[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1494779915285{padding-bottom: 15px !important;}"]28°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Circus, satira riflessiva. Illustrazioni sulla grafica contemporanea. Di Stefano Scalella[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494784549974{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 13 maggio si è svolta presso la libreria Prosperi la mostra del giovane designer Stefano Scalella, il quale ha dissertato brevemente sul tema: "CIRCUS, satira riflessiva. Illustrazioni sulla grafica contemporanea".
L'evento presentato dal nuovo vice-presidente Nicoló Cingolani ha visto presente un pubblico numerosissimo. Le 20 illustrazioni sono state divise in 4 A1 e 16 A3: attraverso la satira, di stampo politico-sociale, l'autore ha voluto denunciare alcuni malesseri della nostra società contemporanea. La riflessione, il cardine principale di Scalella, sui caratteri di come si sta evolvendo questa società. L'utilizzo dei tre colori, come il rosso, il tono di grigio e il pantone nero hanno reso le opere di forte impatto visivo, mentre per le icone e le immagini ha lavorato su una singola figura aggiungendo la scintilla satirica.
 
La mostra sarà permanente, presso la Libreria Prosperi, fino al tre Giugno 2017.
L'associazione - spiega Cingolani - persegue il suo carattere principale e identitario: concedere spazio ai giovani nella società, sempre più permeata da conferenze "autoreferenziali" di scarso impatto sociale. Das Andere, di contro, procede nel concreto organizzando e dando visibilità a validi giovani, di talento, a cui spesso non vengono concesse che vacue promesse. Prossimo appuntamento per la prima metà di Giugno, dove verrà trattato l'argomento architettonico e il sisma marchigiano.
  L'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_Regione Marche
_Comune di Ascoli Piceno
_Fondazione Carisap
_Libreria Prosperi
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1494683768249{padding-bottom: 15px !important;}"]L’origine del Cavallino Rampante: il binomio Baracca-Ferrari[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Davide Bartoccini 14/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494758348877{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
«Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». E’ il 17 giugno del 1923 , Enzo Ferrari ha 25 anni, è un giovane squattrinato con un passato infelice, ma ha appena vinto la prima competizione della sua vita: il Gran Premio del Circuito del Savio volando su di un’Alfa Romeno Rltf che porta il numero 28.
La contessa Paolina de Biancoli, assiste alla gara e ne rimane entusiasta, nota un’affinità, prova un nostalgico senso materno e gli porge un “cavallino rampante” nero dipinto su un pezzo di tela.
[caption id="attachment_8696" align="aligncenter" width="1000"] Enzo Anselmo Ferrari (Modena, 20 febbraio 1898 – Modena, 14 agosto 1988) è stato un imprenditore, dirigente sportivo e pilota automobilistico italiano, fondatore della omonima casa automobilistica, la cui sezione sportiva, la Scuderia Ferrari, conquistò in Formula 1, con lui ancora in vita, 9 campionati del mondo piloti e 8 campionati del mondo costruttori.[/caption]
La tela proviene da uno SPAD S.XIII, un biplano da caccia, quello ch’era di suo figlio, Francesco Baracca, l’asso degli assi. Lo aveva fatto dipingere sulla fusoliera alla sua quinta vittoria, quando divenne asso nel 1916 durante la Grande Guerra, volando per la 91^ Squadriglia, detta “Squadriglia degli Assi”, dove erano stati riuniti tutti i migliori piloti del Regio Esercito.
Francesco Baracca è stato il più importante pilota italiano del primo Novecento. Aviatore abile e coraggioso, idolo delle folle e sogno di moltissime donne, Baracca divenne presto un mito: "Quando volo, soprattutto quando sto duellando con il nemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d'istinto, rovescio l'aereo, lo faccio scivolare d'ala, lo metto in vite, lo richiamo".
A Pinerolo, dal 1909 al 1910, Francesco Baracca frequenta la scuola di cavalleria presso il 2° Reggimento “Piemonte Reale” fondato nel 1692 dal duca di Savoia col motto “Venustus et Audax”. Si tratta di uno dei più prestigiosi reparti dell’esercito italiano e come stemma araldico porta il cavallino rampante argenteo su campo rosso, guardante a sinistra e con la coda abbassata. Francesco Baracca sceglie di adottare, apportando delle varianti, lo stesso stemma del “Piemonte Cavalleria” quale emblema personale per rivendicare le personali origini militari e l'amore per i cavalli. Il cavallino non appare sui primi aerei pilotati dall’Asso degli assi, ma solo a partire dal 1917 quando viene costituita la 91^ Squadriglia Aeroplani, reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: il Nieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII.
Sul lato destro della fusoliera di questi velivoli i piloti usano applicare le loro insegne personali e Baracca adotta come proprio questo cavallino rampante mutandolo da argenteo in nero per farlo spiccare maggiormente rispetto al colore della fusoliera. E’ ormai provato che il cavallino è sempre stato nero, però guardante verso destra, come è testimoniato da un pannello multistrato dipinto, esistente nelle collezioni, sicuramente antecedente la morte di Baracca.
Rientrato in Italia nel luglio del 1915, esegue voli di pattugliamento ed ottiene la prima vittoria il 7 aprile 1916 ai comandi di un Nieuport con il quale abbatte un Aviatik austriaco. Per le sue azioni di guerra, riceve una medaglia di bronzo, tre d’argento, la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia, la croce di cavaliere ufficiale della Corona Belga, ed infine la medaglia d’oro, con la quale viene premiato per l’abbattimento del trentesimo aereo nemico sul monte Kaberlaba, sull’altopiano di Asiago.
[caption id="attachment_8702" align="aligncenter" width="1000"] Francesco Baracca (Lugo, 9 maggio 1888 – Nervesa della Battaglia, 19 giugno 1918) è stato il principale asso dell'aviazione italiana e medaglia d'oro al valor militare nella prima guerra mondiale, durante la quale gli vengono attribuite trentaquattro vittorie aeree.[/caption]
Purtroppo, il 19 giugno del 1918, rimase ucciso durante una missione di mitragliamento a bassa quota delle trincee austro-ungariche nei pressi di Montello, lungo la linea del Piave, forse da un cecchino, forse da se stesso, con un colpo di rivoltella alla tempia, come era abitudine dei piloti da caccia per non morire bruciati nei loro aerei una volta abbattuti. Aveva 30 anni.
Tornando al giovane Ferrari, questi accettò, anche non sapendo ancora bene come impiegare il cimelio. A quel tempo correva come gentleman-driver, e guidava le Alfa Romeo, che uno stemma già lo avevano.
Questo non lo dissuase però. L’anno seguente fondò una società con lo scopo di comperare automobili da competizioni Alfa, modificarle e competervi nel calendario nazionale delle gare sportive. Il 9 luglio del 1932 il cavallino rampante trovò nuovamente il suo posto, sfrecciando alla 24 ore di Spa-Francorchamps su un fondo giallo – colore modificato dall’originale bianco in onore della sua città natale: Modena. Ferrari fonderà su di esso il suo emblema.
La conoscenza dei telai automobilistici e il suo sconfinato amore per le auto da corsa porteranno alla nascita la ”Scuderia Ferrari” solo nel 1947 – ormai spostasi a Maranello per paura dei bombardamenti – dando inizio ad una leggenda dell’automobilismo.
La scuderia competé al Gran Premio di Monaco nel 1950 e al primo Gran Premio di F1 l’anno seguente. Il resto è storia che conoscerete meglio di me.
Riguardo all’origine dello stemma, che Baracca scelse, e che oggi grazie a Ferrari tutto il mondo conosce e ci invidia, ci sono due ipotesi. La prima che sia una stilizzazione dello stemma del 2′ Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, al quale Baracca apparteneva. A quel tempo infatti i primi aviatori, come i primi carristi, erano inquadrati nella cavalleria. La seconda invece sarebbe riconducibile alla cavalleria nella pura accezione del virtuosismo del termine. I primi aviatori divenivano assi al quinto avversario abbattuto, e come segno di rispetto per onorare l’avversario dipingevano l’insegna dell’ultimo sul proprio aereo. L’ultimo avversario di Baracca fu un Albratros B.II e le origini di Stoccarda del suo pilota avrebbero motivato l’utilizzo del simbolo della città: la giumenta. Questo ricondurrebbe anche alle iniziali presenti sotto il cavallino S. F. Stuttgart Ferrari.
Come molti grandi legati a doppio filo dalla storia, Francesco Baracca ed Enzo Ferrari non si sono mai conosciuti. Chissà se avrebbero legato. Eppure qualcosa in comune lo avevano: con le macchine inventate dall’uomo “volavano” forte, abbastanza forte da rendere tutta la nazione, che in tempi non sospetti si chiamava patria, fiera di loro, per sempre.
 
