[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1492709574126{padding-bottom: 15px !important;}"]27°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]La città del male. L'architettura nella cinematografia noir. Di Andrea Fioravanti[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1492710109657{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Riportiamo il quarto evento della stagione culturale 2017 della associazione Das Andere "Futuro-Passato. Oltre il già detto". Ospite dell'incontro - introdotto dal dott. Alessandro Poli - è stato il Dott.Andrea Fioravanti che ha dissertato su: "La città del male. L'architettura nella cinematografia".
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L'evento si è svolto presso la libreria Rinascita, dove il critico cinematografico ha tracciato un'analisi sulla città degli anni quaranta, la quale è radicalmente diversa da quella precedentemente rappresentata: se prima era un luogo fisico da conquistare, pezzo di territorio prestigioso per affermare la propria potenza criminale, durante i quaranta, essa acquista sempre più autonomia, rendendosi entità a sé stante capace di spaesare e dominare l’individuo assoggettandolo ai suoi meccanismi.

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Il dott.Poli e il dott.Fioravanti hanno toccato anche il binomio "città e follia": due tematiche che spesso si incontrano nel genere noir perché la prima inevitabilmente genera la seconda ma, con uno sguardo doppio incentrato sulla produzione cinematografica degli anni quaranta e cinquanta.Il trait d’union che lega il cinema noir e l’architettura, se non in senso stretto l’urbanistica, è la vocazione e base socio-spaziale del genere e della disciplina.

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L’incontro negato, la mancata realizzazione del naturale bisogno di comunione, ambizione duratura dell’architettura, relegano l’uomo all’universo delle paure e delle aspirazioni inibite, quelle espresse dal noir. Un ringraziamento speciale va - come di consueto - al pubblico, sempre numerosissimo, al quale va il nostro ringraziamento. L'associazione ringrazia l'Ordine degli Architetti di Ascoli Piceno, la Fondazione Carisap e l'università dell'UNICAM per la concessione dei crediti formativi.

7 5 6 L'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Regione Marche
_L'Ordine degli architetti pianificatori, paesaggisti e conservatori di Ascoli Piceno
_L'Università degli studi di camerino - UNICAM
_Comune di Ascoli Piceno
_Fondazione Carisap
_Libreria Rinascita
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1492706304021{padding-bottom: 15px !important;}"]I segreti della basilica romana di San Clemente al Celio[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino 21/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1492706087934{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La chiesa di San Clemente al Celio è una delle più importanti di Roma, non solo sotto l'aspetto artistico ma anche perché rappresenta bene una città che è stata costruita a strati sovrapposti. L'edificio visibile oggi, risale al XII secolo, ma nasconde parti ben più antiche. Sotto l'attuale pavimento furono infatti scoperti, nel 1857, diversi strati comprendenti un mitreo, un'antica casa romana ed i resti della prima basilica. La posizione di questa chiesa, a pochi passi dal Colosseo, tra i fori e la via Labicana, ha favorito la stratificazione degli edifici, distrutti a più riprese da varie vicissitudini.
[caption id="attachment_8445" align="aligncenter" width="1000"] La basilica di San Clemente a Roma, dedicata a papa Clemente I, sorge nella valle tra l'Esquilino e il Celio, sulla direttrice che unisce il Colosseo al Laterano, nel rione Monti. Ha la dignità di basilica minore. Attualmente è retta dalla provincia irlandese dei domenicani.[/caption]
La chiesa attuale venne ricostruita da Pasquale II sull'aprirsi del XII secolo, quando il monaco benedettino venne proclamato pontefice proprio in questo edificio. Ancora nel pieno dell'aspra lotta tra papato ed impero, mentre le famiglie nobili romane si schieravano dall'una e dall'altra parte, Pasquale II operò una serie di rinnovamenti nelle più antiche ed importanti chiese romane, volti ad affermare il potere spirituale su quello temporale e a rendere le chiese luoghi di raccoglimento e preghiera su modello di quelle benedettine.
San Clemente è l'esempio più lampante di questa renovatio : la chiesa era già in fase di trasformazione tra il 1080 e il 1099 anno in cui fu eletto papa. Probabilmente l'edificio preesistente era stato danneggiato da Roberto il Guiscardo e dalle sue truppe nel 1084. Il saccheggio di Roma da parte dei normanni fu uno degli episodi più violenti del periodo della lotta per le investiture. Le truppe erano state chiamate da papa Gregorio VII stesso, per contrastare l'assedio dell'imperatore tedesco Enrico IV ma, una volta sconfitto l'esercito imperiale, i normanni del Guiscardo saccheggiarono e devastarono Roma. La zona più colpita dalle distruzioni fu proprio quella tra il Colosseo ed il Laterano, ragione che spinse la popolazione a radunarsi intorno alla zona del Tevere e di Castel Sant'Angelo.
[caption id="attachment_8450" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Pasquale II, nato Rainerio Raineri (1050 - 1118), è stato il 160º papa della Chiesa cattolica dal 1099 alla morte; Enrico IV di Franconia (1050 – 1106) è stato dal 1056 rex romanorum e dal 1084 imperatore del Sacro Romano Impero; Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo (l'Astuto), in latino Robertus Guiscardus o Viscardus (1015 circa – 1085), è stato un condottiero normanno.[/caption]
Per quanto riguarda San Clemente, ciò che è certo, è che la vecchia struttura fu interrata e sfruttata come base per la nuova, inaugurata nel 1118. Questa chiesa è stata spesso portata come esempio di basilica paleocristiana anche per via del suo quadriportico che in realtà è frutto di ristrutturazioni successive e risulta pesantemente rimaneggiato. Il manufatto attuale si presenta a tre navate, divise da colonne di spoglio, interrotte nel centro da pilastri che determinano una sorta di divisione della navata in due spazi. Le colonne in granito si alternano a quelle di marmo scanalato. La divisione della chiesa in due diverse parti, coincide con la schola cantorum, elemento reimpiegato dalla basilica precedente ma con delle aggiunte del XII secolo. All'interno del recinto sacro, vi sono un magnifico ciborio medievale e un candelabro pasquale cosmatesco. Il vero capolavoro della chiesa è però il mosaico absidale. Sullo sfondo dorato bizantineggiante si staglia un Cristo in croce tra la Vergine e San Giovanni Evangelista. Dalla croce si diramano girali di acanto a formare l'albero della vita, simbolo della chiesa che dà vita all'umanità intera.
Tra le foglie spiccano figure zoomorfe ed umane, mentre sulla croce vi sono dodici colombe rappresentanti gli apostoli. Ai piedi del crocifisso si diramano i quattro fiumi del Paradiso, a cui si abbeverano vari animali, immagine del popolo di Dio che si avvicina alla verità e alla vita eterna. Ciascuna di queste creature ha un significato simbolico molto preciso: il pavone, ad esempio, è simbolo di immortalità, poiché la sua carne era creduta incorruttibile.
Al di sopra della scena, tra raggi luminosi, la mano di Dio protende una corona verso la croce. Ai lati del catino absidale troviamo invece San Pietro e San Paolo, sotto di loro i profeti Isaia e Geremia. Al di sopra troneggia il Cristo pantocratore circondato dal tetramorfo.I pavimenti della basilica sono a lungo stati considerati tra i più bei pavimenti cosmateschi di Roma.
Di recente è stato però dimostrato che tale pavimentazione ha subito numerosi rifacimenti nei secoli, ragione per la quale quello che vediamo oggi non può dirsi l'originale medievale.
San Clemente custodisce però importanti tracce del suo passato: scendendo al livello inferiore infatti, si può accedere alle strutture più antiche. Il primo edificio identificato è di forma rettangolare e risale alla fine del I secolo d.C. Si è ipotizzato possa trattarsi di un horreum, cioè un magazzino per le merci, forse legato ai giochi dell'anfiteatro Flavio o allo stoccaggio del grano. I muri sono realizzati in grandi blocchi di tufo e travertino, ma la scarsità dei resti non ci permette di definire con sicurezza la sua funzione.
Alla metà del II secolo d.C. risale invece un'insula, cioè una casa privata che accolse al suo interno un mitreo, si pensa verso il III secolo, di cui si possono ancora vedere le decorazioni a fresco e l'altare.
Su questa seconda struttura fu poi edificato il nucleo della prima basilica, in cui venne aperto un abside nel IV secolo. Nello strato della prima chiesa, da cui fu prelevata parte dei materiali per la struttura nuova, si trovano ancora affreschi e testimonianze di grande importanza. L'esempio più famoso è uno dei primi documenti di volgare italiano: si tratta delle storie di San Clemente, risalenti all'XI secolo. Quest'opera narra di San Clemente e Sisinnio, un prefetto romano che perseguitava Clemente poiché cristiano.
Nelle scene, quasi fumettistiche, si vede il prefetto fare irruzione durante una messa del santo: per effetto di un miracolo, l'aguzzino diventa improvvisamente cieco e sordo e deve andarsene senza potere procedere all'arresto.
La scena sottostante è molto divertente: si vedono il santo che ha fatto visita a Sisinnio per guarirlo e lui che reagisce ordinando ai suoi sottoposti di gettare Clemente fuori dall'edificio. Grazie ad un altro miracolo, il santo ne esce illeso, mentre gli uomini si ritrovano a dover sollevare una pesante colonna di pietra.
Le figure sono accompagnate da didascalie con le loro parole. I sottoposti del prefetto, gente del popolo, si esprimono in dialetto volgare mente il santo pronuncia in latino “Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis”ossia “per la durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare pietre” mentre Sisinno “Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!” ossia “figli di puttana, tirate, Gosmari, Albertel, tirate. Spingete da dietro con il palo, Carvoncelle!”. La differenza di registro segna ovviamente la distanza tra il santo educato e colto ed i suoi persecutori, ignoranti e volgari; per noi tuttavia questo documento è fondamentale perché ci fa capire come la lingua parlata a Roma in quell'epoca fosse ormai lontana dal latino.
San Clemente non custodisce quindi solo tesori d'arte e di storia, ma anche un'importantissima testimonianza linguistica. La chiesa fu a più riprese rimaneggiata, come si nota dal soffitto barocco, dalla facciata settecentesca e da varie altre aggiunte. Ciononostante, San Clemente ha mantenuto il suo fascino primitivo ed è una chiesa unica proprio grazie alla sua storia di stratificazione, in cui possiamo vedere tutte le epoche sovrapposte e fuse in un unico edificio.
 
Per approfondimenti:
_Gianluca Lauta, “ancora sull'iscrizione di San Clemente”,Lingua Nostra, 2007
_Nicola Severino, Pavimenti Cosmateschi di Roma: Storia, Leggenda e Verità. Basilica di San Clemente
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1492175314643{padding-bottom: 15px !important;}"]Il Medio Oriente tra influenze esterne e difficili alleanze[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Luca Steinmann del 15/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1492175523614{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La conflittualità tra sciiti e sunniti che sta insanguinando tutto il Medio Oriente ha certamente fondamenta teologiche. Ma non solo: essa è soprattutto la conseguenza della contrapposizione tra diversi Paesi, in primis tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che si contendono il potere e la titolarità del comando della regione. Per farlo non esitano a finanziare e supportare gruppi di combattenti in reciproco conflitto. E’ così che in Siria gli sciiti di Hezbollah combattono Jabhat al Nusra e l’Isis. Quando però gli interessi di entrambe le parti sono convergenti esse sono in grado di fermare la conflittualità e trovare un compromesso, mostrando dunque quanto in tutto ciò la componente teologica sia estremamente marginale.
 
