichiarazione di incostituzionalità della norma nazionale per contrasto con la norma sovranazionale, e possono avere ad oggetto il precetto penale – circoscrivendo l’ambito applicativo della norma – o la sanzione.
Il giudice penale, ad es., deve interpretare restrittivamente le cause di giustificazione, che sottraggono determinati fatti alla sanzione penale in contrasto con le esigenze preventive e sanzionatorie sottese al diritto penale nazionale ed europeo: ciò comporta che la legittima difesa dovrà deve essere interpretata restrittivamente dal giudice penale per non consentire l’uccisione di chi attenti esclusivamente a beni patrimoniali, in omaggio alle esigenze di tutela del diritto alla vita ex art. 2 Cedu, che consente l’uccisione dell’aggressore soltanto quando la condotta risulti assolutamente necessaria per respingere una violenza illegittima, ossia un attacco alla persona.
Gli effetti espansivi possono essere prodotti:
• dagli obblighi di incriminazione di determinate condotte contenuti in norme europee o
norme internazionali;
•  dall’attività interpretativa dalle Corti europee;
• da un’interpretazione delle norme nazionali conforme alle norme sovranazionali.
 
Per approfondimenti:
Fiandaca- Musco : Manuale di diritto penale
Fornasari- Menghini: Diritto penale dell’unione europea
Pubblicazioni “Simone” sul diritto dell’unione europea
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1489258610195{padding-bottom: 15px !important;}"]L’Egitto: all'ombra delle piramidi, un colonialismo semi-permanente[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci 12/03/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1489528546180{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il brutale omicidio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni, avvenuto tra il gennaio e il febbraio del 2016 in circostanze non ancora del tutto chiare, ha riacceso i riflettori dell’opinione pubblica del nostro paese sull’Egitto paese noto ai più per le Piramidi, la Sfinge e le favolose spiagge di Sharm el-Sheikh. Questo breve saggio, senza alcuna pretesa di sistematicità, ripercorrerà le fasi salienti della storia dell’Egitto moderno dall’epoca del Pascià modernizzatore Muhammad ʿAlī alla Presidenza di Abd al-Fattah al-Sisi, inquadrando le vicende interne del paese nel più ampio contesto internazionale.
La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto nel 1798-1799 e la successiva presenza francese fino al 1801 vengono tradizionalmente considerate lo spartiacque della storia moderna del paese. Grazie all’impresa napoleonica, infatti la società egiziana ed in particolar modo il suo ceto intellettuale vennero scosse dal vento della modernità. Ci si rese conto che l’Egitto era rimasto per secoli escluso dal progresso scientifico e tecnologico. Ricchezza, benessere, scienza e cultura: furono in molti a percepire che un profondo iato aveva separato la società tradizionale dai più avanzati paesi europei.
[caption id="attachment_8105" align="aligncenter" width="1000"] Due dipinti di Jean-Léon Gérôme. A sinistra "Vista del Cairo" (dettaglio), 1890. A destra "Napoleone e il suo stato maggiore in Egitto, 1824-1904.[/caption]
Uno di questi fu sicuramente l’albanese Muhammad ʿAlī (1769 – 1849) considerato dagli storici il padre fondatore dell’Egitto moderno. Giunto nel paese con il contingente inviato da Istanbul nel 1801, dopo il ritiro dei francesi, si proclamò nel 1805 Pascià d’Egitto ottenendo l’assenso del sultano. Dopo aver fatto massacrare i bey mamelucchi, per consolidare il proprio potere si appoggiò ai funzionari e ai militari di origine ottomana (Turchi, Albanesi, Greci, ecc.) e ai mamelucchi circassi allineati al potere. Questa elite «turco-circassa» dominerà l’Egitto fino alla fine dell’Ottocento.
Consapevole dell’arretratezza che separava il paese dalle società occidentali avanzate, il sovrano decise di avviare alcune riforme volte a modernizzare l’apparato statale. In primo luogo favorì la formazione e lo sviluppo di una burocrazia relativamente efficiente. Essa provvide innanzi tutto a una sistematica recensione catastale delle terre, indispensabile per un efficace prelievo fiscale. L’opera del nuovo governo si indirizzò poi a distruggere il vecchio sistema semi-feudale di riscossione delle imposte agrarie (iltizām), un retaggio ottomano, per centralizzare nella burocrazia l'economia e canalizzarla al tesoro pubblico. Le fondazioni pie islamiche (i waqf), svincolate per tradizione dal controllo dello stato e improduttive dal punto di vista fiscale, furono per così dire «nazionalizzate» e incamerate anch’esse nel tesoro pubblico. Infine alle truppe albanesi, poco disciplinate, sostituì un esercito nuovo, composto inizialmente di schiavi neri razziati in Sudan e, in seguito, a partire dal 1823, di coscritti egiziani, inquadrati sotto il comando di ufficiali turco-circassi. Questo, in sintesi, fu il programma che Muhammad ʿAlī si prefisse, riuscendo in gran parte nello scopo.
[caption id="attachment_8108" align="aligncenter" width="1015"] David Roberts, Intervista con il viceré egiziano al palazzo di Alessandria, Olio su Pannello, 1849.[/caption]
Nel 1820 intraprese la conquista del Sudan per poi intervenire nella guerra d’indipendenza greca su richiesta del sultano ottomano. Avendo ormai a disposizione un esercito ben addestrato, nel 1830 decise di sfidare apertamente la Sublime Porta invadendo la Siria. L’esercito egiziano guidato da suo figlio Ibrāhīm giunse dapprima a Damasco, senza praticamente incontrare resistenza, per poi spingersi a nord fino a Konya e nel 1833 arrivò a minacciare la stessa Istanbul. Il sultano ottomano Mahmūd, spaventato, chiese e ottenne l’intervento della Russia; ma, a questo punto, la Francia e la Gran Bretagna, che in precedenza avevano mantenuto un atteggiamento passivo, si sentirono minacciate nei propri interessi. Da un lato, non volevano in alcun modo che la Russia si affacciasse al Mediterraneo; dall’altro, preferivano di gran lunga salvaguardare il debole e indebitato impero ottomano piuttosto che vedere affermarsi nel Levante l’aggressiva potenza di un nuovo ambizioso Egitto. Così nel 1840 Muhammad ʿAlī dovette per sempre rinunciare all’audace progetto di fare del suo paese lo stato egemone del Vicino Oriente, non senza prima avere però ottenuto che il titolo di Pascià d’Egitto diventasse ereditario.
Ormai malato, Muhammad ʿAlī rinunciò al trono nel 1848 e morì l’anno seguente. Ad ʿAbbās Ḥilmī I (1848-1854), molto conservatore, succedette Saʿīd (1854-1863), che al contrario riprese la politica di modernizzazione avviata da Muhammad ʿAlī, in particolare autorizzando lo scavo del Canale di Suez. Due grandi riforme risalgono al suo regno: le terre concesse a titolo vitalizio divennero a titolo ereditario: cominciò a formarsi una classe di grandi proprietari, mentre i gradi superiori dell’esercito vennero aperti agli egiziani di origine.
Ismāʿīl (1863 – 1879) instaurò nel 1866 un’Assemblea consultiva eletta a suffragio indiretto. L’anno dopo ottenne il titolo di khedivé (vicerè). Allo scopo di «europeizzare» l’Egitto, Ismāʿīl avviò grandi opere infrastrutturali: ferrovie, aperture di molte scuole, tribunali, tutti massicciamente finanziate mediante prestiti contratti sulle piazze europee a tassi esorbitanti. Le opere pubbliche divorarono le riserve del tesoro senza migliorare significativamente la situazione sociale delle campagne e della proprietà terriera. Il debito egiziano divenne così grande che nel 1876 il khedivé ne sospese il pagamento.
A questo punto, per controllare le finanze egiziane, gli europei - in particolare inglesi e francesi - istituirono una Cassa del debito pubblico (Casse de la Dette) col compito di risanare le finanze e garantire alle potenze il recupero dei crediti. Venne formato un governo in cui un inglese deteneva il portafoglio delle finanze e un francese il portafoglio dei lavori pubblici. Le due maggiori potenze coloniali si avviavano così alla gestione duale dell’Egitto, tenendo sotto il proprio controllo i gangli vitali del potere politico ed economico.
Ismāʿīl tentò di riprendersi la sua indipendenza, ma gli europei ottennero - dal sultano ottomano - il suo rimpiazzo con il più docile Tawfīq (1879-1892). In seno all’opposizione, alcuni ufficiali egiziani (non più turco-circassi) acquistarono una crescente importanza sotto la guida del colonnello nazionalista Aḥmad ʿUrābī, il quale nel 1882 divenne ministro della guerra. La tensione crebbe e scoppiarono sommosse ad Alessandria. In luglio, dopo un ultimatum, le navi britanniche bombardarono la città. Le truppe inglesi sbarcarono a Suez e ad Alessandria i primi di agosto.ʿUrābī tentò di resistere alla testa dell’esercito egiziano, ma le sue forze furono sbaragliate a Tell el-Kebīr il 14 settembre del 1882. Dopo essere stato catturato e processato, venne inviato in esilio a Ceylon.
[caption id="attachment_8113" align="aligncenter" width="1310"] Alphonse de Neuville, La battaglia di Tel el Kebir. La battaglia di Tell al-Kebir fu combattuta fra i soldati dell'esercito egiziano, comandati da Ahmad ʿUrābī ed il corpo di spedizione britannico guidato dal generale Garnet Wolseley nei pressi di Tel el Kebir, a circa 80 km a est del Cairo, il 14 settembre 1882, durante la guerra anglo-egiziana del 1882. Il generale Wolseley, dopo aver effettuato un'audace marcia forzata notturna con le sue truppe per portarsi di sorpresa a ridosso delle posizioni difensive egiziane, sferrò la mattina successiva un attacco generale che in breve tempo provocò la completa sconfitta del nemico. La vittoria britannica in questa battaglia decise rapidamente l'esito della guerra e garantì il controllo de facto dell'Egitto da parte dell'Impero britannico fino alla metà del XX secolo.[/caption]
Nonostante al khedivé - vassallo del sultano ottomano - venne concesso di rimanere in carica, da allora in poi sarà la Gran Bretagna ad esercitare il controllo effettivo del paese attraverso il suo console generale al Cairo.
Nel novembre 1914 l’Impero ottomano entrò in guerra contro l’Inghilterra e i suoi alleati. Il mese seguente i britannici instaurarono un protettorato sull’Egitto e deposero 'Abbās Hilmī II che venne rimpiazzato dallo zio Husayn Kāmil, che prese il titolo di sultano e al quale Fu’ād succederà nel 1917.
Alla fine del 1918, una delegazione (wafd) di notabili egiziani, guidati da Saʿd Zaghlūl, richiese la fine del protettorato. Il Wafd diverrà ben presto un potente movimento politico. Quando gli inglesi arrestarono Zaghlūl nel marzo 1919, scoppiarono manifestazioni e scioperi in tutto il paese. I britannici ristabilirono l’ordine, poi avviarono trattative che tuttavia non decollarono. Alla fine Londra proclamò unilateralmente la fine del protettorato nel febbraio 1922.
