[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1497370472441{padding-bottom: 15px !important;}"]La cattedrale di Otranto: l’umanità condotta alla redenzione[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino 14/06/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1497375885768{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La cattedrale di Santa Maria Annunziata ad Otranto, in Puglia, è una fabbrica medievale, la quale conserva una storia di commistioni culturali e di unicità interessanti. Questa chiesa fu consacrata nel 1088 dal legato Pontificio Roffredo Arcivescovo di Benevento e dedicata alla Madonna Annunziata. L'architettura è in stile romanico, come si evince dalla facciata a salienti; l'esterno mantiene sostanzialmente il suo aspetto originale nonostante il rosone ed il portale siano stati costruiti in epoche successive. L'interno è diviso in tre navate da due file di 14 colonne con capitelli eterogenei.
[caption id="attachment_8919" align="aligncenter" width="1000"] La facciata medievale a doppio spiovente è stata oggetto di numerosi rimaneggiamenti susseguitisi nei secoli. All'indomani delle devastazioni inflitte nel corso dell'occupazione turca del 1480, fu edificato il grande rosone a 16 raggi con fini trafori gotici di forma circolare convergenti al centro, secondo i canoni dell'arte gotico-araba. Nel 1674 fu aggiunto il portale barocco, composto da due mezze colonne scanalate per lato che sorreggono l'architrave con lo stemma dell'arcivescovo Gabriel Adarzo de Santander retto da due angeli. Ai lati della facciata si aprono due monofore. Un altro portale minore è presente sul lato sinistro della basilica; fu edificato tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo da Nicolò Fernando per volontà dell'arcivescovo Serafino da Squillace che fece scolpire la propria figura sulla struttura.[/caption]
La pianta basilicale, è composta da tre navate, di cui quella centrale in rapporto di 2:1 con le due laterali. Le navate sono divise da quattordici colonne di marmi diversi e con capitelli di varie fogge, in parte provenienti da edifici antichi. Il transetto non fuoriesce dal perimetro del corpo longitudinale ed è collegato ad esso con l'arco di trionfo a tutto sesto e due archi longitudinali più bassi, mente sul presbiterio si aprono 3 absidi, inglobate nel muro perimetrale - le due laterali trasformate in cappelle oggi appaiono poligonali, mentre quella centrale è semicircolare -; il transetto è percorso da due ampi arconi ribassati che delimitano il presbiterio. Gli archi fra le colonne sono di gusto arabo di forma a ferro di cavallo. Due scale, poste nelle navate laterali, conducono alla cripta. Questa è costituita da una selva di 42 colonne, di provenienza e materiali diversi molte delle quali di reimpiego. Tra i capitelli più belli, spiccano quello dei leoni e quello delle arpie ma ve ne sono di diversissimi, dorici, corinzi, bizantini e persino di influenza araba.
L'interno, come l'esterno, risulta molto rimaneggiato dopo la riconquista cristiana del 1480 e poi in epoca barocca. Il vero tesoro medievale di questa chiesa resta il suo mosaico pavimentale, un capolavoro dell'arte musiva del XII secolo. L'opera fu voluta dal vescovo di Otranto e ideata dal presbitero Pantaleone. Proveniente dal vicino monastero di San Nicola di Casole. I lavori furono eseguiti tra il 1163 e il 1165: ad oggi è uno dei più grandi mosaici in Italia.
La complessità e la vastità dei personaggi, delle scene allegoriche e della simbologia di quest'opera hanno sollevato dubbi e discussioni tra gli storici. La struttura si articola in un gigantesco albero della vita, che comprende tutta la navata e si dirama in girali che incorniciano diverse scene.
Si passa da brani dell'antico testamento come il peccato originale di Adamo ed Eva, l'uccisione di Abele da parte di Caino, il diluvio universale, l'arca di Noè e re Salomone, a scene del tutto profane. Anche se lo stile è piuttosto semplice e privo di profondità spaziale, le figure hanno una grande dinamicità e riescono benissimo a comunicare allo spettatore l'azione ed il movimento. Tra i personaggi che possiamo identificare con sicurezza perché compare il nome, troviamo Alessandro Magno in sella a due grifoni. Secondo una leggenda, tramandata dalla tradizione del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, il grande re greco avrebbe voluto volare fino al cielo.
[caption id="attachment_8914" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini sono riportati alcuni personaggi celebri del mosaico, (da sinistra a destra) come Alessandro Magno, Re Artù, la sirena, Eva-il serpente-Adamo.[/caption]
Per questo avrebbe spinto due grifoni a trasportarlo in volo sempre più in alto allettandoli con della carne (che tiene in mano nel mosaico). Nel pensiero dell'epoca questa scena potrebbe essere interpretata come tracotanza e mancanza di rispetto verso Dio. Un altro sovrano che ci stupisce molto trovare all'interno di questa composizione è Artù, il mitico re dei romanzi cortesi attorno a cui si costruì tutta la saga dei cavalieri della tavola rotonda. Il fatto che sia rappresentato ad Otranto in un'epoca così precoce rispetto alla diffusione a noi nota dei cicli arturiani ne fa probabilmente la più antica rappresentazione della storia.
Non solo: nel mosaico della cattedrale di Otranto il rex Arturus è rappresentato a cavallo di un caprone, notoriamente figura satanica nell'immaginario medievale. Il significato ci appare dunque oscuro, considerando che nei poemi cavallereschi Artù viene raccontato come un re giusto, devoto e saggio.
Il mosaico di Otranto è considerata oggi come un'enciclopedia del sapere e dell'immaginario medievale per la ricchezza e la vastità del repertorio a cui attinse il colto Pantaleone. Anche il fatto che il suo nome compaia scritto proprio all'ingresso della cattedrale è insolito, ma testimonia l'importanza che doveva ricoprire questo personaggio nella zona. La simbologia, sicuramente complessa ma anche criptica per i contemporanei che non hanno più le chiavi di lettura per comprendere a pieno il disegno di Pantaleone rendono questo mosaico ancora più affascinante. Le 600.000 tessere che compongono la pavimentazione della cattedrale di Otranto
sono parzialmente lacunose, ma il significato generale appare piuttosto chiaro: si tratta di una rappresentazione dell'umanità, in tutte le sue forme e di un percorso iniziatico attraverso i vizi in direzione della redenzione.
Accanto alle figure mitiche e dell'antico testamento, vediamo anche i dodici mesi dell'anno, il lavoro dell'uomo, animali mitici come l'unicorno, e reali, quasi a costituire un bestiario. Mostri come le sirene, simbolo del peccato carnale, centauri, rappresentazione della bestialità, un drago, un leone con una sola testa e quattro corpi, un'amazzone e alte strane creature arricchiscono il repertorio incredibile che Pantaleone pensò per la decorazione di questa meravigliosa cattedrale.
Il mosaico di Otranto è la rappresentazione della vita, in tutte le sue contraddizioni e nella continua lotta tra bene e male, peccato e salvezza: come infatti accanto al paradiso compare una rappresentazione dell'inferno, accanto ai simboli dei peccati capitali vi sono rappresentazioni delle virtù. Il mosaico deve infatti essere letto nel suo complesso: le due braccia del transetto ospitano una inferno e paradiso e l'altra varie figure tra cui Atlante, il titano condannato da Zeus a reggere sulle sue possenti spalle la volta celeste. Questa figura nel medioevo fu molto utilizzata per rappresentare l'uomo schiacciato dal peso dei peccati.
Come spiega Laura Pasquini nel suo articolo“salendo lungo la navata centrale della cattedrale di Otranto (secolo XII) , il grande albero a mosaico indica la via che conduce alla salvezza, mentre tra i suoi rami, fitti di ornamenti e immagini simboliche, alcune scene paiono rammentare al fedele tutti gli ostacoli che l’essere umano potrà incontrare nel suo percorso verso l’abside, che è pienezza spirituale. Quali exempla insigni di ubris punita, vanno dunque letti gli episodi dell’Ascensione di Alessandro e della costruzione della Torre di Babele; come immagine dell’inganno per eccellenza e manifestazione subdola del Male (il quale, come nella realtà, adopera a volte per palesarsi le stesse fattezze di Dio) va interpretato invece il grande leone quadricorpore che, nel settore sinistro dell’albero, poggia i suoi poderosi artigli sul dorso di un mostro serpentiforme, a sua volta intento a divorare un altro anguide”.
E' nella navata centrale che si sviluppa la maggior parte del disegno di Pantaleone. Partendo dall'alto, e dunque dall'altare, troviamo i vizi e le virtù degli uomini.
Appena sotto c'è il giardino dell'eden, quindi la cacciata dal paradiso terrestre e subito sotto i dodici mesi dell'anno. Il tempo smette di essere quello di Dio e del Paradiso e diventa tempo dell'uomo, del lavoro della terra a cui è stato condannato dopo il peccato originale, dei ritmi della natura. Poi la narrazione continua con Noè ed il diluvio universale, la torre di Babele, vari personaggi appartenenti al mito ma anche alla storia vera e propria. Non è infrequente che in quest'epoca la storia e le antiche leggende venissero confuse e mischiate.
L'albero della vita, da cui si dirama tutta questa narrazione, è sostenuto da due elefanti, il cui significato non è del tutto chiaro, come quello di molte altre parti del mosaico. All'occhio dei contemporanei non risulta infatti facile interpretare la simbologia dell'opera di Pantaleone in quanto molte di queste figure possono essere viste sotto diversi aspetti e significare una cosa o il suo perfetto opposto, come abbiamo potuto vedere.
La cattedrale di Otranto, anche nei secoli successivi preservò quest'opera straordinaria nonostante i diversi interventi e le vicissitudini della storia. L'edificio infatti, divenne una moschea dopo la conquista turca del 1480. A ricordo del violento scontro militare e culturale di questa guerra, sono conservati nella chiesa i teschi degli 813 cittadini cristiani massacrati perché non vollero rinnegare la propria fede. Otranto e la sua cattedrale ci dimostrano come la commistione di influenze culturali possa dare vita a orribili delitti ma anche a capolavori incredibili, come questo mosaico straordinario.
 