 Note: si ringrazia il giornale online "Storie di Guerra"
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1494587981027{padding-bottom: 15px !important;}"]Johannes Brahms, l'immobile fervore di una musica eterna[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Carlotta Travaglini del 12/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494587872516{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Massimo musicista del tardo romanticismo tedesco, Johannes Brahms è considerato ancora oggi uno dei maggiori esponenti della disciplina musicale. Solo analizzandolo da un preciso contesto possiamo osservarne da fuori le scelte compositive ed inserirle in una gradualità, dunque farle nostre. Questo compositore è stato oggetto di numerose discussioni, volte ad avvalorare in un senso o in un altro il suo lavoro musicale, tant'è che è quasi impossibile procurarsene un'idea precisa, che sia assoluta. Già Richard Wagner si adira, ai tempi, contro questo severo “principe della musica”, schierandosi ironicamente in difesa del celebre detto di Felix Mendelssohn «ognuno compone come può» (“Sulla composizione letteraria e musicale”, edito per la prima volta nel Bayreuther Blatter nel 1879).
Molti lo considerano un capostipite di un'idea musicale: "Un maestro dell'arte se n'è andato per sempre, un maestro più grande sboccia in Brahms"; così si pronuncia, nell'anno di morte del compositore, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Edouard Marxsen, il più importante insegnante di musica di Amburgo, su un Brahms appena tredicenne.
[caption id="attachment_8674" align="aligncenter" width="1000"] Johannes Brahms: Amburgo, 7 maggio 1833 – Vienna, 3 aprile 1897, è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra tedesco.[/caption]
Un talento che sfiora già i sentieri del cambiamento. Suo padre, Johann Jakob Brahms sfida una ereditaria famiglia di commercianti ed artigiani intraprendendo gli studi musicali. Il matrimonio con la moglie Johanna Enricha Cristianna ed i tre figli Elise, Johannes e Friedrich provano quanto la sua situazione fosse stabile, nonostante gli esordi incerti. Ad Amburgo riesce a vivere come musicista ottenendo anche la qualifica di “Istrumental-Musicus”.
Johannes Brahms nasce il 7 maggio 1833, nel quartiere chiamato “Gangeviertel”; nello stesso anno, Felix Mendelssohn- Bartholdy pubblica la sua Quarta Sinfonia op. 90, “l'italiana”, Schubert è morto da circa cinque anni (e con lui, il “primo” romanticismo) ed i principali compositori sono più che ventenni. L'anno precedente muore una delle voci più soavi del secolo, Johann Wolfgang Von Goethe; a tre anni dalla sua morte, compaiono i Colloqui con Goethe, monumentale opera di Johann Peter Eckermann. Sono anni di fermento, ognuno sembra obbedire al proprio imperativo morale. I paesi gridano un coro unanime: nazione – che sconfina dai perimetri territoriali.
La Germania è divisa, sono frequenti le manifestazioni per la sua unificazione: nel 1834, con l'istituzione dell'Unione Doganale, si tenta di superare il problema delle divisioni interne: a questa comunità economica aderiscono la maggior parte degli stati tedeschi, tranne l'Austria asburgica; la Prussia rimane lo stato più influente, a cui si guarda con speranza per la guida di tutte le lingue tedesche. 
Nello stesso anno, Robert Schumann fonda la Neue Zeitschrift fur Musik (“Nuova rivista di musica”), che redige fino al 1844. Destinata ad essere una delle voci più influenti della critica musicale dell'epoca, la penna del compositore incide fortemente sull'opinione pubblica. Nel 1840 sposa Clara Wieck, pianista concertista dal talento straordinario, e la loro unione crea un estremamente pittoresco cenacolo musicale.
[caption id="attachment_8678" align="aligncenter" width="1000"] Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 – Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896) è stata una pianista e compositrice tedesca, moglie del compositore Robert Schumann. È stata una delle pianiste più importanti dell'era romantica.[/caption]
Nel frattempo Brahms vive la propria infanzia in un clima di precarietà. I genitori si impegnano comunque per la sua istruzione: segue delle lezioni in alcune scuole private dove, oltre agli insegnamenti tradizionali, rivolti principalmente su materie umanistiche, viene iniziato alla matematica ed alle scienze naturali.
All'età di nove anni vive l'evento più difficoltoso della sua infanzia, il gigantesco incendio che devastò gran parte della città di Amburgo; a dieci anni, la sua prima apparizione pubblica come pianista.
Studia lo strumento già da tre anni sotto l'occhio vigile del maestro Otto Von Cossel. La sua prima esibizione deve essere risultata particolarmente notevole: il maestro è più che compiaciuto, ai genitori sono tentati da una prospettiva di carriera del figlio all'estero, negli Stati Uniti, come bambino prodigio. La proposta deve essere davvero allettante, per una famiglia umile: Cossel è avveduto, discute personalmente questo intendimento, e pilota infine i loro sguardi verso Edouard Marxsen, il più rinomato insegnante della città. Dall'anno successivo Brahms è anche nella sua classe di Composizione.
È una giovinezza travagliata, trascorsa in duri anni di studio. Il perenne 'cruccio' che caratterizza la natura di Brahms lo porta naturalmente all'introversione ed al perfezionamento di sé stesso: sono gli anni della tensione giovanile quelli della maturazione artistica, tecnica. Sappiamo di un'apparizione pubblica certa il 21 settembre 1848. Nell'anno successivo Brahms esegue una Fantasia su un valzer in voga, composta da lui stesso. Dal titolo dell'opera si intuisce che la trascrizione di brani noti e la loro rielaborazione sia stato uno dei lavori più usuali del giovane studente di composizione (quello eseguito è sicuramente il lavoro meglio riuscito fra i tanti tentativi), e l'importanza che il suo insegnante abbia attribuito a questa fase. In questo genere Brahms si trova infatti ad eccellere: si ricordino, ad esempio, le celebri Variazioni e fuga su un tema di Haendel, op. 24.
A due anni dopo risale la sua prima pubblicazione: un Souvenir de la Russie, presso l'editore Cranz. La firma che reca è “G. W. Marks”, uno pseudonimo, come se questa scelta fosse più del maestro che un proposito personale.
Tuttavia in seguito non manca di mostrargli la propria gratitudine: a lui dedicherà il suo Concerto per pianoforte n.2 op.83, del 1881, e di lui farà pubblicare - a sue spese - i 100 esercizi per pianoforte.
Nell'anno 1850 viene fondata la Società Bachiana a Lipsia: tra i fondatori, troviamo Robert Schumann. La sua fondazione avviene nel pieno del successo che di questi tempi sta riscuotendo il defunto compositore, dopo decenni di oblio.
Il progetto è ambizioso: pubblicare integralmente le composizioni di Johann Sebastian Bach fino ad allora conosciute.
Nel XVIII secolo la sua musica è considerata troppo complessa, non viene tenuta in auge come un capolavoro. Solo nel 1829 Felix Mendelssohn riscopre la Passione secondo Matteo e la propone in una prima esecuzione: il successo è immediato e ne viene riconosciuta la grandezza.
Il monumentale prodotto, la Bach-Gesellschaft Ausgabe, fu terminata solo nel 1889 e pubblicata in un totale di 46 volumi. Ognuno di essi reca la firma del curatore; tra i nomi, Johannes Brahms, che guarda di buon occhio la nascente Musicologia, questa scienza in grado non solo di avvalorare la ricchezza del passato, ma di riportarla in vita. Collabora con essa, presta suoi stessi lavori per eventuali edizioni critiche ed è curatore di edizioni integrali di diversi autori, sia passati sia contemporanei.
Fin dagli studi giovanili Brahms è avvicinato alla musica antica. In questo ricevette un primo grande input dal maestro Marxsen: numerose sue Toccate e Fughe figurano tra le sue pubbliche esecuzioni, sulle sue composizioni è improntato lo studio rigoroso dell'arte del Contrappunto che lo interesserà anche in epoca matura. Si impegnerà personalmente nella divulgazione di opere del passato, nel timore che ricadano nel silenzio.
L'approccio con il brano in analisi è più 'storico' possibile, di modo da saperlo e poterlo eseguire nella maniera più vicina possibile all'intenzione originale. A tal proposito studia a fondo il Saggio di metodo autentico per tastiera di Carl Philip Emmanuel Bach (figlio di Johann Sebastian), e non manca mai di acquistare nuovi spartiti, manoscritti o in copie, per aggiornare la sua corposa biblioteca (tra di essi, ad esempio, figurano 60 schizzi di Beethoven).
Dal 1853 ha inizio un periodo fulgido: una fortunata tournée con il violinista ungherese Eduard Reményi in insigni città europee. Anche se il livello del violinista non sarebbe mai stato paragonabile alla sua impeccabilità di esecutore, questo lungo viaggio musicale gli consente un ingresso definitivo nella società dei musicisti. La serie di concerti si protrae da aprile a dicembre.
Ad Hannover ha il primo incontro con Joseph Joachim, uno dei violinisti più celebri della storia. I due condividono idee, e modi di pensare, ed il legame che si viene a creare sarà duraturo; perdura per la sua intera vita.
A Weimar conosce invece Franz Liszt con il quale i rapporti sono fin dall'esordio difficoltosi. I loro nomi convergono nell'aneddotica legata alle celebre Sonata in si minore, suo ideologico cavallo di battaglia, dedicata a Robert Schumann.
La sua stesura risale al 1853: il compositore, cinquantaduenne, risiede a Weimar, dove lavora come direttore della cappella di corte, dal 1847. Per un decennio, su consiglio della compagna Caroline se Saint-Wittgenstein, decide di dedicarsi interamente alla composizione, alla direzione d'orchestra e all'insegnamento. La Sonata, prediletta dal compositore in svariate esecuzioni, più volte deludette il pubblico, abituato a ben altri tipi di spettacolo: l'ambizioso progetto che questa composizione rivestiva era purtroppo preceduto dalla sua fama di pianista. Il suo suo estro catturava le folle: dotato di uno straordinario talento musicale, impregnava le proprie performances di una forte esuberanza, cimentandosi in una musica percussiva ed irruenta in cui sperimentare prima di tutto sé stesso. In questa plurinomia si cercava di trovare una maniera di vivere la musica più vitale possibile, di modo che essa aderisse alla persona come fosse una pelle: di questo parla l'anelito romantico all'introversione, o all'arte di sé stessi. E così troviamo anche, per contrasto, uno Chopin operante in una direzione più 'riparata', in un rapporto 'esclusivo' con il proprio strumento che rifugge qualsiasi magniloquenza dove riversare tutta la propria pienezza di sentimenti. Liszt è un autore disinvolto, che vuole far convergere l'immagine estetica di un esuberante esecutore come di un riflessivo compositore, ugualmente perso nella sua musica o intento in una rigorosa rilettura di un Bach.
La Sonata in si minore è l'unica composizione “classica” di Liszt: la 'sonata' è appunto uno dei generi tradizionali della musica classica, che molti compositori considerano soltanto lasciti obsoleti del passato. Si compone di un unico grande movimento - la sua esecuzione copre più di trenta minuti -, sostituendo la tradizionale struttura in più movimenti: tuttavia ha dentro di sé sia questa divisione sia l'unità di un singolo movimento. Si tratta quindi di una scrittura vivace e mutevole, che si piega a molteplici espressione. Lo stile avrebbe dovuto stupire il pubblico, sì, ma soprattutto l'esecutore: la multiformità suggerisce d'istinto una lettura diversa della musica, più descrittiva, più narrativa. È una scrittura che parla di una storia, della storia di un animo, che ne descrive i moti interiori in un lungo discorrere che l'esecutore deve essere bravo non soltanto a rendere ma ad impersonare.
Il pubblico di un Liszt tradizionale, come di una performance “spettacolare”, non è abituato a prestare un orecchio attento a dei lavori d'ingegno. Di qui la delusione: ma nel pubblico puro e semplice si nasconde qualcosa in più: si trattava comunque di un attacco alla forma. L'idea musicale che propugna non è da tutti presa per buona: vi sono dei pareri contrastanti e dei veri e propri dibattiti sulla tradizione. Una coralità di critiche, a questo punto, proviene da compositori definiti “formalisti”: Johannes Brahms, da molti considerato addirittura capostipite, è annoverato tra di essi. Questi compositori, in sintesi, si opponevano ad una considerazione negativa del lascito della tradizione, ovvero difendevano le forme del passato. In questa sonata notano dunque, nonostante il progetto innovativo, la ripetitività, specie in alcuni passaggi, e la evidenziano.
[caption id="attachment_8681" align="aligncenter" width="1000"] Jean Baptiste Oudry, Natura morta con violino - 1730, 87 x 102[/caption]
A tal pro, si narra del celebre “sonno” di un Johannes Brahms incapace di sostenere l'esecuzione.
Finalmente, a Düsseldorf, nel 1853, l'ingresso in casa Schumann. Percorso da un viavai continuo di artisti, è culla di splendidi sodalizi. La musica è guardata, vissuta e concepita da più occhi, vi è comunione d'intenti, medesimo fervore. Brahms ha appena vent'anni. Schumann lo osserva come un astro nascente.
Il musicologo Giulio Confalonieri definì Brahms e Schumann due “romantici introversi”; questa dicitura si adatta perfettamente allo spirito che anima il tardo ottocento, dove lo slancio entusiastico che aveva animato gli albori romantici inizia a mutare di prospettiva, introiettandosi sempre di più in una mutuata riflessione, a tratti nostalgica.
“Musica da camera” è il termine che utilizziamo per definire l'intimità di una musica che nasce con Schubert: i frutti del genio musicale vengono offerti occasionalmente a convitati scelti come perle che il compositore, all'angolo della sua stanza, esegue al pianoforte o con un complesso riunito per l'occasione. Questo capita per le sinfonie, opere di risonanza monumentale eseguite in piccoli salotti, da musicisti spesso dilettanti, in piccoli circoli – è una musica enorme che non conosce l'ampio respiro dei teatri. Questa concezione, dalla sua morte, è andata via via scomparendo: basti pensare che, dalla Renana (Sinfonia n.3) di Schumann, per un ventennio non vengono più scritte sinfonie.
La musica da camera è vista come “accademica”, i generi ereditati come “antiquati”. Franz Liszt e Robert Schumann condividono quest'idea, che scrivere ancora sonate o sinfonie potesse essere percepito, all'epoca, come un gesto intellettuale. Per il maestro questi generi monumentali hanno perso la loro passata vitalità e sono scesi nell'accademismo. A questo punto si può collocare, ad esempio, la Sonata in Si minore di Franz Liszt, che ho citato prima. Opera monumentale per pianoforte solo, proponeva di racchiudere la perduta vitalità delle forme ampie tradizionali, la sinfonia e la sonata, in un unico, grande movimento, che avesse in sé sia la tripartizione interna del primo movimento (tradizionalmente suddiviso in esposizione – sviluppo – ripresa) sia la stessa spartizione in più movimenti. La sete di cambiamento si percepisce dappertutto, gli sguardi al passato – o intorno a sé - sono talora delusi o smarriti.