Ciò è particolarmente evidente osservando le divisioni all’interno dei palestinesi dei campi profughi. Frammentati in diversi gruppi, alcuni fedeli all’asse sciita altri ai sunniti, alcuni di essi sono il vero e proprio braccio armato di organizzazioni o Stati terzi, che sfruttano le divisioni dei palestinesi per tentare di promuovere i propri interessi ed estendere il proprio controllo territoriale. Parte del campo di Ein el Hilwee, per esempio, è oggi caduta sotto il controllo del gruppo terroristico di Jabhat al Nusra, il cui nucleo locale è capeggiato dal giovane ed emergente leader Bilal Bader. Classe 1989, capelli lunghi fino alla vita, viso glabro e abbigliamento semplice: Bader si è messo alla testa di un gruppo di 60 jihadisti che stanno dando battaglia ai palestinesi che non accettano la loro presenza e non condividono i loro obiettivi. Come sta avvenendo in tutto il Medio Oriente, anche qui i gruppi radicali sunniti si fronteggiano con quelli sciiti. Gli equilibri interni ad ogni campo profughi, però, sono del tutto particolari.
A Ein el Hilwee, ad esempio, il gruppo di Bilal Bader - quindi di al Nusra - ha raggiunto un’intesa con Ansar Allah, braccio armato palestinese degli sciiti di Hezbollah. Mentre in Siria, a pochi kilometri di distanza, il Partito di Dio attacca le postazioni jihadiste in nome della difesa dal terrorismo, in questa zona tale formazione non esita ad acconsentire un accordo strategico con quelli che dovrebbero essere i propri principali nemici sul campo di battaglia.
[caption id="attachment_8423" align="aligncenter" width="1000"] Hezbollah o Ḥizb Allāh (in arabo: حزب اﷲ‎), ossia Partito di Dio, è un'organizzazione paramilitare libanese, nata nel giugno del 1982 e divenuto successivamente anche un partito politico sciita del Libano. Foto di Mahmoud Zayyat[/caption]
Una situazione del tutto inedita che mostra come la descrizione di questo conflitto sia molto difficile per chi non lo vive in prima persona. Ciò che è certo è che, all’interno del conflitto tra sciiti e sunniti, tantissimi attori stanno tentando di strumentalizzare i gruppi palestinesi per promuovere i propri interessi, armandoli e finanziandoli. I fucili che Bilal Bader ha in dotazione, ad esempio, costano circa 3000 dollari l’uno: difficile pensare che dietro il loro acquisto non ci siano dei ricchi finanziatori esterni. Chi questi siano, però, è difficile da stabilire con certezza. Non sarebbe la prima volta, che dei gruppi terroristici vengono assistiti e finanziati da governi stranieri o da partiti politici che siedono in parlamento. L’amministrazione americana è da tempo accusata - da diverse fonti - di avere supportato gruppi di cosiddetti “ribelli moderati” in Sira, molti dei quali sono risultati essere terroristi, col fine di destabilizzare il regime di Assad.
Altri governi, soprattutto quello dell’Arabia Saudita e quelli dei Paesi del Golfo, non hanno per lo meno mai messo in atto accurati controlli perché dei finanziamenti privati partissero dai propri Paesi per finire nelle tasche del sedicente Stato Islamico.
Un’operazione non dissimile avvenne ancor prima in Libano, proprio tra i palestinesi. Nel 2007 un gruppo di 300 jihadisti del gruppo di Fatah al Islam, legati ad al Qaeda e provenienti da tutto il mondo, si impossessò del campo profughi palestinesi di Nahr el Bared a Tripoli, nel nord del Libano. Si trattava di persone provenienti dall’esterno del campo originarie soprattutto da Siria, Kuwait, Arabia saudita, Marocco, Giordania e Afghanistan. Pesantemente armati, vi fecero ingresso e iniziarono a imporre le proprie regole ma anche a tentare di farsi accettare dalla locale popolazione palestinese regalando dolci ai bambini e tentando di prendersi come spose delle giovani donne del posto.
Da lì essi tentarono un colpo di mano contro lo Stato libanese: in nome della causa palestinese, attaccarono prima una banca nel centro di Tripoli, in seguito iniziarono a prendere di mira le postazioni dell’esercito libanese, dando vita ad una guerra che durò diversi mesi e che generò tantissimi morti prima che i terroristi venissero sconfitti e cacciati. Molti di loro vennero uccisi, altri riuscirono a fuggire, lasciando dietro di sé solo macerie. Per cacciarli, infatti, le truppe libanesi utilizzarono bombe e missili che, dall’esterno, riversarono sulle case di Nahr el Bared, costringendo la popolazione alla fuga e demolendo gran parte dell’area urbana. Secondo molti degli abitanti del campo quanto avvenne nel 2007 fu un tentativo di strumentalizzazione della causa palestinese da parte dei terroristi per mettere in atto una rivolta contro le autorità in modalità analoghe di quanto avverrà a partire dal 2011 in Siria.
 
Note:
_Su gentile concessione del quotidiano svizzero "Il Corriere del Ticino" pubblichiamo questo reportage andato in stampa il 01/03/2017, scritto da Luca Steinmann: corrispondente in Italia del Corriere del Ticino e reporter reduce di un recente viaggio in Libano, dove ha tenuto una serie di corsi di giornalismo all'interno dei campi profughi palestinesi.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1491822847513{padding-bottom: 15px !important;}"]Riflessione sul modello economico di tipo comunitarista[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Fabrizio Fratus 11/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1491822790499{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Domani sarà tragedia, domani sarà insicurezza, domani sarà povertà. Sembra proprio che non si possa fuggire da questa previsione: il lavoro è destinato a diminuire per fattori molteplici e tutti sono concordi. L’aumento della popolazione come l’utilizzo delle macchine per sostituire le persone e aumentare i profitti contribuiranno a dare una svolta epocale a tutto ciò che chiamiamo lavoro retribuito: ovvero quella attività materiale o intellettuale per mezzo della quale si producono beni o servizi, regolamentata legislativamente ed esplicata in cambio di una retribuzione.
Da alcuni anni tutte le mansioni noiose, ripetitive e pericolose, vengono pian piano gestite dalle macchine. Se da un lato vi è una positività, poiché si diminuisce il rischio di incidenti alle persone sul lavoro dall'altro lato va osservato che il 70% dei lavoratori resta a fare lavori di tipo intellettuale (Indagine Caritas sull’aumento della povertà in Italia), creativo, di gestione di informazioni. Ma in molti settori queste operazioni vanno a diminuire grazie all’iper-tecnologizzazione.
La società e il lavoro stanno rapidamente mutando e le aziende non si modellano in rapporto ai cambiamenti ma mirano solo ad aumentare il proprio profitto non capendo quanto è già accaduto e si intensificherà: il crollo dei consumi. L’unica strada percorribile non è quella dello sfruttamento di manodopera meno costosa, la quale giunge da paesi meno sviluppati: questa non è la soluzione. Se si procede verso tale indirizzo, si aggraveranno le problematiche e aumentà in maniera drastico la povertà. 
Solo in Italia, nell’ultimo decennio, siamo passati da 1,8 milioni di poveri a oltre 4 milioni. L’aumento di oltre 2,2 milioni di poveri, ha comportato una diminuzione dei consumatori e di conseguenza meno posti di lavoro e più aziende chiuse.
Quale, dunque, una possibile soluzione? Secondo alcuni studiosi, rivoluzionare il mondo del lavoro tramite un nuovo patto sociale tra Stato, aziende e comunità, porterebbe ad una diminuzione di ore lavorative a parità di stipendio. Questa soluzione contribuirebbe ad un aumento delle persone impiegate e - utilizzando il tele-lavoro - diminuirebbe i costi per le aziende e lo spreco del tempo per gli spostamenti delle persone.
Molte delle attività di oggi possono essere svolte in ogni luogo e in qualsiasi orario; il lavoro intellettuale non dipende dal tempo e dal luogo, ma da obiettivi e cooperazione tra soggetti. Destrutturando il tempo e lo spazio è possibile creare una nuova modalità lavorativa in relazione agli obiettivi, i quali contribuiscono a diminuire le diverse problematiche per le aziende e per le società. Tra questi emergono l'inquinamento, i costi aziendali,  il risparmio energetico, gli incidenti sul lavoro e gli incidenti stradali. Questa tipologia risolutiva, contribuirebbe ad un aumento dei vantaggi di tipo personale, come anche nell'ambito sociale: fattori come il tempo libero, la gestione e soluzione di problematiche familiari, i costi sociali per inquinamento, il risparmio economico per le aziende, il rispetto della famiglia e il reddito per le molteplici persone.
La diminuzione delle ore di lavoro, unite all’utilizzo del tele-lavoro, garantirebbero alla società post moderna consumi e profitti. In una fase di transizione verso un nuovo modello economico e una società basata sul consumo collaborativo, ecco la soluzione basata su un’impostazione comunitarista di transizione. La nuova economia del futuro si dovrà basare sulla condivisione dei beni: gli esempi più noti sono il car-sharing come il bike-sharing che sono il passaggio verso una economia collaborativa, dove le persone - le quali condividono le competenze e i capitali - sono in grado di generare ricchezza grazie ai mestieri, alle conoscenze e alle iniziative specifiche.
Alcuni studiosi parlano di un nuovo tipo di capitalismo, dove la proprietà tradizionale dei grandi marchi si unirebbe ad un sistema di accesso su base paritaria. In realtà non si tratta di una nuova forma di capitalismo, ma di un sistema cooperativo in cui il profitto non è il fine dell'individuo, il quale  ha sempre come obbiettivo la tutela dell’ambiente, il consumo consapevole, il risparmio energetico, l’eliminazione dello spreco, la dispensa collettiva e tutte quelle forme in cui il denaro non è il principale mezzo di scambio.
Il futuro può essere dominato dall’uomo e la cooperazione tramite diverse competenze potrà contribuire a sviluppare un nuovo modello di economia di tipo comunitarista.
 