In realtà il governo inglese aveva solo in apparenza rinunciato al suo dominio coloniale sull’Egitto. La Gran Bretagna infatti, continuava a esercitare il proprio controllo non solo sull’esercito e la polizia (il comandante in capo dell’esercito, il sirdar, era inglese) ma anche sulla politica estera del paese. La costituzione, promulgata nel 1923, instaurò un regime parlamentare riservando tuttavia al Re ampi poteri (designazione del Primo ministro, diritto di scioglimento dell’Assemblea ecc.). La vita politica egiziana dal 1923 al 1945 può essere riassunta come una lotta tra tre forze: il Re (Fu’ād fino al 1936 e poi Fārūq) che tentava di esercitare il proprio potere, gli inglesi, attenti a tutelare i loro interessi, e il Wafd, portavoce della nuova elite egiziana che si opponeva sia alle prerogative del Re che alla presenza inglese.
Nonostante il Wafd vincesse regolarmente le elezioni, il Re riusciva a tenerlo quasi sempre ai margini del potere, manovrando i partiti minori. Dopo un periodo relativamente liberale, tra il 1930 e il 1933, Fu’ād impose un regime molto autoritario. Nel 1936, l’ascesa al trono di Fārūq, popolare all’inizio del suo regno, e il ritorno del Wafd al potere contribuirono a distendere l’atmosfera. Nello stesso anno, l’Egitto firmò con la Gran Bretagna una trattato che ne instaurava (almeno sulla carta) l’indipendenza. Ciò si accompagnava a un’alleanza militare (ventennale), dato che le truppe inglesi si trovavano ormai acquartierate nella zona del Canale di Suez. Le capitolazioni vennero abolite. Lo status del Sudan però, restò in sospeso.
[caption id="attachment_8115" align="aligncenter" width="1024"] Egitto, 1919: la foto ritrae i membri del partito del WAFD con il suo leader Saʿd Zaghlūl[/caption]
In questo periodo cominciarono a diffondersi in tutto il mondo arabo movimenti riconducibili al fascismo. Nel 1933 su iniziativa dell’avvocato Ahmad Husayn nacque il Partito del Giovane Egitto (Hizb Misr al-Fatâ). Dotato di un ala paramilitare, le Camicie Verdi (al-Qumsân al-Khadrâ’), invocavano la liberazione dell’Egitto (e del Sudan) dall’occupazione britannica, l’instaurazione di un regime protezionista per difendere l’industria nazionale dalla competizione straniera, ed una rigida riforma dei costumi che proibisse quelle attività come il consumo e la vendita di bevande alcoliche, la prostituzione e il cinema: considerate contrarie alla morale islamica. Secondo quanto riportato da Maurice Bardèche nel suo libro "I Fascismi sconosciuti", lo stesso Nasser - il cui regime in seguito avrebbe concesso asilo a numerosi criminali di guerra nazisti -, si fece manganellare e arrestare dalla polizia partecipando ad una manifestazione delle Camicie Verdi.
Non risulta difficile comprendere, come mai in Egitto durante la Seconda guerra mondiale la maggioranza della popolazione manifestasse apertamente simpatie verso le potenze dell’Asse. Nel febbraio 1942, quando l’armata tedesca raggiunse l’est della Libia gli egiziani diedero libero sfogo alle loro emozioni. Migliaia di dimostranti si riversarono nelle strade gridando slogan come: «Avanti, Rommel!» poiché vedevano nella sconfitta britannica l’unica via per scacciare le truppe di occupazione fuori dal paese. Gli inglesi furono colti dal panico e iniziarono a bruciare documenti e carte ufficiali e a evacuare i cittadini britannici e i loro sostenitori verso il Sudan. Tuttavia la sconfitta nella battaglia di el-Alamein, nell’ottobre del 1942, frustrò le ambizioni italo-tedesche e quelle dei loro simpatizzanti in Egitto.
A partire dal 1945 il paese cominciò a soffrire di gravi problemi sociali (sovrappopolazione rurale, disoccupazione urbana, inflazione, ecc.) che i governi successivi non riuscirono a risolvere. I movimenti ostili al regime, in particolar modo i Fratelli Musulmani, accrebbero notevolmente i loro consensi presso i ceti più umili.
Sul fronte esterno, la creazione della Lega araba nel marzo 1945, al Cairo, permise all’Egitto di porsi alla guida dei paesi arabi, ma il suo prestigio cominciò a vacillare quando Israele, nel 1948-1949, mise in scacco cinque paesi arabi coalizzati (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq) e si impose come nuovo stato.
La guerra di Palestina e il disastro affrontato dalle truppe arabe e in particolare da quelle egiziane, senza dubbio catalizzarono il consolidamento degli Ufficiali liberi (al-Ḍubbāt al-Aḥrār), che avrebbe condotto alla rivoluzione del 1952.
Nel 1951 il governo denunciò il trattato anglo-egiziano del 1936: le truppe britanniche vennero fatte oggetto di ripetuti attacchi, al punto che il 25 gennaio, a Ismailiyya, alcuni soldati inglesi uccisero una cinquantina di poliziotti egiziani che avevano assaltato le loro caserme. Il giorno seguente, il «sabato nero», le sommosse devastarono il Cairo: vennero incendiate diverse centinaia di edifici, perlopiù di proprietà di occidentali. L’esercito riuscì a riportare la calma, ma per il regime era giunta ormai la fine.
Nella notte fra il 22 e il 23 luglio 1952 alcuni militari egiziani, gli Ufficiali liberi (organizzazione creata nel 1949), realizzarono un colpo di stato e costrinsero Re Fārūq all’abdicazione, esiliandolo. Istituirono un Consiglio superiore della rivoluzione e misero il generale Muḥammad Naǧīb a capo del governo. La monarchia venne abolita nel 1953 e Naǧīb divenne Presidente della Repubblica.
[caption id="attachment_8116" align="aligncenter" width="1310"]copertina-per-sito55 Nelle immagini, da sinistra a destra: il Re egiziano Fārūq ibn Fuʾād, il generale Muḥammad Naǧīb e i danni agli edifici occidentali del Cairo, dovuti alla sommossa che successivamente sfociò nel colpo rivoluzionario militare.[/caption]
Il golpe venne accolto con freddezza dalle grandi potenze: l’Unione Sovietica parlò di un putsch «fascista», mentre gli inglesi assicurarono che gli avvenimenti avevano origine puramente interna e non avevano nulla a che vedere con il contrasto anglo-egiziano. Il primo provvedimento a essere preso dalla giunta rivoluzionaria fu una riforma agraria che scalzasse i vecchi proprietari terrieri. La legge 178 del 9 settembre 1952 prevedeva:
a) la limitazione della proprietà fondiaria a 200 feddan (acri) per famiglia, anche se un supplemento di 100 feddan era messo a disposizione di mogli e figli del proprietario;
b) la redistribuzione delle terre espropriate ai contadini poveri o nullatenenti nel giro di cinque anni;
c) l’indennizzo ai proprietari espropriati;
d) la nascita di cooperative agricole tra i contadini più indigenti;
e) la nascita di sindacati dei lavoratori agricoli.
La legge del 1952 venne ulteriormente ritoccata nel 1958 e nel 1961. I partiti politici vennero vietati all’inizio del 1953; un anno più tardi la stessa sorte toccò ai Fratelli Musulmani. I negoziati con gli inglesi sfociarono in un accordo sul Sudan nel 1953; poi, nell’ottobre 1954, nell’abrogazione del trattato del 1936. Venne deciso che l’evacuazione della zona del Canale da parte dei britannici si sarebbe dovuta compiere entro il giugno 1956.
Nel 1954, un giovane membro degli Ufficiali liberi, il luogotenente Gamāl ʿAbd al-Nasser, conquistò il potere a spese di Naǧīb. Verso i Fratelli Musulmani, che avevano tentato di assassinarlo in ottobre, Nasser avviò una spietata repressione tanto che uno dei capi più prestigiosi di tale organizzazione, ʿAbd al-Qādir ʿAwda, verrà impiccato. Il movimento non rialzerà più la testa fino agli anni settanta.
Nel 1956 una nuova costituzione instaurò un regime presidenziale forte e, di fatto, un regime a partito unico (l’Unione nazionale). Il 23 giugno di quello stesso anno, un plebiscito eleggerà Nasser Presidente (Raʾīs) della Repubblica con il 99, 9 per cento dei voti.
[caption id="attachment_8117" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra il generale Gamāl ʿAbd al-Nāṣir Ḥusayn. Considerato una figura centrale nella storia moderna del Vicino Oriente nella seconda metà del XX secolo. Nazionalizzò il Canale di Suez e respinse le pretese di Francia e Regno Unito per continuare a controllare il Canale, guadagnando un'altissima popolarità presso le masse arabe. Grande sostenitore dell'anticolonialismo e del panarabismo, Gamāl ʿAbd al-Nāṣer fondò con Jawaharlal Nehru e Josip Broz Tito il Movimento dei paesi non allineati. Perse parte del proprio prestigio dopo la sconfitta nella Guerra dei sei giorni contro Israele, ma mantenne un ruolo chiave in tutti i futuri dialoghi tra le parti avverse.[/caption]
Appena insediato il neo presidente si preoccupò di elaborare una teoria della programmazione economica e sociale che lo portò ad attuare un intervento sempre più pesante nei confronti dell’iniziativa privata. La riforma agraria già iniziata da Naǧīb venne ulteriormente portata avanti. Anche altre attività economiche furono investite e scosse dalla volontà riformatrice del nuovo capo egiziano: banche, compagnie di assicurazione, agenzie commerciali, società di navigazione, già in buona parte dipendenti dal capitale estero, furono nel giro di pochi anni sottratte all’iniziativa privata, sottoposte al controllo dello Stato e poi nazionalizzate, dando origine a una peculiare forma di capitalismo di stato definita dal suo ideatore «socialismo arabo». Seguirono le leggi per la protezione sociale: previdenza, sanità, diritto all’istruzione, sicurezza sul lavoro degli operai di fabbrica e dei dipendenti del settore terziario, blocco dei licenziamenti e assicurazione di un lavoro a tutti i diplomati e laureati. Furono mantenuti prezzi politici per i generi alimentari di prima necessità.
Per effetto di tali provvedimenti le condizioni economiche del paese migliorarono: le entrate passarono da 228 milioni di lire egiziane del 1952-53 a 1.379 milioni del 1961-62. L’istruzione, che nel 1952 copriva il 40 per cento della popolazione in età scolare, nel 1960 salì a coprirne il 70 per cento. Le malattie oftalmiche, che colpivano quasi tutti i bambini della popolazione rurale, dopo una vasta campagna sanitaria e igienica, furono debellate negli anni Sessanta.
In politica estera Nasser assunse una posizione nettamente anti-colonialista e antimperialista sostenendo attivamente i movimenti di liberazione nazionale dei paesi del Terzo Mondo. In tale ottica, il leader egiziano partecipò, nell’aprile del 1955 alla Conferenza di Bandung dove si erano riuniti i principali leader dei paesi emergenti nel tentativo di trovare una terza via tra le opposte egemonie degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. L’atteggiamento del Raʾīs spaventò Israele e le potenze occidentali, sempre meno disposte a fornire aiuti militari all’Egitto. Nasser, nonostante il suo anticomunismo, cominciò a rivolgersi all’Urss, che diede il suo assenso alla fornitura di armi attraverso la Cecoslovacchia alla fine del 1955. In cima alla lista dei progetti del presidente egiziano figurava la costruzione di una grande diga ad Assuan. Il suo finanziamento fu oggetto di trattative con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma Washington, preoccupata sia dalla politica estera del Raʾīs che dal possibile incremento della produzione cotoniera egiziana che si sarebbe verificato in seguito alla costruzione della diga, la interruppe nel luglio del 1956. Per tutta risposta Nasser decise di finanziare la diga nazionalizzando la Compagnia che gestiva il canale di Suez.