Bisogna pur considerare che il dilettantismo va ormai scemando, così come i salotti privati: le prime istituzioni musicali pubbliche nascono in questi anni, ed i concerti iniziano a far parte di rassegne in cui protagoniste sono le grandi orchestre sinfoniche di professionisti. I Wiener Philarmoniker - orchestra filarmonica di Vienna, tra le più prestigiose al mondo) nascono dopo il 1842, quando il compositore Carl Otto Nicolai fonda a Vienna l'Accademia Filarmonica, la prima orchestra completamente indipendente. Nei teatri, negli ambienti pubblici ha modo di affluire un maggior numero di persone (anche se il pubblico di un teatro rimaneva comunque “ristretto”). I fruitori sono i primi a sgranare gli occhi.
Il “cameratismo” di Schumann è Brahms è una fervida presa di posizione rispetto ad un pubblico abituato a fruire di opere di sempre maggior respiro. In tal senso la loro si potrebbe definire una scelta borghese, ma in nessun caso accademica. Casa Schumann è l'ambiente della borghesia intellettuale tedesca tardo ottocentesca, un cenacolo le cui ideologie vengono condivise e sentite da più animi, all'interno di un panorama di grandi mutamenti.
Colma di questo spirito è la celebre Sonata F.A.E., scritta in onore di Joseph Joachim e basata sul suo famoso motto, “frei aber einsam” [libero ma solo]. Ad essa lavorano più mani: del primo movimento si occupa Albert Dietrich, Robert Schumann cura il secondo ed il quarto e Brahms il terzo (il celebre Scherzo). Joseph Joachim, a cui viene fornita una copia dell'originale manoscritta, avrebbe poi dovuto indovinare quale compositore si celasse dietro ciascun tempo. La sonata fu eseguita in prima dal violinista e da Clara Schumann al pianoforte.
In casa Schumann le musiche eseguite son, tuttavia, spesso frutto di fini ragionamenti, per comprendere i quali il carattere privato della composizione è estremamente necessario. Questo aspetto, in particolare nelle musiche di Brahms, va particolarmente sottolineato, nelle quali il lavoro compositivo è talvolta minuzioso da essere apparentemente percepito da fuori come “gravoso”, e da necessitare di un ascolto più che attento per essere apprezzato fin nelle sue segrete viscere. Nasce una tradizione musicale della quale Brahms deve farsi nuovo portavoce: solo con la sua opera potrà essere “salvato” il salvabile, e resa al passato nuova vita ed una nuova posizione. Brahms è l'erede di una tradizione ormai muta. A Dusseldorf le composizioni scritte durante la serie di concerti godono di particolare successo. Brahms si reca personalmente a Lipsia presso l'editore di Robert Schumann, su indicazione dello stesso. Il maestro è entusiasta del giovane compositore, che invece, schivo e riflessivo, cede i propri scritti con titubanza. Il 28 ottobre 1953 viene pubblicato, sulla Nuova Rivista di musica, il celebre articolo Neue Bahnen [Nuove vie] di Robert Schumann, che riporto integralmente.
"È da così tanti anni – dieci, per l'esattezza: all'incirca quanti ne ho dedicati un tempo alla redazione di questa rivista – che avrei dovuto esprimermi su questo terreno così ricco di ricordi. Spesso, malgrado l'estenuante attività produttiva, mi sentivo stimolato; alcuni nuovi, notevoli talenti apparivano sulla scena, pareva annunciarsi un nuovo genio musicale, come testimoniano molti musicisti d'oggi che stanno puntando in alto, anche se la loro opera è conosciuta in una cerchia piuttosto ristretta: Joseph Joachim, Ernst Naumann, Ludwig Norman, Woldemar Bargiel, Theodor Kirchner, Julius Schaffer, Albert Dietrich, senza dimenticare il compositore profondo e spirituale C.F.Wilsing, dedito alla grande arte. Andrebbero qui citati come precursori vigorosi anche Niels W.Gade, C.F.Mangold, Robert Franz e St.Heller.
Seguendo con la massima partecipazione i percorsi di questi eletti, io pensavo che dopo tali predecessori sarebbe improvvisamente apparso, dovuto apparire qualcuno che fosse chiamato a dar voce in maniera ideale alla più alta espressione del tempo, qualcuno che ci avrebbe portato la maestria non per gradi ma già perfettamente compiuta, come Minerva uscì armata di corazza dalla testa di Crono. Ed è arrivato, sangue fresco la cui testa fu vegliata dalle Grazie ed Eroi, Si chiama Johannes Brahms, viene da Amburgo, dove creava in oscuro silenzio ma essendo formato ai canoni più ardui dell'arte e da un ottimo insegnante (Eduard Marxsen, Amburgo) che istruisce con entusiasmo, raccomandatomi poco tempo fa da un rinomato e venerato maestro. Egli possedeva, anche esteriormente, tutti i segni che lo annunciano come eletto. Seduto al pianoforte, cominciò a svelare regioni meravigliose. Venimmo attratti in cerchi sempre più magici. Sorse un suono così geniale da trasformare il pianoforte in un'orchestra di voci ora gementi, ora esultanti. Erano sonate, o piuttosto velate sinfonie – liriche, la cui poesia si capirebbe anche senza conoscere le parole, sebbene una grave melodia cantabile le percossa tutte – singoli brani pianistici, in parte di natura demoniaca e della forma più leggiadra; quindi sonate per violino e pianoforte, quartetti per strumenti ad arco, e ciascuna così differente dall'altra da sembrare sorta da una fonte diversa. Poi fu come se egli, convogliatele in una fiumana irruente, le fondesse tutte in una cascata, gettando il placido arcobaleno sopra le acque precipitanti attese a riva dal volo delle farfalle e dal canto degli usignoli. Se egli calerà la sua bacchetta magica dove la potenza della musica infonde la sua forza, nel coro e nell'orchestra, allora ci verranno dischiuse prospettive ancora più magnifiche dei segreti del regno dello spirito. Possa il Genio supremo corroborarlo in ciò che pertiene a questa aspettativa, giacché egli possiede anche un altro genio, quello della modestia. I suoi compagni lo salutano al suo primo affacciarsi al mondo, dove lo aspetteranno forse ferite ma anche allori e palme; noi gli diamo il benvenuto come gagliardo combattente.
In ogni epoca vige un'alleanza segreta di spiriti affini. Serrate, voi che vi appartenete, le fila, sicché la verità dell'arte splenda con sempre maggiore limpidezza, spandendo ovunque gioia e benedizione".
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.3 – edizioni Rugginenti (6°)
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1494240616338{padding-bottom: 15px !important;}"]La crisi della politica e le porte del caos[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Federico Nicolaci del 08/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494242404866{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L'epoca che permea l'attuale società ha da tempo smarrito il significato di un termine lungamente sviscerato: quello della politica. Se attuiamo un'attenta analisi, possiamo iniziare con l'affermare che "Respolitica" è il calco latino del greco “ta politikà”, che letteralmente significa “le cose che attengono alla polis (città)”. La politica è essenzialmente l’ambito in cui ne va del governo della città.
Ma come ci insegnano i padri della politica occidentale – i greci, naturalmente -, governare la polis è la tecnica più alta, più difficile e più delicata in cui possa declinarsi il fare dell’uomo – quella in cui molto si decide del suo destino: la prosperità o la miseria, la cultura o l’ignoranza, la libertà o la schiavitù, la felicità o l’infelicità di popoli interi o, più precisamente, di quelle comunità di uomini che, variamente organizzate nel corso dei secoli, corrispondono oggi alle nazioni, più o meno unite, del mondo.
La politica è così la suprema delle arti. Essa definisce infatti il perimetro, l’orizzonte e il contesto immediato in cui si dispiega e si svolge il vivere degli uomini.
Per questo è stata definita, sempre dagli antichi, come “arte regia”: chi governa è colui che guida per l’alto mare aperto della storia quel vascello che è la Città, la comunità, lo Stato. Immensa è la responsabilità del compito, e grande dovrebbe essere la saggezza del nocchiere: a differenza di quanto avviene nelle altre arti, infatti, colui al quale la tecnica politica si rivolge e risponde non è soltanto il singolo individuo, ma la comunità, presente e futura, in quanto tale.
Questa consapevolezza, che ci riporta alla vertigine della politica in grande stile, è tuttavia proprio ciò che sembra essere venuto progressivamente a mancare all’azione e alla riflessione politica negli ultimi decenni.
Si è smarrita o dimenticata la res – la “cosa” e insieme la “causa” (die Sache, per dirla con Weber) – che dovrebbe animare l’agire di chi si dedica alle “questioni politiche”. Si è perso di vista il senso più intimo del governare come ambito delle decisioni che riguardano il bene degli uomini che abitano lo spazio della polis.
Soprattutto, la politica stessa sembra aver rinunciato, in un folle gesto di auto-rinuncia, alla convinzione di poter e dover mantenere il comando della Nave, affidando ad altri – spesso espressione d’interessi particolari ed estemporanei – il compito di determinare la Rotta.
L’azione politica ha così perso unitarietà e coerenza, oltre che lucidità e lungimiranza, disarticolandosi e disperdendosi in miriadi di unità decisionali acefale e autoreferenziali, ognuna delle quali invoca – di volta in volta – l’assolutezza e la necessità del proprio punto di vista particolare (idiotès) spacciandolo per universale, spesso avendo i mezzi e le risorse per farlo con successo.
La storia degli ultimi trent’anni è tutta racchiusa in questa evaporazione della politica. Il risultato è stato catastrofico: un’azione politica senza strategia né memoria, un’interpretazione settoriale degli eventi, una miopia tecnicistica diventata suprema forma di saggezza, la rimozione e la dimenticanza del senso supremo dell’azione politica – il benessere della collettività – hanno riaperto le porte della Città alla figure inquietanti del disordine, della miseria e del conflitto. Eppure non siamo reduci dalle distruzioni di alcuna guerra (almeno in questa parte del mondo), né di qualche cataclisma naturale. Il presente che viviamo e che attraversiamo è l’immagine più impietosa del fallimento della politica degli ultimi trent’anni.
Da questa palude possiamo e dobbiamo uscire con uno sforzo collettivo. L’idea da cui nasce questa iniziativa editoriale, ad opera di un gruppo di trentenni, è quella di contribuire al faticoso quanto indispensabile compito di recuperare un’interpretazione coerente degli eventi e una visione più profonda della decisione politica.
Per questo abbiamo voluto chiamare questo spazio di analisi e riflessione Respolitica. La politica, infatti, non è solo la “cosa pubblica” (res publica), come forse in modo troppo semplicistico si suole ricordare, ma anche ed essenzialmente l’arte di (saper) condurre, che poi è l’etimo del greco kubernao, da cui l’italiano governo, l’inglese govern, il francese gouvernement…
Per sapere in quale direzione è meglio dirigere la Nave, occorre tuttavia capire dove siamo e come ci siamo arrivati, anche a costo di mettere radicalmente in discussione le nostre certezze e le nostre “idee politiche”: ovvero quei dogmi consolidati e quelle verità di comodo con cui abbiamo convissuto per anni senza troppo attardarci sul problema della loro effettiva consistenza.
Ecco perché a nostro avviso è assolutamente necessario recuperare una “prospettiva politica” su tutte le grandi questioni del nostro presente: dalla crisi dell’euro ai fenomeni migratori; dal futuro dell’integrazione europea alla definizione delle direttrici fondamentali della politica estera; dalle questioni monetarie ai problemi connessi ai processi di globalizzazione e di mobilità dei fattori produttivi.
Una prospettiva, questa, che sappia rimettere al centro dell’azione politica il benessere della comunità, e non parametri tecno-metafisici imposti da incomprensibili “vincoli esterni” in nome di altrettanti vuoti e, come la storia recente si è purtroppo incaricata di dimostrare, fallimentari dogmi politici, forzosamente applicati anche a costo di sacrificare interi popoli sull’altare di una presunta “necessità storica”. Per riformare la politica occorre, prima di tutto, ripensare a fondo il senso dell’azione politica – e si tratta di un esercizio che non può essere più rimandato, se non aggravando le già spaventose contraddizioni e difficoltà.
Questa intenzione definisce la linea editoriale di Respolitica: una linea che, è bene precisarlo, non si accoda ad alcun partito né corrente politica, anche se naturalmente rivendica una visione politica, precisa e coerente: una prospettiva che, in ultima istanza, trova nel tanto vituperato – e altrettanto frainteso – concetto di interesse nazionale il fuoco prospettico delle sue analisi e dei suoi contributi.
Perché interesse nazionale?”, si chiederà interdetto e forse infastidito più di un lettore. Perché interesse nazionale non è sinonimo di quel “sano egoismo” invocato nel 1915 da Salandra – una forma di opportunismo politico e dilettantistica improvvisazione che tanti danni ha arrecato alla credibilità della nostra azione diplomatica e all’immagine stessa dell’Italia -, quanto piuttosto la traduzione moderna di un concetto vecchio quanto la politica: l’idea, cioè, che governare sia lo sforzo che una comunità di uomini compie (in modo possibilmente collettivo e democratico) per giungere a deliberare nel modo più corretto intorno a ciò che è meglio per il benessere della comunità stessa, tenendo presente il contesto concreto delle relazioni storiche con le altre comunità politiche e il bene fondamentale del sistema internazionale.
Questo fa il “politico”. Tutto il resto, ancorché chiamato in senso lato politica, è catastrofica ignoranza o bieco interesse particolare, che come tale cade fuori dall’ambito del governare nel senso più alto del termine. Certo, per i sacerdoti del “liberalismo” – il piccone ideologico con cui è stato screditato pezzo dopo pezzo il concetto stesso di politica – ogni platea è buona per inneggiare alla “de-politicizzazione” come panacea di tutti i mali, accusando di “nazionalismo” (quando non di fascismo) chiunque osi timidamente ricordare che la politica è per definizione quella praxis in virtù della quale una comunità di uomini ha cura del proprio destino. È vero, l’eccesso di politica, la totale politicizzazione, soffoca le società e le conduce nel baratro del totalitarismo: questo è fuori causa. Ma è sorprendente come gli apologeti del tramonto della politica omettano di aggiungere, probabilmente per ignoranza, quello che i filosofi occidentali vanno spiegando da almeno due millenni, ovvero che senza politica e autentico governo dei fenomeni non c’è libertà, ma solo anarchia, caos e miseria.
 