Per approfondimenti:
_Domenico De Masi, Ozio creativo, BUR, Milano 2006
_Giannino Malossi, La creatività nelle professioni della moda
_Giulia Settimo, M'Invento un Lavoro: piccola guida per trovare nuove opportunità, Red edizioni, 2013
 
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Il lungo percorso di riscoperta della pittura e della personalità di Artemisia Gentileschi inizia - se si esclude il contributo di Imparato del 1889 sull’«Archivio storico dell’arte» - nel 1916, anno in cui lo storico d'arte italiano Roberto Longhi – il quale ha avuto il merito di aver ridato ossigeno alla figura di Caravaggio, attraverso una grandiosa mostra dedicata al pittore lombardo al Palazzo Reale di Milano nel 1951, quando di Michelangelo Merisi si sapeva poco e niente – scrive un articolo per la rivista "Arte", dal titolo "Gentileschi padre e figlia". In questo breve scritto Longhi ci dice che Artemisia fu: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità […] nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera».
[caption id="attachment_8378" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra: Roberto Longhi (1890 – 1970) è stato uno storico dell'arte italiano. Nell'immagine di destra: Amerigo Bartoli, ritratto di Roberto Longhi[/caption]
Questo scritto rappresenterebbe il «primo serio tentativo di analizzare la produzione dell’artista nel più vasto contesto del caravaggismo e, soprattutto, di tentare una prima, accurata distinzione delle opere della figlia rispetto a quelle del padre» . Dall’articolo di Longhi ad oggi numerosi sono stati gli studi condotti sulla figura e sulla produzione di Artemisia. Accanto a questi non mancano biografie romanzate e film che raccontano il percorso artistico ed esistenziale della pittrice. E non sono mancate le mostre a lei dedicate. Tra le più recenti, quella parigina del Museo Maillol, nel 2011, e quella pisana del palazzo BLU, nel 2013. E oggi si ritorna a parlare dell’artista romana grazie alla mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo, aperta al Palazzo Braschi di Roma sino al prossimo 7 maggio (a cura di Nicola Spinosa, Francesca Baldassari e Judith Mann); esposizione che mette in relazione la produzione della Gentileschi coi grandi nomi della pittura italiana e europea, ripercorrendo un arco cronologico che va grossomodo dal 1610, anno in cui muore Caravaggio e in cui Artemisia realizza la Susanna e i vecchioni, al 1652, anno in cui la Gentileschi si spegne a Napoli.
[caption id="attachment_8381" align="aligncenter" width="1000"] Situato nel cuore rinascimentale di Roma, tra Piazza Navona e Corso Vittorio Emanuele II, palazzo Braschi viene progettato dall'architetto imolese Cosimo Morelli (1732-1812) per incarico di Papa Pio VI (1775 - 1799) che vuol farne dono al nipote, Luigi Braschi Onesti.[/caption]
Lungo il percorso espositivo della mostra romana è possibile pertanto ammirare un ampio repertorio di dipinti, dalla Giuditta di Paolo Borghese Guidotti alla Cleopatra di Antiveduto Gramatica, dal Giuseppe e la moglie di Putifarre del Cigoli al Battista di Nicolas Regnier, dalla Maddalena di Ribera al magnifico Noli me tangere di Battistello Caracciolo, dalla Giuditta di Andrea Vaccaro alla bella Santa Lucia di Cavallino, dalla Lucrezia di Simon Vouet al Cristo e l’adultera di Paolo Finoglio, sino al Tobiolo dell’olandese Hendrick Van Somer, per un totale di 95 opere. Un percorso che restituisce al visitatore non solo l’itinerario che effettivamente Artemisia ha compiuto lungo la sua vita – da Roma a Firenze, da Genova a Londra e poi Napoli – ma offre anche la possibilità di cogliere le evidenti influenze che gli artisti, tutti diversi fra loro, hanno vicendevolmente subito, rompendo così per la prima volta, mossi anche e soprattutto dalla forza del dilagante caravaggismo, i confini territoriali d’appartenenza e dando vita a una pittura per così dire “europea”. Il caravaggismo infatti è stata «una grande febbre» che ha attraversato «i corpi e le menti di tutti i pittori moderni tra il 1600 e il 1630 con esiti spesso sorprendenti» .
Tra le opere della Gentileschi esposte, oltre che alla già ricordata Susanna e i vecchioni, è presente il magnifico Ritratto di gonfaloniere di Bologna, quadro del 1622, e le due versioni di Giuditta che decapita Oloferne.
Il misterioso gonfaloniere ritratto da Artemisia sarebbe con molta probabilità Costanzo di Giasone. Sino a qualche anno fa l’identità dell’uomo raffigurato era però quasi del tutto sconosciuta, anche se ci fu chi tentò di identificare l’uomo con un membro della famiglia Pepoli, nonostante lo stemma che compare sul tappeto accanto all’uomo – come ravvisò Giovanni Papi – non sia quello della grande casata bolognese. Oppure chi, come Bassel, vide nel gonfaloniere il nobile genovese Pietro Maria di Cesare Gentili. Il ritratto, ad ogni modo, «è potente e riesce a esprimere con ammirevole efficacia l’energia militaresca: ciò deriva con ogni probabilità dall’abilità della pittrice nel rappresentare la figura come una massa di forza al centro di un volume ben definito […] dall’uso di toni diversi dello stesso colore ocra scuro, mentre il resto della composizione sembra inscritto nella luce, che divide il pavimento dal muro e circonda, ammanta ed esalta il gonfaloniere tra la sua stessa ombra e il tavolo adombrato».
[caption id="attachment_8383" align="aligncenter" width="1000"] Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara (particolare), 1620. Museo di Belle Arti di Budapest[/caption]
La Giuditta che decapita Oloferne invece è l’immagine – in accordo con quanto già affermato anni fa da Judith W. Mann – cui maggiormente si lega il nome di Artemisia. In effetti questa rappresentazione non soltanto manifesta la grandezza della pittrice dal punto di vista stilistico e formale per il raggiunto caravaggismo, ma esprime anche la sua tormentata psicologia, perché Artemisia qui arriva a dare al volto di Giuditta il suo stesso volto, e al volto di Oloferne morente nella sua ultima notte quello di Agostino Tassi, il pittore – amico del padre e suo stesso maestro – che nel 1611 la stuprò. Artemisia dipinse, come si è detto, due versioni della Giuditta, una nel 1612-13, conservata al Capodimonte, e l’altra nel 1620, conservata agli Uffizi; e in entrambi i casi si ha quasi la sensazione di avere davanti agli occhi una istantanea fotografica di quello che poteva essere il desiderio che animava la pittrice in quegli anni turbolenti: decapitare il Tassi per il male che le aveva fatto.
[caption id="attachment_8384" align="aligncenter" width="1000"]artemisa-gentileschi2 Nel dipinto di sinistra viene rappresentato "Giuditta e Oloferne" un olio su tela (145x195 cm) realizzato nel 1599 circa dal pittore italiano Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. Segue centralmente il dettaglio della decapitazione di Oloferne. Nel dipinto di destra viene mostrato "Giuditta che decapita Oloferne" dipinto a olio su tela (199x162,5cm) realizzato nel 1620 circa dalla pittrice italiana Artemisia Gentileschi. È conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.[/caption]
La scena della decapitazione avviene in un ambiente indistinto. Una luce proveniente da sinistra illumina violentemente l’azione del delitto nel momento più drammatico, nel momento cioè in cui Giuditta ha già operato il primo taglio sulla gola di Oloferne e il vivido sangue del tiranno comincia a sgorgare macchiando le bianche lenzuola del suo letto. Oloferne si dimena disperatamente, ma viene subito bloccato da un’altra donna, la fantesca Abra, complice segreta di Giuditta. E l’assassinio si compie in un tempo brevissimo, in pochi secondi. Quello che la Gentileschi ha immortalato in questa drammatica scena è un momento cruciale, perché è l’attimo in cui Oloferne non è né vivo né morto, al punto da evocare la famosa foto di Robert Capa Il miliziano morente, dove un soldato, appena colpito da un proiettile, sta per cadere al suolo ed è tra la vita e la morte. Nella versione degli Uffizi, dove l’eroina biblica indossa una sontuosa veste giallo oro, Artemisia firma il suo capolavoro sulla spada insanguinata di Giuditta. «EGO ARTEMITIA/LOMI FEC.», vi si legge: Artemisia Lomi, come la pittrice firmava le sue opere durante il soggiorno fiorentino, e non Gentileschi, quasi a voler suggerire una rinascita, dopo gli anni inquieti che seguirono la violenza patita. L’oltraggio viene così «riscattato conquistando con nome luminoso nella pittura, senza imbarazzi e timidezze, se pensiamo che Lavinia Fontana, poco prima di lei, si sentiva così limitata da firmare, conquistato qualche riconoscimento, le sue opere “Lavinia figlia Prospero”, continuando a riprodurre il nome del padre come se in esso fosse scritto il suo destino. Artemisia avanza con il proprio nome, rinnega il padre. Si afferma prima di tutto come eroina della pittura; è, anzi, un pittore che non dipende, che non deve chiedere niente a nessuno. Solo in ambito caravaggesco poteva nascere una figura di tale forza e con tale volontà di affermazione» .
A Firenze, giunta alla corte del granduca Cosimo II col marito Pietro Antonio Stiattesi subito dopo il processo che seguì allo stupro, la pittrice romana vuole infatti dimostrare di essere una donna nuova, e riprendersi quella dignità che aveva quasi del tutto perduta a causa della troppa ignoranza e delle malevoli lingue di quanti la vedevano oramai soltanto come una donna di facili costumi. E armata di autentico talento e profonda passione, finalmente Artemisia può ricoprire quel ruolo che le era stato troppe volte misconosciuto, troppe volte negato: quello di vero maestro. Gigante tra i giganti sulla scena artistica del suo tempo.
 