 Per approfondimenti:
_Hubert Houben, Otranto nel Medioevo: tra Bisanzio e l'occidente;
_Rossella Cataldo, Giorgio De Nunzio, Integrated methods for analysis of deterioration of cultural heritage: the Crypt of “Cattedrale di Otranto” in Journal of cultural heritage;
_Laura Pasquini, L’Amazzone, demone della diversità, nella Leggenda del Prete Giannie nel
pavimento musivo della cattedrale di Otranto.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1497202326360{padding-bottom: 15px !important;}"]30°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Ri-Costruire la città. Waterfornt come infrastruttura ambientale. Di Salimei, Pavia[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1497203105914{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 10 Giugno si è svolto il secondo incontro incentrato sulla disciplina architettonica. Tale evento – il settimo della rassegna culturale “Futuro-Passato. Oltre il già detto” – ha visto ospiti di grande rilievo nazionale, come l’architetto Guendalina Salimei, la quale ha realizzato ben quindici strutture pubbliche in tutta Italia e l’architetto-urbanista Rosario Pavia, ex professore ordinario alla facoltà di Pescara e ex consulente del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti del consiglio superiore dei lavori pubblici.
L’evento presentato dal tesoriere Luigino Guarini, è stato moderato dall’architetto Giuseppe Baiocchi, il quale ha ringraziato il presidente dell’Ordine degli architetti Valeriano Vallesi, per il supporto agli eventi proposti dal 2015, dato il fine mandato del 24 giugno.
L’incontro, che ha visto una forte presenza di professionisti e studenti dell’Università, ha denotato una totale assenza della politica locale, dovuta alla sovrapposizione di molti eventi di interesse in città, sintomo della mancanza di una programmazione culturale di medio-lunga durata, alla quale l’associazione si mette a disposizione per evitare future sovrapposizioni.
Gli architetti hanno dissertato su due temi di forte interesse pubblico, i quali – dato il sisma del 2016, che ha visto coinvolto il nostro territorio – potevano sicuramente essere stimolo e fungere da crescita all’ amministrazione comunale, che ha vissuto momenti sicuramente poco felici, in chiave sismica.
La Ri-Costruzione oggi oltre a ripartire dal costruito – appunto – deve necessariamente possedere le normative anti-sismiche, con la figura dell’architetto vero collante tra la parte pubblica e la sfera privata.
L’architetto Salimei ha proposto il progetto “E-PICENTRO”: un cantiere di riflessioni sull’avvenire delle città vulnerabili in particolare in tutte quelle città del centro Italia. Il tema rigenerativo della progettazione urbana si pone al centro di questo progetto. Guendalina Salimei ha mostrato alcuni suoi progetti realizzati che sono partiti e si sono sviluppati secondo questa visione.
L’urbanista Rosario Pavia ci ha parlato del “Waterfornt” come infrastruttura ambientale. Ripartire – per le città costiere – da un riuso urbano di tutti quei manufatti esistenti sulla zona litoranea italiana e non svolgere continue riqualificazioni interne alla costa che non svolgono un vero ricongiungimento del tessuto urbano tra territorio e costa, con quest’ultima spesso isolata.
Forse è giunto il momento di accettare fino in fondo questa condizione di conflitto, resa ancora più difficile dalla crisi finanziaria che frena sia gli investimenti infrastrutturali dei porti sia quelli di riqualificazione urbana. L’associazione ringrazia l’Assemblea legislativa delle Marche per aver finanziato il progetto delle due giornate di Studi su “La Forma della città” e “Ri-Costruire la città”.
L'associazione ringrazia tutti i partner istituzionali che hanno appoggiato l'iniziativa: _Fondazione Carisap _Regione Marche _Ordine degli Architetti di Ascoli _Università di Camerino (UNICAM) _Comune di Ascoli Piceno
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1497026717666{padding-bottom: 15px !important;}"]29°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]La Forma della città. Di Scortichini-Galofaro-Mastrigli[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1497028219536{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
 Giovedì 08 Giugno si è svolta presso la libreria Rinascita la lectio magistralis degli architetti Luca Galofaro e Gabriele Mastrigli su: "La forma della città. L'immagine di città - Utopia della città generica, per una genealogia del presente". L'incontro è stato presentato e moderato dal dott.Manuel Scortechini, il quale ha dissertato sullo sceneggiato Rai di Pier Paolo Pasolini sulla "Forma della città". I due professori, di seguito, hanno dialogato sull'Immagine della città contemporanea e sulla forma della "città utopica".
La città contemporanea è generica proprio perché nasce sempre da una tabula rasa. Se all'apparenza può sembrare che la città generica sia la quintessenza dell'urbanità come dispositivo inclusivo, in realtà essa concettualmente si cancella e si ricostruisce ogni volta. E non può fare altrimenti giacché, ricorda Koolhaas, in caso contrario essa avrebbe un "carattere storico".
Tuttavia è proprio questo il suo aspetto più interessante e decisivo: in quanto processo di sistematica distruzione e ricostruzione la città contemporanea è un dispositivo di produzione e consumo in sé. Non si produce nella città o per la città. Si produce (e si consuma) la città, poiché tutti gli aspetti della produzione hanno un carattere intrinsecamente urbano.
I luoghi di produzione specifici, che peraltro hanno costituito storicamente l'avvio dei processi di urbanizzazione nella modernità (prima le fabbriche, poi gli uffici, quindi le tipologie ibride) ora coincidono con la città stessa in tutte le sue possibili articolazioni, tanto come spazi quanto, soprattutto, come eventi.
Come già prefigurato alla fine degli anni '60 e oggi pienamente realizzato, nell'economia neocapitalistica la città è essa stessa il "piano del capitale" e ne sussume tutti gli aspetti, a partire dall'istanza di continuo sviluppo e quindi di trasformazione e riciclo. In altre parole la città è oggi, nel bene e nel male, la vera "utopia realizzata" della modernità.
Interessantissimo il dibattito con il pubblico, che ha visto opinioni divergenti che hanno reso frizzante lo scambio di idee, tra professionisti e giovani architetti.
L'associazione ringrazia tutti i partner istituzionali che hanno appoggiato l'iniziativa: _Fondazione Carisap _Regione Marche _Ordine degli Architetti di Ascoli _Università di Camerino (UNICAM) _Comune di Ascoli Piceno
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1496828104070{padding-bottom: 15px !important;}"]Sangue nero nel Mississippi: la nascita del blues[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Simone Ciccorelli 07/06/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1496830164195{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Esistono diverse idee sulla nascita e sulla diffusione del Blues. Alcuni miti e leggende attribuiscono la sua nascita a uomini misteriosi venuti da lontano; un'idea che non rende così impossibile immaginare di vedere il fondatore giungere dondolando sulle sponde di un fiume in un cesto di vimini. E' però possibile definire una teoria definitiva giunta a noi grazie a chi, in quel periodo storico, si è trovato avvolto da quel fascio di cotone che con il tempo prenderà il nome di Blues. Il cotone, appunto. E' nelle piantagioni di cotone del Mississippi che tutto ha un inizio, negli anni in cui non era sufficiente essere un uomo o una donna per sentirsi considerato Umano.
La prerogativa indispensabile per definirsi tali era innanzitutto una: avere la pelle bianca. Il Blues parte da qui, da un abisso sociale, dagli abusi e dalle disuguaglianze a cui nessuno faceva caso e forse senza queste prerogative non sarebbe mai nato. Il Blues non sarebbe quindi mai nato senza gli schiavi. Non sarebbe mai nato senza l'inizio dell'importazione dei negri che, rapiti dalle loro terre di origine, venivano trasportati come bestie a partire dal 1600, in zone geografiche che oggi sono definite come Stati Uniti d'America. Nel corso della storia sono stati trasportati, torturati, sfruttati, uccisi e abbandonati oltre 200 milioni di esseri umani con la pelle nera. Si tratta del più grande sterminio della storia dell'uomo.