Note:
_Su gentile concessione del giornale culturale "Respolitica".
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1494058371064{padding-bottom: 15px !important;}"]Ludovico di Giovanni de' Medici, l’ultimo cavaliere[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 06/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494069185439{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
"Non mi snudare senza ragione - Non mi impugnare senza valore". Le lettere incise sul manufatto marmoreo, dallo scultore Temistocle Guerrazzi, non devono condurci all’abuso del nostro narcisismo, ma queste parole si prefissano di guidarci verso il suo vero significato più intrinseco: la fusione – come è plasmata la spada – delle più alte qualità umane, come la razionalità, l’eccellenza di mente, il valore etico e tecnico che conducono l’arma stessa ad essere dotata di una personalità e una sua missione, nei confronti del suo possessore.
La spada apparteneva a Ludovico di Giovanni de' Medici il formidabile capitano di ventura italiano, il quale visse durante l’epoca rinascimentale e fu attore protagonista dei disegni geopolitici della nostra penisola.
[caption id="attachment_8632" align="aligncenter" width="1000"] Temistocle Guerrazzi, Giovanni delle Bande Nere, agli Uffizi (particolari). Il condottiero nasce a Forlì, il 6 aprile del 1498 e muore a Mantova il 30 novembre 1526, è stato un condottiero italiano del Rinascimento.[/caption]
Il Rinascimento, per un’anime giudizio, sorse a Firenze - città tra le più vivaci e ricche d’Europa - nella metà del quattrocento. In essa si concentravano molteplici fattori, come quello politico, economico e sociale, che favorirono la nascita del movimento. Ma non fu l’unica città italiana, ad essa si associarono Venezia, Milano, Ferrara, Mantova, Urbino e tante altre città che, vissuta la felice esperienza dell’autonomia comunale nel XIII°– XIV° secolo, avevano poi affidato il loro governo e difesa a Signorie che passeranno alla storia per magnificenza e lungimiranza. Tali Signorie, che anticiperanno la nascita degli Stati italiani preunitari, svolgeranno anche un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte militare del tempo. L’arte militare del XV° secolo fu caratterizzata dal grande sviluppo tecnologico rappresentato dalle armi da fuoco che aveva radicalmente cambiato il modo di combattere ma anche l’essenza stessa delle formazioni militari.
L’utilizzo del termine arte anziché scienza non è causale giacché la prima esalta le caratteristiche personali del militare - come il carisma, il coraggio e l'esperienza - mentre la seconda attiene più ad una disciplina, o metodo, da tutti applicabile e basata sulla conoscenza piuttosto che le qualità personali del singolo. La scienza militare si sostituirà all’arte anche in ragione della complessità dei conflitti moderni, che renderà necessarie una serie di conoscenze e funzioni un tempo inesistenti o inutili alla soluzione dei conflitti. La logistica, la tattica, l’organica e la strategia, già conosciute e applicate ai tempi della rivoluzione militare del XVII° secolo - l’organicità data loro dagli studi di Raimondo Montecuccoli rimarrà insuperata fino agli studi di Clausewitz, per il quale arte e scienza militari erano concetti inseparabili -, sono branche della scienza militare intuite, ma non approfondite dall’arte militare. Ad ogni modo, non va mai dimenticato che quando si parla di scienza militare non si può mai far riferimento ad una scienza esatta, ma sempre ad una scienza umana e quindi fallibile.
[caption id="attachment_8636" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre immagini, da sinistra a destra: L'Italia nel 1494, all'albore della campagna di Carlo VIII. La cartina mostra i vari Stati in cui era divisa la penisola; ritratto di Francesco I (nato François d'Orléans; 1494 – 1547) è stato Re di Francia dal 1515 alla sua morte; Pieter Paul Rubens, Allegoria di Carlo V dominatore del mondo - 1607, Salisburgo, Residenz Galerie.[/caption]
In tale contesto storico Ludovico di Giovanni de' Medici - detto anche “gran diavolo” -, per il talento all’interno dei singoli duelli, definiti “gran tenzone”, nasce al tramonto del XV secolo e fin da primissima nascita viene segnalato a corte per la sua attitudine al comando. Di animo focoso e vivace, alla morte della madre Caterina Sforza a soli undici anni, viene affidato al fiorentino Jacopo Salvati. Il giovane verrà presto bandito da Firenze per aver accoltellato a morte un suo coetaneo di tredici anni. Tornati i Medici del 1512 al capitano romagnolo gli verrà permesso il reintegro nell’urbe e subito si conquista la fama – già citata – di gran cavaliere, vincendo a ripetizione giostre e tornei cittadini. Ma non solo: il suo animo burrascoso e attaccabrighe, lo porterà a vari duelli di strada, arrivando ad assassinare anche il cancelliere di Piombino: nella sarabanda della lotta all’arma bianca, Giovanni è nel suo elemento.
Nonostante il suo trasferimento romano, presso il Papa – dovuto al trasloco del suo protettore Salvati, divenuto intanto ambasciatore pontificio – i suoi comportamenti non si placano e le frequentazioni nei bassifondi della città sono frequenti. Corre il cinque marzo del 1516, quando arriviamo al suo battesimo di fuoco: è guerra contro Urbino al seguito di Lorenzo de' Medici.
La guerra fu breve di soli ventidue giorni, che vide la conclusione con la resa di Francesco Maria I Della Rovere. Giovanni è giovane, impavido e sprezzante del pericolo, ma è un arguto osservatore ed un attento stratega: duecento anni prima di Napoleone Bonaparte, capisce il declino tattico della guerra di posizione in favore di una guerra di movimento e logoramento. Intuì il declino della cavalleria pesante e così al momento di crearsi una propria compagnia, scelse l’impiego di cavalli piccoli e leggeri, preferibilmente turchi o berberi, adatti a compiti tattici, quali schermaglie d'avanguardia o imboscate, individuando nella mobilità la tattica militare più utile da usare. I suoi addestramenti erano dei più duri, ma riuscì ad insegnare ai propri uomini, indisciplinati, rozzi e individualisti, la disciplina e l’obbedienza.
Dopo la breve e vittoriosa guerra torna nella città eterna, dove – dopo un acceso diverbio – sul ponte di Castel S.Angelo, uccide in singolar tenzone il capitano d’arme di una delle famiglie romane più prestigiose: gli Orsini. L’episodio suscita, fin da subito, clamore per via della grande differenza di età e di esperienza tra i due duellanti, con il capitano della famiglia Orsini di dieci anni più grande di lui e combattente rinomato: per Giovanni de' Medici si aprirà una carriera militare senza precedenti. Di lui disse il cardinale di Santa romana chiesa Giovanni Salvati: “ Faceva più danno alli inimici lui solo che tucto lo exercito”.
Papa Leone X stravede per lui e lo invia a sanare spesso diatribe politiche nelle Marche. Nel 1520 sconfigge diversi signori marchigiani e nel frattempo il Papa si allea con l'imperatore Carlo V contro Francesco I, per consentire agli Sforza di tornare padroni di Milano e per rioccupare le città perdute di Parma e Piacenza.
Il rinascimento, soprattutto negli anni che corrono tra il 1526 e il 1530, vedeva la penisola italica contesa da due potenze europee: da una parte Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, e dall’altra Francesco I, Re di Francia. L’attuale Italia si presentava come un territorio diviso in molteplici, deboli città stato in perenne conflitto fra le parti. Il papato di Roma, terza potenza, fungeva spesso da ago della bilancia fra le due super-potenze.
In questo caos geopolitico Ludovico di Giovanni de' Medici partecipò in novembre alla battaglia campale di Vaprio d'Adda, per il possesso del ducato milanese, dove una volta oltrepassato il fiume - controllato dai francesi - li mette in fuga, aprendo la strada per Pavia, Milano, Parma e Piacenza.
In breve tempo fonda la migliore compagnia di ventura italiana, plasmando dal nulla una vera e propria “Banda”: i suoi uomini – altamente addestrati – rispondono solo al suo comando ed hanno una fedeltà verso il condottiero romagnolo senza precedenti, per quanto concerne la fedeltà delle compagnie di Ventura: eserciti mercenari al soldo.
La sua fedeltà per lo stato pontificio sarà sempre costante e duratura, tanto da indurlo – nel 1521, per la morte di Papa Leone X – a modificare i colori dei suoi vessilli da bianco e viola a neri, in segno di profondo e cristiano lutto. Si crea il mito dell’uomo che fu leggenda: “Giovanni dalle bande nere”.
[caption id="attachment_8638" align="aligncenter" width="1000"] Fotogramma del film "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi. Nell'immagine l'attore Hristo Jivkov, il quale interpreta Ludovico di Giovanni de' Medici, detto Giovanni delle Bande Nere o dalle Bande Nere.[/caption]
Nel XIV secolo, si avrà una “rivoluzione dell'artiglieria” che si sviluppò nel corso del XV secolo con una “rivoluzione delle fortificazioni”, proseguì nel XVI secolo con la “rivoluzione delle ami da fuoco” - fra il 1580 ed il 1630 -, ed infine vi fu una crescita della consistenza delle armate europee fra il 1650 ed il 1715.
Infatti l’epoca che corre tra il tardo medioevo e l’ultimo rinascimento non può essere appresa totalmente in ambito militare, se non si conoscono gli enormi mutamenti nell’arte bellica, sia questa comprenda l’architettura che la tecnologica.
L’architettura militare del tardo medioevo e successivamente del rinascimento si caratterizza per l’aumento sostanziale dello spessore delle fortificazioni, il quale raddoppia per permettere lo sbalzamento o l’assorbimento delle palle di bombarde o cannoni, derivate dall’artiglieria con la scoperta nel 1324 della polvere nera, la quale verrà migliorata in maniera sostanziale nel 1425 quando i francesi riuscirono ad inventare la polvere in grani omogenei, di grandezza costante.
Il risultato fu che la velocità di tiro e la potenza di fuoco dell’artiglieria si trovarono a raddoppiare quasi da un giorno ad un altro, anche se grandi miglioramenti erano ancora necessari sia riguardo alle tecniche costruttive degli archibugi, sia dei cannoni per quanto riguarda la robustezza degli stessi. Parallelamente, com’è ovvio, aumentò la forza d’impatto dei proietti, cioè il loro potere distruttivo; diventò così vitale, per i proprietari di fortificazioni, esaminare le proprie difese alla luce dei nuovi sviluppi e preparare adeguate contromisure atte a parare il nuovo pericolo.
Anche la condotta delle battaglie campali fu rivoluzionata dal diffondersi delle armi da fuoco, dove la forza dei combattenti fu superata dalla potenza delle armi a polvere nera. I quadrati di picchieri, che dominavano i campi di battaglia del Quattrocento e Cinquecento avevano ulteriormente ridotto l'importanza della cavalleria sul campo di battaglia, ma parallelamente divennero vulnerabili contro l'artiglieria da campagna e il fuoco degli archibugi. Così furono inseriti, nei quadrati di picchieri, dei moschettieri nel rapporto di uno a tre. Tale rapporto, crebbe sempre più a favore degli moschettieri, fino a raggiungere una proporzione 4:1 attorno al 1650.
[caption id="attachment_8639" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra: rievocazione di picchieri svizzeri, posizione di resistenza ad una carica di cavalleria; nella foto di destra: ricostruzione di quadrato di picchieri e moschettieri.[/caption]
Tornando a Giovanni dalle bande nere, egli è ancora un “cavaliere crociato”, come stile di combattimento, ma è tuttavia un ottimo stratega, che legge bene le situazioni tattiche.
Nel 1523 viene ancora una volta ingaggiato dagli imperiali, che nel gennaio del 1524 attaccano il campo del francese Cavalier Baiardo, mettendolo in fuga e facendo prigionieri oltre trecento soldati. Successivamente affrontò gli Svizzeri, la più temuta fanteria dell'epoca, che intanto erano scesi dalla Valtellina in aiuto dei francesi; Giovanni li sconfisse a Caprino Bergamasco, costringendo l'armata francese a lasciare l'Italia. Intanto a Roma diviene Papa, Clemente VII, della famiglia Medici, cugino della madre di Giovanni, Caterina.
Il nuovo Papa, allarmato per la potenza di Carlo d’Asburgo si fece promotore della Lega di Cognac per contrastarlo e si alleò – oltre che con le città stato di Firenze e Venezia – con il Re di Francia, Francesco I. Per l’Imperatore del Sacro Romano Impero, tale gesto significò un tradimento gravissimo e per rappresaglia, incarico le truppe dei Lanzichenecchi a marciare su Roma per punire il pontefice. Il leader di tale esercito è il Landsknecht, - cioè servo della regione - Georg von Frundsberg il luterano, che provava odio verso una Roma che consideravano corrotta e papista.
La guerra non procede bene, soprattutto con la pesante sconfitta dei francesi presso Pavia e nelle battaglie successive lo stesso Giovanni viene leggermente ferito ad una gamba da un colpo di arma da fuoco. Rimossosi in forma e resosi nuovamente agibile in un successivo scontro – nel 1526 - Ludovico di Giovanni de' Medici e la sua banda nera, vengono – sul campo di battaglia – abbandonati dalle truppe francesi, e si vedono costretti a caricare i Lanzichenecchi, prima che questi attraversino il Po nel territorio dei Gonzaga. Qui nella ressa e nella mattanza del combattimento Giovanni dalle bande nere viene colpito ad una gamba da un colpo di falconetto e viene tratto in salvo dai suoi uomini, i quali presto lo porteranno a Mantova presso il palazzo di Luigi Gonzaga, dove il chirurgo Abramo Arié, che già lo aveva curato con successo due anni prima, gli amputò la gamba. Per effettuare l'operazione il medico chiese che dieci uomini tenessero fermo Giovanni. Nel frattempo i lanzichenecchi avanzano. Da una descrizione di Francesco Guicciardini si annota:
«Camminorono dipoi i tedeschi, non infestati più da alcuno, lasciato indietro Governo, alla via di Ostia lungo il Po, essendo il duca d'Urbino a Borgoforte; e a' venti otto dí, passato il Po a Ostia, alloggiorono a Revere: dove, soccorsi di qualche somma di denari dal duca di Ferrara e di alcuni altri pezzi di artiglieria da campagna, essendo già in tremore grandissimo Bologna e tutta la Toscana, perché il duca di Urbino, ancoraché innanzi avesse continuamente affermato che passando essi Po lo passerebbe ancora egli, se ne era andato a Mantova, dicendo volere aspettare quivi la commissione del senato viniziano se aveva a passare Po o no. Ma i tedeschi, passato il fiume della Secchia, si volseno al cammino di Lombardia per unirsi con le genti che erano a Milano. [...] I fanti tedeschi intanto, passata Secchia e andati verso Razzuolo e Gonzaga, alloggiorono il terzo di dicembre a Guastalla, il quarto a Castelnuovo e Povì lontano dieci miglia da Parma; dove si congiunse con loro il principe di Oranges, passato da Mantova con due compagni, a uso di archibusiere privato. A' cinque, passato il fiume dell'Enza al ponte in su la strada maestra, alloggiorno a Montechiarucoli, standosi ancora il duca d'Urbino, non mosso da' pericoli presenti, a Mantova con la moglie; e a' sette, i tedeschi passato il fiume della Parma alloggiorno alle ville di Felina, essendo le piogge grandi e i fiumi grossi. Erano trentotto bandiere, e per lettere intercette del capitano Giorgio al duca di Borbone, si mostrava molto irresoluto di quello avesse a fare. Passorono agli undici dí il Taro, alloggiorono a' dodici al Borgo a San Donnino, dove contro alle cose sacre e l'immagini de' santi avevano dimostrato il veleno luterano; a' tredici a Firenzuola, donde con lettere sollecitavano quegli di Milano a congiugnersi con loro: ne' quali era il medesimo desiderio».
Tornando al capitano di ventura, la cancrena fu però inarrestabile e nel giro di pochi giorni lo portò alla morte. Il valoroso condottiero si spense il 30 novembre 1526, e venne sepolto tutto armato nella chiesa di San Francesco a Mantova. Prive del loro capo e del suo carisma, le bande si sciolsero. Il sacco di Roma del 1527 fu un evento traumatico, il quale segnò la fine degli splendori dell'epoca rinascimentale in Italia.
[caption id="attachment_8640" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine di sinistra: Johannes Lingelbach, "Il sacco di Roma"; a destra statua bronzea di Frundsberg presso il municipio di Mindelheim.[/caption]
Il capitano italiano morì a soli 28 anni, una esistenza intenza, ma breve ed una fama enorme presso i contemporanei, che lo considerano uno dei migliori generali militari di tutto il rinascimento. A livello artistico, molti pittori lo hanno immortalato, mentre a livello marmoreo è presente la statua  degli uffizi, che meglio di ogni altro rappresenta la quint’essenza dello spirito guerriero rappresentato da Ludovico di Giovanni de' Medici.
Infine nel 2011 il regista italiano Ermanno Olmi, lo ricorda nel film – di altissima caratura, dove lo vede protagonista – “il mestiere delle armi” presentato al 54°Festival di Cannes. La pellicola ha ridato smalto a questo straordinario personaggio storico: in un periodo povero di genti italiche di comprovato valore militare, Giovanni rappresentò un’eccezione. Alla fine del secolo la nostra futura Italia si ritrovò asservita a dominio straniero per ben due secoli.
Giovanni dalle bande nere fu certamente un mercenario irrequieto e senza padroni, ma parallelamente si è dimostrato uomo di comprovato valore morale ed etico, riportando spesso il discorso filosofico novecentesco della “questione morale” del soldato. Uno degli ultimi esempi di valore cavalleresco – tema ripreso nella letteratura di Chervantes, con Don Chichiotte - elemento caratterizzante della sua Europa, poi successivamente perso con l’ulteriore sviluppo della tecnè, che portò la sempre più irrilevanza della cavalleria, elemento che ci conduce – parallelamente – alla tragica morte del “Gran Diavolo” e che successivamente portò l’Europa ad esercitare quella “volontà di potenza” che avrebbe colonizzato l’intero globo terrestre. Ludovico di Giovanni de' Medici era un nobile e poteva avere tutto. Scelse di diventare soldato.
 