Per approfondimenti:
_Susan Vreeland, La passione di Artemisia - Edizioni Beat
_Autori vari per catalogo mostra, Artemisia Gentileschi e il suo tempo - Edizioni Skira
_Donatella Bindi Mondaini, Il coraggio di Artemisia. Pittrice leggendaria - Edizioni El
_Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, Edizioni L’arte
_T. Agnati, Artemisia Gentileschi, Dossier d'art n° 172, Edizioni Giunti
_Vittorio Sgarbi, Il fuoco di Caravaggio, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Ca-ravaggio a Mattia Preti, catalogo della mostra
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1517483734650{padding-bottom: 15px !important;}"]Il Riuso urbano come elemento imprescindibile per le periferie[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 04/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1491303543444{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
All’interno della disciplina architettonica odierna, le periferie sono il primo elemento di indagine e di progettazione. Dopo le dimenticanze del dopoguerra, negli anni sessanta fulcro di analisi furono i centri storici: da dimenticati luoghi urbani, sono stati ripensati e l’architetto sembra aver vinto la propria battaglia negli anni settanta e ottanta. Dal 2010, la professione dell’architetto si sta cimentando sempre più nella sfida del “riuso urbano” delle periferie. Sicuramente questa battaglia ideologica durerà a lungo, poiché tali luoghi, ovvero quella parte urbana che possiamo anche chiamare città diffusa, compongono la città del divenire o del “non” divenire.
Se questa sfida verrà perduta, l’Italia più di molti altri paesi europei pagherà un prezzo molto alto.
Non ci sarebbero negatività se mediamente, l’80% delle persone vivesse in una periferia, ma oggi tale nome viene associato all’aggettivo degradato, lontano, abbandonato, triste e oggi francamente questo non può più essere immaginabile, poiché nella periferia risiede il futuro dell’urbe. Questa la grande scommessa. Come primo punto, sicuramente si deve partire dal presupposto di non crearne di nuove per la semplice motivazione della insostenibilità: oggi si parla spesso di sostenibilità e il nuovo costruito è la prima insostenibilità. Bisognerebbe cessare l’edificazione di nuove periferie e nel contempo si dovrebbe estendere a macchia d’olio le città, per creare quartieri che devono essere serviti da strade, da impianti, dalla raccolta dei rifiuti, dalle fogne, da molteplici fattori che rendono insostenibile l’urbe stessa, la quale si frammenta, si disperde in forza. Questa aspetto può essere considerato sia tecnico/economico, sia umano: un luogo non connesso, si trasforma proprio in una “periferia” come la si può intendere nel suo carattere di mono-funzionalità più becero.
Il caso londinese è di esempio per tutto il vecchio continente: gli inglesi hanno deciso di adottare la green belt con il sindaco Ken Livingstone e Londra si è dotata di una “cintura” una “linea verde” che perimetra la city oltre alla quale non si deve costruire, oltre la quale la campagna resta campagna.
[caption id="attachment_8349" align="aligncenter" width="1000"] La green belt (cintura verde), nel Regno Unito, è una norma che regola il controllo dello sviluppo urbano. L'idea è che debba essere mantenuta, attorno ai centri abitati, una fascia verde occupata da boschi, terreni coltivati e luoghi di svago all'aria aperta. Lo scopo fondamentale di una cintura verde è impedire la scomposta proliferazione di costruzioni che vadano ad inquinare questo spazio di rispetto.[/caption]
Cosa vuole dire questo? Bisogna osservare questa azione con una impossibilità alla crescita? Niente affatto.
Si deve crescere per implosione, non per esplosione. Bisogna completare il tessuto che già esiste: costruendo sul costruito e andando ad occupare tutti quegli spazi che normalmente vengono definiti in inglese “brownfield” ovvero spazi compromessi, spazi cementificati. Abbiamo cementificato troppo, dobbiamo smetterla di farlo esternamente, ma possiamo trasformare serenamente molto cemento interno alle città in quartieri urbanizzati. Questi vuoti urbani sono spesso aree industriali dismesse e linee ferroviarie: ve ne sono certamente molte.
Vi è anche la possibilità di intensificare gli spazi già costruiti: riprendendo il caso londinese, si noti come vi è stato una intensificazione urbana soprattutto in altezza, aumentando la densità. La città è vivibile solo se ha una certa intensità, una città troppo diluita (città territorio) non crea empatia al cittadino, il quale si sente sempre più smarrito. Ogni città ha la possibilità di crescere dall’interno, per implosione, e questo fattore è sempre successo nella storia dei nostri centri abitati: si è sempre costruito sul costruito. Naturalmente è più facile costruire su un terreno vergine, in periferia, ma per rigenerare quest’ultima occorrono certamente più abilità, rendendo la professione dell’architetto molto più stimolante.
L’opera del riuso, implica una grande attenzione e capacità diagnostica: catapulta la capacità di costruire in un mondo diverso, nuovo, più scientifico e organizzato. L’architetto può crescere molto, ma è chiaro che si tratta di una vera e propria sfida. Costruire sul costruito, costruire da aree dismesse, significa confrontarsi con temi complessi, di contesto idrogeologico, contesto minerario, bonifiche. Entrano in gioco temi completamente nuovi rispetto allo standard della progettazione che hanno una stretta relazione con il campo diagnostico.
Passare da una “zona cementificata” ad una “decementificata” (brownfield e greenfield ) risulta dunque decisivo: recuperare il verde urbano risulta l’operazione più semplice nei centri urbani diffusi o compatti, che in seconda battuta porta sempre ad abitare persone. L’uomo è attratto dal verde, dalla natura, l’ossigeno da benessere e questo deve essere il primo cardine della urbanizzazione dei vuoti urbani.
Nelle città dove il verde viene recuperato o riusato, sono luoghi urbani di nuovo vigore e soprattutto permettono di rinserrare la vita nelle periferie, le quali devono essere vissute non per poche ore, ma per un arco temporale molto più lungo, pena l’essere dei meri dormitori: luoghi dove si torna per dormire o per lavorare.
Le città devono tornare ad essere luoghi di urbanità e la parola urbano non è solo un aggettivo che certifica l’appartenenza alla città, ma anche un modo di essere: una persona urbana è una persona civilizzata e non a caso città e civiltà hanno la stessa radice. L’idea, dunque, di trasformare delle zone mono-funzionali in zone plurifunzionali, dove oltre alla residenza si possono fare acquisti, vi sono uffici, aree di aggregazione sociale e verde pubblico è una parte della città restituita alla civiltà e all’uomo.
Immettere attività pubbliche nelle periferie è un altro tassello fondamentale per “fertilizzare” queste aree: ospedali, tribunali, chiese, scuole, biblioteche, università, musei. I luoghi di incontro sono fondamentali, le persone devono dialogare, ridere, condividere dei valori per inserire proprio questa multifunzionalità oggi, troppo spesso, mancante. Da non trascurare è certamente il lato estetico: la battaglia per i centri storici del secolo scorso, avevano come elemento inclusivo la bellezza di ciò che si andava a salvaguardare. L’architetto contemporaneo deve possedere la sensibilità di intravedere la bellezza delle periferie, nel loro aspetto grigio che spesso possiede.
Queste sono belle, sono fotogeniche e troppo spesso godono di una bellezza per la quale non sono state costruite: sono state pensate male, senza affetto, quasi con disprezzo talvolta e nonostante ciò vi è bellezza che fuoriesce, come la bellezza umana dei bambini che giocano a calcio sotto i portici, la bellezza degli orizzonti, gli scorci di luce e la natura spesso aiuta. Nella città gli spazi verdi sono pochi, nella periferia sono molto di più. Questa interessante avventura alla quale assisteremo nei prossimi cinquanta anni ci vedrà coinvolti nel rendere luoghi grigi in luoghi verdi, luoghi brutti in luoghi belli.
Se si eviterà l’ampliamento delle nuove periferie, questo significherà che la campagna, al di là della “linea verde anglosassone” debba essere presente sui piani regolatori. La campagna deve essere preservata, altrimenti questo luogo di confine tra la città/periferia/campagna, diviene qualcosa di impossibile - poiché non è più città, né campagna, non è più nulla: ha perso tutti i valori e per questo poi diviene degradata moralmente e fisicamente. Oggi dobbiamo avere il coraggio di stabilire un nuovo limes tra la città e la campagna, soprattutto in paese come il nostro, dove potremmo consumare il suolo ad un ritmo francamente folle. Bisogna sfatare la teoria che questo ragionamento impedisca le città di crescere.
Gli consente di crescere, ma in una crescita sostenibile.
Per quanto concerne i materiale da costruzione, anche questi devono essere rivisitati: si deve sempre tornare all’origine delle cose e all’origine dell’architettura ci sono i materiali. I materiali di sempre come il legno, la pietra, il cemento devono essere anch’essi reinventati: il legno ad esempio lamellare può essere incollato e ricostruito, la pietra può essere conformata con dei macchinari esattamente come deve essere (per fare magari archi straordinari, che in passato solo mille scalpellini avrebbero potuto fare), la resistenza del cemento è un altro tema di interesse (cemento ad alta resistenza), il ferrocemento.
Bisogna esplorare anche nuovi materiali come la fibra di carbonio, poiché ognuno possiede un suo potenziale recondito e espressivo. Ogni materiale porta con se una promessa di forma e devono essere riusati, reinventati, approfonditi coinvolgendo l’uomo in questa scommessa umana dell’andare a fondo negli elementi, i quali mantengono comunque sempre una loro storia.
Altro fattore è il settore geologico: in città sono spesso presenti le preesistenze romane e paleocristiane, oppure fogne, cavi elettrici. Il fattore della complicanza, spero sia una scommessa per i costruttori migliori, non è meno interessante, ma richiede maturità e abilità. Inoltre in un ambiente urbano, anche sul piano di un’organizzazione di cantiere, sono sconsigliabili camion carichi di terreno sporco che operano movimenti reiterati creando caos alla mobilità. La tecnica del “top down” fa sì che man mano che si salga con la struttura, si scenda con le fondazioni, in maniera meticolosa; questo consentirebbe il rallentamento del numero dei camion, ma nel tempo stesso senza diminuire la velocità di costruzione dell’edificio. In zone urbane dove sia presente un fiume è possibile usare un canale artificiale navigabile per trasferire detriti e portare materiale. Talvolta possono essere usate le linee ferroviarie, poiché nelle aree ferroviarie dismesse, c’è sempre qualche linea che lo consente. Insomma l’abilità del costruttore diventa sempre più alta, rimanendo sempre quello che è: un inventore.
 
Per approfondimenti:
_Danilo Santi, Riuso urbano. Ipotesi e interpretazioni - Edizioni Alinea
_Fontana-Di Battista-Pinto, Flessibilità e riuso. Recupero edilizio e urbano. Teorie e tecniche - Edizioni Alinea
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1491064277231{padding-bottom: 15px !important;}"]Cronistoria dell'Italia coloniale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Davide Quaresima del 02/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1491131618523{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L’Italia ha alle spalle una storia millenaria, ricca di eventi e di figure intramontabili, con un patrimonio culturale superiore a qualsiasi altro paese al mondo, ma da una non esaltante storia coloniale.
Se si adopera un'analisi attenta, si può osservare come l’odio sviluppatosi in tante zone del mondo sia legato ai molti paesi degli ex-imperi. Sicuramente l’Italia non rientra nel novero dei grandi paesi colonialisti. Fra questi ultimi possiamo citare Gran Bretagna, Francia, Spagna, ma non la nostra penisola.
Se si ricercano le motivazioni, una buona analisi deve prendere avvio dall’epoca moderna, tra la metà del XV secolo e l’epoca napoleonica. L’Italia alla fine del quattrocento era uno dei paesi più ricchi d’Europa, sia dal punto di vista culturale (Umanesimo e Rinascimento presero avvio nel nostro paese per poi influenzare tutto il continente), ma anche dal punto di vista economico e commerciale. Fra i più attivi mercanti dell’occidente europeo vi erano veneziani e genovesi, questi ultimi famosi soprattutto per via delle loro operazioni bancarie e di prestito a favore dei grandi regnanti del tempo, mentre la posizione geografica - con un Mediterraneo ancora al centro dei traffici internazionali - era (ed è tuttora) molto pratica. Purtroppo le continue battaglie fra le città stato, guidate dalle potenti famiglie, furono un primo colpo al nostro paese. Nel 1513 un abilissimo osservatore politico del suo tempo come Machiavelli, aveva già intuito le difficoltà della penisola, avversità che ci saremmo portati dietro fino a metà dell’800.
In questo lasso di tempo di circa tre secoli e mezzo l’Italia rimase divisa e alla mercé delle grandi potenze europee, divenendo un luogo estraneo alle nascenti reti commerciali che nel frattempo si andavano affermando nel mondo, e che avrebbero poi contribuito in modo decisivo alla formazione dei moderni imperi coloniali. Questa marginalità,  rese l’Italia un paese periferico per la sua frammetazione politica, rendendolo ammirato e considerato unicamente a livello culturale. Tali fattori furono decisivi per comprendere il tardivo e limitato movimento coloniale italiano, la cui storia è molto recente e spesso, purtroppo, se ne ignorano alcuni aspetti fondamentali.
La seconda metà dell’ottocento fu un’era ricca di eventi dal punto di vista geopolitico. Tutti i paesi volevano possedere un impero coloniale da sfruttare come sbocchi per le proprie merci e in cui poter mandare manodopera in eccesso; per questo motivo preferivano acquisire terre lungo rotte molto frequentate, non disdegnando di scatenare conflitti per arrecare danni ai propri rivali e trarne ovvi vantaggi territoriali. Dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869 le previsioni di ingenti guadagni legati allo sviluppo del commercio nel Mediterraneo portarono molti paesi ad interessarsi alle terre lungo il Mar Rosso e al Golfo di Aden e fra questi paesi, vi era anche il Regno d'Italia. 
 