[caption id="attachment_8848" align="aligncenter" width="1000"] 12 anni schiavo (12 Years a Slave) è un film del 2013 diretto da Steve McQueen. Tratto dall'omonima autobiografia di Solomon Northup, opera del 1853, il film ha vinto il Premio Oscar come miglior film nel 2014. Gli interpreti principali sono Chiwetel Ejiofor nel ruolo del protagonista, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, quest'ultimo anche produttore della pellicola, e Lupita Nyong'o, vincitrice dell'Oscar alla miglior attrice non protagonista.[/caption]
Le situazioni e le condizioni di schiavitù sono tuttavia mutate negli anni. Le lotte politiche e alcuni cambiamenti sociali trasformano la schiavitù da pratica legale e legittima a qualcosa che verrà abolito soltanto nel 1863 da Abraham Lincoln. Tutti quelli che fino al giorno prima erano identificati come dei comuni schiavi, sono subito stati definiti cittadini illegittimi dal XIII Emendamento e dunque, essendo un reato, rinchiusi nelle decine di carceri che sorgevano sul suolo americano in quegli anni e che, per una strana ironia, prevedevano dei programmi di lavoro per tutti i reclusi. Durante il periodo di schiavitù c'erano infiniti limiti imposti a questi uomini.
Erano rilegati ad una situazione permanente di sottomissione e visti come animali da lavoro da alimentare e gestire.
Questi uomini, però, proprio perché costretti al lavoro forzato, hanno spinto la loro volontà di vivere oltre ogni barriera. La cosa più accessibile, concretamente fattibile e umanamente concepibile è stata, ed è forse ancora oggi, la musica.
I loro strumenti erano asce, seghe, martelli, zappe, coltelli e pezzi di metallo. Suonavano lavorando. Svolgendo il loro consueto compito; a turno e a ritmo, scandendo suoni inusuali e cantando in coro.
Raccontavano quello che provavano, le loro emozioni e i loro desideri di una vita normale, facendo riferimento a un Dio e, il più delle volte, a loro stessi. Quello che per la prima volta è stato definito come “Blues Man” è stato un uomo che, nel 1903, in una stazione della zona del Mississippi, suonava qualcosa di mai ascoltato da nessuno prima e che soltanto poco tempo dopo verrà definito “Blues”. Suonava con la lama di un coltello le corde di una chitarra artigianale per ottenere l'effetto per cui oggi si usa lo Slide. La prima registrazione di un brano Blues risale al 1912, ma quello che era nato in quel momento come “genere” musicale, aveva fondato le sue radici 300 anni prima, rifacendosi alle sinfonie della musica orientale e islamica che nel corso della storia avevano influenzato le popolazioni africane.
Il Blues e la sua stesura derivano infatti dallo Spirituals: canzoni corali che parlavano di tristezza e della situazione di questi uomini costretti a lavorare nei campi. Raccontavano storie povere di libertà, ma al tempo stesso ricche di vita, passione, emozioni e sensibilità verso la Creazione, indipendentemente dall'attribuzione religiosa. Le prime chitarre venivano realizzate con cassette di sigari o di frutta. Si usava qualunque oggetto che fosse adattabile e che fosse a disposizione. La musica ricopriva la maggior parte delle loro giornate, durante e dopo il lavoro. Nel 1925, dopo un percorso di elaborazione del genere, si afferma il Folk Blues, cioè il blues dei campi che presto si trasformerà in Country Blues, unendo così anche la musica dei bianchi.
[caption id="attachment_8851" align="aligncenter" width="1000"] Skyland Outing, Virginia, 1895[/caption]
E' stato un passaggio che ha segnato la storia e non soltanto per il fatto che per la prima volta un bianco si avvicinava al genere per antonomasia appartenente ai negri, ma perché segna un passaggio generazionale in cui bianchi e neri facevano le stesse cose. I bianchi erano inizialmente esclusi dal genere, ma presto le due realtà musicali e sociali cominciarono a fondersi completamente, lasciandosi trasportare dai suoni. Sembra un'utopia oggi pensarla così, ma quello che smosse il desiderio di questi artisti non era la fama, il successo o il denaro. Nient'altro che la vera natura della musica e di quello che, se ben espressa, è in grado di trasmettere; nient'altro che la vita, il desiderio di creare qualcosa per la gioia di farlo e senza un rientro che non sia quello emozionale.
Nello stesso anno, nel 1925, uno step tecnologico importante apporta inevitabilmente delle modifiche al genere: la prima registrazione. Blind Lemon Jefferson è un antesignano, una figura dominante di tutti gli anni '20. E' sua la prima registrazione della storia del Blues. Un uomo per certi versi rimasto misterioso ai postumi; cieco, rude e sensibile, una figura su cui ancora oggi abbiamo molto da capire.
[caption id="attachment_8852" align="aligncenter" width="1000"] Blind Lemon Jefferson, pseudonimo di Lemon Henry Jefferson, (Coutchman, 24 settembre 1893 – Chicago, dicembre 1929), è stato un cantante e chitarrista statunitense di musica blues.[/caption]
Non si unì mai alla sua famiglia nei campi e la mancanza della vista gli permise di essere escluso dal lavoro. Fu proprio lui, in Texas, ad incidere la prima registrazione blues. Rimane oggi uno dei pionieri musicali in assoluto riuscendo ad introdurre melodie che hanno permesso, decine di anni dopo, la nascita del rock and roll. Nel 1936, un venticinquenne di nome Robert Leroy Johnson inizia un percorso di registrazioni che dura circa sette mesi. Incide 29 brani che passeranno alla storia come se fossero stati scolpiti sulla pietra e che gli permetteranno di ricevere decine di riconoscimenti nei decenni successivi. Il suo lavoro influenzerà la formazione artistica di alcuni tra i migliori musicisti che noi oggi conosciamo, tra cui Bob Dylan, Eric Clapton, Muddy Waters, Jeff Beck, Jimi Hendrix e i Led Zeppelin. Due anni dopo Johnson muore in circostante ancora sconosciute, all'età di ventisette anni. Su di lui circolano storie che sfiorano il paranormale. Chi suonava con lui, o lo aveva sentito suonare un anno prima, non poteva credere ai propri occhi e alle proprie orecchie. Quel ragazzo che fino a un anno prima suonava a stento qualche accordo storpiato, nel giro di 12 mesi raggiunse capacità eclettiche, improbabili e mai viste prima. Lui stesso ha detto più volte di aver stipulato un patto con il diavolo, cedendo la propria anima ad un uomo con indosso una veste nera incontrato mentre passeggiava da solo durante una delle tante notti in cui era sbronzo nel tragitto per casa, nelle vie della sua città. Un uomo che, a sua detta, da quella volta non ha mai più rivisto. Qualcuno potrebbe anche crederci, ma in qualunque modo abbia fatto, Robert Johnson, non verrà mai dimenticato. Il suo carattere egocentrico e sempre attivo lo ha senza dubbio portato ad avere diversi nemici, bianchi o neri che siano, perché la gelosia e la cattiveria, purtroppo, non conoscono distinzioni. Le sue opere sono ancora oggi disponibili e ascoltandole è possibile rendersi conto di quanto quel patto da lui decantato, forse, non sia poi così impensabile. Con il passare degli anni il Blues e il Delta Blues hanno visto smussare le loro caratteristiche principali. La sua origine nera derivata dallo schiavismo ha incontrato le esigenze dei bianchi che, a loro volta, lo hanno modificato e amplificato. Il blues non è scomparso negli anni e non può scomparire. Questo perché, come la sofferenza, è qualcosa che resta legato all'esistenza che si trova dentro di noi. Si potrebbe anche dire che il blues non può scomparire perché è una musica nata dagli schiavi e che, in qualche modo, è un mondo che non se ne priverà mai del tutto. Piuttosto tende a cambiarne la forma. Il blues ha resistito. E' ancora vivo e pulsante e, proprio come la schiavitù, non intende scomparire. Può cambiare la sua forma con il passare del tempo, forse. Ma la sostanza, densa e viva, è sempre la stessa. La storia del Blues è una storia di rivalsa in cui un gruppo di ragazzi, sopravvissuto al peggio, si è reso immortale. Un pugno di uomini che, senza impugnare un'arma (se non per suonare) si è preso una rivincita sulla vita, nonostante questa non gli abbia mai restituito neanche una parte di quanto gli abbia tolto. E' la storia di una musica suonata da chitarre sporche di sangue e sudore, sullo sfondo di una distesa di piantagioni di cotone, lungo il Mississippi.
 