La sera del 26 luglio 1956, in un discorso ad Alessandria tra la folla esultante, il leader egiziano annunciò che per troppo tempo le risorse del canale erano confluite nelle tasche degli occidentali. Il canale e la sua Compagnia vennero perciò trasformati in una proprietà dello Stato egiziano a cui dovevano andare tutti i proventi.
Disse Nasser: «Oggi siamo tutti qui per porre assolutamente fine a un passato sinistro e se ci rivolgiamo verso questo passato è unicamente allo scopo di distruggerlo. Non permetteremo che il canale di Suez sia uno Stato nello Stato. Oggi il canale di Suez è una società egiziana le cui azioni sono possedute dall'Inghilterra per il 44 per cento. L'Inghilterra ha goduto fino a oggi dei benefici di queste azioni. Il reddito del canale, nel 1955, è stato valutato a 35 milioni di lire egiziane cioè a 100 milioni di dollari: di tale somma ci è stato attribuito solo un milione di lire egiziane, vale a dire 3 milioni di dollari. Ecco dunque la società egiziana, creata per il benessere dell'Egeo secondo quanto proclamava l'Atto di concessione! La povertà non è un disonore; lo è lo sfruttamento dei popoli. Ci riprendiamo tutti i diritti perché questi fondi sono nostri e questo canale è proprietà dell'Egitto. La Compagnia è una società anonima egiziana e il canale fu aperto grazie alle fatiche di 120.000 egiziani, che trovarono la morte durante l'esecuzione dei lavori. Sotto il nome di Società del canale di Suez, di Parigi, si nasconde solo uno sfruttamento. Noi costruiremo la diga e otterremo tutti i diritti che abbiamo perduto. Manteniamo le nostre aspirazioni e i nostri desideri. I 35 milioni di lire egiziane che la Compagnia incassa ce li prenderemo per il benessere dell'Egitto. Oggi dunque dichiaro, cari cittadini, che costruendo la diga edificheremo una fortezza d'onore e di gloria. Dichiariamo che tutto l'Egitto è un solo fronte unico e un blocco nazionale inseparabile. Tutto l'Egitto lotterà fino all'ultima goccia di sangue per la costruzione del Paese».
Le cancellerie degli Stati economicamente e politicamente più coinvolti andarono in preda al panico. Contro il Raʾīs egiziano l’Occidente scatenò un’isterica campagna di stampa: mentre la nazionalizzazione della Compagnia del Canale veniva equiparata alla militarizzazione della Renania o all’Anschluss o all’annessione del Sudeti, Nasser era bollato come «fantoccio sovietico», «fascista», «Hitler del Nilo»; ma questi ultimi epiteti conseguivano presso le masse arabe l’effetto contrario a quello desiderato da chi li aveva coniati, sicché la popolarità del Raʾīs ne usciva rafforzata.
Contemporaneamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia studiavano le possibili soluzioni della crisi: o rovesciare Nasser con un colpo di Stato sostenuto da un intervento militare e insediare al Cairo un governo fantoccio, o esercitare pressioni per indurlo ad accettare che il Canale venisse controllato da un ente internazionale.
Prevalse, a Londra e a Parigi, l’idea della guerra. Mentre i rappresentanti egiziani discutevano pazientemente alle Nazioni Unite e si manifestavano disposti ad una soluzione di compromesso che sarebbe stata firmata a Ginevra alla fine di ottobre, i governi inglese e francese guadagnavano tempo, per preparare in segreto l’aggressione armata.
Gli Stati Uniti non erano d’accordo con questa opzione, perché non intendevano lasciare ai due Stati europei uno spazio d’azione nel Terzo Mondo: il colonialismo di vecchio stampo, doveva essere archiviato per sempre e sostituito dal neocolonialismo fondato sull’egemonia finanziaria.
L’intesa franco-britannica si allargò anche verso lo Stato d’Israele, che assisteva preoccupato da molto tempo alla crescita della potenza militare egiziana. Parigi cominciò fin dai primi di agosto a rifornire Tel Aviv di considerevoli quantitativi d’armi, violando in tal modo quel patto tripartito del 1950 con cui Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna si erano impegnati a mantenere l’equilibrio militare tra Egitto e lo Stato d’Israele.
Nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale era monopolizzata da quanto stava avvenendo in Ungheria, Israele - adducendo come motivazione, che nella striscia di Gaza operavano terroristi i quali programmavano attentati - invase il Sinai e una volta inflitte gravi perdite all’esercito egiziano, marciò speditamente verso il canale. Gran Bretagna e Francia finsero di presentare un ultimatum per costringere le parti ad arrestarsi e, al prevedibile rifiuto di Nasser, passarono all’attacco. Il 31 ottobre l’aviazione franco-britannica bombardò gli aeroporti egiziani e i sobborghi del Cairo. Il 5 novembre le truppe coalizzate europee sbarcarono a Porto Said e procedettero velocemente verso sud, lungo il canale in direzione delle città di Suez e di Ismailiyya.
[caption id="attachment_8119" align="aligncenter" width="1310"]cairo4 La crisi di Suez fu un conflitto che nel 1956 caratterizzò l'occupazione militare del canale di Suez da parte di Francia, Regno Unito ed Israele, a cui si oppose l'Egitto. La crisi si concluse quando l'Unione Sovietica minacciò di intervenire al fianco dell'Egitto e gli Stati Uniti, temendo l'allargamento del conflitto, costrinsero britannici, francesi ed israeliani al ritiro. Fu un conflitto ricordato dagli storici per varie particolarità: per la prima volta Stati Uniti e Unione Sovietica si accordarono per garantire la pace; per la prima volta il Canada s'espresse e agì in contrasto verso il Regno Unito; fu l'ultima invasione militare del Regno Unito senza l'avallo politico degli Stati Uniti, segnando secondo molti la fine dell'Impero britannico; allo stesso modo, fu l'ultima invasione militare della Francia e quindi ultimo atto dell'impero coloniale francese; e fu infine una delle poche volte in cui gli Stati Uniti furono in disaccordo con le politiche d'Israele.[/caption]
L’opinione pubblica mondiale, rappresentata all’Onu, dimostrò subito grande ostilità nei confronti della guerra e condannò l’aggressione tripartita all’Egitto. La Siria e la stessa Arabia Saudita sospesero le forniture di petrolio agli aggressori. L’India prese in considerazione l’idea di uscire dal Commonwealth. L’Unione Sovietica minacciò un intervento nucleare. Gli Stati Uniti videro nell’azione franco-britannica e israeliana un motivo di grave turbativa della delicata situazione strategica del Medio Oriente che miravano a controllare. La Gran Bretagna e la Francia, isolate, furono perciò costrette ad accettare il cessate il fuoco imposto dall’Onu e quindi a ritirare - umiliate - le loro truppe. Israele oppose maggiore resistenza, ma infine nei primi del 1957, abbandonò il Sinai e Gaza. Nell’aprile del 1957 il canale fu riaperto alla navigazione e, contrariamente alle aspettative degli europei, gli egiziani si rivelarono perfettamente in grado di gestirne il traffico e di pilotare le navi. I proventi del canale costituirono da allora in poi, insieme al turismo e allo sfruttamento del petrolio del Sinai, una delle voci più importanti dell’economia nazionale.
L’Egitto aveva subito una sconfitta militare, ma Nasser aveva raccolto uno straordinario successo politico, emergendo come il leader incontrastato del mondo arabo.
Oltre ad aver segnato la sconfitta delle ambizioni imperiali europee in Africa e in Asia e accelerato il processo di indipendenza delle nazioni ancora soggette al dominio coloniale, la guerra di Suez del 1956 ebbe come fondamentale conseguenza il rafforzamento dei legami tra l’Egitto e l’Unione Sovietica che si impegnò a rifornire d’armi il regime di Nasser e ad aiutare tecnicamente e finanziariamente  - attraverso prestiti concessi a condizioni più che vantaggiose - i piani di sviluppo economico, in primo luogo i lavori per la diga di Assuan.
Nel 1954, un colpo di Stato aveva portato al potere in Siria Shukrī al-Quawatlī, appoggiato dalla sinistra. Questi aveva subito dimostrato particolari simpatie per l’Urss e aveva preso le distanze dagli Stati Uniti. Nel 1957 il partito Baʿath aveva trionfalmente vinto le elezioni. A Damasco le condizioni sembravano particolarmente propizie, per stringere un legame privilegiato con l’Egitto rivoluzionario di Nasser, eroe del mondo arabo. L’idea di un’unione organica con i siriani tuttavia non entusiasmava il Raʾīs, il quale non aveva nessuna ambizione a governare gli affari interni del paese, tanto meno accollarsene i problemi. Quel che il leader egiziano propugnava era piuttosto la «solidarietà araba», intendendo con essa che gli arabi dovessero allearsi con lui e spalleggiarlo nella lotta contro le grandi potenze. Lo attraeva l’idea di controllare la politica estera siriana per tenere sotto scacco i suoi nemici, sia arabi che occidentali.
Alla fine comunque Nasser si renderà conto che, se voleva la rosa, avrebbe dovuto prendersi anche tutte le spine. Il 1 febbraio 1958 fu annunciata ufficialmente l’unione tra Siria ed Egitto che prese il nome di Repubblica araba unita (RAU) presieduta dal leader egiziano.
Il Raʾīs mise in piedi una struttura al contempo autoritaria e malferma. Tutte le decisioni venivano prese al Cairo, mentre a Damasco il potere venne lasciato nelle mani di un insulso colonnello della polizia, Abdel Hamed Sarraj, nominato ministro dell’Interno. La capitale siriana venne ridotta a un semplice capoluogo di provincia e le ambasciate estere presenti in città furono chiuse. Gli affari dell’unione, decretò Nasser, sarebbero stati gestiti da un gabinetto centrale del quale avrebbero fatto parte anche due siriani, mentre gli affari interni di Egitto e Siria, ribattezzati rispettivamente Regione Meridionale e Regione Settentrionale della RAU, sarebbero stati affidati a consigli esecutivi locali. Le due regioni avrebbero inviato a loro volta i propri delegati ad un’unica Assemblea generale, con sede al Cairo, composta da 400 egiziani e 200 siriani, ma non liberamente eletti bensì nominati da Nasser stesso. Quando il 28 settembre 1961 la Siria si separò dall’unione con un golpe di destra - spalleggiato da Giordania e Arabia Saudita oltre che dalla grande borghesia siriana, spaventata dall’ondata di nazionalizzazioni decretata quell’anno da Nasser - , nessuno in tutto il paese sparò un colpo in difesa della RAU.
