[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1500540345093{padding-bottom: 15px !important;}"]Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron: programmi e criticità[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 20/07/ 2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1500542318947{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Che l'aria era mutata nel paese di lingua francese, gli addetti ai lavori lo avevano compreso nei primi attimi della brillante vittoria di Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron all’Eliseo. Il leader di "En Marche" (in marcia) - definito dallo stesso Macron “né di destra né di sinistra” -, è stato eletto presidente della Repubblica in Francia domenica 7 maggio del 2017.  Ma chi è Macron? Coinvolto proprio nel mese di luglio nelle "poco eleganti" dimissioni del generale Pierre Le Jolis de Villiers Saintignon? 
Il nuovo politico transalpino si diploma all’Institut d’études politiques (Iep), presso l’Ecole nationale d’administration (l'ente che rappresenta l'inizio della formazione politica in Francia). Dopo la laurea in filosofia, conseguita nel 2004, la sua carriera inizia nell’amministrazione statale come vice-ispettore alle Finanze e nel 2008 entra a far parte della Commissione Jacques Attali, una sorta di think tank voluto dall’allora presidente di destra Nicolas Sarkozy, con l’obiettivo di individuare strategie utili a rilanciare la crescita economica del paese. Una volta esaurito l’incarico, Emmanuel Macron cambia strada e accetta un posto nell’alta finanza. Entra così in Banque Rothschild, della quale diventa in breve un alto dirigente, concludendo nel 2012, un accordo da nove miliardi di euro tra la Nestlé e il gruppo Pfizer, rimasto negli annali della banca d’affari: come ricorda il quotidiano Le Monde, “il soprannome di ‘banchiere di Rothschild’ non lo abbandonerà più”.
Anche per via degli stipendi galattici intascati nel corso dell’esperienza nella finanza: 2,4 milioni in soli 18 mesi, secondo le informazioni riferite dalla tv Bfm.
[caption id="attachment_9130" align="aligncenter" width="1000"] Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron (Amiens, 21 dicembre 1977) è un funzionario e politico francese che ha ricoperto la carica di ministro dell'economia, dell'industria e del digitale dal 2014 al 2016, nel secondo governo Valls. Il 7 maggio 2017 viene eletto Presidente della Repubblica francese, ruolo che ha assunto il successivo 14 maggio, subentrando a François Hollande.[/caption]
Per chi ha poca dimestichezza con il sistema politico francese, questo possiede una repubblica semi-presidenziale. La Costituzione della "Quinta repubblica" dichiara come il paese sia "una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale". La Costituzione prevede la separazione dei poteri e proclama il legame della Francia ai diritti dell'uomo e ai principi di sovranità nazionale come definiti dalla Dichiarazione del 1789.
L'installazione di Macron, avviene in un contesto dove le istituzioni francesi seguono il principio classico della separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Il presidente è in parte responsabile della gestione del potere esecutivo, ma dirigere l'attività di governo il primo ministro. Sebbene quest'ultimo sia di nomina presidenziale, deve ricevere la fiducia dall'Assemblea nazionale, ossia la camera bassa del Parlamento. Il primo ministro è quindi espresso dalla maggioranza all'Assemblea nazionale, che non necessariamente appartiene al medesimo schieramento politico del presidente. In Francia il Parlamento è composto dall'Assemblea nazionale e dal Senato: il primo approva le leggi e il bilancio dello Stato, controllando l'operato del potere esecutivo attraverso interrogazioni e costituendo commissioni d'inchiesta (il controllo sulla costituzionalità delle leggi è devoluto al Consiglio costituzionale, i cui membri sono nominati dal presidente della Repubblica e da quelli di Assemblea nazionale e Senato). Fanno parte del Conseil anche gli ex presidenti della Repubblica. Il potere giudiziario si divide tra la giurisdizione ordinaria (che cura i casi civili e penali) e quella amministrativa (che giudica i ricorsi contro i provvedimenti amministrativi). L'ultima istanza della giurisdizione ordinaria è la Corte di cassazione, mentre la suprema corte amministrativa è il Consiglio di Stato. Esistono diverse agenzie indipendenti, come organismi che svolgono attività di controllo contro gli abusi di potere. La Francia è uno Stato unitario, ma gli enti locali (régions, départements e communes) hanno diverse attribuzioni, il cui esercizio è tutelato dalle ingerenze del governo centrale.
Questa brevissima descrizione dell'apparato statale è fondamentale per capire le funzioni di Emmanuel Macron all'Eliseo e le promesse effettuate in campagna elettorale. Se si pone la lente d'ingrandimento sulla sanità e istruzione il leader di "En Marche!", ha in mente il rimborso al 100% delle spese per occhiali, apparecchi dentali e auditivi da qui al 2022. Un piano da 5 miliardi che prevede anche il raddoppiamento delle case di cura sul territorio, per sopperire al fenomeno dei “deserti medici”. Per quel che riguarda l’istruzione, Macron vuole riformare la scuola investendo di più sulle periferie e pagando meglio gli insegnanti. Promette la creazione da 4.000 a 5.000 cattedre e di ristabilire le classi bi-lingue. Per la cultura invece propone un assegno da 500 euro per gli under 18, finanziati dallo Stato e dalle grandi multinazionali.