Per approfondimenti:
_The Blues, Dal Mali al Mississippi – Documentario di Martin _Scorsese
_Autobiografia di uno schiavo – Miguel Barret
_Autobiografia si Malcolm X
_La storia del Blues – Roberto Caselli
 
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Premessa: "Die Welt von gestern (Il mondo di ieri) del 1942, è la ricostruzione autobiografica di un'epoca, che nella consapevolezza di Zweig - fuggito in terra brasiliana, per la persecuzione nazista in Austria - è ormai prossima all'imminente catastrofe politica e morale; una catastrofe alla quale egli non sopravviverà. Riportiamo la prefazione del romanzo autobiografico, che ci descrive in un'esposizione lucidissima l'epoca del secolo breve, quel novecento capace di creare progresso e barbarie. Il libro verrà pubblicato postumo, segnando la consapevolezza della definitiva scomparsa degli antichi valori e dalla rassegnazione (siamo in pieno secondo conflitto) di fronte all'irreversibilità degli eventi, un'atmosfera autunnale che imprime all'intera opera il severo suggello della modernità". Giuseppe Baiocchi
[caption id="attachment_8832" align="aligncenter" width="1000"] Stefan Zweig (Vienna, 28 novembre 1881 – Petrópolis, 23 febbraio 1942) è stato uno scrittore, drammaturgo, giornalista, biografo e poeta austriaco naturalizzato britannico. Animato da sentimenti pacifisti e umanisti, è noto come autore di novelle e biografie. Politicamente era internazionalista, cosmopolita ed europeista, e come ebreo laico, considerava il sionismo nazionalista di Theodor Herzl un'idea errata, propugnando una pacifica assimilazione degli ebrei. Oppositore fermo dei totalitarismi, lasciò l'Europa dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo, rifugiandosi infine in Brasile dove si suicidò nel 1942.[/caption]
Non ho mai attribuito tanta importanza alla mia persona da sentire il desiderio di raccontare ad altri la storia della mia vita. Molte cose dovevano accadere, molti più eventi, catastrofi e prove di quanto solitamente tocchi a una singola generazione, prima che trovassi il coraggio di iniziare un libro che ha il mio io come protagonista, o per meglio dire quale centro. Lungi da me l’idea di mettermi alla ribalta, o almeno se lo faccio, è soltanto quale commentatore in una conferenza con proiezioni. L’epoca offre le immagini e io vi aggiungo le didascalie e non narrerò tanto il destino di me solo, quanto quello di tutta una generazione, della nostra inconfondibile generazione, la quale forse più di ogni altra nel corso della storia è stata gravata di eventi.
Ciascuno di noi, anche il più piccolo e trascurabile, è stato sconvolto sin nell’intimo della sua esistenza delle quasi ininterrotte scosse vulcaniche della nostra terra europea, e fra questi innumerevoli io non mi posso attribuire che un privilegio: come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse sono erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformato la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel “dove andrò?” a me già ben noto. Ma non lo voglio deplorare, giacché appunto chi è senza patria ritrova una nuova libertà, e solo chi non è più a nulla legato non ha bisogno di avere riguardo per nulla.
[caption id="attachment_8829" align="aligncenter" width="1000"] Cartina europea satirica del 1914.[/caption]
Per questo spero almeno di rispondere a una delle condizioni essenziali di ogni onesta cronaca: sincerità spregiudicata. Io sono in verità come raramente altrui fu mai, divelto da tutte le radici, persino dalla terra che queste radici nutrivano. Sono nato nel 1881 in un grande possente Impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta fu ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici milioni di lettori. Io ora non appartengo a nessun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto; l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro la mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità.
Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. Nel breve lasso da quando cominciò a crescermi la barba a quando prese a farsi grigia, in meno di mezzo secolo, si sono determinate più metamorfosi radicali che nel corso di dieci generazioni; e ognuno di noi sente che furono anche troppe! Il mio oggi è così differente dal mio ieri, le mie ascese e i miei crolli, che a volte mi sembra di aver vissuto non una, ma molteplici esistenze totalmente staccate e diverse. Spesso mi accade, se dico distrattamente: “La mia vita”, di domandarmi poi: “Quale vita?”. Quella antecedente alla guerra mondiale, alla Prima o alla Seconda, oppure la vita di oggi? Poi mi sorprendo a dire: “La mia casa”, e non so quale delle mie case di un tempo alludo, se a quella di Bath o a quella di Salisburgo o alla casa paterna viennese. Oppure dico: “Da noi”, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria più che degli inglesi o degli americani, che là non sono più organicamente congiunto e che qui non sarò mai del tutto inserito; il mondo nel quale sono cresciuto, il mondo odierno e ancora il mondo posto fra questi due si scindono sempre più nel mio sentire in tre mondi del tutto dissimili.
[caption id="attachment_8830" align="aligncenter" width="1000"] Stefan Zweig (a sinistra) e Joseph Roth (a destra) nella città portuale belga di Ostenda nel 1936.[/caption]
Tutte le volte che conversando con amici più giovani rievoco episodi dell’epoca precedente la prima guerra, mi avvedo alle loro domande stupite come infinite cose, che sono ancora per me realtà naturalissima, sono già per loro o storiche o inimmaginabili. E un istinto segreto mi induce a dare loro ragione: sì, fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati. Io stesso debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa nel breve spazio di un’unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi stupisco se la paragono al modo di vivere dei miei predecessori. Che cosa hanno veduto mio padre e mio nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un’unica volta, un’unica esistenza dal principio alla fine, senza vette e senza cadute, senza scosse né pericoli; una vita di piccole emozioni, di inavvertiti paesaggi; l’onda del tempo li ha portati con ritmo regolare, tacito e calmo, dalla culla alla tomba. Hanno vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi sempre persino nella stessa casa; quel che accadeva fuori nel mondo non si svolgeva in fondo che nel giornale e non batteva alla loro porta. Ai tempi loro in qualche punto del mondo si combatté bensì una qualche guerra, ma, commisurata alle dimensioni odierne, una guerricciola, che si svolgeva lontano dai confini; non si sentivano le cannonate e dopo sei mesi tutto era finito, dimenticato, ridotto foglia secca della storia mentre già riprendeva la solita monotona vita. Noi invece tutto sperimentammo senza ritorno, nulla restò del passato, nulla si ripeté; a noi toccò il privilegio di partecipare a ciò che la storia suole suddividere con parsimonia si un paese e su di un secolo. Una generazione aveva tutt’al più fatto una rivoluzione, un’altra una sommossa, la terza una guerra, la quarta aveva subito una carestia, la quinta un fallimento dello Stato, e vi erano persino dei paesi benedetti, delle generazioni fortunate, che nulla di tutto questo avevano conosciuto. Ma noi, che abbiamo oggi sessant’anni, e che de jure avremmo ancora un certo tempo da vivere, che cosa non abbiamo veduto, che cosa non abbiamo sofferto?
Abbiamo percorso da cima a fondo il catalogo di tutte le catastrofi pensabili, e non siamo giunti ancora all’ultima pagina. Per conto mio sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità e le ho anzi vissute ciascuna si un fronte diverso, la prima su quello tedesco, l’altra su quello anti-tedesco. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo, in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea.
Inerme e impotente, dovetti essere testimone dell’inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece con il suo potente e programmatico dogma dell’antiumanità. A noi fu concesso di vedere, dopo secoli e secoli, guerre senza dichiarazioni di guerra, ma con i campi di concentramento, torture, saccheggi e bombardamenti sulle città inermi, di vedere orrori che le ultime cinquanta generazioni non avevano più conosciuto e che quelle future è sperabile non più tollereranno.
D’altra parte, quasi per paradosso, nello stesso periodo in cui il nostro mondo regrediva moralmente di un millennio, ho veduto la stessa umanità raggiungere mete inconcepite nel campo tecnico e intellettuale, superando in un attimo quanto era stato fatto in milioni di anni: la conquista dell’aria con l’aeroplano, la trasmissione della parola umana nello stesso secondo per tutto il pianeta e quindi il superamento dello spazio, la disgregazione dell’atomo, la guarigione delle più subdole infermità, la quasi quotidiana attuazione insomma di quanto ieri era ancora attuabile. Mai prima d’oggi l’umanità nel suo insieme si è comportata più satanicamente e non mai d’altra parte ha compiuto opere così prossime a Dio.
Testimoniare questa nostra esistenza tutta tensione e drammatiche sorprese, mi pare un dovere, giacché, lo ripeto, ognuno fu costretto a essere testimone di quelle inaudite metamorfosi. Per la nostra generazione non ci fu modo, come per le precedenti, di esimersi, di trarsi in disparte; in grazia della nuova, organizzata contemporaneità, noi fummo sempre legati al nostro tempo. Quando bombe distruggevano le case di Shanghai, noi in Europa lo apprendevamo nelle nostre stanze prima che i feriti fossero portati fuori da quelle case. Quello che accadeva a mille miglia oltre l’oceano, ci veniva incontro, vivo, nell’immagine. Non v’era modo di difendersi da questo perenne essere informati e chiamati in causa. Non v’era paese ove rifugiarsi, non v’era pace da conquistare, sempre e dovunque la mano del destino ci afferrava per trascinarci nel suo gioco mai sazio.
Di continua bisognava subordinarci alle esigenze dello Stato, farsi preda della più stolta politica, adattarsi ai mutamenti più inauditi; eravamo sempre incatenati alla sorte comune; per quanto ci si difendesse, questa ci portava irresistibilmente co sé.
Chi dunque ha percorso, o meglio è stato rincorso e incalzato attraverso quest’epoca – ben poche pause ci furono concesse! – ha vissuto più storia di qualunque dei suoi avi. Anche oggi siamo di nuovo a una svolta, a una conclusione e a un inizio. Non senza intenzione dunque io lascio per ora che questo sguardo retrospettivo alla mia vita si chiuda con una data precisa. Quel settembre 1939 segna infatti il limite definitivo dell’epoca che ha plasmato ed educato noi sessantenni. Se però con la nostra testimonianza tramanderemo alla generazione futura anche soltanto una scheggia di verità, non avremo lavorato invano.
Ho chiara coscienza delle circostanze sfavorevolissime, e pure caratteristiche del nostro tempo, in cui tento dar forma a questi miei ricordi. Li scrivo in piena guerra, in terra straniera e senza il minimo soccorso alla mia memoria. Nella camera d’albergo non ho a disposizione né un esemplare dei miei libri, né appunti, né lettere di amici. A nessuno posso chiedere una notizia, perché in tutto il mondo la posta da paese a paese è interrotta o ostacolata dalla censura.
Viviamo separati come centinaia d’anni or sono, prima che fossero stati inventati navi a vapore, ferrovie, aeroplani. Di tutto il mio passato non ho quindi con me altro che quanto porto dietro la fronte. Il resto è in questo momento irraggiungibile o perduto. Ma la nostra generazione ha imparato a fondo l’arte preziosa di non rimpiangere il perduto, e forse la mancanza di documentazione e di particolari tornerà di vantaggio al mio libro. Considero infatti la nostra memoria un elemento che non conserva casualmente l’una cosa per perdere fortuitamente l’altra, bensì un’energia ordinatrice e saggiamente selezionatrice. Tutto quanto si dimentica della propria esistenza era già da un pezzo condannato per istinto a essere dimenticato. Solo ciò che io stesso voglio conservare può aspirare a essere conservato per gli altri. Parlate e scegliete dunque, o i miei ricordi, al posto mio, e restituite almeno un riflesso della mia vita, prima che essa scenda nel buio!
 