La secessione della Siria fu vissuta da Nasser come uno smacco personale, come il segno del fallimento di una politica - a suo avviso - generosa. Non si rese conto che fu proprio il suo spirito accentratore e dispotico a provocare la fine di quell’esperimento politico. Egli tuttavia non volle seppellire il riferimento alla Repubblica araba unita che rimase il nome ufficiale del solo Egitto fino alla fine della sua presidenza (e oltre).
Nel settembre 1962 scoppiò nello Yemen una insurrezione militare, che proclamò la repubblica. Nasser appoggiò il capo degli insorti il colonnello Sallāl e in suo aiuto mandò armi e truppe, impegnandosi in una lunga ed estenuante lotta con le forze rimaste fedeli all’imam Muḥammad al-Badr che godevano dell’appoggio dell’Arabia Saudita e della Giordania. Nel 1964 venne promulgata una nuova costituzione che portò all’elezione di un’Assemblea nazionale formata da membri dell’Unione Socialista Araba, l’unica organizzazione politica riconosciuta.
A metà degli anni sessanta si moltiplicarono gli incidenti tra Israele da un lato e Siria e Giordania dall’altro. Ciò spinse Nasser ad agire. Nel maggio 1967 richiese il ritiro delle forze dell’ONU (poste a schermo tra Israele ed Egitto) e chiuse lo stretto di Tiran alla navigazione israeliana. Il 31 maggio il Re di Giordania firmò un accordo di difesa con il Cairo. Israele reagì il 5 giugno, radendo al suolo gran parte dell’aviazione egiziana. Cominciò così la guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno), che per l’Egitto si risolse in un disastro: Israele occupò la totalità del Sinai e dei suoi pozzi petroliferi. Nasser si assunse le responsabilità della sconfitta e offrì le proprie dimissioni che furono però respinte a furor di popolo.
La disastrosa disfatta militare degli arabi nel 1967 è stata cruciale per la storia del Medio Oriente. Ha segnato contemporaneamente la fine del nasserismo e il definitivo consolidamento di Israele. Ha determinato uno dei problemi di più difficile soluzione della storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell’indipendenza e dell’identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è a tutt’oggi ben nota. Ha indirettamente alimentato lo sviluppo del radicalismo islamico, sia nei territori occupati da Israele sia, più globalmente, in tutto il mondo arabo. È proprio in risposta all’esaurirsi della spinta ideale del socialismo «laico» di Nasser che, prima in Egitto e poi nel resto del mondo musulmano, si sviluppò, e attecchì il cosiddetto fondamentalismo islamico contemporaneo.
La sera del 28 settembre del 1970, Nasser, vittima del diabete e del superlavoro, ebbe una terza crisi cardiaca e morì nella sua casa di Manshiyyat el-Bakri, a 52 anni. Il suo corpo venne trasportato nella vecchia sede del consiglio della rivoluzione, il palazzo al-Qubbah. I funerali furono imponenti e gli osservatori ne rimasero impressionati: milioni di egiziani seguirono il feretro in lacrime, sconvolti da un dolore senza dubbio sincero. Con lui moriva, nonostante i limiti della sua azione, un uomo che aveva sfidato l’arroganza delle potenze coloniali e che aveva incarnato il riscatto del mondo arabo dinnanzi all’Occidente.
Il vicepresidente Anwar al-Sādāt prese il posto di Nasser, successione approvata dal referendum dell’ottobre 1970. Nato nel 1918 come il suo predecessore, durante la Seconda guerra mondiale aveva avuto a che fare con delle spie tedesche e aveva trascorso qualche tempo in carcere per aver progettato di uccidere alcuni collaboratori filo-britannici. Nel 1952 era stato lui ad annunciare al mondo la rivoluzione degli Ufficiali liberi. Nel 1971 la denominazione RAU, mantenuta anche dopo il 1961, fece posto a quella di Repubblica araba d’Egitto. Lo stesso anno Sadat destituì il suo maggior rivale Ali Sabri, difensore dell’ortodossia nasseriana (in seguito sarà incarcerato). Cominciò anche a correggere alcuni provvedimenti del suo predecessore: vennero restituiti, almeno in parte, i beni confiscati dopo il 1961. E nel 1972, in segno di distensione nei confronti dell’Occidente, cacciò dal paese i consiglieri militari sovietici.
Intanto in Siria, il 16 novembre del 1970, Hāfiz al-Assad aveva preso il potere destituendo Ṣalāḥ Jadīd. Il nuovo presidente era deciso più che mai nel recuperare i territori perduti nella Guerra dei Sei Giorni e riscattare l’immagine del proprio paese dopo vent’anni di continue umiliazioni da parte degli israeliani. Mentre cercava le armi per combattere, Assad trovava nell’Egitto di Sādāt, l’alleato naturale e privilegiato per sconfiggere Israele. Agli inizi del 1971 il presidente siriano e il suo omologo egiziano iniziarono così a elaborare una serie di piani per un attacco congiunto sino ad arrivare all’agosto del 1973, quando nel quartier generale della marina egiziana di Raʾs at-Tin, si tenne una riunione segreta del Consiglio supremo delle forze armate siro-egiziane.
In quell’occasione le più alte cariche dei due eserciti firmarono il documento formale in cui si impegnavano a muovere guerra nel prossimo autunno. Ulteriori consultazioni fissavano la data e l’ora: il 6 ottobre alle 14.00.
In realtà Siria ed Egitto avevano obiettivi assai divergenti: Assad voleva la guerra perché era convinto che ogni colloquio con Israele non avrebbe portato a nessuna restituzione dei territori occupati; Sādāt invece voleva il conflitto per aver maggior potere negoziale al tavolo della trattativa separata che già conduceva (apertamente, ma anche segretamente) con Tel Aviv tramite la mediazione americana. Per Damasco si trattava di una guerra di liberazione, per il Cairo era una mossa essenzialmente politica per rilanciare la propria diplomazia. Entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, e Sādāt sapeva bene che Assad si sarebbe rifiutato di combattere se lo scopo comune non fosse stato la liberazione del Sinai e del Golan. Il presidente egiziano scelse così di non rivelare le sue vere intenzioni al collega siriano, mentre quest’ultimo, troppo preso dai suoi obiettivi di guerra, non si poneva nemmeno il problema di quel che sarebbe potuto accadere dopo la fase bellica, né si garantì una rete diplomatica di sicurezza in caso di insuccesso.
In questo contesto, il 6 ottobre 1973 ebbe inizio la Guerra d’Ottobre (anche detta del Ramadan o dello Yom Kippur perché iniziata in concomitanza con le omonime festività musulmana ed ebraica): il massiccio attacco congiunto siro-egiziano colse di sorpresa i militari e i dirigenti israeliani, e mentre da nord i siriani riuscirono ad avanzare fino a conquistare importanti posizioni (compresa la vetta del Monte Hermon/ash-Shaykh), da sud, gli egiziani, si arrestarono subito dopo attraversato il Canale di Suez.
[caption id="attachment_8121" align="aligncenter" width="1310"] Nella foto centrale Moshe Dayan: generale e politico israeliano. Dopo la morte di Levi Eshkol, nel 1969, divenne primo ministro Golda Meir. Dayan, rimase al dicastero della difesa. Era ancora in carica quando, il 6 ottobre 1973, iniziò la Guerra del Kippur. I primi due giorni di guerra furono traumatici per Israele. Dayan porta indubbiamente alcune responsabilità nelle sconfitte iniziali. Assieme alle altre massime autorità civili e militari, aveva sottovalutato i segnali d'allarme che provenivano da diverse fonti. Si era rifiutato di mobilitare le Forze di Difesa Israeliane per lanciare un attacco preventivo contro Egitto e Siria, in quanto credeva che le stesse IDF avrebbero potuto vincere con facilità anche se gli arabi avessero attaccato per primi. Dopo le pesanti sconfitte dei primi due giorni di guerra, le ottimistiche idee di Dayan cambiarono radicalmente. Fu sul punto di annunciare "la caduta del Terzo Tempio" ad una conferenza stampa, dimenticandosi di parlarne prima con la Meir. Cominciò anche a parlare apertamente di usare armi di distruzione di massa contro gli arabi. Riuscì comunque a recuperare il controllo della situazione e condurre la guerra fino alla vittoria finale. Anche se la Commissione Agranat, sorta per indagare su quanto non aveva funzionato nella guerra dell'ottobre 1973, non attribuì responsabilità particolari alla dirigenza politica del paese, a cui Dayan apparteneva, un'ondata di proteste da parte dell'opinione pubblica costrinse lui e Golda Meir a dimettersi.[/caption]
Sādāt infatti decise di non avanzare nel Sinai, come invece si aspettava la Siria, la quale si troverà a combattere da sola per un’intera settimana, soccombendo alla fine ad Israele. Quest’ultimo infatti non dovendo più preoccuparsi di difendere i suoi confini meridionali poté concentrarsi interamente su quelli settentrionali costringendo le truppe di Damasco alla ritirata fino alle linee del 1967 e, in seguito anche al di là di esse.
Nonostante l’arrivo di alcuni reparti iracheni, seguiti il giorno dopo da quelli sauditi e giordani, le forze siriane erano ormai allo sbando e i militari israeliani arrivarono a solo 35 km da Damasco, oltre venti chilometri più avanti delle linee della tregua del 1967. Dopo numerosi appelli inascoltati alla tregua - il 22 ottobre la risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedeva l’applicazione in tutte le sue parti della 242 del 1967 - e l’intervento diretto di Mosca e Washington (gli Usa dichiararono l’allarme generale atomico di terzo grado), il 25 ottobre venne firmato un primo cessate il fuoco.
Muhammad Heikal, confidente di Sādāt, avrebbe in seguito dichiarato che la scelta di non avanzare sino ai passi del Sinai presa dal presidente egiziano fece perdere al paese un’occasione storica: «Sono convinto – disse Heikal – che se avessimo raggiunto ed occupato i passi, l’intero Sinai sarebbe stato liberato, ed una simile vittoria avrebbe trascinato con se incalcolabili conseguenze politiche».
Nel 1973 Il Cairo ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, interrotte nel 1967, i quali intendevano facilitare i negoziati tra Egitto e Israele. Nel 1975 gli egiziani rioccuparono la parte occidente del Sinai e il Canale venne riaperto.
L’apertura economica (infitāh) e l’abbandono graduale delle opzioni socialiste, contraddistinsero l’opera di denasserizzazione dell’epoca di Sādāt. La svolta ebbe avvio nella primavera del 1974 e proseguì nel 1977. Furono approvate alcune leggi che promossero gli investimenti mettendo fine al monopolio del sistema bancario. Si cercò di facilitare la circolazione del denaro consentendo di acquistare valuta estera per mezzo della valuta locale. Le transazioni commerciali, vennero stimolate ricorrendo alla diminuzione o addirittura all’abolizione dei carichi fiscali e doganali. Vennero create enclave extraterritoriali per favorire la presenza di investitori europei e americani.