Per approfondimenti:
_Cesare Marchi, Giovanni dalle Bande Nere, Milano, 1981
_Giovanni Delle Donne, Giovanni delle Bande nere, l’uomo e il condottiero – edizioni Websterpress
_Sacha Naspini, Il Gran Diavolo, Giovanni delle bande nere, l’ultimo capitano di ventura – edizioni Rizzoli
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1493896294938{padding-bottom: 15px !important;}"]L’immigrazione palestinese. Una sfida per l’identità europea[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Luca Steinmann del 05/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494066286622{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Quale futuro si prospetta per i giovani palestinesi dei campi profughi? Di fronte alla guerra, allo sradicamento e all’assenza di una patria a molti non resta altro che l’opzione migratoria. A partire dal 2015, infatti, sono tantissimi i ragazzi che hanno approfittato dell’apertura delle frontiere garantita da Angela Merkel per attraversare il Mediterraneo e stabilirsi in Europa. Quasi ogni famiglia di palestinesi dei campi profughi della Siria e del Libano ha almeno un proprio figlio che oggi vive nel vecchio continente.

E’ il caso della famiglia di Leena, ragazza di 20 anni palestinese nata e crescita nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco, in Siria. Dopo che parte di Yarmouk è caduta sotto il controllo dell’Isis diventando conseguentemente obiettivo dei bombardamenti del regime siriano, la sua famiglia è fuggita in Libano. Suo fratello, poi, ha deciso di non fermarsi e di continuare il proprio viaggio fino in Germania, dove oggi vive in un campo profughi di Berlino insieme a tanti suoi connazionali. La storia della famiglia di Leena è la stessa di quella di milioni di altri siriani-palestinesi. Oggi il Libano ospita circa un milione di profughi provenienti dalla Siria, oltre al milione di palestinesi già precedentemente presenti sul territorio e a un terzo milione di esuli provenienti prevalentemente da Iraq (400mila), Eritrea e Somalia (200mila), Bangladesh, Afghanistan e Filippine.

Molti dei palestinesi in fuga dalla Siria non si fermano in Libano, ma continuano il viaggio verso l’Europa. Il motivo? Innanzitutto le conflittualità in corso all’interno di alcuni loro campi profughi. Ma anche le difficili condizioni di segregazione e abbandono che questo popolo vive nel Paese dei Cedri ormai da decenni. A raccontalo è Samaa Abu Sharar, giornalista e ricercatrice palestinese-libanese di base a Beirut e animatrice della fondazione Majed Abu Sharar.

I palestinesi del Libano sono apolidi” spiega “non hanno nazionalità ma solo un documento che attesta che sono dei rifugiati”. Lo Stato del Libano, però, non ha mai voluto concedere la nazionalità a queste persone a causa soprattutto della conflittualità interna al mondo musulmano. La concessione della cittadinanza ai palestinesi, popolazione prevalentemente sunnita, genererebbe infatti uno squilibrio demografico all’interno di un Paese fragilmente diviso tra sciiti e sunniti e in cui gli equilibri tra le parti sono molto precari. Non essendo titolari della nazionalità libanese ai palestinesi è preclusa ogni forma di partecipazione politica, di impiego, di istruzione e di sanità pubblica. Le scuole, gli ospedali e ogni forma di welfare all’interno dei campi sono garantiti dalle Nazioni Unite, che non sono però mai riuscite a promuovere una vera forma di integrazione della comunità palestinese nella società libanese.

Ai giovani sono vietate le professioni specializzate e intellettuali, per esempio quella giornalistica. E’ per questo che spinge la gran parte di loro a vivere nell’eterna opzione migratoria. “I giovani palestinesi non hanno generalmente un’idea precisa dell’Europa” continua Samaa Abu Sharar “l’emigrazione rappresenta per loro soprattutto un mezzo per ottenere condizioni migliori di quelle che hanno in Libano, dove altrimenti resterebbero”.

E’ proprio per garantire loro condizioni migliori che Samaa organizza corsi di giornalismo all’interno dei campi profughi palestinesi. “Il nostro obiettivo è quello di dare ai giovani una formazione nel campo mediatico che altrimenti non avrebbero perché possano informarsi e scrivere autonomamente e diventare padroni del proprio destino”. L’obiettivo della sua fondazione, infatti, non è quello di incentivare i palestinesi alla fuga verso l’Europa, ma di fornire loro gli strumenti perché possano avere successo anche sul territorio in cui sono nati. Un messaggio, questo, di grande attualità per tutta l’Europa. I massicci flussi migratori, infatti, stanno incidendo profondamente sulle società in cui sono diretti e causando forti squilibri politici. Che, col tempo, potrebbero aumentare. E’ cosa poco nota, per esempio, che tra le centinaia di migliaia di siriani entrai in Germania negli ultimi anni ci sono anche tantissimi palestinesi, registrati dalle autorità tedesche come siriani proprio perché molti di loro sono effettivamente nati e cresciuti in Siria. Una presenza palestinese così massiccia in Germania potrebbe influenzare profondamente tutta l’Europa. La Germania è infatti il Paese leader nel processo di formazione di un’identità europea condivisa. Tale Paese è, per ovvi motivi storici, molto vicino alla sensibilità ebraica e fonda la propria identità nazionale anche e soprattutto sui rapporti con lo Stato d’Israele.

La presa di coscienza dell’ingresso in terra tedesca di così tanti palestinesi, persone visceralmente avverse a Israele, potrebbe portare a un profondo dibattito e a forti accuse di chi ha permesso l’affermazione di questa presenza, cioè Angela Merkel e il suo governo. E con loro anche tutto il processo di integrazione europea. La mancata risoluzione del conflitto arabo-israeliano e la destabilizzazione del Medio Oriente sono dunque questioni che riguardano direttamente tutta l’Europa, perché sono uno dei più forti motori dei flussi migratori.