[caption id="attachment_8324" align="aligncenter" width="1000"] Nella prima immagine di destra, l'inaugurazione - da parte francese - il 17 novembre del 1869, dell'apertura del Canale di Suez. Nell'immagine centrale, vista satellitare del canale, fino al corno d'Africa. Nell'ultima planimetria cartina politica dell'Eritrea: prima colonia del regno d'Italia.[/caption]
La prima penetrazione italiana in Africa avvenne nel 1882, un ventennio dopo l'unità del paese. L’aspetto politico è quanto mai necessario per tali azioni, difatti il nostro paese guardava impassibile gli altri imperi coloniali, sognando di possederne anch’esso una sua porzione. Le motivazioni alla base del colonialismo italiano furono prevalentemente di prestigio; aspirare ad un impero coloniale era un qualcosa di legittimo e per molti era sentito come un dovere. L’Italia avrebbe dovuto rappresentare il paese civile che diffonde la sua cultura e la sua ricchezza intellettuale al paese “sottosviluppato”. Per il Regno d’Italia le motivazioni economiche erano ovviamente importanti, ma non erano le uniche; il complesso di inferiorità di cui soffrivamo nei confronti delle altre potenze doveva essere curato.
Ovviamente non tutti nel nostro paese erano concordi verso un’azione del genere. Il mondo militare e quello della borghesia meridionale erano favorevoli all’espansione coloniale; mentre il clero (che condannava più che altro il Paese in quanto “laicista e liberale”), la borghesia settentrionale e i socialisti si schieravano su posizioni opposte, come il deputato socialista Andrea Costa, il quale nel 1887 asserì dopo la sconfitta di Dogali come: “né un soldo né un uomo per le pazzie africane”.
Le mire italiane ricaddero inizialmente sulla Tunisia, terra a noi geograficamente vicina, sperando in una conquista abbastanza agevole. Purtroppo però nel paese africano si stabilì un protettorato francese, che nei fatti tagliò fuori l’Italia, alimentando la frustrazione nel non essere riusciti a conquistare quella terra. Questo evento è passato alla storia come lo “Schiaffo di Tunisi”, l'antica Cartagine. 
A seguito di un episodio così tanto sconveniente il governo italiano decise di agire prontamente e di dirigersi verso terre nel continente africano ancora non possedute da nessuno. Fra le motivazioni di tanta fretta vi era anche quella di gestire manodopera in eccesso sul suolo italiano.
In quegli anni stava iniziando una vera e propria spartizione del continente, passata alla storia per la sua violenza e velocità con il nome di scramble for Africa (sgomitare per l’Africa) che avrebbe portato i paesi europei in un ventennio a divorarne tutto il territorio. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia si poteva ancora definire indipendente.
La scelta perciò ricadde nel 1882 sull’Eritrea, striscia di terra lungo il Mar Rosso. Ma anche in questo caso la politica coloniale italiana fu tutt’altro che felice. Difatti, a pochi passi da queste terre vi era il grande Impero Etiope, una compagine territoriale molto vasta e potenzialmente pericolosa per i domini italiani. Il territorio era retto da due Negus (Re): a nord vi era il Negus Neghesti ("Re dei Re") Giovanni IV, a sud invece il territorio era retto da Menelik II, tristemente conosciuto da tutti sui libri di scuola per la cocente sconfitta inferta alle forze italiane comandate dal tenente generale Oreste Baratieri ad Adua, nel 1896. Nel 1885, d’accordo con la Gran Bretagna, l’Italia occupò Massaua in Eritrea, che dal 1890 formerà con Assab la Colonia Eritrea. Nel 1869 la Baia di Assab (Eritrea) era stata acquistata dalla compagnia privata del genovese Raffaele Rubattino al fine di fornire uno scalo per i rifornimenti di carbone alle sue navi, cedendola poi al Governo italiano nel 1882. In realtà il nostro paese si era interessato in un primo momento a dei territori nel Pacifico, nel Borneo e in Nuova Guinea; progetti che infine non si tradussero mai in realtà, preferendo non interferire negli equilibri internazionali tra Inghilterra e Olanda (tanto che di lì a poco il Borneo settentrionale, l’attuale stato di Sabah nella Malesia, sarebbe stato inglobato dall’impero britannico).
La prima sconfitta arrivò a Dogali, il 26 gennaio 1887, a seguito di una penetrazione italiana nell’altopiano etiope. La colonna del tenente colonnello De Cristoforis venne accerchiata dagli uomini del ras Alula e completamente annientata. Persero la vita 500 bersaglieri. L’eco suscitato nel paese a seguito della sconfitta fu enorme; persino Bismark fece tuonare le sue critiche. Tra il 1889 e il 1892, grazie ad una serie di trattati, il nostro paese riuscì ad istituire dei protettorati sul Sultanato di Obbia e su quello della Migiurtinia; nel 1892 il sultano dello Zanzibar concesse dei porti nel Benadir fra i quali è opportuno ricordare Mogadiscio, capoluogo della zona. Di conseguenza, nel giro di pochi anni anche l’Italia aveva delle terre nella regione. Due mesi dopo la morte del Negus Giovanni IV (marzo 1889) venne firmato il Trattato di Uccialli, tra Menelik - oramai imperatore e Negus Neghesti -  e il conte Antonelli, rappresentante di Re Umberto I e fornitore di armi all’Etiopia.
Il trattato con il quale venne sancito questo rapporto fra il Regno d'Italia e il Regno Etiope venne scritto in due lingue: in italiano e aramaico (la lingua utilizzata nel paese), e da parte del nostro paese venne interpretato in maniera completamente differente. A generare problemi e controversie fu l’articolo 17, che nelle due lingue citava:
• “Sua maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del governo di sua maestà, il Re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che avesse con altre potenze o governi” (versione italiana);
• “Il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia” (versione etiope).
Per l’Italia era a tutti gli effetti un protettorato; per Menelik un affronto: la guerra era nell’aria. Mentre in Italia si vivevano giorni di fuoco, alimentati anche dallo scandalo della Banca Romana e dal ritorno in politica di Crispi, si decise di penetrare in Etiopia (o Abissinia). Fu un’azione disordinata e poco curata dal governo italiano che sottovalutò le forze nemiche, molto più numerose e ben armate (dal conte Antonelli, appunto).
La disfatta di Adua suscitò un grande scalpore in Europa. Per la prima volta un esercito africano era riuscito a schiacciare nettamente truppe europee; la paura più grande adesso era quella di una possibile presa di coscienza da parte del popolo africano nei confronti dei loro “padroni” e, quindi, di possibili loro rivolte contro gli stessi. Per il nostro paese, Adua significherà un grande mutamento politico che spazzerà via la classe dirigente risorgimentale in maniera definitiva. Ci furono rivolte e sommosse da parte dei ceti popolari che decisero perfino di scendere in piazza. La tensione per crisi economica si sommò alla figuraccia di Adua; il governo Crispi terminò qui.
Dal 1901 al 1943 l’Italia gestì una striscia di terra lungo il fiume Hai-Ho, la Concessione di Tientsin (porto di Pechino). Non si trattò di un grande possedimento (erano in totale 457.800 m²), e se si vanno a guardare le mappe della zona appare più uno striminzito lembo di terreno incastrato fra quelli ben più grandi delle altre super potenze. Le ragioni che portarono il Regno d’Italia ad ottenere questa Concessione risalgono alla Rivolta dei Boxer (1899-1901), la quale scoppiò in Cina a causa di un gruppo di nazionalisti chiamatisi inizialmente “Pugno della giustizia e della concordia” oramai stanchi delle ingerenze straniere nel loro paese. Fin da subito i rivoltosi vennero identificati come “Boxer” per via della parola “pugno” nel loro nome, derivante dal fatto che i ribelli avevano spesso come basi operative delle scuole di kung fu. L’Italia partecipò con l’Alleanza delle otto nazioni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, Giappone, Austria-Ungheria, Germania e Francia) alla soppressione dell’insurrezione e, a partire dal 7 giugno 1902, le venne riconosciuta la zona di Tientsin.
[caption id="attachment_8326" align="aligncenter" width="1000"]italiacoloniale2 Nella prima immagine, planimetria di Tientsin - possedimento italiano in Cina. Nella foto centrale fanteria montata italiana in Cina durante la Rivolta dei Boxer. Nella foto di destra la piazza Regina Elena a Tientsin con il Monumento ai Caduti e la colonna della Vittoria.[/caption]
Nel periodo in cui si approntava il Corpo, la Regia Marina spedì in avanscoperta le unità navali dell'incrociatore Fieramosca e le Regia Nave "Vesuvio" e "Vettor Pisani", le quali cariche di quattro compagnie di fanti di marina, comandati dell'ammiraglio Risolia. Il Corpo di Spedizione partì la sera del 19 luglio 1900 e dopo aver sostato a Port Said (il 23 luglio), ad Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), giunse a Taku il 29 agosto 1900. Una volta sbarcato il personale percorse in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino.  Il contingente internazionale nominò il 26 settembre quale comandante generale il Feldmaresciallo tedesco Alfred von Waldersee. Tale nomina incontrò le forti resistenze di Francia e Gran Bretagna, meno dal Regno d'Italia. Al contingente militare italiano fu affidato il presidio di un quartiere nei dintorni della caserma Huang Tsun. A detta delle cronache gli scontri, i saccheggi e le repressioni in tale zona furono minori che in altri quartieri. Al contingente militare italiano venne inoltre affidato il compito di contrastare le ultime resistenze all'interno della Cina. Il 2 settembre furono conquistati i forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di fanti di marina. In un'altra occasione il contingente militare francese occupò il villaggio di Paoting-fu, in contrasto con gli ordini di von Waldersee che prevedevano l'affidamento dei luoghi a un contingente misto tedesco e italiano. Garioni anticipò il contingente militare francese riuscendo, alla guida di 330 uomini, ad anticipare l'occupazione della cittadina Cunansien originariamente affidata ai francesi.
Il rientro in Italia del Contingente ebbe inizio nell'agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno nel 1902, mentre le restanti compagnie, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905 e fecero ritorno con la Perseo della Compagnia Florio Rubattino nell'agosto 1905.
[caption id="attachment_8327" align="aligncenter" width="1000"] Durante la permanenza in Cina del Corpo di spedizione italiano, rimane la ricca testimonianza di due ufficiali "fotografi": Il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti di Modena (al centro) armato di una Kodak e il tenente Luigi Paolo Piovano di Chieri con una Goertz (a sinistra). Entrambi non mancheranno di fotografare anche gli orrori della repressione, ovvero le fucilazioni, le decapitazioni, le gogne e le macerie. Nella foto di destra: truppe della Alleanza delle otto nazioni, Tianjin 1900.[/caption]
Con il Trattato di Pace del 7 settembre 1901, venne ottenuta la Concessione italiana di Tientsin, una zona di 450.000 m², costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un'ampia area paludosa adibita a cimitero. Dopo un periodo di disinteresse, fu avviata una bonifica. La presenza italiana perdurò sino al 10 settembre 1943, quando le truppe giapponesi occuparono Tientsin e fecero prigionieri civili e militari italiani.
Formalmente il dominio italiano dell’area venne riconosciuto fino al Trattato di Parigi del 1947, ma di fatto l’occupazione giapponese nel 1943, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, aveva già tolto la zona dalle disponibilità italiane.
Tornando verso il mediterraneo e in maniera specifica in nord-Africa, oggi si parla spesso nei telegiornali del problema migranti, della Libia e delle altre terre insanguinate dal fondamentalismo islamico, delle misure che possono essere prese al fine di proteggere l’Europa dagli attacchi dell’ISIS. L’Italia è senza dubbio al centro di tali questioni che la legano indissolubilmente alla terra libica. Gli stessi rapporti fra Berlusconi e Gheddafi ci portano a riconsiderare le relazioni che la nostra penisola ha avuto nel corso del tempo con questa zona sempre particolarmente calda dal punto di vista geopolitico.