Per approfondimenti:
_ Stefan Zweig, Il mondo di ieri - Edizioni Oscar Mondadori
 

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Perché scrivere una sorta di critica quando i critici non servono? Perché scagliarsi contro intere generazioni? Perché inimicarsi qualcuno con il proprio pensiero, sia esso produttivo o inutile?
La risposta a tali quesiti, può essere riassunta in un'unica risposta: è l'Avanguardia dell'arte. Non si può aderire ad un'idea solo accettando passivamente le condizioni imposte, il progresso è dietro l'angolo e bisogna raggiungerlo, scavalcando gli ostacoli del presente.
Filippo Tommaso Marinetti fu un visionario, un veggente - con il Futurismo lui tentò di "prevedere il futuro", con successo, idealizzando a tratti la realtà di oggi; Nel 1908 Marinetti si scaglia, becero, irruento, travolgente, dinamico, contro il mondo del vecchiume dominato dalla borghesia fatta da "anziani" e fonda il Movimento Futurista – aveva trentadue anni. Il primo Futurismo è poetico, quasi romantico, per gli artisti che vi aderiscono. Personalità quali Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo (ai profani, nomi probabilmente sconosciuti, dacchè, in ambito accademico, si è ritenuto necessario "oscurare" queste personalità, per motivazioni di cui si parlerà in seguito) aderiscono al progetto e, sotto la guida folle e febbricitante di Marinetti, fanno "guerra" alle istituzioni del tempo.
[caption id="attachment_8807" align="aligncenter" width="1000"] Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e Gino Severini Severini nel 1912 davanti la sede di Le Figaro, a Parigi il 9 Febbraio del 1912[/caption]
C'è da dire che il Futurismo, come pensiero - così come lo pose il suo responsabile -, ha fatto scandalo sia nell'epoca in cui questo è nato - per il suo dinamismo, velocità e industria - e potrebbe far scandalo anche oggi, dato che si tendeva ad esaltare il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva intesa come "igiene dei popoli".
Una vera e propria anarchia, quella ipotizzata dai primi Futuristi, che erano anche i pensatori, gli ispiratori di molte delle Avanguardie europee (Dadaismo, Cubismo, De Stijl), tutte pressappoco contemporanee nella loro creazione.
La vera colpa di questo movimento artistico, che pure contribuì largamente allo sviluppo dell'Arte moderna e contemporanea come la conosciamo adesso, fu' di fatto appoggiare politicamente il fascismo, che in parte si impadronì delle idee Futuriste, svuotando il sacco di innovazione proposte da questi artisti, e lasciandoli abbandonati al loro destino. Le difficili relazioni tra Futuristi/anarchisti della prima ora e Fascisti, pose di fatto una lapide sul già decadente movimento avanguardista, con la "resa" concettuale di Marinetti, che morì asservito ai principi della Repubblica Sociale Italiana.
Nonostante il generale "disprezzo" della critica d'arte italiana e contemporanea nei confronti del Futurismo, questo movimento d'Avanguardia regalò all'Italia e al mondo un ventennio di pura innovazione e sperimentazione artistica.
Ogni ambito dell'Arte (e non solo) fu influenzato dalle giovani menti di artisti italiani che diedero la loro interpretazione al mondo tramite le loro opere. Correnti gemelle si diramarono nel mondo (il Futurismo Russo è tra i più celebri esempi di questa espansa influenza), frattanto che artisti del calibro di Boccioni - ed altri - si interrogavano sulla necessità di trasmettere il dinamismo nella pittura e nella scultura, creando celebri esempi dell'arte di quell'epoca e della sua rumorosissima denuncia nei confronti Ancien Régime del XX secolo.
[caption id="attachment_8808" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra: Gerardo Dottori, "Il Duce" - 1933. A destra: Enrico Prampolini, Dinamica dell'azione (Miti dell'azione. Mussolini a cavallo)[/caption]
Basti pensare all'ideazione stessa dell'Aeropittura, uno stile pittorico che prevedeva quadri in vedute dall'alto, prospettivamente simili a quelle visibili in volo, uno stile del tutto innovativo, indipendente da qualsiasi altra influenza dell'epoca, che si proponeva a celebrazione della macchina più rivoluzionaria di quel secolo: l'aeroplano.
La genialità e l'importanza del Futurismo, però, non va solo ricercata nel suo ruolo di Avanguardia, ma anche nella testimonianza che essa ebbe - in riferimento all'arte italiana - rispetto al periodo storico in cui si sviluppò. Ieri come oggi, il mondo stava cambiando; le automobili invadevano le strade, la rivoluzione industriale di massa aveva raggiunto ogni anfratto del globo, fu questo il trampolino di lancio di artisti “ansiosi” come Boccioni (da molti definito il più grande artista italiano della sua generazione), che negli anni a cavallo tra il 1910 e il 1915 produsse opere come “Forme uniche della continuità nello spazio”.
In campo architettonico, Antonio Sant'Elia visionò la nuova "forma" d'urbe: "la città futurista".  Tale città utopica e del desiderio, appare già nella prima pagina del Manifesto del futurismo di Marinetti, pubblicato su Le Figaro a Parigi il 20 febbraio 1909: "Avevamo vegliato tutta la notte (...) discutendo davanti ai confini estremi della logica e annerendo molta carta di frenetiche scritture. (...) Soli coi fuochisti che s'agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nella pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d'ali, lungo i muri della città. Sussultammo a un tratto, all'udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sradica d'improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso gorghi di un diluvio. Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l'estenuato borbottio di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell'ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici".  Dunque la città diviene il luogo privilegiato della modernità, la quale con forza travolgente, incarna il futuro e la velocità che crea il movimento. Luci, rumori sconquassano il paesaggio e ne moltiplicano i punti di visione.
La "Città Nuova" deve nascere e crescere contemporaneamente alla nuova ideologia del movimento e della macchina, non avendo più nulla della staticità del paesaggio urbano tradizionale.
Uno degli elementi nuovi, oltre l'aeroplano, è sicuramente il treno. Una delle opere più rilevanti è "Stati d'animo, gli addii” di Umberto Boccioni. In quest'opera, protagonista assoluto è il convoglio ferroviario (preso come soggetto da molti altri Futuristi), cui la sua modernità “arcaica” trasmette quasi nostalgia, angoscia. Il dipinto racconta della partenza, delle sensazioni provate dalle figure a stento stilizzate e visibili tra i fumi della locomotiva che sta per mettersi in cammino. Lo scorcio racconta i legami affettivi di coloro, i quali sono destinati a prendere il treno al vagone 6943. In effetti, ad analizzarlo, il quadro è un misto di stili: lo si può interpretare come cubista o espressionista, ma il vero collante che lo tiene insieme è la ricerca del movimento nella staticità della tela: punto di forza del futurismo, chiave di volta per l'interpretazione della realtà e della sensazione umana.
[caption id="attachment_8809" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Umberto Boccioni, "Stati d'animo, gli addii” 1911; Antonio Sant'Elia, La città nuova. Casa a gradinata con ascensori esterni.[/caption]
Boccioni non fu l'unico ad interrogarsi sulle sensazioni umane, sia pure attingendo al dinamismo e alle forme del movimento; Gino Severini, che pure fu tra i soci fondatori del Manifesto dei pittori futuristi, venne definito, da Theo van Doesburg, ideatore del psychisch kubisme (cubismo psichico) proprio per le capacità introspettive dei suoi quadri, e la sua ossessiva ricerca di un “senso oltre l'immagine”.
Al di là delle prese di posizione politiche (per altro molto discordi tra loro durante le varie “fasi” del movimento) è innegabile l'importanza di questo gruppo di pensatori. Il Futurismo, infatti, fece un passo avanti rispetto al resto delle Avanguardie del 900, dacché non solo produssero materiale artistico esplorando ogni forma d'arte,  ma idealizzarono una vera e propria società, costruendola dal disegno architettonico (celebri sono gli schizzi realizzati da Antonio Sant'Elia con la sua “Città Nuova”), passando per la grammatica (le “parole in libertà”, stile letterario in cui le parole non hanno necessariamente un legame tra loro, indifferenti alla sintattica e alla grammatica) fino alla sua struttura sociale, che si rifaceva al primo Manifesto del futurismo, scritto di pugno da un Marinetti inebriato dal mito della modernità.
I futuristi non furono amati al tempo come non lo sono ora, ma è importante che non si perda il ricordo della loro importanza. Nel bene o nel male, purché se ne parli.
 