 
Note:
_Su gentile concessione del quotidiano svizzero "Il Corriere del Ticino" pubblichiamo questo reportage andato in stampa nel febbraio del 2017, scritto da Luca Steinmann: corrispondente in Italia del Corriere del Ticino e reporter reduce di un recente viaggio in Libano, dove ha tenuto una serie di corsi di giornalismo all'interno dei campi profughi palestinesi.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1493647905302{padding-bottom: 15px !important;}"]Suolo e rigenerazione urbana[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Rosario Pavia 03/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1493652705564{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il tema del territorio non edificato e del suolo, è oggi uno dei temi architettonici di particolare rilievo. È la dimensione “geografica” del territorio che fa cogliere le molteplici relazioni sociali, economiche e spaziali di un contesto locale.
In questo spazio dilatato, il territorio aperto, non edificato, con i suoi valori paesaggistici, le sue reti naturalistiche, ma anche con le sue aree di degrado e di abbandono diviene il vero nodo del processo di pianificazione. Non solo la città costruita, l’urbanizzato, ma piuttosto il suolo inedificato, quello che fino a ieri era lo sfondo neutro della città, il territorio “rurale” come riserva per l’espansione edilizia, diviene la base fondativa della nuova urbanistica.
E’ in atto un cambiamento di sguardo e di prospettiva che fa considerare in termini nuovi il progetto di suolo di cui, dal 1986, ha iniziato a parlarci Bernardo Secchi (1). Il suolo non è solo lo spazio esterno agli edifici, lo spazio “tra”, da qualificare attraverso un disegno tecnico appropriato e attento ai rapporti con il contesto. Il suolo va oggi inteso nel suo spessore di supporto, di infrastruttura che sostiene l’insediamento urbano, l’affermarsi dei processi produttivi, il dispiegamento delle reti materiali e immateriali. Il suolo è anche il deposito di quello che resta dei processi di produzione e di consumo. I processi di produzione industriale e agricola lasciano sul territorio una sterminata quantità di aree in abbandono e volumetrie dismesse, ma anche scarti, di residui, di discariche che degradano il territorio e inquinano i suoli e le acque, ponendo con urgenza il tema della bonifica e del riciclo. Riciclare gli scarti della produzione industriale e riconvertire uno sterminato patrimonio immobiliare in abbandono è un processo complesso, difficile, troppo a lungo trascurato. In questa prospettiva il tema dei drosscapes posto da Alan Berger (2) si rivela sempre più un aspetto determinante, non solo per l’interpretazione delle trasformazioni territoriali, ma anche per le strategie progettuali d’intervento. Il suolo come risorsa limitata che metabolizza gli scarti organici da cui trae nuova vita, ma che nello stesso tempo, sottoposta a processi intensivi di utilizzazione, si impoverisce, si degrada. Kevin Lynch ha utilizzato il termine wasting away (tradotto da Vincenzo Andriello con “deperire”) per indicare il processo di dissipazione che investe il territorio e gli oggetti, le cose, che vi insistono (3).
[caption id="attachment_8581" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre foto, da sinistra a destra: Alan Berger, professore di architettura paesaggistica e design urbano presso l'università del Massachusetts; Bernardo Secchi (1934 –2014) è stato un architetto, urbanista e ingegnere italiano, professore emerito di Urbanistica, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), corso di laurea in Architettura; Kevin Andrew Lynch (1918 –1984) è stato un urbanista e architetto statunitense.[/caption]
Con Lynch il suolo assume una dimensione che va oltre la superficie, il disegno delle pavimentazioni urbane. Il suolo comprende il costruito e l’inedificato, il suo intradosso ed il suo estradosso, il suo ruolo è quello di una grande infrastruttura indispensabile per l’equilibrio dell’ambiente e della vita degli insediamenti umani (4). Con l’affermarsi della questione ambientale, l’intuizione di Lynch diviene sempre più netta all’interno della cultura urbanistica. Basti pensare alle elaborazioni di Bernardo Secchi e Paola Viganò (5) per la consultazione per le grand Paris, alle posizioni di un paesaggista come James Corner (6) o ancora più recentemente ai piani strategici adattivi di città come Londra, Copenhagen, Rotterdam.
Che il suolo funzioni come una infrastruttura ambientale è un dato acquisito per scienziati come James Lovelock (7) o Stewart Brand (8). Per l’agronomo William Bryant Logan (9) il suolo, la crosta superficiale della Terra, è una “pelle”, un organismo vivente, un manto stratificato, composto da materiali inerti e materia organica. La "pelle” respira, assorbe e respinge le radiazioni solari, incorpora carbonio, attiva processi chimici che decompongono e metabolizzano i residui organici di origine vegetale e animale. Il suolo contemporaneo non riesce più a metabolizzare tali scarti (ma potrebbe farlo se i rifiuti fossero trasformati in composta). Il suolo dell’antropocene, come infrastruttura che lavora per l’equilibrio dell’ambiente, mostra segni di affaticamento, ha bisogno di essere protetto, potenziato, attraverso la tecnologia e le scienze biologiche. La sua cura va sperimentata alla scala locale e di area vasta, con l’obiettivo di estenderla a tutto il territorio: in questo senso va inteso l’invito del paesaggista Gilles Clément (10).
[caption id="attachment_8580" align="aligncenter" width="1000"] Rigenerazione urbana a Lecce: piazza Italia e piazza San Biagio[/caption]
L’attenzione al territorio aperto, al valore della terra, allo spazio inedificato, al verde e al suolo agricolo, non è un fatto nuovo, la ritroviamo nella prima modernità con Olmsted, con l’ingegneria igienista, in Geddes che come biologo lega la pianificazione alla orografia e alla qualità dei terreni, è presente nei modelli di città giardino di Howard, in piani esemplari come quelli di Copenaghen (il piano delle cinque dita) o di Colonia di Rudolf Schwarz (la città paesaggio), compare nel dibattito del Ciam e ancora di più nelle posizioni della IFHTP (International Federation for Housing and Town Planning).
Oggi tuttavia l’attenzione è più profonda ed estesa. Si lega alla consapevolezza della gravità di una crisi ambientale che minaccia l’equilibrio del pianeta e di un mondo sempre più popolato e urbanizzato. La percezione di un futuro incerto, a rischio, politicamente e socialmente instabile, verosimilmente più povero, con minori risorse da destinare ad investimenti per la riqualificazione urbana e ambientale, introduce una nozione di tempo diversa rispetto alla modernità.
Intervenire oggi sulla città significa misurarsi con il presente e nello stesso tempo avviare in modo flessibile ed adattivo processi di medio e lungo periodo. In questo tempo lungo la pianificazione dovrà assumere un carattere strategico senza rinunciare ad intervenire nell’immediato con opere e programmi che possano migliorare le condizioni di vita della città esistente e avviare un processo di manutenzione e bonifica dei territori aperti e in edificati. Occorreranno interventi puntuali e a sistema, legati alla riqualificazione delle reti naturali e infrastrutturali. In realtà non c’è tra loro una separazione netta, da tempo artificio e natura ibridano l’insieme delle reti. Oggi dobbiamo operare affinché quelle naturali siano potenziate dalla tecnologia e quelle artificiali incorporino l’elemento naturale (11). Queste reti, che attraversano lo spazio urbano e soprattutto il territorio non ancora edificato, devono funzionare come infrastrutture al servizio dell’equilibrio dell’ambiente (attraverso la produzione di energia rinnovabile, la riduzione delle emissioni di gas serra, la difesa dal rischio idrogeologico…), e primo telaio per dare forma e identità ai territori attraversati. E’ in questa prospettiva che il suolo inedificato diviene il nuovo paradigma (12), il cardine di una profonda revisione delle politiche urbane e ambientali, il bene comune da cui ripartire. In un certo senso occorrerà invertire lo sguardo e il nostro modo di intendere il piano urbanistico: l’attenzione dovrà concentrarsi sul territorio perturbano, sullo spazio aperto, sul suolo agricolo e non e da questo muovere verso la città costruita. La riqualificazione urbana e ambientale partirà sempre più dall’esterno. Risanare e valorizzare il vuoto e l’inedificato per penetrare nella città costruita rinnovandola. In fondo il progetto di suolo comprende oggi entrambi gli ambiti: quello artificiale e quello naturale.
 
Per approfondimenti:
 _Bernardo Secchi, Progetto di suolo, in “Casabella”n. 520,1986
_Alan Berger, Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton architectural 2007
_Kevin Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco, CUEN, Napoli 1992;
_Rosario Pavia, Eco-Logiche in “Piano Progetto Città”n.25-26, 2012
_Bernardo Secchi, Paola Viganò, La Ville poreuse. Un projet pour le grand Paris, et la métropole après-Kioto, Metispresses 2011
_James Corner, Terra Fluxus, in Charles Waldheim, Landscape urbanism reader, Princeton Architectural 2006
_James Lovelock, Gaia. Nuove idee per l’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 2011
_Stewart Brand, Una cura per la Terra. Un manifesto per una eco pragmatista, Codice, Torino 2010
_William Bryant Logan, La pelle del pianeta. Storia della terra che calpestiamo, Bollati Boringhieri, Torino 2011
_Gilles Clément , Il giardiniere planetario, 22 Publishing, Milano 2008
_Rosario Pavia, Il passo della città. Temi per la metropoli del futuro, Donzelli, Roma 2015
_Carlo Gasparrini, In the city on the city, List, Trento 2014
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1493471404077{padding-bottom: 15px !important;}"]Theodor Adorno, un intellettuale al servizio del metodo dialettico[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex 29/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1493473734405{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Adorno nella storia della speculazione filosofica e sociologica del Novecento rappresenta una delle figure più illustri del Secolo, nonché uno dei padri fondatori della Scuola di Francoforte. La sua ricerca è veicolata da una grande versatilità nei vari campi del sapere come quello della musica e dell’estetica dove risiede una acutissima lucidità di analisi di un sistema sociale e politico che si è sviluppato tra gli anni ‘20 e gli anni ’40 del Secolo passato.
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno ( 1903 – 1969) è stato un filosofo, musicologo e sociologo tedesco.[/caption] Per comprendere determinate caratteristiche peculiari della ricerca adorniana bisogna partire dalle critiche alla matrice speculativa dei neopositivisti. Adorno considera illogico che i neopositivisti rifiutino ogni forma di lettura totalizzante della realtà. Da questo rifiuto dipana le sue posizioni, chiaramente contrarie, poichè difensore del metodo dialettico. Questo, rappresenta un dato importante per comprendere l’essenza delle posizioni filosofiche di Adorno e anche degli altri intellettuali francofortesi, come Herbert Marcuse e Max Horkheimer. [caption id="attachment_8563" align="aligncenter" width="1000"] Theodor Adorno e Max Horkheimer. I due hanno costituito un connubio intellettuale durata quasi tutta la vita dei due intellettuali francofortesi.[/caption]

Questi sviluppano le loro teorie in un contesto socio-politico che ha segnato la storia del Novecento. È l’Europa della Seconda Guerra Mondiale, dell’avvento dei totalitarismi, della crisi della ragione che produce scempi come la Shoah e Auschwitz, l’epoca dello sviluppo tecnologico mosso dall’incombere di un capitalismo pervasivo portato all’eccesso. Un periodo storico in cui agisce Adorno e la scuola di Francoforte tutta, in cui le contraddizioni diventano l’essenza che è alla base della vita della società. Nell’ottica critica di Adorno, queste contraddizioni non possono essere superate solo attraverso l’approccio neopositivista nei confronti della realtà. Adorno critica al neopositivismo di fermarsi solo alla manifestazione dei fatti, quasi come se l’obiettivo finale nella ricerca della verità fosse la superficie delle cose. Nel momento in cui si parla di contraddizioni che costituiscono il reale sembra quasi illogico l’arrestarsi di fronte a un fenomeno senza che ci sia una decostruzione dell’essere in sé, criticando ai neopositivisti proprio questa legittimazione del reale. Le contraddizioni sociali, politiche, etiche della realtà che viviamo possono essere messe in risalto, quasi come se ci servissimo di una lente di ingrandimento, unicamente dal metodo dialettico. Sono propriamente queste le tesi che Adorno sostiene e difende al Congresso di Tubinga nel 1961. Nella Logica delle scienze sociali, entra in conflitto con i neopositivisti e in particolar modo con Karl Popper, il quale sosteneva che la scienza e la sociologia non potevano essere analizzate attraverso un metodo differente da quello deduttivo tipico appunto di ogni scienza. Adorno in contrapposizione alle tesi di Popper, evidenzia come il metodo dialettico fosse alla base di una corretta analisi del sistema sociale, poiché soltanto attraverso tale metodo potevano essere messe in risalto le contraddizioni del mondo reale e riuscire così a risolverle.