I risultati economici dell’apertura furono però modesti, se non addirittura negativi. La liberalizzazione del mercato portò contemporaneamente sia a un incremento delle importazioni e dunque al deficit della bilancia dei pagamenti, sia al vertiginoso aumento dell’inflazione, che raggiunse il 40 per cento. Per quanto riguarda il deficit della bilancia dei pagamenti, esso fu di 833 milioni di dollari nel 1974 ma di ben 3.166 milioni di dollari nel 1976. Le richieste di nuovi beni con le connesse difficoltà di approvvigionamento condussero ad un fiorente mercato nero. Inoltre, l’Egitto divenne strettamente dipendente dall’aiuto esterno per riequilibrare il debito; e la dipendenza economica non poteva che risolversi in dipendenza politica. L’inflazione provocò un divario tra la crescita dei prezzi e quella dei salari che, formalmente aumentati, in realtà diminuirono perdendo potere d’acquisto. La speculazione e la concorrenza provocarono la nascita di una ristretta élite di milionari (pare circa 500 già alla fine del 1975) corrotti e rapaci, spregiativamente chiamati «gatti grassi». A fronte dei nuovi ricchi, la situazione delle masse peggiorò sensibilmente, soprattutto nelle campagne.
Nel gennaio del 1977, in seguito alla decisione del governo di tagliare drasticamente i sussidi governativi alle famiglie povere per poter ottenere nuovi prestiti dal Fondo monetario internazionale, una rivolta cieca e distruttiva, innescata dagli studenti - che subito mobilitò i disperati delle baraccopoli -, esplose da Alessandria al Cairo sino all’Alto Egitto. La violenza dei moti convinse il presidente a far intervenire l’esercito insieme alla polizia. La repressione fu durissima: si ebbero settantanove morti (ufficiali), circa mille feriti e millecinquecento arresti.
Per logorare la sinistra egiziana e quella base nasseriana, che continuavano a godere di consensi fra le fasce più povere della popolazione, Sādāt decise di sfruttare il fondamentalismo religioso. È in tale ottica che nel 1971 aprì le porte delle prigioni per liberare i Fratelli Musulmani precedentemente incarcerati da Nasser. Il movimento fondato da Ḥasan al-Bannā poteva così ricominciare una lenta ricostruzione, e rimodellare la propria ideologia in funzione delle esperienze acquisite. I Fratelli Musulmani rilasciati dalle carceri si rivelarono buoni alleati di Sādāt sostenendone la politica di infitāh, che doveva ai loro occhi rappresentare una opportunità di cogliere per la costruzione di una società islamica. Dal 1976 con il placet del regime, ripresero in maniera sistematica la pubblicazione della rivista «al-Daʿwa», dalla quale diffonderanno il loro messaggio.
Il condizionamento della scelta «islamica» di Sādāt sulle istituzioni fu notevole. Nel 1978 venne promulgata la cosiddetta «legge della vergogna»: un testo grazie al quale venivano istituiti tribunali per la salvaguardia della morale pubblica, che potevano giungere a emettere sentenze molto pesanti, fino a privare il colpevole dei diritti politici. Si ravvivò così l’antica pratica della legge islamica della hisba: si tratta del dovere comunitario di «ordinare il bene e proibire il male» che, oltre a prevedere l’istituzione di un funzionario (il muhtasib), responsabile della moralità pubblica, del controllo dei divertimenti e della correttezza delle transazioni commerciali, vincola il singolo individuo a correggere il «peccatore», eventualmente attraverso esposti ai tribunali ordinari. Gli emendamenti alla Costituzione nel 1980 prevedevano che la sharīʿa diventasse la fonte primaria del diritto; mentre nella Costituzione del 1971 era solo una delle fonti principali.
Nel 1977 Sādāt si recò a Gerusalemme - iniziativa condannata da tutti i paesi arabi - secondo i quali il successore di Nasser si era macchiato di tradimento. Tale decisione lo avrebbe portato direttamente nella tomba. Nella Knesset, il presidente egiziano ascoltò in silenzio Menachem Begin rievocare l’antica storia della nascita di Israele, di Davide e Golia, del minuscolo stato che si batteva contro giganti per la propria sopravvivenza. Se il silenzio significava assenso, allora il mondo arabo aveva visto Sādāt acconsentire al riconoscimento dello Stato di Israele. «Ha parlato al mondo dal parlamento del suo nemico» scrisse all’epoca il giornalista inglese Robert Fisk sull’Irish Times. «Ma non ha detto se pensa, sedendosi con gli israeliani, di aver anche firmato la sua condanna a morte».
Nel settembre 1978, infine, gli accordi di Camp David, sotto l’egida del presidente americano Jimmy Carter, stabilirono i termini di un trattato di pace separata, firmato a Washington. L’accordo consisteva fondamentalmente nella restituzione del Sinai all’Egitto (che però non avvenne subito, ma nel giro di tre anni, visto che solo nel 1982 le ultime truppe israeliane abbandonarono la penisola); nell’avvio di normali relazioni diplomatiche tra i due paesi; nella garanzia della vendita a Israele per quindici anni del petrolio del Sinai. La pace con lo stato ebraico ebbe tuttavia il suo prezzo: l’Egitto venne escluso dalla Lega araba, che trasferì a Tunisi la propria sede e cessarono gli aiuti finanziari arabi.
Il 6 ottobre 1981, durante una parata militare per ricordare l’inizio della guerra del Kippur contro Israele, tre soldati infiltrati si staccarono dal corteo, gettarono tre granate verso il palco e spararono contro il presidente. Sādāt fu crivellato di proiettili e morì quasi subito. Gli attentatori erano legati al movimento integralista Al-Jihād di ʿAbd al-Salām Faraj e guidati dal tenente Khāled al-Islambulī, condannato a morte un anno dopo. Il vicepresidente dell’Egitto, Ḥosnī Mubārak, rimase ferito e, dopo l’attentato a Sādāt, ne prese il posto.
[caption id="attachment_8122" align="aligncenter" width="1160"]copertina-per-sitko Nella prima foto a sinistra Golda Meyer dialoga con Muḥammad Anwar al-Sādāt, durante la prima visita a Gerusalemme del leader egiziano. La seconda immagine è scattata pochi secondi dopo l'attentato fatale al primo ministro egiziano, da parte degli esponenti del partito Al-Jihād di ʿAbd al-Salām Faraj.[/caption]
Contrariamente a quanto era avvenuto con Nasser non ci furono manifestazioni di emozione o di cordoglio popolare per la morte del suo successore. Il popolo egiziano aveva così implicitamente condannato la politica di Sādāt.
A Sādāt succedette il vicepresidente Ḥosnī Mubārak, già comandante in capo dell’aviazione. Mubārak cercò prima di tutto di preservare la stabilità del paese e la sua stessa posizione: verrà riconfermato presidente nel 1987, nel 1993, nel 1999 e nel 2005. Mantenne i legami militari ed economici con gli Stati Uniti, ma riallacciò anche i rapporti con i paesi arabi: nel 1989 il paese rientrò nella Lega araba. Nel 1991 impegnò l’Egitto nella guerra del Golfo, all’interno della coalizione anti-irachena.
Sotto Mubārak si è avuta una continua accelerazione del liberismo economico promosso da Sādāt nonostante le resistenze della burocrazia e dei lavoratori. Sebbene le liberalizzazioni e le privatizzazioni abbiano arginato l’inflazione contribuirono ad aggravare le diseguaglianze sociali: fu la fine dello stato sociale che Nasser aveva tentato di instaurare. Sul piano politico, Mubārak si mostrò inizialmente abbastanza liberale, ma a partire dal 1985 dovette far fronte alle rivendicazioni dell’islamismo radicale. Alla violenza, che crebbe e toccò l’apice negli anni 1992-1997, il regime rispose in modo sempre più brutale. I leader islamisti, per lo più imprigionati, annunciarono una sospensione degli attentati nel 1998. Fino alla fine del regime di Mubārak la vita politica del paese restò dominata, nonostante un pluripartitismo di facciata, dal Partito Nazionale Democratico (al-Ḥizb al-Waṭanī al-Dīmuqrāṭī).
Con i moti di Piazza Taḥrīr che, nel febbraio 2011, portarono al rovesciamento di Mubārak, il movimento della Fratellanza Musulmana ha acquisito una grande forza, che lo ha portato, in seguito, a vincere le elezioni godendo dei favori degli USA. 
[caption id="attachment_8128" align="aligncenter" width="1000"] Muḥammad Mursī nel suo periodo di governo ha applicato i dettami del Fondo monetario internazionale con una politica anti-popolare e repressiva contro tutte le forme di crescente mobilitazione e organizzazione del proletariato egiziano. La disuguaglianza nei salari è continuata a crescere mentre le condizioni di vita dei settori popolari sono continuate a peggiorare. Il numero della popolazione egiziana che viveva con meno di due dollari al giorno è passata dal 20 per cento del 2005 al 40 per cento nel 2012.[/caption]
La disoccupazione, colpiva soprattutto la popolazione giovanile salendo dal 9,7 per cento nel 2009 al 13 per cento nel 2013. Nel frattempo il rallentamento economico dell’economia egiziana ha raggiunto il 2,2 per cento, mentre l’inflazione è aumentata del 10 per cento. La delusione delle aspettative popolari egiziane riposte nel governo islamista, con un peggioramento delle condizioni di vita e un aumento dei prezzi dei beni essenziali, ha spinto il paese verso una rinascita delle proteste sociali in Egitto. Una parte importante delle mobilitazioni si è verificata proprio nei centri di lavoro con un incessante incremento degli scioperi. Nel 2012, anno in cui ha assunto l’incarico Mursī, si sono svolti in Egitto circa 3400 proteste di carattere socio-economico, con il governo della FM che non ha esitato a reprimere con maggiore durezza di Mubārak i movimenti operai e sindacali. Decine e decine di arresti sono stati operati contro i dirigenti sindacali con la proclamazione di una legge anti-sciopero basata su quella attuata dai colonialisti britannici per sopprimere la rivolta del 1919. Al fianco delle politiche anti-operaie e anti-popolari, venne imposta una riforma costituzionale mirata all’islamizzazione delle istituzioni dello Stato e della società. La nuova Costituzione, sospesa in seguito al colpo di Stato del luglio 2013, riproponeva la conservazione dell’articolo 2 così come formulato nel 1971 e riformato nel 1980: «L’Islam è la religione dello Stato, l’arabo la lingua ufficiale, i principi della sharīʿa sono la principale fonte della legislazione». A tale norma si aggiungeva, in maniera del tutto inedita, come frutto della negoziazione tra i Fratelli Musulmani e i Salafiti, una nuova disposizione. Si trattava del famigerato art. 219, il quale enucleava una nozione esplicita dei principi della sharīʿa, definendoli, in maniera ampia e generica come l’insieme delle sue fonti fondamentali, dei principi tratti dalle fonti (usul) e dal fiqh, nonché dalle altre fonti riconosciute dalle scuole giuridiche sunnite. Inoltre, per la prima volta nella storia costituzionale dei paesi islamici, veniva attribuita una funzione di interpretazione della legge sacra, in via esclusiva all’Università teologica di al-Azhar. Sul piano internazionale il governo Mursī ha sostenuto «materialmente e moralmente» la guerra contro la Siria, chiedendo l’attuazione della no-fly zone sopra il territorio siriano (proponendo l’aviazione egiziana a svolgere tali operazioni), denunciando l’intervento del Hezbollah sciita libanese al fianco del popolo siriano e del governo Assad e chiedendo per quest’ultimo il giudizio «per crimini di guerra».