Sul tema dell'etica - molto caro ai francesi - il trentanovenne presidente della Repubblica crede che non esista un unico modello che rappresenti la famiglia “reale”. In campagna elettorale asserisce: «Le famiglie sono sempre più diverse: è necessario riconoscere e permettere a tutti di vivere le responsabilità dei genitori». Per questo spiega che difenderà il matrimonio per tutti, che si batterà contro l’omofobia quotidiana, in particolare nei luoghi di lavoro, moltiplicando le operazioni di controllo a campione (“test”) e individuando le società offensive in tal senso (“name and shame”). Macron promette di garantire la partecipazione della Francia ad un’iniziativa internazionale per la lotta contro il traffico e la mercificazione delle donne coinvolte dal fenomeno della surrogazione di maternità nel mondo. Il leader centrista vuole, inoltre, concedere il riconoscimento giuridico ai figli nati da maternità surrogata all’estero.
Macron nel 2007, è sposato con Brigitte Trogneux, (nata ad Amiens il 13 aprile 1953 e sua ex-insegnante di lettere e latino al liceo di Amiens) con cui aveva intrecciato una relazione a sedici anni. Brigitte è diventata sua moglie dopo aver divorziato dal precedente marito (2006), il banchiere André Louis Auzière, dal quale aveva avuto tre figli, ed è nonna di sette nipoti. Dunque l'ex banchiere Macron ha dato nel suo programma politico molto rilievo all'essere femminile.
Per il leader francese si tratta di una lotta culturale e interessa tutti i settori della vita. L’ex ministro del governo Valls, si pone come primo obiettivo quello di aiutare le donne a conciliare vita familiare e vita professionale attraverso, ad esempio, la creazione di un unico congedo di maternità garantita per tutte le donne indipendentemente dal loro status. Il candidato di "En Marche!" rivendica il diritto per le donne di poter vivere del loro lavoro e propone di accelerare la parità professionale e salariale nelle grandi aziende.
Altro tema scottante è quello dell'immigrazione, correlata al terrorismo in Francia: Macron ha promesso di occuparsi delle richieste di asilo nei primi sei mesi della sua presidenza e crede che la Francia debba essere un luogo dove i rifugiati sono i benvenuti. È contrario a chiudere i confini, ma afferma che occorre essere più severi con i controlli sull’immigrazione, non approfondendo come intervenire. Il francese ha elogiato il ruolo della cancelliera tedesca Angela Merkel nella crisi dei migranti e crede che la Francia dovrebbe fare di più. Vuole lavorare a stretto contatto con l’Europa per risolvere il problema e non vuole affatto rifuggire simili discussioni
«In tema di sicurezza, efficienza deve essere la parola d’ordine (...) dobbiamo disporre di leggi e servizi di intelligence che conducano una lotta efficace contro il terrorismo (...) dobbiamo anche essere efficaci contro la criminalità in tutte le sue forme. Il crimine affligge la vita quotidiana di coloro che lo subiscono. Solo un modello di polizia rinnovata, presente sul campo e ovunque sul territorio, ridurrà il crimine e migliorerà i rapporti con i cittadini», ha affermato in una recente intervista. 
 
Macron ha dichiarato come l’ecologismo sia una dei tre perni su cui poggia il suo movimento, assieme alla cultura social-democratica e quella liberale. L’ambizione del giovane candidato è rendere la Francia un leader mondiale nella ricerca in materia di transizione ecologica: intende quindi rispettare i trattati di Parigi, eliminando le centrali a carbone entro cinque anni e impedendo lo sfruttamento di nuove fonti energetiche da idrocarburi. Di contro prevede di raddoppiare la potenza ricavata da fonti rinnovabili in un quinquennio, anche grazie al piano di investimento da 50 miliardi di euro. Il candidato francese ha inoltre dichiarato guerra ai pesticidi e vuole promuovere l’acquisto di automobili a basse emissioni, grazie ad un bonus all’acquisto di 1000 euro.
Sicuramente il suo primo scivolone politico è arrivato dal settore militare: la "Grande Muette" ha detto una parola di troppo. L'armata francese è "muta" dal 1848, quando venne introdotto il suffragio universale maschile, con l’eccezione dei militari: fu negata loro l’espressione nelle urne per non sguarnire la difesa della nazione. Nel 1945 il generale De Gaulle attribuì anche ai soldati il diritto di voto, ma il soprannome è rimasto. I militari sono chiamati a obbedire, in silenzio, al potere politico. Il generale Pierre de Villiers, molto stimato dai francesi come capo di Stato Maggiore delle forze armate transalpine, protestava da mesi contro i tagli al budget della Difesa e ha pronunciato una frase di troppo.