[caption id="attachment_8533" align="aligncenter" width="1280"]karlpopper Sir Karl Raimund Popper (Vienna, 28 luglio 1902 – Londra, 17 settembre 1994) è stato un filosofo e epistemologo austriaco naturalizzato britannico.[/caption]

La dialettica adorniana si ritrova, dunque, ad essere definita come “negativa” per questa sua caratteristica peculiare di avere l’intenzione di smascherare il contraddittorio senso della realtà sociale e di mettere in luce la magmatica mole deteriorante di contraddizioni che lacerano l’uomo. La negatività in questione è rappresentata da una realtà che è costituita da contraddizioni etiche e morali contemporaneamente. Risulta così essere l’incarnazione di quel “non-identico” a quell’identità originaria priva di contraddizioni. Alla base di tale critica, nel tentativo adorniano di istituire un metodo di indagine vi è la soggettività dell’individuo che ha trovato il suo crollo in un universo oggettivato dal capitalismo più imperante. Una dialettica negativa, che per dirla con Gramsci diviene filosofia della prassi che scova l’assenza di logica. La critica che Adorno muove al neopositivismo trova le sue radici in questa concezione di ricerca della verità che risiede unicamente nella dialettica, dunque, logicamente non può essere accettata dal filosofo una metodologia come quella dei neopositivisti che si basano unicamente sulla descrizione del fatto per come è e non giungono all’essenza e al perché di quel determinato fatto. In un contesto sociale come quello in cui vive Adorno, un’Europa sbiadita dal terrore, dalle strategie di tensione, dagli uomini di potere che dominano la ragione e la utilizzano come strumento per esercitare il male più oscuro, un’Europa dilaniata dalla disperazione causata dai totalitarismi, da un capitalismo pervasivo e subdolamente orwelliano che atomizza la società rendendo gli individui solo tasselli uguali di un mosaico illogicamente strutturato, questo è il compito di una scienza sociale che attraverso la dialettica, identifica e localizza le negatività che contraddicono l’identità originaria di un sistema che risulta essere l’ultimo prodotto di uno sviluppo senza progresso di un male. Quella del neopositivismo, che per Adorno, dunque, legittima la realtà per come essa è e si presenta, non poteva che essere considerata una filosofia al servizio del sistema da combattere.

 
 Per approfondimenti:
_Theodor W. Adorno, Dialettica Negativa, Torino, 2004
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1493057184428{padding-bottom: 15px !important;}"]Wallis Simpson: la donna che sfidò un Impero[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Liliane Jessica Tami del 27/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1493057135721{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Di origini modeste Bessie Wallis Warfield, viene al mondo negli Stati Uniti il 19 giugno 1896, presto orfana di padre e con la madre costretta a crescere la figlia contando sugli introiti che le venivano da umili impieghi e dall'elemosina dei parenti. Tuttavia scelse di far studiare la ragazza nelle migliori scuole, certa che così potesse incontrare coetanei ricchi pronti a sposarla. Bessie invece si innamorò del pilota Winfield Spencer, convolò a nozze con lui e durante la luna di miele scoprì che il marito era violento, sadico e alcolizzato. Il divorzio fu una scelta obbligata e pochi mesi più tardi fece amicizia a New York con Ernest Simpson, il futuro secondo coniuge, un agente di assicurazione. Il matrimonio fu celebrato a Chelsea e in seguito andarono a vivere a Londra dove a una festa viene presentata al futuro sovrano che non tarda a corteggiarla.
Per tutti i primi mesi della loro relazione, la stampa britannica mantiene il silenzio sul legame: nessuna immagine esce delle numerose crociere a bordo dello yacht in navigazione nel Mediterraneo, nessuna notizia viene data sulle udienze in corso sul secondo divorzio di Wallis. Giorgio V, padre del principe di Galles, muore il 20 gennaio 1936, Edoardo gli succede e pochi mesi dopo è il vescovo di Bradford ad abbattere il muro del silenzio, dichiarando ai giornali che il re ha un assoluto bisogno della grazia divina per poter ricoprire con questa donna al fianco l'alto e gravoso compito al quale è stato chiamato.
[caption id="attachment_8491" align="aligncenter" width="1000"] Wallis Simpson, nata Bessie Wallis Warfield (1896 – 1986), duchessa di Windsor.[/caption]
I tabloid popolari iniziano così a titolare il comportamento poco consono per la dignità di un membro di casa Windsor e gran parte dell'opinione pubblica è dello stesso avviso, nonostante a fianco di Edoardo si schierino politici di forte caratura come Churchill, ma anche imbarazzanti appoggi pubblici da Edward Mosley, capo dell’ultradestra filo-nazista inglese.
Gli eventi precipitano quando il premier Stanley Baldwin afferma che il paese "non è pronto per una regina Wallis" asserendo come questa non nutra preoccupazioni di ordine morale. I motivi sono politici, legati al passato della signora e ai rapporti con la destra europea. I servizi segreti avevano fornito a Downing Street nei mesi precedenti all'abdicazione del 1936 rapporti nei quali si sostiene che Wallis a Londra manteneva "una affettuosa amicizia" con l'ambasciatore nazista e risultava coinvolta in un vasto traffico internazionale di armi. Troppo, in effetti, per una possibile regina. C'era poi anche altro: grazie a Wallis il sovrano nel 1936 stava maturando l'idea di schierare il paese al fianco di Hitler e del Terzo Reich. Edoardo aveva in animo un vertice ufficiale a Berlino per spartirsi con il Fuhrer le zone di influenza ed era pronto a offrire ai nazisti mano libera in Europa in cambio della salvezza dell'Impero.
Sposando in terze nozze il duca di Windsor, Edoardo VIII, dopo alla sua abdicazione al Trono del Regno Unito, è divenuta Duchessa di Windsor. Accanto al marito, celeberrimo per il suo impeccabile guardaroba e per il buon gusto tipicamente british, Wallis è stata una gentildonna colta, raffinata, dolcemente scandalosa, ma soprattutto è stata il modello estetico per tutte le giovani donne degli anni 30-40 che volevano coltivare l’arte del buon gusto.
A parer suo - che era alta solo un metro e 57 - la bellezza della donna, non dipende esclusivamente dal fisico, bensì dalla cultura e dalla capacità di abbinare i capi più belli ed idonei "Non sono bella, ma quello che so fare è vestirmi meglio di chiunque altro!” asseriva lei, modesta ed inconsapevole musa di intere generazioni. Il gossip su di lei più chiacchierato, oltre le presunte relazioni con i più importanti uomini del mondo, sarebbe la simpatia verso al partito Nazionalsocialista.
La moglie del duca di Windsor mal sopportava gli oggetti brutti: elementi scaturiti per causa della mediocrità estetica degli individui, e - nonostante il matrimonio regale - non nutriva simpatie per la monarchia per la causa dello smembramento della società in classi sociali. Altro elemento discordante con il suo pensiero era riferito al sistema dei titoli nobiliari: questi - difatti - erano tramandati non per merito, bensì per linea di sangue, come è stato sancito da Clodoveo I - Re dei Franchi - nel codice conosciuto con il nome di "Legge Salica" presentato nel 503. Tale sistema adottato delle monarchie europee era mal sopportato da tutti i regimi totalitari, compreso quello nazista di Adolf Hitler, tramite il quale Wallis Simpson - non conoscendone gli sviluppi ideologici definitivi -, stimava essendo anche lei - come il Führer tedesco - una "figlia del popolo", salita agli onori grazie ad una rigorosissima scalata sociale.
A spingere il Re del Regno Unito Edoardo VIII, nel dicembre 1936, ad abdicare rispettando le regole di successione al trono britannico varate nel 1701 dal parlamento inglese - in seguito alla fuga del re Giacomo II in Francia -  in favore della figlia Maria e del marito Giglielmo d’Orange, non poteva infatti che esservi una donna di simpatie popolari e spregiudicata.
[caption id="attachment_8492" align="aligncenter" width="1000"] L’undici dicembre 1936, il re del Regno Unito Edoardo VIII abdicò a favore di suo fratello, il principe Alberto, che diventò re con il nome di Giorgio VI. La sua decisione, la prima volontaria rinuncia al trono da parte di un sovrano britannico in oltre mille anni, fu motivata dalla relazione con Wallis Simpson, una donna divorziata di 40 anni nata in un paesino della Pennsylvania e che l’ex sovrano sposò pochi mesi dopo. Fu un evento storico drammatico per la Gran Bretagna e seguitissimo in tutto il mondo, per ragioni ugualmente distribuite di politica e pettegolezzo. La foto di destra mostra un’immagine di Fort Belvedere, il palazzo del XVIII secolo nel parco di Windsor che fu la residenza di re Edoardo VIII.[/caption]
Wallis Simpson, moglie di Edoardo Ottavo, divenuto duca di Windsor dopo all’abdicazione a lei imputabile, è stata l’unica persona al mondo infatti a permettersi di criticare pubblicamente la Regina d’Inghilterra per il suo gusto estetico: disse, infatti, che la Regina si vestiva come una cuoca.
Amare all’estremo il bello, aborrire l’arte degenerata, bramare gli oggetti preziosi, esser pronti a sacrificare tutto in nome di un rigido piacere estetico e di un’ideale superiore di bellezza ed armonia, sono infatti caratteristiche che hanno plasmato il suo mito. Una cura del dettaglio che - per paradosso - porterà la donna statunitense ad avvicinarsi al gusto adottato dal terzo Reich, con l’austera eleganza delle divise delle SS disegnate dallo stilista Hugo Boss, fino alle magnifiche architetture di Albert Speer. Per capire la bramosia di bellezza di Wallis Simpson bisogna andare a vedere nel suo coffret à bijoux che, dopo alla sua morte avvenuta il 24 aprile 1986, contava più di 214 preziosi tra anelli, collier e spille, realizzati apposta per lei dalle più famose maison orafe; Cartier, Van Cleef & Arpels tra i tanti. Grazie ai regali del duca di Windsor, in 20 anni di matrimonio, Wallis ha raccolto una delle più grandi collezioni di gioielli al mondo, battuta all’asta da Sotheby’s a Ginevra, nel 1987, alla cifra record di 53 milioni e mezzo di dollari. Grazie a quest’asta Liz Taylor, che cercava di competere con Wallis, eletta dal Time donna dell’anno del 1936, riuscì ad accaparrarsi la tanto desiderata spilla a forma di piume tempestata di diamanti disegnata proprio da Edoardo VIII nel 1935. Molto spesso il bijoux portava con sé un messaggio d’amore di Edoardo. Uno su tutti, l’anello con smeraldo che lui le regalò per festeggiare il loro fidanzamento e la separazione dal secondo marito di Wallis, Ernest Aldrich Simpson, direttore di un’agenzia di trasporti.
All’interno, il gioiello portava la dedica che sanciva l’inizio ufficiale della storia d’amore tra il principe del Galles e la donna più ambita del momento: adesso si appartenevano. La coppia, infatti, dopo essersi liberati dalle responsabilità della corona a favore del fratello si sposa il 3 giugno del 1937 Château de Candé in Francia.
Nonostante tutte le opposizioni politiche e sociali allo scandaloso matrimonio tra l’erede al trono ed una ragazza divorziata - per ben ben due volte e appartenente al ceto medio -, Edoardo VIII, primogenito del Re , non tornerà mai sui suoi passi, e per 35 anni, sino alla sua morte - avvenuta il 28 maggio 1972 nella Villa Windsor di Parigi -, la coppia più elegante del secolo, resterà unita e indivisibile.
[caption id="attachment_8499" align="aligncenter" width="1000"] Una foto del tanto celebre matrimonio fra i due. A destra, il castello di Château de Candé: il castello è localizzato nel comune della cittadina francese di Monts, nell'Indre-et-Loire, a 10 km dal sud di Tours.[/caption]
Su Wallis Simpson vi sono una quantità incredibile di dicerie, sia per ciò che riguarda la vita privata, che per quella pubblica e politica: alcune fonti affermano che, prima del matrimonio con l’elegante duca Edoardo III, abbia avuto una relazione con Johachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedeschi, ed altri pettegoli asseriscono che abbia imparato in Asia i trucchi di seduzione sensuale delle Geishe. La storia però, sulla sua simpatia per il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi parla chiaro: nel 1937, Adolf Hitler ricevette la coppia a Berchstesgaden in pompa magna ed il principe del Galles assistette alle parate delle Schutz-staffeln (squadre di protezione).
Secondo un documento della polizia segreta portoghese, la PVDE (Polícia de Vigilância e Defesa do Estado), Edoardo e Wallis in quegli anni cercarono di aiutare la Germania a vincere la guerra, mediante un’attività di divulgazione di documenti segreti, affinché il popolo inglese non adottasse i democratici valori americani. Il governo inglese, per disfarsi di Edoardo, lo mandò alle Bahamas nominandolo governatore sino alla fine della guerra, che si godette sullo yatch tra vini prelibati e feste in grande stile. Franklin Delano Roosevelt temeva che la duchessa potesse riferire troppe informazioni belliche importanti all’amico Ribbentrop e, come riporta un documento dell’FBI divulgato dal The Guardian, la fece sorvegliare costantemente. La coppia, anti-democratica ed anti-monarchica - nella sua apparente dissolutezza - visse sino alla fine con una ferrea disciplina, seguendo l'amore per il bello e tentando di abbattere le barriere tra le classi sociali, ma non sempre i due riuscirono correttamente ad esprimere nella pratica i loro ideali. 
 