Da questi fattori nacque la grande mobilitazione unitasi nel movimento Tamàrrud (che in arabo significa ribellione), che ha raccolto più di 22 milioni di firme contro Mursī in tutti i settori e classi della società egiziana, anche all’interno di istituzioni e organismi statali in tutte le regioni del paese. Da qui la rivolta che ha portato in piazza 30 milioni di persone in tutto l’Egitto a cavallo tra giugno e i primi di luglio del 2013 e che ha visto la risposta di massa della classe media e in parte minore della classe operaia. Il 3 luglio del 2013, le Forze Armate egiziane hanno risposto alle richieste del popolo, rovesciando il governo Mursī e prendendo in mano la guida del paese.
Ciò ha posto Stati Uniti e UE in seria crisi, in quanto per la prima volta in 40 anni l’Esercito egiziano è andato in una direzione opposta rispetto alle volontà di Washington. Il ruolo e la posizione geo-strategica fondamentale dell’Egitto, fa si che nessuna potenza imperialista può permettersi di perdere la sua influenza e controllo su questo paese.
Alcune cifre ci aiutano a capire: gli investimenti di capitali degli Stati Uniti verso l’Egitto ammontano a circa 1.400 milioni di dollari ai quali si aggiungono i 1.300 milioni di dollari che ogni anno vengono versati all’esercito egiziano. L’Unione Europea fornisce inoltre aiuti con un potenziale che può raggiungere i 5.000 milioni di dollari di esborso totale. Il FMI ha concesso un prestito di 4.800 milioni di dollari e la Banca Mondiale ha «donato» 6.000 milioni di dollari.
Nessuno dei principali attori politici, militari e sociali in campo in Egitto può pertanto esser considerato immune dall’influenza delle potenze imperialiste. A seguito del rovesciamento di Mursī e la formazione del governo di transizione «controllato» dall’Esercito, Washington e Bruxelles non hanno condannato tale atto come «colpo di stato» con tutte le conseguenze giuridiche che ne sarebbero conseguite, ma hanno riconosciuto il nuovo governo cercando di mantenere la propria forte influenza sull’Egitto, intervenendo direttamente per la mediazione verso i Fratelli Musulmani e Mursī ed adoperando pressioni sull’esercito affinché non intervenisse contro la Fratellanza Musulmana in piazza.
Mediazione che ha solo rimandato lo scontro dei Fratelli Musulmani con il corpo militare egiziano. Il primo atto seguito all’offensiva delle Forze Armate e del governo di transizione sono state le dimissioni dalla carica di vicepresidente di El-Baradei, uomo USA (da molti considerato l'individuo che avrebbe dovuto guidare il governo di transizione), principale leader del campo liberale anti-Mursī. A questo punto la Casa Bianca annunciò il blocco delle esercitazioni con l’Esercito egiziano e i governi europei accusarono i militari e minacciarono la rivalutazione degli aiuti. La Turchia si schierò con i Fratelli Musulmani contro l’Esercito. L’Arabia Saudita rispose alle minacce di sanzioni degli USA e dell’UE nei confronti dell’Egitto, assicurando ai militari il proprio intervento per colmare le perdite. Il Generale al-Sisi rifiutò le chiamate di Obama. L’uomo degli USA, El-Baradei venne posto sotto accusa di tradimento. L’UE decise di bloccare le forniture all’Esercito egiziano e discusse su possibili «ripensamenti» inerenti gli aiuti economici.
L’atteggiamento ostile dell’Occidente nei confronti della giunta militare egiziana ha spinto il presidente Abd al-Fattah al-Sisi a rivolgersi alla Russia di Putin. Mosca e il Cairo il 19 novembre 2015 hanno firmato un accordo intergovernativo per l'utilizzo di tecnologie russe e del loro impiego nella costruzione della prima centrale elettronucleare nella regione di El-Dabaa affacciata sul mar Mediterraneo, e un ulteriore accordo sulle condizioni del prestito Russo. L'importo del prestito sarà di 25 miliardi di dollari. Grazie all’intesa con l’Egitto, Putin potrebbe riuscire a realizzare il grande obiettivo del nazionalismo russo: lo sbocco sul Mediterraneo, mai riuscito all’Urss, ma che è ora alla portata di Mosca.
Con la sconfitta di Hillary Clinton, artefice della scalata dei Fratelli Musulmani al potere e l’arrivo del magnate newyorkese Donald Trump alla Casa Bianca, i rapporti tra Washington e il Cairo potrebbero migliorare. La vittoria del tycoon è un’ottima notizia per al-Sisi, che avrà mano libera nella repressione degli oppositori interni e un margine di manovra più ampio in politica estera.
È cominciata una nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Russia e in questo scenario l’Egitto potrebbe esserne, come lo fu all’epoca di Nasser, uno dei principali teatri.
 
Per approfondimenti:
_Massimo Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Edizioni Lavoro, Roma 2005.
_Bruno Aglietti, L’Egitto dagli avvenimenti del 1882 ai nostri giorni, Ipocan, Roma 1965.
_Paolo Minganti, L’Egitto moderno, Sansoni, Firenze 1959
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente. Aspetti e Problemi, Marzorati editore, Milano 1980.
_Jean Lacouture, Nasser, Editori Riuniti, Roma 1972
_Maurice Bardèche, I Fascismi sconosciuti, Ciarrapico, Roma 1969.
_Il programma del Partito "Giovane Egitto", in Oriente Moderno, Anno 18, Nr. 9 (Settembre 1938), pp. 491-494. Consultabile all’url: http://www.jstor.org/stable/25810190
_Gamāl ʿAbd al-Nasser, Filosofia della Rivoluzione, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011.
_Jack Damal e Marie Leroy, Nasser. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Sansoni, Firenze 1970.
_Gianfranco Peroncini, La guerra di Suez, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986.
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, BUR, Milano 2003.
_Patrick Seale, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, Roma 1995.
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Il Saggiatore, Milano 2010.
 
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Cosa pensano oggi i reduci degli anni d'oro del rock? Non saranno stanchi di provare nostalgia? O forse il loro amore è stato così vero e vivo da non assopirsi mai? Ecco. Questa, forse, potrebbe essere la risposta: "Quel genere che ha fatto da colonna sonora a quelli che si potrebbero definire i loro anni migliori, i più spensierati, quelli della giovinezza".
C'era chi condiva le sue serate con dell'heavy rock, o chi magari preferiva qualcosa di più leggero. C'era anche chi - nel desiderio del relax - ascoltava i Pink Floyd e da loro assorbiva tutta la linfa vitale per la meditazione e per l'evasione in ogni mondo parallelo possibile. Ma oggi, cosa ascolterebbero le medesime persone? Cosa pensano di quel genere ormai “andato” e scomparso, sia nella cultura, che nella sua evoluzione? Il rock ha forse perso definitivamente la sua anima e la sua identità così per come lo abbiamo conosciuto. Chi prima godeva della chitarra Punk dei Ramones oggi si disorienta, a meno che non ritorni ad ascoltarli ancora una volta all'infinito, fino a conoscere tutti i brani perfettamente a memoria, mimando delle “invisible guitars” sui mezzi pubblici o semplicemente a casa, passando da una stanza all'altra e saltando all'inizio di un assolo per la felicità. Perché chi ama o ha amato il rock sa bene di cosa parlo.
In qualche modo ascoltarlo nel proprio salotto a tutto volume porta a quella che chiamo un “follia positiva”. E se fossimo tutti figli di una chitarra elettrica? Mi spiego meglio: se la realtà odierna, fosse il frutto delle evoluzioni e delle influenze che la disciplina musicale del Rock ha avuto nella società?
Nato nei primi anni del 1940 il Rock'n'Roll ha portato una escalation non solo musicale, ma anche generazionale, arrivando al suo apice più estremo negli ultimi anni '70 con il coinvolgimento di tre generazioni e una partecipazione ai concerti mai vista prima nella storia della musica. E' proprio grazie al coinvolgimento delle masse che il rock trova il suo definitivo coronamento e come ogni paradosso - che abita questo mondo dalla sua origine -, anche l'inizio della sua fine.
Se si pronuncia la parola “Rock”, a venire in mente non sono degli strumenti musicali, ma delle icone. Elvis - ad esempio - non è solamente un uomo, un cantante, un musicista, ma un simbolo indelebile di un periodo storico e musicale che ancora oggi viene rimpianto, anche da chi non è suo contemporaneo.
[caption id="attachment_8075" align="aligncenter" width="1000"] Elvis Aaron Presley (1935 – 1977) è stato un cantante e attore statunitense. È stato il più celebre cantante di tutti i tempi, fonte di ispirazione per molti musicisti e interpreti di rock and roll e rockabilly, tanto da meritarsi l'appellativo de il Re del Rock and Roll o The King. La sua presenza scenica e la mimica con cui accompagnava le sue esibizioni hanno esercitato notevole influenza sulla cultura statunitense e mondiale. In particolare, i movimenti oscillatori e rotatori del bacino, oltre a destare scandalo presso chi li interpretò come movenze di un amplesso, gli procurarono l'appellativo di Elvis the Pelvis ("Elvis il bacino"), anche se egli stesso non amava molto questo soprannome, come più volte ammise durante le rare interviste concesse all'inizio della carriera.[/caption]
E' poi arrivo il periodo del Folk, negli anni '60 che intraprese una strada alternativa al Rock and Roll classico, grazie al suo esponente di punta: Sir Bob Dylan. La sua armonia vocale povera, unita al minimalismo strumentale ha dato vita al testo, al racconto, alla voce e all'emozione che ne derivano, creando qualcosa di nuovo che ha plasmato una simbiosi perfetta con il cantante.
Gli artisti folk hanno influenzato tutta la scena musicale successiva. Avviene qui una contaminazione che dà inizio ad una cascata musicale ricca di alternative, all'interno dello stesso genere, che porta ogni artista a possedere una propria identità musicale ed estetica. Quest'ultima poi, diverrà elemento fondamentale per completare l'immagine del musicista e aggiungere al soggetto una personalità anche "artistica": aspetto sempre in secondo piano fino a quel momento.
L'invasione britannica degli anni sessanta, rappresenta un aumento del volume degli ascoltatori, ma anche l'ampliamento del raggio d'azione estetico degli artisti, capaci in pochi anni di conquistare la scena mediatica di copertine e reti televisive internazionali. Il pubblico, ben fornito di simboli, possiede una conoscenza musicale che gli permette di recepire i cambiamenti facendoli propri, personificando automaticamente gli atteggiamenti, le sensazioni e gli stili di vita degli autori che più stimano in quel dato momento. Nei primi anni sessanta cominciano infatti a comparire sulla scena i primi suoni distorti, con chitarre elettriche accentuate, affiancate dai primi “urlatori”.
Inizia così in questi anni, il binomio tra "rock americano" e "rock britannico" in cui le influenze reciproche e le identità andavano a mescolarsi, sempre con una certa rivalità “silenziosa” nelle scelte e nelle innovazioni. Ciononostante è l'Inghilterra ad aggiudicarsi la nomina di “patria del rock and roll” durante tutti gli anni sessanta.
Furono proprio i Beatles, con la loro prima visita negli Stati Uniti, ad aprire la strada all'Invasione britannica nel 1964, anche grazie al contributo dell'apparizione televisiva nella serie tv "I Sullivan". L'apparizione nelle reti televisive, denota un fatto di rilievo sulla scena musicale: l'influenza musicale del genere rock, apportato alla società di massa, creando una grande impronta culturale e divulgativa della disciplina musicale.