Per approfondimenti:
_Agnese Gino, Umberto Boccioni. L'artista che sfidò il futuro, Johan & Levi Editore
_Autori vari per catalogo mostra, Aereopittura, arte sacra futuriste. La Spezia, 1931
_D'Orsi Angelo, Il futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?, Salerno Editore
_Guerri Giordano Bruno, Filippo Tommaso Marinetti / Invenzioni, avventure e passioni di un Rivoluzionario, Arnoldo Mondadori Editore
 
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a cura di Jant TV
 

Il consigliere della associazione Stefano Scalella ha rilasciato una breve intervista sul canale televisivo Jant, condotto da Carlo Di Giovanni. L’intervista ha permesso di spiegare i fini culturali che l’associazione persegue, dando uno sguardo sulla mostra - ancora visitabile fino al 03/06/2017 - "Circus, satira riflessiva. Illustrazioni sulla grafica contemporanea", presso la Libreria Prosperi (Largo Crivelli n°8, 63100 Ascoli Piceno).

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Sei anni di fatiche, dubbi e emozioni sono il quantitativo temporale che Lev Tolstoj ha impiegato per scrivere il suo maggiore capolavoro: Guerra e pace – dal 1863 al 1869 con la pubblicazione solo nel 1878.  Si può già capire il romanzo di Guerra e pace da questa definizione dello stesso scrittore del 31 ottobre 1910.
Dio è quell'infinito Tutto, di cui l'uomo diviene consapevole d'essere una parte finita. Esiste veramente soltanto Dio. L'uomo è una Sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio. Quanto più il manifestarsi di Dio nell'uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (alle vite) di altri esseri, tanto più egli esiste. L'unione di questa sua vita con le vite di altri esseri si attua mediante l'amore. Dio non è amore, ma quanto più grande è l'amore, tanto più l'uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente”.
Nella disastrosa campagna russa di Sebastopoli, attraverso cui l’autore assiste alla disfatta delle truppe russe, nel conte Lev Nikolaevič Tolstoj si attiva un desiderio di riscatto storico e patriottico: offrire alla madre patria attraverso Guerra e pace una vittoria che sostituisse l’umiliante sconfitta nella guerra di Crimea (conflitto combattuto dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l'Impero russo da un lato e un'alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna dall'altro) sforzandosi di far emergere il carattere popolare della lotta contro Napoleone. Inizialmente fu aspramente criticato in patria, soprattutto dagli stessi veterani-sopravvissuti della Guerra d’Oriente, i quali condanneranno il romanzo
La grandezza di Tolstoj è descrivere “l’uomo nel tempo” da qui la sua definizione “ogni uomo - di ieri, di oggi, di domani - valga un altro uomo”.
Siamo di fronte ad un romanzo che descrive una trama e dei personaggi, ma solitamente nei romanzi di Lev Tolstoj avviene un evento nuovo che ha del miracoloso: all’interno di queste storie che egli non inventa, poiché riscrive eventi della tradizione russa zarista, lo scrittore compie una operazione straordinaria sui personaggi, i quali vengono trasformati in archetipi e le storie in racconti universali. Dunque lo scrittore russo riesce ad organizzare tutta una serie di trame e personaggi all’interno del suo romanzo, che sono correlati con elementi fondamentali della psiche dell’animo umano.
Così quando narra dei tre protagonisti principali del romanzo, ovvero Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij noi non siamo solo di fronte a dei personaggi, ma a figure fondamentali che rappresentano l’uomo in quanto tale.
Il conte Pierre Bezuchov è un individuo che potremmo definire forse il più “umano” di tutti. Pierre incarna totalmente l’uomo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, il suo essere determinato per alcuni frangenti e il suo essere incerto per altri – spesso nel romanzo si coprirà, agli occhi del lettore, di ridicolo – ma rimane il vero vincitore morale del libro. Pierre, insegue “lo scopo della vita” o “la verità assoluta” perdendosi per quasi tutto il romanzo (sempre a fin di bene) in una vita sopra le righe con compagnie “poco raccomandabili” e successivamente, dopo un matrimonio forzato, cercherà questa certezza nella massoneria russa, senza però trovare mai il senso di appagamento spirituale. Dopo essere stato preso prigioniero dei francesi nella conquista di Mosca, patirà le pene della prigionia e in questo periodo durissimo in cui sfiorò la morte, avviene in lui quel cambiamento intimo che aveva sempre ricercato inutilmente per tutta la sua esistenza.
Questo scopo della vita tanto cercato non esisteva più per lui, (…) E questa assenza di scopo gli dava quella piena, lieta coscienza di libertà che in quel momento formava la sua felicità. Egli non poteva avere uno scopo perché ora aveva la fede, - non la fede in certe regole, parole o pensieri, ma la fede in un Dio vivo, di cui si ha la sensazione continua. Prima egli Lo cercava negli scopi che si proponeva. (…) In prigionia aveva appreso che Dio era più grande, infinito e incomprensibile in Karatàjev che nell’Architetto dell’Universo riconosciuto dai massoni. Provava il sentimento dell’uomo che ha trovato sotto i piedi ciò che cercava, mentre aguzzava la vista per scoprirlo lontano da sé”.
Dunque Pierre si lascia andare allo spirito destinale di un essere che ci permea, ci nutre, ci crea e ci consuma. Non si può comprendere o definire un elemento che ci include, sarebbe impossibile. Bezuchov avendo vissuto le asprezze del conflitto, afferra il concetto e inizia finalmente a vivere in armonia con l’essere. Riprendendo un pensiero heideggeriano sull’essere, possiamo porci la domanda: che cosa è l’essere? “si manifesta attraverso l’ente, ma non è l’ente perché l’essere è niente”. Dunque l’essere (per semplificare Dio) è l’Uni-cum attraverso il quale noi uomini siamo gettati nell’esistenza e attraverso cui tutto ci sfugge. Questo, Pierre lo avverte fin dal primo attimo e dunque è alla costante ricerca materiale di un elemento, invece, spirituale che si deve scoprire solo alla ricerca della chiarezza interiore e non della certezza esteriore. Proprio qui è situata la grande operazione di Lev Tolstoj. Portare il romanzo russo ad un livello di racconto magistrale per contenuti e espressività, tanto da coprire tutte le gamme della possibile espressività umana e nello stesso tempo, creare un romanzo universale che ci riguarda tutti come uomini.
Si prenda la paura della morte: anche questa mirabilmente descritta. Una situazione che non arreca invidia al miglior Franz Kafka.
In sogno si vide disteso nella medesima camera dove realmente giaceva, ma non ferito, bensí sano. Molte persone insignificanti, indifferenti apparivano davanti al principe Andréj. Egli parlava con loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano ad andare in qualche posto. (...) Dopo poco, inavvertitamente, tutte queste persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a una sola quistione: come chiudere la porta. Si alzava e andava verso la porta per spingere il chiavistello e chiuderla. Dal riuscire o non riuscire a chiuder la porta dipendeva tutto. Egli andava, si affrettava, ma le sue gambe non si muovevano, ed egli sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere la porta, ma pure tendeva disperatamente tutte le sue forze. E una tormentosa paura lo assaliva. E questa paura era la paura della morte: dietro alla porta stava quella cosa. Mentre egli si trascinava impotente, malsicuro verso la porta, questa cosa tremenda stava già dall'altra parte e premeva e spingeva. Qualcosa di non umano - la morte - spingeva la porta, e bisognava trattenerla. Egli si aggrappava alla porta, tendeva le ultime forze: chiuderla ormai era impossibile - almeno avesse potuto trattenerla! Ma le sue forze erano deboli, impacciate, e, spinta da quella cosa orribile, la porta si apriva e di nuovo si richiudeva. Ancora una volta quella cosa spingeva fuori. Gli ultimi sovrumani sforzi erano vani, e i due battenti si aprivano senza rumore. Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrèj morí".
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Girata in Russia, Lettonia e Lituania (anche nei luoghi originari del libro), la serie kolossal BBC si è composta di 8 episodi da 60′ ciascuno, diretti da Tom Harper e sceneggiati da Andrew Davies. Stellare il cast, composto da Paul Dano, Lily James e James Norton nei ruoli dei protagonisti (rispettivamente Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij).[/caption]