L’Italia nel settembre 1911 dichiarò guerra al decadente Impero Ottomano per la conquista di due regioni, Cirenaica e Tripolitania, che successivamente, nel 1934, avrebbero formato insieme ad altri possedimenti la colonia di Libia. La guerra, che terminò nell’ottobre del 1912, permise all’Italia di conquistare anche le isole del Dodecaneso. Con il Trattato di Losanna nel 1912 venne inoltre riconosciuto dalla Turchia il possesso italiano delle zone appena conquistate, comprese le isole nel Mar Egeo, non più rivendicate dal paese sconfitto.
[caption id="attachment_8329" align="aligncenter" width="1000"] Mappa che mostra i movimenti militari del regio-esercito italiano nella regione che oggi chiamiamo Libia. Nell'immagine centrale una stampa raffigurante i combattimenti durante le conquiste contro l'esercito ottomano. Nella foto di destra, bersaglieri al riparo di una trincea durante gli scontri vicino Sidi Messri.[/caption]
Questo conflitto fu importante sotto vari punti di vista. Innanzitutto, fu appoggiato in pieno dalla Francia che così sperava di limitare la presenza britannica nella zona. Come vediamo, ancora una volta si preferisce avere accanto un nemico di “serie B” come l’Italia piuttosto che la potenza inglese. Inoltre, la campagna di Libia mise in mostra le difficoltà dell’Impero Ottomano, una compagine oramai in piena decadenza, sulla quale le forze balcaniche avrebbero potuto avere gioco facile in un eventuale conflitto. Infine, questa guerra va ricordata per i progressi tecnologici in campo militare che vennero utilizzati. Fu il primo conflitto nel quale si utilizzarono automobili (prodotte dalla FIAT); fecero la loro comparsa gli aeroplani, anche se siamo lontani ancora dal loro utilizzo massiccio come avverrà invece nella Seconda Guerra Mondiale. Infine, si registra l’utilizzo della radio al fine di permettere una migliore cooperazione fra le truppe, con Guglielmo Marconi che collaborò con il regio-esercito. Dopo il Trattato di Losanna l’impero coloniale italiano contava Eritrea, Somalia italiana (prima protettorato, poi dal 1908 colonia), Libia e isole del Dodecaneso.
Abbiamo già detto in precedenza come, al termine della spartizione dell’Africa nell’ultimo ventennio dell’800, solamente l’Impero Etiope, assieme al piccolo stato della Liberia, fosse rimasto indipendente. In Italia l'avvento della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime, riuscì per poco tempo, ad occupare anche questo territorio e ad istituire successivamente l’Impero.
A seguito del primo conflitto mondiale l’Italia era riuscita ad ampliare leggermente alcuni suoi possessi in Somalia ed in Libia e le mire verso i territori nei Balcani e in Africa naufragarono nel vuoto. Sul finire degli anni ’20 il nuovo Capo del governo Benito Mussolini, leader del partito nazionale fascista, rispolverò il progetto imperialista - mai sopito - richiamandosi nei suoi discorsi all’antico e glorioso impero romano. Con un passato così importante alle spalle era inconcepibile che l’Italia non possedesse un impero, mentre paesi come la Gran Bretagna o la Francia avessero terre in Asia e Africa; addirittura il piccolo Portogallo veniva accusato di avere un impero tropo esteso rispetto alle sue dimensioni.
La scelta ricadde sull’Abissinia, perché la sua annessione avrebbe rappresentato un ottimo colpo, permettendo all’Italia di rafforzare la sua presenza nella regione ai danni delle altre potenze (Gran Bretagna e Francia in primis). Inoltro la nazione italiana nel 1935 era in piena recessione economica, per le politica errate del regime, il quale - dopo tre rivoluzioni industriali - aveva attuato il progetto di uno Stato rurale. Tale recessione poteva essere superata solo con un conflitto bellico che facesse smuovere l'economia del paese. Vi era, in aggiunta, la remota possibilità di connettere il territorio etiope con quello libico, divisi dal Sudan anglo-egiziano. La conquista di Khartoum avrebbe consentito di collegare le colonie italiane nel Corno d’Africa con la Cirenaica e dare così una grossa spallata ai guadagni economici britannici nella zona, isolando praticamente l’Egitto. Inoltre, era quanto mai necessario vendicare la cocente sconfitta operata da Menelik nel 1896.
Si presentavano però anche notevoli difficoltà. La zona era nevralgica per l’economia inglese, e la loro presenza nella regione non li avrebbe visti certo indifferenti di fronte ad un’azione del genere da parte dell’Italia. Inoltre, le truppe etiopi, mediante guerriglia, avrebbero reso la conquista del territorio estremamente difficoltosa. Infine, l’Etiopia era dal 1923 membro della Società delle Nazioni, e un’azione militare di un membro contro un altro membro avrebbe portato a dure sanzioni.
L’articolo XVI dell’organizzazione citava: “se un membro della Lega ricorre alla guerra[…]sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”. 
Il 3 ottobre 1935 l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia. Per la prima volta, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un paese europeo rompeva l’ordine postbellico. Mussolini seppe sfruttare abilmente un attacco operato dagli etiopi un anno prima a Ual Ual, nel quale 80 italiani persero la vita nel cercare di difendere la postazione. Il dispiegamento di truppe fu imponente; perfino gli aerei giocarono un ruolo decisivo nelle sorti del conflitto. I combattimenti terminarono l’anno seguente, quando Vittorio Emanuele III venne incoronato Imperatore d’Etiopia, il 9 maggio del 1936. Da questo momento sarebbe più opportuno parlare di Africa Orientale Italiana (A.O.I.), comprendente Impero Etiope, Eritrea e Somalia Italiana.
[caption id="attachment_8336" align="aligncenter" width="1000"] I Regi corpi truppe coloniali (RCTC) erano dei corpi delle forze armate del Regno d'Italia nei quali vennero raggruppate tutte le truppe di ogni colonia, fino alla fine della seconda guerra mondiale in Africa. Tali truppe dipendevano direttamente dai governatori delle colonie italiane. Erano corpi autonomi pluriarma, con unità di fanteria, artiglieria, cavalleria e genio proprie. Dal 1924 ai RCTC di Tripolitania e Cirenaica e alle forze armate dell'AOI vennero aggregate le legioni e battaglioni della Milizia Coloniale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Tutti gli Ufficiali erano nazionali del Regio Esercito, i sottufficiali sia nazionali che indigeni, mentre la truppa era nella quasi totalità composta da eritrei, somali, etiopi, libici ed in piccola parte yemeniti e sudanesi. Queste truppe furono impiegate su tutti i fronti africani a partire dalla guerra d'Eritrea e dalla guerra di Abissinia, poi nella guerra italo-turca, fino riconquista della Libia. Nella campagna di conquista dell'Etiopia il RCTC d'Eritrea fornì un intero Corpo d'armata eritreo. Nel 1940 erano presenti 182.000 ascari nell'Africa Orientale Italiana e 68.000 nazionali, mentre 74.000 ascari erano di stanza in Libia durante la seconda guerra mondiale.[/caption]
Nei cinque anni nei quali l’Italia gestì questo territorio vennero costruite strade, porti e ferrovie, ma anche scuole, ospedali ed acquedotti, favorendo l’inizio dell’industrializzazione; venne inoltre regolamentata la caccia e incentivata la protezione ambientale nei territori dell’A.O.I. Purtroppo però, il mito degli “italiani brava gente” può essere facilmente smentito osservando le feroci rappresaglie operate dai militari e le armi da essi utilizzate nei territori appena conquistati: gas asfissianti ed iprite vennero rivolti contro civili inermi, così come i molti campi definiti "della morte" in Libia, dove la gli internati erano ridotti alla fame e a dure fatiche: un lato oscuro e triste nella storia coloniale italiana. Da capire come, le vessazioni verso la popolazione indigena erano perpetrate in tutte le nazioni europee sia in africa che in asia e questa pratica - oggi condannata giustamente da tutte le nazioni democratiche - era considerata "normale"; anzi sotto i possedimenti italiani le angherie - soprattutto dopo aver allontanato il generale Graziani - erano molto meno pesanti che nei possedimenti anglo-francesi. L'Italia ebbe il merito di aver costruito di più tra tutte le potenze coloniali europee. 
A seguito dell’attacco all’Etiopia le sanzioni della Società delle Nazioni non tardarono ad arrivare il 6 ottobre del 1935. Si trattava di limitazioni economiche che vietavano l’esportazione di prodotti italiani all’estero e l’importazione di prodotti utili per la continuazione della guerra in Africa. Il tutto non fece altro che accentuare le politiche autarchiche mussoliniane, provocando grossi danni ad alcuni settori della nostra industria e costringendo quindi molti contadini a dover lasciare il paese per cercare fortuna e terra in Africa, investendo per le infrastrutture di queste regioni piuttosto che per quelle del Mezzogiorno.
Per la prima volta nella storia, la Società delle Nazioni multava un paese membro. Purtroppo però le sanzioni vennero facilmente aggirate, e paesi che al comitato le avevano decise e successivamente votate, alla fin fine si astennero dal rispettarle. La Società delle Nazioni nacque con un onorevole obiettivo, evitare con ogni mezzo altre guerre e sconvolgimenti: questo fu uno dei suoi più clamorosi insuccessi (addirittura le sanzioni verranno revocate da lì a sette mesi). La sua presa di posizione nei confronti dell’Italia non fece altro che velocizzare l’avvicinamento tra il nostro paese e la Germania di Hitler.
Dal 7 aprile 1939 anche l’Albania venne annessa all’impero, mentre Kosovo, parte della Macedonia e del Montenegro furono aggiunti nel 1941. Nel 1940 si provò ad includere anche il Somaliland (Somalia britannica), ma già l’anno successivo queste zone, compresa la Somalia Italiana e gli altri territori dell’Africa orientale, vennero occupate una volta per tutte dagli inglesi, decretando la fine dell’A.O.I.
L'Italia coloniale si ritrovò subito - fin dal 1940 - nell'impossibilità di combattere una guerra pari a quella del nemico, il quale disponeva dei carri armati: armamento e materiale bellico che il regio-esercito non aveva e che non poteva perforare. Inoltre i britannici avevano la possibilità di ricevere continui approvvigionamenti (dati dal vasto impero coloniale), mentre il nostro contingente africano era isolato completamente: l'esito fu scontato, nonostante gesti eroici come quello di Amedeo Guillet o di Amedeo di Savoia duca d'Aosta.
[caption id="attachment_8335" align="aligncenter" width="1000"] L'immagine ritrae la battaglia di Culqualber, combattuta in Abissinia (l'attuale Etiopia) dal 6 agosto al 21 novembre 1941 fra italiani e britannici. Eroica la resistenza dei reali-carabinieri del regio-esercito.[/caption]
Diverse le vicende in Libia (e in Tunisia), persa nel 1943 ad opera delle forze alleate nella Campagna del Nord Africa. Nello stesso anno anche i territori nei Balcani subirono un forte ridimensionamento mentre le isole nel Mediterraneo vennero formalmente perse poiché passarono sotto il controllo tedesco dopo l’8 settembre.
Da questo momento sarebbe sbagliato parlare di Impero coloniale. In Italia la situazione era completamente degenerata e tutti i progetti di Mussolini potevano dirsi tramontati. Il progetto di unificazione fra i territori dell’A.O.I e la Libia avrebbe sicuramente permesso all’Italia di essere determinante negli equilibri della zona, assicurandole il controllo di Suez e degli introiti ad esso connessi. Purtroppo però l’inefficienza degli approvvigionamenti e alcuni errori militari degli alti comandi, giocarono un ruolo decisivo e l’Italia si trovò a dipendere sempre di più dall’alleato tedesco.  Nel 1947, con il Trattato di Parigi, il nostro paese venne spogliato ufficialmente di tutti i suoi possedimenti.
Un’ultima parentesi, anche se di poco conto, si ebbe in Somalia (comprendente adesso anche i territori della vecchia Somalia britannica), la quale ci venne affidata per dieci anni in amministrazione da parte delle Nazioni Unite nel 1950 fino alla costituzione della Repubblica indipendente di Somalia (1960).
Concludo con questa frase di Ferdinando Martini, che forse riassume le prospettive italiane in ambito coloniale: “Si dice che gli italiani non sanno mai quello che vogliono, ma su certi punti sono irremovibili: vogliono la grandezza senza spese, l’economia senza sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è difficile da effettuare.”
 