[caption id="attachment_8076" align="aligncenter" width="1200"] The Beatles è stato un gruppo musicale rock inglese, originario di Liverpool e attivo dal 1960 al 1970. La formazione ha segnato un'epoca nella musica, nel costume, nella moda e nella pop art. Ritenuti un fenomeno di comunicazione di massa di proporzioni mondiali a distanza di vari decenni dal loro scioglimento ufficiale – e dopo la morte di due dei quattro componenti – i Beatles contano ancora un enorme seguito e numerosi sono i loro fan club esistenti in ogni parte del mondo.[/caption]
Negli stessi anni, ecco approdare sulla scena gli Immancabili Rolling Stones. Il loro genere è diverso da quello dei Beatles e di Elvis, ormai messo quasi nel dimenticatoio se non fosse per qualche irriducibile fan o per qualche stralcio generazionale: venne comunque mitizzato nuovamente pochi anni dopo, fino ai nostri giorni. Gli Stones, grazie al loro suono crudo che univa blues e garage rock, riscuotono un successo impressionante. In termini quantitativi si classificano alla pari dei Beatles. Il gruppo riesce ad imporsi sulla scena musicale grazie ad un suono originale, che diverrà unico nel suo genere e successivamente verrà ripreso - con le dovute modifiche - da tutta la scena rock. Ma non è solamente l'aspetto musicale ad alimentare il successo degli Rolling Stones. La componente estetica e caratteriale dei suoi componenti: su tutti Mike Jagger e Kate Richards, cambiano completamente l'aspettativa del pubblico nei confronti dei Rocker.
[caption id="attachment_8082" align="aligncenter" width="1000"] The Rolling Stones è un gruppo musicale rock britannico, composto da Mick Jagger (voce, armonica, chitarra), Keith Richards (chitarre, voce), Ronnie Wood (chitarre, cori) e Charlie Watts (batteria, percussioni). È una delle band più importanti e tra le maggiori espressioni della miscela tra i generi della musica rock e blues, quel genere musicale che è l'evoluzione del rock & roll anni cinquanta, da loro rivisitato in chiave più dura con ritmi lascivi, canto aggressivo, continui riferimenti al sesso e alle droghe.[/caption]
Le due band “si spartiscono” l'intera scena mondiale già nei primi mesi del 1966. Sarà il sentimento di ribellione delle nuove generazioni che alimenterà l'onda del rock con il suo impatto sulla storia del mondo, non soltanto all'interno della sfera musicale (vedi John Lennon e il Movimento per la Pace partito dal 1970). Gli stessi enti pubblicitari e comunicativi forniranno alla società questi artisti come possibile rimedio al "male del mondo", come se fossero un anestetizzante per le sensazioni di impotenza che andavano nascendo nella società di consumo di massa già in quegli anni.
Assistiamo a una rivoluzione sociale e musicale del pianeta, con il fattore consumistico che si impone nella vita dei cittadini e che prende il predominio con le radio e le tv ormai insediate nei salotti di tutte le case e i palinsesti televisivi che scandiscono i ritmi di vita e i piaceri famigliari. Si giungerà al punto in cui - proprio per mezzo della tv e della radio -, l'individuo medio (costretto ad ascoltare la musica dal vivo e a goderne sul momento), potrà scegliere tra diversi canali e differenti generi, fino a poterne imitare il look.
Da quel dato-momento in poi, la concezione della musica stessa è mutata. Non più soltanto armonia e gioia, ma prodotto. Un prodotto che, con gli anni, si è evoluto insieme a noi ed è impossibile da fermare. Che ci piaccia o no.
Nacquero presto generi come il punk e il freakbeat: suoni freschi e nuovi in questa cascata di novità che andava crescendo sempre di più in modo inarrestabile tra l'entusiasmo delle folle, che a loro volta davano vita a sottogeneri musicali “di nicchia”. Così, dalla scena underground al “mainstream” era ormai assodata negli anni '70 la supremazia Rock in tutto il mondo occidentale.
E' il concerto di Woodstock del 1969, il quale consolida questa realtà e pone ancor più l'attenzione a tutte le migliori discografiche del genere, consacrando la nuova cultura giovanile. Al festival parteciparono infatti più di mezzo milione di persone. Jimi Hendrix diede il via ad un nuovo modo di suonare e di concepire strettamente la musica che, fino a quel momento non aveva ancora preso la “piega” psichedelica che da qui in poi andrà dilagando.
[caption id="attachment_8079" align="aligncenter" width="1000"] Il festival di Woodstock si svolse a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto del 1969, all'apice della diffusione della cultura hippie. Vi ci si riferisce spesso con l'espressione 3 Days of Peace & Rock Music, "tre giorni di pace e musica rock".[/caption]
Gran parte del rock attinse dalla sua metodologia e dalle nuove ricerche messe in atto dallo scrittore e psicologo Timothy Leary che sperimentò gli effetti artistici derivati dall'assunzione di nuove droghe dette psichedeliche: principalmente i suoi studi facevano riferimento al “peyote” e all' LSD.
Il genere Rock Psichedelico si sviluppò inizialmente negli Stati Uniti e fornì spunti fondamentali per la crescita artistica di tutto l'underground statunitense, tra cui nomi troviamo inevitabilmente il gigante Frank Zappa, che con gli anni modificò il rock fino a renderlo musica universale mescolando tutti i generi inventati nel ventesimo secolo: jazz, rock, blues ed elettronica.
Occorre sottolineare quanto la cultura del rock iniziò ad influire anche sulla sfera intellettuale contemporanea, grazie a figure di spicco come i Velvet Underground, Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker. A concludere il mosaico delle figure principali del rock psichedelico troviamo, nemmeno a dirlo, i Pink Floyd. Nati negli anni sessanta come gruppo rock psichedelico, si evolveranno nel tempo fino a diventare la formazione di Rock Progressive di maggior successo mondiale con oltre duecentodieci milioni di dischi venduti (finora). Il loro apporto positivo e rivoluzionario deriva da una struttura musicale semplice, con melodie sottili e taglienti, che coinvolgono l'ascoltatore sorreggendolo in un viaggio a volte costante, a volte imprevedibile. Le loro liriche sono incentrate sulla psicologia e sulla denuncia sociale, con una particolare attenzione all'aspetto Live, con scenografie maestose e ricercate, con un tema principale all'interno di ogni disco che veniva ripercorso dall'inizio alla fine, come un grande e spettacolare racconto, sempre unico.
[caption id="attachment_8084" align="aligncenter" width="1000"] I Pink Floyd sono stati un gruppo musicale rock britannico formatosi nella seconda metà degli anni sessanta che, nel corso di una lunga e travagliata carriera, è riuscito a riscrivere le tendenze musicali della propria epoca, diventando uno dei gruppi più importanti della storia. Sebbene agli inizi si siano dedicati prevalentemente alla musica psichedelica e allo space rock, il genere che meglio definisce l'opera dei Pink Floyd, caratterizzata da una coerente ricerca filosofica, esperimenti sonori, grafiche innovative e spettacolari concerti, è il rock progressivo.[/caption]
Le realtà musicali che abbiamo qui percorso insieme mettono in risalto una cosa su tutte: la possibilità di analizzare nel dettaglio le conquiste e allo stesso tempo le sconfitte di quella che è stata la nostra società, come lo è anche oggi.
Uno spaccato sociale immenso, che passa dalla felicità e dalla passione per la musica fine a se stessa, arrivando fino al trasporto nel mondo della droga causato anche dal desiderio di emulare i propri rocker preferiti. Che tale pratica sia condivisa o meno, questa è stata ed è purtroppo una delle realtà più significative degli anni '60 e '70, cruciali per lo sviluppo di tutto il genere.
Da qui in poi, con l'inizio degli anni ottanta, mutano nuovamente tutti gli schemi musicali fino a quel momento esplorati. Nascono in concomitanza Music Television (MTV) e il suono digitale. Con la nascita di MTV viene esasperata la sfera dell'immagine e delle influenze sui costumi, con i musicisti sempre più artisti di riferimento delle masse. Inizia così l'epoca delle mode passeggere: agli stili di vita preimpostati, al predominio dell'immagine, alle capigliature cotonate e all'esplosione di altri generi musicali come l'Hip Hop, il Rap e la musica Dance. E' impossibile, da qui in poi, continuare a parlare di rock senza tenere in considerazione gli altri generi. Lo spazio che divideva fino a quel momento, comincia ad assottigliarsi sempre di più, in maniera progressiva e sempre più veloce, unificando tutto in una unica cultura Pop. Le radio svolgono un ruolo secondario ormai, poiché sono le trasmissioni televisive - come MTV - a monopolizzare usi e costumi di ogni genere ormai “ridotto” a Pop.
Il rock ha appassionato l'umanità, la quale ha creduto che la musica potesse essere espressione di un mondo migliore. Inconsapevoli sognatori di una realtà guidata dall'elemento musicale dove il cantante - stella e guida imperitura - potesse guidarli attraverso quella vita quotidiana che appariva sempre più opprimente con la cadenza lavorativa e le problematiche della politica mondiale.  Sognavano un posto migliore, con canzoni che univano e allontanano ogni male, anche se questo per qualcuno, non potrà che essere costituito dal silenzio e dalla mancanza di uomini di cui oggi non rimangono che le voci che nessuno potrà mai portare via. Il significato di intere generazioni e di un'epoca va colto nelle sottigliezze della realtà, poiché se a dividerci ci sono oramai quaranta anni, mai come oggi è possibile sentirsi vicini al piacere di una voce malinconica che non chiede altro se non un posto tranquillo e sereno in cui condividere con qualcuno la felicità racchiusa in una vita semplice, fatta di amore, affetti, libri e buona musica. Il Rock siamo noi ogni volta che esploriamo nuovi generi e non ci facciamo fermare da barriere sociali preimpostate o dai giudizi altrui. Il Rock diventa "Altro"quando smettiamo di affidarci alla speranza e prendiamo in mano la nostra vita, come fosse una chitarra, cominciando a suonare fino allo sfinimento.
Il Rock siamo noi quando, presi dallo sconforto, componiamo nuove vie d'uscita, fino a rivedere la luce. E anche se non è il sole di un palcoscenico, noi sappiamo che il suo valore è più o meno lo stesso, anche senza gli applausi delle altre persone. Il Rock siamo noi che non molliamo e che mai soccomberemo. Fino all'ultima chitarra. Fino all'ultimo respiro.