Per approfondimenti:
_Caroline Blackwood, La duchessa - Editore Codice
_Gilbert Sinoué, Le storie d'amore che hanno cambiato il mondo - Editore Neri Pozza
_Juan Vilches, Ti regalo il mio regno - Editore Imprimatur
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1493122424157{padding-bottom: 15px !important;}"]Il 25 Aprile: analisi storica di una giornata nazionale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 25/04/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1493206458852{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il 25 aprile, a torto o a ragione, è una festa politica che divide il paese. L'Italia il 25 aprile è stata liberata dall'occupazione nazista - di stampo militare, simile al colonialismo di tipo francese (nazionalista) - ed invasa da un'iniziale occupazione militare da parte di un'altra forza straniera: quella degli anglo-americani, i quali conclusosi il conflitto hanno attuato un colonialismo di tipo commerciale, di stampo anglosassone. Va riconosciuto alle forze alleate, l'attuazione del "piano  Marshall", il quale  consentì  all'Italia  ed  alla  Germania occidentale di  risollevarsi  economicamente grazie ad economisti della scuola liberale Soleri ed Einaudi in Italia, ed Ehrard in Germania.
La sinistra - storicamente - ha fatto sua questa festa etichettandola come l'orgoglio partigiano e il coraggio dei tanti comunisti (molti dei quali erano fascisti, appena un anno prima) che hanno liberato il paese. Tale affermazione è storicamente non proprio veritiera, poiché l'Italia è stata liberata dai reparti statunitensi, canadesi, delle Indie Britanniche, dai sudafricani, dagli australiani, dai neo-zelandesi, dalla Francia libera,polacchi , dai brasiliani , dalla brigata ebraica e dal "Regio-Esercito Cobelligerante Italiano", informalmente definito "Esercito del Sud" - comandato dal generale Vincenzo Cesare Dapino (comandante  del  Raggruppamento  che  entrò  in linea  a  Montelungo) e diventato poi verso il termine del conflitto "Corpo di Liberazione italiano", comandato dal generale Umberto Utili.
Infine - merito e spazio - va concesso anche alle forze partigiane, le quali è bene dividere al proprio interno in cinque principali raggruppamenti: i partigiani di derivazione comunista (1/5), le formazioni  "Matteotti" di orientamento  socialista (1/5), i partigiani di "Giustizia e libertà" appartenenti all'ala azionista (1/5) - anche  se  nelle  stesse  presero  posto anche  militari che  non  condividevano  il  programma  del partito  d'azione -, i partigiani patrioti dell'ex regio-esercito (1/5) e i partigiani liberali e democristiani (1/5).
[caption id="attachment_8508" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra: il principe di Piemonte Umberto di Savoia, in operazioni militari a Tavernelle (Appenino tosco-emiliano) al comando della 210a divisione. Nella foto di destra: Il Generale Vincenzo Dapino con il Comandante della V Armata USA, Mark Clark.[/caption]
L'unico corpo Italiano addestrato e sufficientemente equipaggiato per la lotta alla liberazione fu appunto proveniente dal Regio-Esercito Cobelligerante Italiano con sede principale la città pugliese di Brindisi, luogo dal quale il Re Vittorio Emanuele III riorganizzò i reparti armati, i quali  successivamente furono affidati al figlio, il principe di Piemonte Umberto di Savoia, il quale non  poté  mai  assumerne il comando  diretto. Il Regno del Sud fu sempre riconosciuto dagli alleati con il titolo di cobelligerante, elemento fondamentale per concedere all'Italia quella libertà che ha usufruito nel dopoguerra. Addirittura  nel marzo 1944,  l'Unione Sovietica  - con una mossa  abilissima, prodromica, al  successivo rientro  di  Togliatti, alias  "Ercole  Ercoli" ed alla  "svolta di  Salerno" -  riallacciò  i rapporti  diplomatici  con  il Regno  d'Italia. Il nuovo Governo, del servitore dello stato Badoglio, dichiara guerra alla Germania di Hitler, ma non alla Repubblica Sociale Italiana, che non riconosce in quanto non eletta dal popolo, ma soprattutto frutto di una  ribellione al  Governo legittimo ed al Sovrano.
Diamo uno sguardo anche sui partigiani, ai quali va fatto il nostro ringraziamento per aver fornito il contributo - non fondamentale - per la liberazione del paese, ma oggi le copertine di platino sono riservate unicamente a loro.
Di interesse sono anche le formazioni partigiane di stampo e simpatie monarchiche e badogliane (chiamati anche Partigiani Azzurri) erano principalmente composte da partigiani di estrazione borghese e di idee liberali o conservatrici, accomunati dalla fedeltà alla monarchia.
Facevano riferimento alla Casa Reale e riconoscevano in Raffaele Cadorna il loro capo militare. Erano nati dai reparti del regio esercito che rifiutarono la logica del «tutti a casa», abbracciando la lotta partigiana. Avendo conservato la loro struttura gerarchica, i partigiani azzurri poterono apportare alla resistenza l'esperienza bellica e la consuetudine di rapporti coi militari alleati, essenziale per ricevere rifornimenti ed aiuti, tra questi ricordiamo il 1º Gruppo Divisioni Alpine comandato da Enrico Martini. Gruppi come l'Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno rappresentavano il Partito Liberale Italiano ed i monarchici. Non sempre le denominazioni originarie erano strettamente collegate ai partiti di riferimento. Ad esempio le Brigate Osoppo del Friuli, che erano nate con un grande contributo del Partito d'azione, accentuarono la loro dipendenza dalla DC e dal clero friulano. Le Brigate Fiamme Verdi si diversificarono nel territorio: quelle lombarde, nate dagli intellettuali cattolici, si trasformarono in formazioni solo "militari".
Ed, infine, un'analisi doverosa e di grande rispetto, poiché non li considero morti di serie B, va a tutte le donne, a tutti i ragazzi e a tutti gli uomini che hanno creduto - non conoscendo o non capendo, i crimini del regime (in ambito razziale e di corruzione) - dell'ideale fascista repubblichino. Nascere sotto un unico dogma, per poi osservare il mito cadere nella polvere non è cosa facile da accettare. 
Eseguendo una brevissima analisi - non esaustiva - va semplicemente riferito che Mussolini, prima di essere arrestato nella residenza reale di Villa Savoia, alle ore 17,20 del 25 luglio 1943, come capo dell'esercito (il Re aveva delegato il compito al Capo del Governo) aveva perduto la seconda guerra mondiale.
[caption id="attachment_8511" align="aligncenter" width="1000"] 1944: uomini repubblichini della Xª Flottiglia MAS ©recolored[/caption]
Una persona di coscienza, si sarebbe dimessa, invece il duce, non compie tale gesto e arriva alla sfiducia - non da parte del Re, che lo riceve a cose fatte - ma dal Gran Consiglio del Fascismo che con 19 voti contro 3 (7  furono  quelli  all' Ordine del Giorno  Scorza , allora  Segretario  del  Partito nazionale fascista), fa decadere il maestro elementare di Predappio. Lì si sarebbe dovuta concludere la parabola della rivoluzione fascista, sfociata poi in regime, ma ciò non avvenne e il gesto di fondare una Repubblica non eletta dagli italiani e imposta da una forza straniera è imperdonabile, almeno da parte mia. Così molti altri ragazzi sono morti, per una falsa causa - quella dell'onore - che dovrebbe essere rivisitata e discussa al pari dei meriti dei partigiani comunisti, esistiti, ma mai determinanti come si cerca di far credere oggi.
Finché in questo paese non si riuscirà a superare la barriera politica "della storia" e non si tornerà a parlare con coscienza e pacatezza di alcune tematiche fondamentali per la coscienza del paese, non saremo mai veramente "liberi" e il 25 aprile non potrà essere ancora la festa di tutti gli Italiani.
 
NOTE: Una analisi sui reparti dell'Esercito Cobelligerante Italiano:
Unità di prima linea
 
1) Gruppo di combattimento Cremona (del V Corpo britannico, 9 aprile 1945) - comandante generale di brigata Clemente Primieri
_21º Reggimento fanteria "Cremona" (3 btg)
_22º Reggimento fanteria "Cremona" (3 btg)
_7º Reggimento artiglieria "Cremona" (-1 btg)
_CXLIV battaglione genio
 
2) Gruppo di combattimento Folgore (del XIII Corpo britannico, 9 Apr 1945) - comandante generale di brigata Guido Morigi
 _Reggimento paracadutisti "Nembo" (3 btg)
_Reggimento San Marco (3 btg)
_184º Reggimento artiglieria Folgore
_CLXXXIV Battaglione genio
 
3) Gruppo di combattimento Friuli (del X Corpo britannico, 9 aprile 1945) - comandante generale di brigata Arturo Scattini
_87º Reggimento fanteria "Friuli" (3 btg)
_88º Reggimento fanteria "Friuli" (3 btg)
_35º Reggimento artiglieria "Friuli"
_CXX Battaglione genio
 
4)  Gruppo di combattimento Legnano (del II Corpo statunitense), 9 aprile 1945 - comandante generale di divisione Umberto Utili
_68º Reggimento fanteria "Legnano" [3 btg]
_Reggimento fanteria speciale (2 battaglioni Alpini (resti del 3º Reggimento alpini) ed 1 battaglione Bersaglieri (dal 4º Reggimento bersaglieri))
_11º Reggimento artiglieria "Mantova"
_LI Battaglione genio
 
_Gruppo di combattimento Legnano (ingrandito e riassegnato alla Quinta armata statunitense, 23 aprile 1945)
_quartier generale Autoparco "Legnano"
_Officina meccanica campale "Legnano"
_34ª Sezione Carabinieri Reali
_51ª Sezione Carabinieri Reali
_51ª Compagnia rifornimenti e trasporti
_51ª Sezione medica
_LI Battaglione genio
_52nd BLU (British Liaison Unit- unità inglese di collegamento)
_244º Ospedale da campo
_332nd Field Hospital
_11º Reggimento artiglieria
_68º Reggimento fanteria "Legnano"
_I battaglione fanteria
_II battaglione fanteria
_III battaglione fanteria
_405ª Compagnia mortai (mortai Stokes)
_56ª Compagnia anticarro (pezzi inglesi da 6-pounder)
_69º Reggimento fanteria speciale
_I battaglione Bersaglieri
_II battaglione Alpini
_III battaglione Alpini
_15ª Compagnia mortai (da 3 pollici)
_16ª Compagnia anticarro (pezzi inglesi da 6-pounder)
 
5) Gruppo di combattimento Mantova - comandante maggior generale Bologna
_76º Reggimento fanteria "Napoli"
_114º Reggimento fanteria "Mantova"
_155º Reggimento artiglieria "Emilia"
_CIV Battaglione genio
 
6) Gruppo di combattimento Piceno - comandante maggior generale Beraudo di Pralormo
_235º Reggimento fanteria "Piceno"
_336º Reggimento fanteria "Piceno"
_152º Reggimento artiglieria "Piceno"
_CLII Battaglione genio
 
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