Per approfondimenti:
_Emanuele Felice, Ascesa e declino. storia Economica d'Italia
_Sabbatucci-Vidotto, Storia contemporanea. Il novecento
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Mario Martone è un regista dalla raffinatezza indiscutibile. Il suo film “Il giovane favoloso” rappresenta una pietra miliare nel cinema degli ultimi dieci anni. Parla di una delle personalità della letteratura italiana su cui si è più che mai discusso e scritto. Il film è molto ben strutturato ed è degno della sua profondità intellettuale di regista. Il Leopardi di Martone ha un tocco insolito, che può essere compreso dallo spettatore attraverso lo scrutare dentro le scene aiutato anche dalla colonna sonora che il regista sceglie di Sascha Ring, meglio noto come Apparat.

[caption id="attachment_8306" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra Mario Martone (Napoli, 20 novembre 1959) regista teatrale, cinematografico e sceneggiatore italiano. Nella foto di destra, Apparat, pseudonimo di Sascha Ring (Quedlinburg, 27 giugno 1978), è un musicista tedesco. Si occupa di musica elettronica, sebbene unisca nella sua musica vari generi.[/caption]

Ad interpretare Leopardi Martone sceglie Elio Germano, il quale riesce a dare - con una possente recitazione - un volto cinematografico al poeta. Germano attraverso il talento e la capacità empatica riesce ad immedesimarsi dentro l’identità di un gigante dell’intelletto. Martone ripercorre le tappe della sua vita tessendo le lodi della grandezza del genio riconosciuto tale negli ambienti intellettuali del periodo. Leopardi aveva dentro un mondo al quale dava voce soltanto attraverso la scrittura e poteva esprimersi solamente in questo modo. Gentiluomo dell’Ottocento, il padre - figura autoritaria - si preoccupava con rigore della formazione dei figli, divenendo per Leopardi un argine imponente. Recanati non poteva essere abbandonata, le amicizie e le conoscenze dovevano essere controllate, bisognava far attenzione ai credi politici e alle parole che si utilizzavano nei confronti di una società radicata nella monarchia: Martone rappresenta esemplarmente la conflittualità tra i due, il padre Monaldo Leopardi, interpretato da Massimo Popolizio, e il figlio Giacomo. Il poeta marchigiano era consapevole del mondo che esisteva al di fuori di Recanati, riceveva lettere di elogio dai suoi amici letterati che vivevano in altre città d’Italia e in particolare dal suo amico Pietro Giordani, che lo invitava continuamente a recarsi a Roma. Tutto un mondo di cui il giovane favoloso veniva privato per imposizione di un padre autoritario.

In questo contesto, fatto di mancanze miste a quell’insieme di malesseri fisici che lo corrosero e logorarono nell’animo e nel fisico, Leopardi si forgia come uno dei più grandi intellettuali italiani e non solo.
Leopardi è ben consapevole che al di fuori di Recanati esiste una realtà alla quale si era preparato tra i libri e i continui studi. La sua piccola cittadina, sperduta nell'entroterra marchigiano, era solo per lui un “centro dell’inciviltà e dell’ignoranza europea” dal quale doveva assolutamente evadere e in cui l’unica speranza di vita e di gioia era rappresentata da quella splendida ed eterea fanciulla che viveva in fronte al suo palazzo, Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di famiglia.
Purtroppo anche quest’ultima cesserà di recare quel bene a Leopardi, morendo di una morte prematura. Proprio a lei , verrà dedicata dal poeta, quella che il mondo conosce come “A Silvia” , in virtù di quella speranza che rappresentò per lui.
A ventiquattro anni Leopardi lascia Recanati, dando un nuovo corso alla sua vita cambia. A Firenze incontra Ranieri, interpretato da Michele Riondino, che Martone rappresenta in tutta la sua vitalità contrapposta a quella di un uomo che lotta con tutte le sue forze con il male che pian piano lo sta uccidendo, fino a deformarlo con quella gobba ostacolante.
Proprio in questa seconda parte del film il regista evidenzia l’antropologia del poeta. Martone pone sempre in evidenza la malattia che di continuo degenera, ma rappresenta un’antropologia vitalistica, quasi nietzschana e superomista si potrebbe azzardare nel dire, che spinge Leopardi a combattere contro tutta quella mancanza d’essere che lo costituisce. Combatte con tutti i malanni nello stesso tempo in cui si scontra con una società intellettuale che lo argina e nel pratico lo censura. Un chiaro esempio è il caso delle "Operette Morali" che verranno messe al bando come libri proibiti dalle autorità borboniche.
Un Leopardi vitale, ostinato nel portare a compimento ogni sua intenzionalità, una caratteristica questa che Martone evidenzia sin dai tempi di Recanati nel conflitto ineluttabile con il padre.
[caption id="attachment_8307" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine di sinistra il pittore A. Ferrazzi, ritrae Giacomo Leopardi, nel 1820 - olio su tela, Recanati, Casa Leopardi. Nella foto di destra Elio Germano (Roma, 25 settembre 1980) attore italiano, nelle vesti del conte marchigiano. Nel corso della sua carriera, ha ottenuto, tra gli altri premi, tre David di Donatello per il miglior attore protagonista per Mio fratello è figlio unico, La nostra vita e Il giovane favoloso. Per La nostra vita ha vinto anche il Nastro d'Argento al migliore attore protagonista ed il Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes 2010.[/caption]
È da questa mancanza d’essere che si articola in tutta la sua totalità il desiderio per la vita. Leopardi convive consapevole con questo male (il dolore fisico), e attraverso la differenza con gli altri individui sani comprende la bestialità della sua condizione sfortunata. Un corpo piccolo e debole che racchiude questa forza spirituale che spinge a lottare senza mai infrangersi, così da far scaturire quella “filosofia del Si” di cui si è tanto parlato riguardo al Leopardi poeta.
Giacomo non era un pessimista che dilaniava il senso della vita, ma al contrario - poiché viveva il male in prima persona - amava in tutta la sua interezza e bellezza la vita. Il suo era un nichilismo scaturito dall’impatto con la pochezza del genere umano volubile, docile e corrotto.
Si differiva dal quel pessimismo che stà alla base del pensiero di Schopenhauer ne “Il mondo come volontà e rappresentazione”, in cui la vita è come un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Questa è una posizione diversa al principio, poiché nella filosofia di Schopenhauer le gioie sono impossibili da soddisfare nella loro interezza, perché una volta arrivati all’oggetto del desiderio non lo si vuole più, dunque il pessimismo si sedimenta come base del tutto.
Leopardi invece nel pessimismo non riscontra l’unica dimensione dell’umano e tutto questo il regista lo evidenzia con incisivi dettagli. Martone firma questa rappresentazione con uno sviluppo della narrazione immersa nella recitazione di alcuni passi delle opere del poeta e in questo si vede anche la grandezza dell’interpretazione di Elio Germano che risulta essere all’altezza del personaggio.
[caption id="attachment_8308" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto una suggestiva vista notturna di Piazza Leopardi con il palazzo comunale, Recanati (Mc).[/caption] Dopo un film che non smette mai di tenere alto lo stato emotivo dello spettatore il finale non poteva che essere una perfetta chiusura da cornice al tutto, ovvero, una recitazione della Ginestra che l’attore intona guardando, dal balcone della villa dove si era recato con Ranieri e la sorella: quel paesaggio articolato e descritto dall’occhio del regista. Una pellicola cinematografica che mette in luce gli aspetti più importanti di Giacomo Leopardi e che allo stesso tempo si cosparge di gloria nella rappresentazione filmica di uno dei più studiati e discussi intellettuali del mondo, poco conosciuto fuori dalla nostra penisola solo per nostra pochezza divulgativa e culturale.
 