Ma come accade tutto ciò? Solitamente nei racconti di Tolstoj noi abbiamo una vicenda esterna, difatti in Guerra e pace siamo al centro delle guerre napoleoniche. Allora lo scrittore con impareggiabile maestria pone l’obiettivo all’interno degli stati d’animo dei tre protagonisti principali che attraverso le loro storie mirabilmente intrecciate danno la vera chiave di lettura agli eventi. Il grande scrittore russo apre “queste polveriere” che tengono fermo l’animo umano e ci proietta dentro noi stessi, dove esistono delle forze inimmaginabili che se vengono scatenate, fuoriescono e possono far arrivare l’uomo al suo limite estremo. Così noi ci accorgiamo di essere nella stessa posizione di gioia o tristezza dei protagonisti. Siamo di fronte a quella che potrebbe essere denominata come una storia esteriore, una storia politica: Napoleone invade la Madre Russia zarista e punta dritto su Mosca. Per raccontare questa storia che avviene nel 1812, quasi cinquanta anni prima dello scritto, lo scrittore ha bisogno di elementi psichici affinché la storia sia fondamentalmente politica perché Tolstoj vuole narrarci come e perché Bonaparte e il suo esercito imbattibile si sia sciolto nella conquista dello spazio sterminato che è la Russia. Questa riflessione epocale è correlata alla apocalisse che consegue il sanguinoso pareggio della battaglia campale di Borodino che suona forte come una sconfitta, dalla quale la Grande Armée napoleonica non si riprenderà più: dopo le sue splendide vittorie ottenute sia contro gli austriaci, che contro i prussiani e inizialmente contro i russi, l'esercito francese si spezza nello spirito. Osservando il lato storico, della vicenda narrata, si evince il senso patriottico di Tolstoj. Solamente a tratti lo scrittore russo si sofferma, generalmente all’inizio di ogni libro, sulla situazione militare e politica vista dagli occhi di un freddo storico. Nel romanzo appare spesso la figura di Napoleone Bonaparte e quella di Michail Illarionovič Kutuzov. Siamo di fronte all’eroe europeo e all’anti-eroe: Tolstoj cercherà infine di rovesciare anche questo luogo comune. Il primo è descritto come un tiranno, un egocentrico e una persona egoista e fortunata; il secondo viene descritto per tutto il romanzo come una persona poco stimata dai russi, molto schiva, ma con un animo nobile che antepone sempre gli interessi della nazione ai suoi. Nel finale l’autore (dopo la disfatta napoleonica) si prende la sua rivincita su tutto e tutti esplicitando la descrizione di Kutuzov e smentendo la concezione di Eroe europeo:

Le sue azioni - tutte, senza la minima eccezione - sono dirette ad un medesimo triplice scopo:
1) tendere tutte le forza per combattere i francesi;
2) vincerli;
3) scacciarli dalla Russia, alleviando, per quanto era possibile, le sofferenze del popolo e dell'esercito.
Lui, quel lento Kutúzov, il cui motto è "pazienza e tempo", il nemico delle azioni decisive, (…) Solo, durante tutto il tempo della ritirata si ostina a non dar battaglie ormai inutili, a non cominciare una nuova guerra, a non varcare le frontiere della Russia. (...) La fonte di questa straordinaria capacità di penetrare il significato degli avvenimenti consisteva in quello spirito nazionale che egli portava in sé in tutta la sua purezza e la sua forza. Soltanto perchè aveva riconosciuto in lui questo spirito, il popolo fu costretto, per vie cosí strane, contro la volontà dello Zar, a scegliere questo vecchio in disgrazia come rappresentante della guerra nazionale. E soltanto questo spirito lo pose a quella superiore altezza umana dalla quale egli, essendo comandante in capo, diresse tutta la sua forza non a uccidere e annientare degli uomini, ma a salvarli e a risparmiarli.
Questa figura semplice, modesta e perciò veramente grande non poteva esser plasmata nella forma menzognera dell'eroe europeo, preteso guidatore di uomini, che la storia ha inventato. Non può esistere grand'uomo per il suo cameriere, perché il cameriere ha un suo particolare concetto della grandezza".
[caption id="attachment_6299" align="aligncenter" width="1000"] Aleksey Danilovich Kivshenko. Il consiglio militare in Fili nel 1812. Dipinto del 1882, Olio su tela, 64 x 117 cm[/caption]
Sempre emozionante sono i brevi tratti del romanzo, dove si descrive il generale còrso, ma per Napoleone la situazione è capovolta: non assistiamo alla sua situazione politica, ma alla sua crisi interiore. E’ una crisi che più tardi la psicanalisi avrebbe chiamato narcisistica, vale a dire la perdita da parte del soggetto del controllo sulla realtà: dall’illusione che il mondo dipenda dal nostro principio di piacere alla consapevolezza terribile che il mondo risponde al principio di realtà. La realtà è sempre più dura, rispetto a quella che noi ci siamo costruiti e questa ha sempre a che fare con qualcosa di diverso, rispetto a quella che è il nostro semplice volere. Ed ecco, allora, la grandezza di questo romanzo che unisce la politica con la psicologia e il sentimentalismo, rendendolo eterno per la sua multidisciplinarietà.
Riporto uno stralcio del libro terzo, capitolo XXXVIII – volume secondo dell’Edizione Einaudi, la migliore delle traduzioni, di Leone Ginzburg che riguarda la figura di Bonaparte:
E non soltanto in quell'ora e in quel giorno furono ottenebrate la mente e la coscienza di quell'uomo, che più duramente di ogni altro, che avesse partecipato a quell'azione, portava il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei propri atti, troppo contrari al bene e al vero, troppo lontani da ogni sentimento umano perché egli ne potesse intendere il significato. Egli non poteva sconfessare i suoi atti, esaltati da mezzo mondo, e perciò doveva rinunziare al vero, al bene e a tutto quello che è umano”.
[caption id="attachment_6306" align="aligncenter" width="1000"]History enthusiasts take part in a re-enactment of the Battle of Austerlitz to mark its 207th anniversary near the city of Brno, Czech Republic, Saturday, Dec. 1, 2012. The Battle of Austerlitz is widely considered to be Napoleon's greatest victory, as he destroyed the troops of the Third Coalition made up of Russian and Austrian forces, giving France a glorious victory and prompting other changes in the European diplomatic area. (AP Photo/Petr David Josek) Paul Delaroche. Ritratto di Napoleone a Fontainebleau nel 1814 (particolare), olio su tela.[/caption]
Per riavvicinarmi alla frase iniziale dello stesso Tolstoj dobbiamo riprendere il vero conoscitore del romanzo, quel Leone Ginzburg che differenziava i personaggi storici dai personaggi umani, infatti quest’ultimi amano, soffrono, sbagliano, si ricredono – in una sola parola vivono. Nel momento che questi tentano di divenire “storici” e cercano di dominare non più la loro vita, ma quella della nazione o di altri uomini, magari legandosi a qualche massoneria o credendosi ormai all’apice della carriera militare, falliscono sempre. I personaggi storici come lo Zar Alessandro I o Napoleone Bonaparte, invece, sono condannati a recitare una parte che non è raccontata da loro stessi, anche se tutti tentano di viverla.
Dunque i racconti delle grandi battaglie come quella di Austerlitz o di Borodino appartengono al mondo che egli definisce “storico” mentre al mondo della “pace” con le sue frivolezze e i suoi stati di gioia e di ansia appartiene al mondo della vita, al mondo umano: poiché tutto il mondo degli uomini si riduce ad un unicum creato da Dio stesso e solo quando l’uomo si lascia andare e vive veramente, come l’esserci del possibile, allora nei romanzi di Tolstoj - proprio l’uomo acquisisce valore e senso in questo mondo troppo grande.
In conclusione il personaggio incontrato da Pierre, durante la sua prigionia, più di tutti incarna il pensiero collante di tutto il romanzo: la ricerca di Dio e dell’Uni-cum, poiché questo contadino strappato alla terra e dato alle armi non è altro che la rappresentazione di Dio. Dal capitolo XIII, libro quarto, volume secondo dell’Edizioni Einaudi:
"Platòn Karatájev rimase per sempre nell'animo di Pierre come il ricordo più forte e più caro e come la personificazione di quanto c'è di russo, di buono e di rotondo. (…) Platòn Karatájev doveva avere oltre cinquant'anni, a giudicare dai suoi racconti delle campagne alle quali aveva partecipato da soldato, molto tempo prima. Egli stesso non sapeva e nessuno avrebbe potuto precisare quanti anni avesse. (…) Il suo viso, malgrado le piccole rughe rotonde, aveva un'espressione d'innocenza e di giovinezza; la voce era simpatica e melodiosa. Ma la principale particolarità dei suoi discorsi erano la franchezza e la praticità. Le sue forze fisiche e la sua prontezza erano tali che, nei primi tempi della sua prigionia, pareva che non capisse che cosa fosse stanchezza o malattia. (...) Egli sapeva far tutto, non molto bene, ma neppure male. Cucinava, faceva il pane, cuciva, faceva il falegname, faceva il calzolaio. Era sempre occupato e solo di notte si permetteva di chiacchierare, cosa che gli piaceva molto, e di cantare. (...) Fatto prigioniero ed essendogli cresciuta la barba, si vedeva che aveva rigettato a sé ogni elemento estraneo, soldatesco, acquisito, e involontariamente era tornato al suo antico carattere campagnuolo, popolare. (...) Gli piaceva ascoltare le fiabe che un soldato raccontava la sera (sempre le stesse), ma più di tutto gli piaceva ascoltare racconti della vita vera. (...) Karatájev non aveva nessun' affezione, nessun' amicizia, nessun amore, secondo il modo che aveva Pierre d'intendere questi sentimenti; ma amava tutti e viveva in rapporti affettuosi con tutto ciò a cui la vita lo avvicinava, e specialmente con l'uomo: non con un dato uomo, ma con tutti gli uomini che erano davanti ai suoi occhi. Amava il suo botolo, amava i compagni, amava i francesi, amava Pierre che era suo vicino; ma Pierre sentiva che Karatájev malgrado tutta la sua affettuosa tenerezza per lui (con la quale involontariamente rendeva omaggio alla vita spirituale di Pierre), non si sarebbe afflitto neppur un momento se avessero dovuto separarsi. E Pierre cominciava a provare lo stesso sentimento per Karatájev. (...) Ma la sua vita, com'egli stesso la riguardava, non aveva senso in quanto vita isolata. Aveva un senso soltanto come particella di un tutto, che egli sentiva di continuo. Le sue parole e i suoi atti sgorgavano da lui con la stessa regolarità, necessitá e immediatezza con cui il profumo emana dal fiore. Egli non poteva capire né il valore né il senso di un azione o di una parola prese isolatamente".
 