 
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18 febbraio 2017 – Libreria Rinascita (Piazza Roma n°7 – 63100 Ascoli Piceno)
Introduce: Giuseppe Baiocchi 
Interviene: Orlando Donfrancesco
 

Das Andere ha estrapolato la figura novecentesca del dandy, tra stile, gusto e decadenza operando una vera e propria riflessione sul nichilismo e la perdita del soggetto all’interno dell’epoca contemporanea. ll romanzo dello scrittore romano Orlando Donfrancesco "Sole a Occidente" è questo in fondo: un parallelismo tra secoli diversi, governati dagli stessi problemi. Laddove i valori cadono, la nostalgia incombe; laddove l’uomo non ha più una tradizione, la società crea idoli decadenti, un nuovo che puzza di marcio. Intanto si ammirano le rovine, i segni della trascorsa Bellezza e in questo vuoto esistenziale ognuno salva il salvabile. L’ Italia non è stato un paese per dandy, ma per gagà – una imitazione del dandy che abbracciava più l’arte che la vita stessa – poichè il dandismo ha affascinato l’italiano, ma solo in chiave modaiola, ed è stato il suo esatto opposto, poiché il dandy ha creato sempre la Sua moda. La vita del dandy è stata una provocazione vivente alla società ed è per questo che divenne un fenomeno scomodo, soprattutto per l’Inghilterra Vittoriana. Questo movimento è stato una possibilità che ha voluto offrire alla civiltà occidentale una alternativa alla volgarità dell’utile. Nessun dandy è voluto mai essere un esempio, ma oggi nell’epoca del nichilismo, lo è diventato proprio per il suo ideale sulla bellezza e sulla visione di un mondo, oramai inabissatosi nella Gaia Scienza di Nietzsche.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1488708226328{padding-bottom: 15px !important;}"]Alle Porte di Damasco. Viaggio nella Siria che resiste. S. Caputo[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1488707763022{padding-top: 45px !important;}"]  
28 gennaio 2017 – Libreria Rinascita (Piazza Roma n°7 – 63100 Ascoli Piceno)
Introduce: Giuseppe Baiocchi 
Interviene: Sebastiano Caputo
 

C’è stato un tempo in cui Siria e Iraq erano ancora il nome di due Paesi, di due nazioni, non soltanto di guerre infinite. La Siria da cinque anni e l’Iraq da tre decenni sono il luogo di massacri indicibili e che pure abbiamo testimoniato. Siria e Iraq oramai esistono quasi soltanto con un acronimo: Il Siraq che a sua volta ne rievoca un altro il l’Afpak. E’ un illusione che la sconfitta del califfato porterà a soluzioni pacifiche: la guerra al terrorismo verrà sostituita ad altri conflitti perché lo Stato islamico non è la causa, ma il sintomo della disgregazione dei popoli.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1488407135214{padding-bottom: 15px !important;}"]Milano ambrosiana: l'altare d'oro firmato da Vuolvino[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino 02/03/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1488409263682{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il 25 dicembre dell'800 avvenne un fatto straordinario per la storia d'Europa. A Roma, durante la messa di Natale, il papa Leone III incoronò Carlo imperatore. Nessuno portava più quella carica in occidente da dopo la deposizione di Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore romano nel 476 d.C..
L'imperatore passerà alla storia come "Carlo Magno", il quale  riconquistò l'Italia Longobarda, combatté gli arabi in Spagna e unificò sotto un'unica bandiera un impero che dalla Francia arrivava sino all'attuale Ungheria. Sotto la sua guida, questi territori videro una ripresa della cultura e delle arti.
[caption id="attachment_8012" align="aligncenter" width="1200"] Raffaello Sanzio, Incoronazione di Carlo Magno - affresco, 500×670 cm , 1516-1517 - Città del Vaticano, Musei Vaticani[/caption]
Venne inventato un nuovo carattere di scrittura, la minuscola carolina, che permise di unificare la grafia, allora diversa a seconda delle località, che comportò un risparmio di spazio per scrivere sui preziosi fogli di pergamena.
In storia dell'arte questo periodo è stato spesso definito «rinascenza carolingia». Ovunque si recuperarono i modelli classici, pur reinterpretati per dare vita a nuovi capolavori. Lo si vede a Roma con i mosaici bizantineggianti nel sacello di San Zeno in santa Prassede, a Lorsch dove viene costruita una porta a tre archi quasi come un arco di trionfo e nella capitale, Acquisgrana, dove viene costruita una cappella palatina di forma ottagonale ispirata al battistero di San Giovanni in Laterano e al mausoleo di Santa Costanza. I nuovi monumenti sono innovativi perché nascono per esigenze nuove in un'epoca diversa: è una rielaborazione del modello non una semplice imitazione.
E' proprio in quest'epoca di grande fermento culturale che troviamo una delle prime opere d'arte firmate. Si tratta del magnifico altare della chiesa di Sant'Ambrogio a Milano.
Secondo Marina Righetti Tosti-Croce docente di Storia dell’arte medievale alla Sapienza dell'università di Roma: “Nel 784 accanto alla Basilica ambrosiana, fondata da Sant'Ambrogio nel 386, era stato costruito un monastero benedettino (…). La struttura, adatta alle necessità liturgiche di una fiorente comunità, era incentrata sull'altare dove erano deposte sia le reliquie dei santi Gervasio e Protasio, depositate da Sant'Ambrogio, sia quelle dello stesso fondatore".
La facciata a capanna nel suo complesso si presenta alquanto bassa. Due logge - molto diverse - si sovrappongono tra loro, composte da archetti pensili che ne ingentiliscono l’esterno. La parte superiore del loggiato è costituita da cinque arcate, le quali differiscono in altezza, dove la più alta si presenta posizionata centralmente, mentre le arcate più basse si trovano verso i lati della facciata. Differentemente, quella inferiore consta di tre arcate uguali, che si uniscono con il portico, formando un’unica struttura. Ai lati della facciata ci sono due campanili risalenti a periodi storici differenti: quello situato a sud è similare ad una torre di difesa e prende il nome di "Torre dei Monaci" - risalente allo VIII secolo -venendo attribuita agli stessi monaci che vivevano all'interno dell'edificio; parallelamente - costruito con mattoni di scarso valore - la torre nord, definita "Torre dei Canonici", è edificata nel XII secolo, ad eccezione degli ultimi due piani che sono stati costruiti successivamente, nel XIX secolo.
Internamente, la basilica è divisa in tre navate, ognuna delle quali terminante con un’abside. La spazialità è composta dall'alternanza di grandi pilastri appartenenti alla navata centrale con altri di dimensioni ridotte, facenti parte delle navate laterali. La pianta è longitudinale e le sue dimensioni sono identiche a quelle presenti nel quadriportico se non vengono presi in considerazione le absidi. La navata centrale è costituita da quattro campate quadrate e l’ultima campata quadrata - in prossimità del presbiterio - è ricoperta da una cupola, le altre differentemente presentano una volta a crociera. Nelle navate laterali si trovano i matronei. Lo studio della luce è stato pensato solamente passante dalle aperture presenti sulla facciata e dalle finestre che si trovano nell’abside. Proseguendo con l'analisi troviamo il sacello (cappella) di San Vittore in Ciel d’Oro - una cappella costruita nel IV secolo, prima della basilica stessa e dedicata dal vescovo Materno a San Vittore - un mosaico che raffigura alcuni santi, tra i quali anche Sant’Ambrogio. L’edificio sacro ha anche una cripta costruita nella seconda metà del X secolo. Sul catino absidale compare un mosaico che rappresenta il Cristo in trono, giudice, seduto con in mano il libro della legge aperto. Ai lati del Cristo si trovano i due santi martiri Gervasio e Protasio e sopra - in volo - due arcangeli, mentre ai suoi piedi compaiono tre medaglioni con le immagini di santi legati ad Ambrogio: Satiro e Marcellina, fratelli di Ambrogio, e Candida, martirizzata durante le persecuzioni romane.
[caption id="attachment_8013" align="aligncenter" width="1000"] La basilica di Sant'Ambrogio, il cui nome completo è basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant'Ambrogio, è una delle più antiche chiese di Milano e si trova in piazza Sant'Ambrogio. Essa rappresenta ad oggi non solo un monumento dell'epoca paleocristiana e medioevale, ma anche un punto fondamentale della storia milanese e della chiesa ambrosiana. Essa è tradizionalmente considerata la seconda chiesa per importanza della città di Milano.[/caption]
All'interno del manufatto fu costruito, tra l'830 e l'840, il magnifico altare voluto dal vescovo Angilberto. Il committente è ritratto su una delle lastre nell'atto di offrire l'altare al santo. L'aspetto è quello di una grande cassa, quasi fosse un sarcofago fatto per contenere le reliquie dei santi. Il lato visibile dai fedeli è diviso in tre sezioni: in quella centrale vi è una grande croce con il Cristo Pantocratore al centro. Sulle braccia della croce campeggiano i simboli dei quattro evangelisti: il leone di Marco, l'aquila di Giovanni, il toro di Luca e l'angelo di Matteo. Nei quattro angoli vi sono i dodici apostoli divisi in quattro gruppi da tre, perfettamente simmetrici. Ai lati scene della vita di Cristo; le varie parti dell'opera sono separate da cornici decorate con pietre preziose e smalto cloisonné. La parte dell'altare rivolta verso l'officiante, è egualmente tripartita. Ai lati vi sono scene della vita del santo fondatore della Basilica ma al centro, sotto gli arcangeli Michele e Gabriele, è rappresentato il santo in due situazioni analoghe ma diverse. Da una parte Ambrogio incorona Angilberto, che è inginocchiato nell'atto di offrigli l'altare stesso, dall'altra incorona Vuolvino “magister phaber”.
Questa firma dell'artista, che si erge alla stregua del vescovo committente e a cui viene tributato l'onore di essere incoronato dal santo, testimonia l'importanza che questa figura andrà via via riacquistando nel corso del medioevo sino a giungere ai grandi maestri del Rinascimento. Vuolvino, maestro fabbro, conscio della straordinarietà della sua opera, è sicuramente l'ideatore di questo magnifico altare ma non lo ha realizzato tutto da solo: lo stile delle figure infatti, permette di identificare diversi artisti all'opera nelle varie formelle.
Sull'altare aureo corrono anche delle iscrizioni: in una si mettono in guardia i fedeli dal non farsi abbagliare dai materiali preziosi e a guardare al vero tesoro, cioè le reliquie del santo. In un'altra il vescovo spera che un dono tanto ricco possa garantire la protezione del santo sulla sua chiesa e sulla città.
Questo tributo, è determinato anche da una precisa scelta politica di Angilberto: Ambrogio infatti detenne anche il potere politico della città, cosi come i missi dominici che venivano inviati dall'imperatore per il controllo dei territori.
Le figure degli arcangeli, del santo che incorona l'artista e il committente si aprono, creando un'apertura che rende visibile la vera tomba di Ambrogio, posta al di sotto. E' significativo che le scene cristologiche siano rivolte verso l'assemblea dei fedeli mentre le scene della vita del santo vescovo siano rivolte verso il clero: sono loro che devono ispirarsi al fondatore, alle sue opere e alla sua vita.
Le figure di Vuolvino e dei suoi allievi sono semplici, lineari e perfettamente caratterizzate. E' stato messo spesso in relazione con le miniature del Salterio di Utrecht, realizzato un decennio prima.
In conclusione, riprendendo le parole del professor De Vecchi: “I personaggi delle scene sono quelli indispensabili al racconto ma, in compenso, affermano con decisione la propria presenza plastica contro lo sfondo neutro e i loro corpi ben costruiti risaltano in un panneggio netto e fasciante”.
Il genio di Vuolvino fu libero di esprimersi grazie alla rinnovata stabilità politica del governo carolingio, stabilità che purtroppo non durò a lungo, ma che permise un tale rifiorire delle arti che ancora oggi stupisce per bellezza e ricchezza.
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini e Marina Righetti Tosti Croce “arte medievale in Italia”, Sansoni editore;
_Pierluigi De Vecchi, “Arte nel tempo”, Bompiani editore.
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