Per approfondimenti:
_Mario Martone, "Il giovane Favoloso", film biografico e storico del 2014
 
 © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 
 

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Il compositore e registra teatrale tedesco Richard Wagner compose fra il 1862 e il 1867  la sua unica e famosissima commedia teatrale "I maestri cantori di Norimberga" (Die Meistersinger von Nürnberg) che ebbe luogo - con esito trionfale - alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera il 21 giugno 1868, sotto la direzione di Hans von Bülow, alla presenza di Wagner e del re Ludwig II di Baviera, mecenate del compositore. Recentemente l'opera è stata riprodotta al teatro "alla Scala" di Milano dove si è riproposto il delicato equilibrio del genio tra innovazione e tradizione.
L’opera, tornata alla scala dopo 27 anni, ha avuto alla regia Harry Kupfer e alla direzione di Daniele Gatti. Per gli  addetti ai lavori una recensione non esaltante: è emerso come il regista non abbia saputo cogliere in pieno il messaggio antropologico dell'opera wagneriana, a causa di un’eccesso di individualismo. Diversamente l’orchestra si è espressa in modo impeccabile. Anziché seguire il solco della tradizione - come il maestro Hans Sachs esorta al giovane Walther di fare - egli ha preferito peccare di tracotanza mettendo sul palco una scenografia post-moderna che nulla ha che vedere con la Norimberga del XVI secolo voluta da Wagner. L’arte nasce, vive e si consuma nell’eterna tensione tra apollineo e dionisiaco. Essa, idea iperuranica tradotta dall’artista in una forma carnale percepibile ai sensi umani, è generata dall’amplesso tra la genialità, l’unicità e la fantasia dell’individuo creatore con le regole imposte dalla tradizione della comunità. Tale delicato equilibrio, tra l’elemento più romantico, selvaggio ed impetuoso e quello classico, scevro da orpelli inutili e squisitamente canonico è, in arte come in vita, assai arduo da scovare.
Richard Wagner, che da giovane fu un impetuoso rivoluzionario, nel 1848 con l’anarchico Bakunin lotta per ridare l’autarchìa al suo amato paese. Crescendo riuscì a domare i suoi spiriti bollenti e conciliari con la millenaria tradizione germanica. È da questa sublimazione del sentimento più ferino verso ad un saggio operare nel rispetto degli aulici precetti imposti dalla storia, che emerge il genio più vero - più puro - libero sia dai vizi individuali causati sia dalla sregolatezza, che dall’eccessiva abnegazione di se, data dalla totale adesione al dogma. Wagner ne "I maestri cantori di Norimberga", tra scene d’un raffinato gusto burlesco e grandiose sinfonie prodotte dall’orchestra, dona allo spettatore questo fondamentale insegnamento, necessario ad ogni artista che voglia assurgersi al rango dei virtuosi, aventi la testa cinta dalla corona d’alloro. L'opera fu molto innovativa, poiché concepì - per la prima volta - un dramma musicale diverso: l'uso del coro e dei pezzi d'assieme. Tuttavia, come nota il critico Carl Dahlhaus, la tendenza arcaicizzante dell'opera - con i suoi monologhi, le canzoni, i concertati, i cori e i finali d'atto tumultuosi simili ad un grand opéra, non si sottrae alla concezione wagneriana matura del dramma, in quanto negli anni '60 il musicista padroneggiava il carattere della propria arte al punto da riconoscergli la facoltà di essere drammatica anche attraverso forme apparentemente anti-drammatiche. I Leitmotiv (temi conduttori), che nel Tristano e nel Ring risaltano con estrema brevità, nei Maestri si intrecciano in lunghe melodie che sembrano integrate nel tessuto musicale. Ne consegue che la restaurazione melodica nello stile dell'opera convenzionale non è il frutto di un regresso dello stile wagneriano, ma scaturisce dall'espansione melodica dei leitmotiv.
[caption id="attachment_8295" align="aligncenter" width="1000"] Wilhelm Richard Wagner, Lipsia, 22 maggio 1813 – Venezia, 13 febbraio 1883. E' stato un compositore, poeta, librettista, regista teatrale, direttore d'orchestra e saggista tedesco. Nella foto di destra l'opera Die Meistersinger von Nürnberg interpretata con usi e costumi tradizionali.[/caption]
Questa commedia, che in breve tratta del cavaliere Walther che invaghitosi di Eva vuole divenire Mestro Cantore  per poter vincere la sua mano, insegna che il giovane cuore - superbo e carico di spontaneo talento, entusiasmo ed ingenuo pathos - deve crescere, per scoprire le gioie per il rispetto della disciplina e delle forme canoniche volute dalla tradizione.
Il giovane Walther compone poesie gradevoli plasmandole in elementi musicali distinti, grazie ad un’innato talento, ma ciò che è stato appreso dal proprio orecchio e dal canto dei fringuelli di bosco, non basta per conquistare il cuore di Eva: egli deve perfezionarsi ed imparare a rendere ancora più grandi le sue parole grazie all’uso della metrica e della rima. È così che in una sola notte, nella Norimberga del 1500 il calzolaio Hans Sachs, maestro cantore formatosi nella rigida tradizione musicale dell’epoca, riesce ad insegnare al talentuoso ma privo d’educazione Walther Von Stolzing come mettere nelle forme più corrette i suoi buoni contenuti, ottenendo così un risultato eccelso.
Nella Scena terza dell’atto primo vi è un’importante scena, in cui gli apprendisti Cantori mostrano all’ancora indomito cavaliere la Tavola della “leges tabulaturae”, in cui sono esposti i punti da seguire per forgiare una perfetta canzone in metrica. Ciascun bar della Canzone di maestro/ presenti di norma una struttura/ di diversi membri, / che nessun deve fondere./ Un membro conta di due strofe/ che debbono avere la stessa aria; la strofa consta del legame di più versi/ ed il verso ha la sua rima alla fine" (Ein jedes meistergesanges bar stell’ordentlich ein gemasse dar/ aus unterschiedlichen / Gesätzen, die keiner soll verletzen./ Ein gesätz besteht aus zweenen Stollen,/ die gleiche melodei haben sollen;/ der Stoll’aus etlicher Vers’gebänd’;/Darauf so folgt der Abgesang[…]).
[caption id="attachment_8294" align="aligncenter" width="1000"] Harry Kupfer - Die Meistersinger von Nürnberg[/caption]
Solo riuscendo a conciliare il proprio innato dono vocale e poetico con la bellezza della tradizione, senza però sacrificare al dogma né il proprio impeto né lo stile individuale, il nobile cavaliere riuscirà a vincere il cuore di Eva.
Il regista Harry Kupfer ha commissionato ad Hans Schavernoch la costruzione di una scenografia, la quale trasfigura i ruderi della chiesa di Santa Caterina bombardata, ha immesso gru, impalcature da cantiere e luci al neon. La critica degli addetti ai lavori si è mossa repentina, dopo lo spettacolo, facendo notare la sostituzione dei raffinati costumi rinascimentali, trasfigurati ad abiti in stile anni ’40, accompagnati da individui in tutina attillata sui pattini a rotelle o da celerini in divisa attorno a carri carnascialeschi.  Schavernoch, dunque, ha dimostrato di non avere avuto alcun rispetto per la tradizione dell’ arte germanica elogiata da Wagner.  L’opera -  d’una bellezza sensazionale -  si chiude con la strofa: Onorate i vostri Maestri tedeschi, e sacri tenete i loro buoni geni; e se darete favore al loro operare, andasse anche in polvere il Sacro Romano Impero, a noi rimarrebbe sempre la sacra arte tedesca!”. Come afferma il calzolaio Sachs e Maestro Cantore, bisogna stare attenti: “Se avverrà un giorno in cui il popolo e l’Impero Tedesco cadano sotto falsa maestà straniera; e che nessun principe comprenda oramai più il suo popolo, e se le frivolezze mediterranee si trapianteranno nella terra tedesca, nessuno allora saprà più ciò che è puramente tedesco e non si vivrà più nella gloria dei Maestri Tedeschi”.
D’altronde, come scrive Wagner stesso nel suo saggio filosofico "Gli ebrei e la musica" (Das Judentum in der musik, 1850), vi sono persone che per loro natura, etnica o spirituale, sono incapaci di capire e di produrre ogni tipo di manifestazione artistica, e non possono che modificare il gusto collettivo affinché le loro creazioni vengano apprezzate. Avviandoci verso la conclusione, anche il cavaliere Walther - voluto dal regista sovrappeso, coi capelli ricci e scuri, la polo azzurra sudaticcia ed un cappotto di pelle da vecchio rocker trasandato - non incarna l’ideale germanico del bel cavaliere: biondo, forte, raffinato in ascesa tra il genio individuale Sturm und Drang e l’eroe della tradizione collettiva.
A sinistra, il cavaliere Walther flaccido e mal vestito con costumi appartenenti ad un’epoca errata del regista Harry Kupfer . A destra, il medesimo Walther, con Eva, interpretati da un diverso regista in abiti cinquecenteschi.
 
 Per approfondimenti:
_Riccardo Wagner, I maestri cantori di Norimberga, Biblioteca moderna mondadori, 1957
_Richard Wagner, Gli ebrei e la musica, effepi edizioni, Genova, 2008.
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19 marzo 2017 – Sala Cola dell'Amatrice, Chiostro di San Francesco – 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Nicoló Cingolani
modera: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Francesco Giubilei
 

Riportiamo il terzo evento della stagione culturale 2017 della associazione Das Andere “Futuro-Passato. Oltre il già detto”. Ospite dell’incontro – introdotto da Nicolò Cingolani e moderato dall’arch.Giuseppe Baiocchi – è stato il Dott.Francesco Giubilei che ha dissertato su: “Il pensiero conservatore. Dalla rivoluzione francese ai giorni nostri“. L’evento si è svolto presso la Sala Cola dell’Amatrice dove l’editore Giubilei ha tracciato la storia culturale del conservatorismo dalle origini ai giorni nostri soffermandosi sull’Europa centro-occidentale e sull’Italia. Ponendoci le domande del “perché nel nostro paese non esiste un partito conservatore?”, e “quali sono le cause e le motivazioni storico, politico, culturali?” Abbiamo analizzato opere e profili biografici di decine di pensatori conservatori, sforzandoci di far emerge un quadro organico del conservatorismo europeo. Essere conservatori non significa restaurare il passato in modo aprioristico o rigettare in toto le innovazioni, ma rimettere in discussione il mondo contemporaneo dominato dal materialismo e dall’individualismo, dove i valori spirituali e il concetto di comunità sono ormai al crepuscolo. Bellissimo dibattito finale – come di consueto – con il pubblico, sempre numerosissimo, ed al quale va il nostro ringraziamento. L’associazione ringrazia i politici ascolani presenti all’iniziativa.