Per approfondimenti:
_Guerra e Pace, Edizioni Einaudi 2014
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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18 aprile 2017 – Libreria Rinascita – Piazza Roma n°7, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Alessandro Poli
Interviene: Andrea Fioravanti
 

Riportiamo il quarto evento della stagione culturale 2017 della associazione Das Andere “Futuro-Passato. Oltre il già detto”. Ospite dell’incontro – introdotto dal dott. Alessandro Poli – è stato il Dott.Andrea Fioravanti che ha dissertato su: “La città del male. L’architettura nella cinematografia". L’evento si è svolto presso la libreria Rinascita, dove il critico cinematografico ha tracciato un’analisi sulla città degli anni quaranta, la quale è radicalmente diversa da quella precedentemente rappresentata: se prima era un luogo fisico da conquistare, pezzo di territorio prestigioso per affermare la propria potenza criminale, durante i quaranta, essa acquista sempre più autonomia, rendendosi entità a sé stante capace di spaesare e dominare l’individuo assoggettandolo ai suoi meccanismi.  Il dott.Poli e il dott.Fioravanti hanno toccato anche il binomio “città e follia”: due tematiche che spesso si incontrano nel genere noir perché la prima inevitabilmente genera la seconda ma, con uno sguardo doppio incentrato sulla produzione cinematografica degli anni quaranta e cinquanta.Il trait d’union che lega il cinema noir e l’architettura, se non in senso stretto l’urbanistica, è la vocazione e base socio-spaziale del genere e della disciplina. L’incontro negato, la mancata realizzazione del naturale bisogno di comunione, ambizione duratura dell’architettura, relegano l’uomo all’universo delle paure e delle aspirazioni inibite, quelle espresse dal noir. Un ringraziamento speciale va – come di consueto – al pubblico, sempre numerosissimo, al quale va il nostro ringraziamento. L’associazione ringrazia l’Ordine degli Architetti di Ascoli Piceno, la Fondazione Carisap e l’università dell’UNICAM per la concessione dei crediti formativi.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1495211222830{padding-bottom: 15px !important;}"]Eichmann: il processo del secolo e la banalità del male[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi 20/05/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1495457592408{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad un dilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delle Schutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processo tedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica della divisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilità connessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpa collettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finito per spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondo problema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare o mostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.
[caption id="attachment_8755" align="aligncenter" width="1000"] Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.[/caption]
Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali, inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco Otto Adolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovvero l'apparato competente sugli affari ebraici, dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione - voluta da Himmler - del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segreta o Gestapo.
Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l'ufficio ricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regime nazionalsocialista: aveva coordinato - a livello europeo - l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagli agenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista americana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).
In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano, possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della fine dell'anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.
La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione dell'autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei "mostri", egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vita regolare e monotona - nell'eseguire ordini -  i suoi atti erano terribili. In questa "mostruosa normalità" della burocrazia, capace di commettere la più grande atrocità che l'umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". La "normalità" espressione di atteggiamenti comuni ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova il suo elemento all'interno del comportamento del cittadino comune, il quale non riflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Il nazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparire incredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessun pentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali della quotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.
Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali rappresentano il nucleo tematico dell'opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male".
La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa si domanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di "operare il male".  Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male.
La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente": assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: " mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male".
Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo, era dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia". Nasceva un "hostis generis humani", tradotto dal latino nemico del genere umano.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa - secondo la Arendt - gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. La filosofa si interroga sul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopo aver commesso certe azioni.
[caption id="attachment_8760" align="aligncenter" width="1000"] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense.[/caption]
La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, ma semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l'io e l'io, che da Socrate è stato chiamato "pensare".
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali consiste nel fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.
La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degli avvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che "banalità" significa "senza radici", non radicato nei "motivi cattivi" o "impulso" o forza di "tentazione".
La Arendt asserisce inoltre: "la mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale."
Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne considerata una seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi alla convocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzo del c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzati per la prima volta nel 1945, ndr).
Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio di retroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus da considerare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.
Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questione squisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario, che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fu accolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quel processo sembrava essere destinato ad assumere.
Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediante l’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco alla fattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare: facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso in omicidio - capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile da provare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.
Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmann all’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann e ucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo. Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise di procedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridico rivoluzionario.
Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimini nazisti della questione ebraica, infine sfociata nella "soluzione finale" rischiasse di avere una pena lieve, per i crimini contro l'umanità commessi.
Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunale ordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza del processo di Norimberga.
Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali, coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La legge sulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.
La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiara interpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice di Norimberga.
Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì una potente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forte inasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea a condannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico di responsabilità.
Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propria inappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteria maniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazione degli ebrei.
[caption id="attachment_8757" align="aligncenter" width="1000"] Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento. Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israele per genocidio e crimini contro l'umanità.[/caption]
Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propria scusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume di speranza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del diritto internazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazione illegale condotta da Mossad.
Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzato nella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimento all’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo di Gerusalemme.
Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamente brevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questione giuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente con voci assonanti sul piano dottrinale.
Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexatae questiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività della legge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposero negativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva lo Stato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista venne alfine condannato.
Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portata sarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della legge penale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteri l’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si è consumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.
 
Per approfondimenti:
_Hannah Arendt, La banalità del male - Edizioni Feltrinelli
_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann - Edizioni Einaudi
 
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