Il 19/07/2017 ha presentato le dimissioni, le quali sono state subito accettate. Davanti ai deputati della commissione di Difesa, mercoledì scorso De Villiers ha spiegato che gli 850 milioni di risparmi (secondo altri calcoli un miliardo) non avrebbero permesso alle forze armate di svolgere le crescenti missioni alle quali sono chiamate. “Non mi farò ingannare”, ha apostrofato il Capo di Stato Maggiore francese. L’udienza è avvenuta a porte chiuse, ma lo sfogo del generale è arrivato al Presidente Macron, il quale alla vigilia della parata militare del 14 luglio, ha tenuto al ministero della difesa un discorso durissimo rivolto ai vertici militari: “Non è dignitoso portare certi dibattiti sulla piazza pubblica” ha asserito stizzito il leader di “En Marche!” - e continuando conclude – “Non ho bisogno di alcun commento. Sono il vostro capo”.
Domenica 16 luglio Macron insiste nuovamente: “Se qualcosa oppone il capo di Stato Maggiore al presidente della Repubblica, il capo di Stato Maggiore cambia”. Così a 61 anni Pierre de Villiers – da 43 anni nell’esercito e dal 2014 massima autorità militare del Paese – si è dimesso sostenendo di non essere più in grado di “garantire la protezione della Francia e dei francesi”.
Infatti i militari di uno degli eserciti più importanti del vecchio continente, sono chiamati già da troppo tempo a “fare uno sforzo” cioè a risparmiare, proprio quando sono in prima linea in patria, con l’operazione “Sentinelle” di protezione dal terrorismo, e all’estero con le missioni nel Sahel e in Siria e Iraq. Attualmente le forze armate francesi sono al 130% del loro utilizzo, per riprendere il dimissionario De Villiers che lamentava anche l’equipaggiamento troppo vecchio dei soldati che dovevano “come Démerde” letteralmente “arraggiarsi”. Al suo posto è stato nominato il 54enne François Lecointre, l’eroe di Sarajevo contro i Serbi nel 1995.
[caption id="attachment_9122" align="aligncenter" width="1000"] Pierre Le Jolis de Villiers Saintignon (Boulogne, 26 luglio 1956) è un militare francese, generale capo di Stato Maggiore dell'esercito francese dal 15 febbraio 2014 al 19 luglio 2017.[/caption]
Un evento che certamente stride con i primi propositi del nuovo presidente, il quale in campagna elettorale aveva proposto un aumento del budget dedicato alla Difesa pari al 2% del PIL (che è tra l’altro l’obiettivo NATO), e di riformare lo stato maggiore, rendendolo direttamente dipendente al consiglio di difesa, una sorta di consiglio dei ministri ristretto con la partecipazione del Presidente della Repubblica.
Sul tema della sicurezza, Macron vuole creare 10.000 posti di lavoro in più nella polizia, ripristinando la figura del poliziotto di quartiere “police de sécurité quotidienne” che era stata soppressa da Nicolas Sarkozy. Non è invece prevista una riforma del sistema giudiziario, ma la creazione di 15.000 posti in più per i detenuti nelle carceri di tutto il Paese. Il tema del carcere sembra - data la minaccia terroristica - essere molto rilevante per Macron, che vuole aumentare i posti disponibili nelle carceri francesi: 15.000 in più durante i 5 anni di presidenza, cioè un quarto più degli attuali per poter garantire che almeno l’80% dei detenuti sia in una cella individuale. Inoltre è prevista la creazione di centri penitenziari esclusivi per i foreign fighters. Questa proposta viene fatta, probabilmente, alla luce della capacità dei fondamentalisti di reclutare in carcere, un problema comune nel sistema penitenziario francese che preoccupa abbastanza l’intelligence transalpina. Riguardo proprio la lotta al terrorismo, Macron ritiene indispensabile potenziare i servizi di intelligence: proponendo la creazione di un’unità speciale permanente anti-Isis, comporta da 50-100 agenti, che coinvolga i servizi segreti principali, sotto la supervisione del Presidente della Repubblica. «Creeremo uno staff permanente che pianifichi le operazioni di sicurezza interna e che si combinerà ai servizi e al personale dei Ministeri dell’Interno e della Difesa, e vedrà in alcuni casi la partecipazione dei Ministeri dei Trasporti, Salute e Industria».
Il banchiere prodigio di Banque Rothschild, riuscirà a migliorare il paese? Domanda di difficile risposta: attendiamo gli esiti.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1500039158898{padding-bottom: 15px !important;}"]La portata secolare del dadaismo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giovanni Tartaglia 15/07/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1500040667360{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
"Per comprendere come è nato Dada è necessario immaginarsi, da una parte, lo stato d'animo di un gruppo di giovani in quella prigione che era la Svizzera all'epoca della prima guerra mondiale e, dall'altra, il livello intellettuale dell'arte e della letteratura a quel tempo. Certo la guerra doveva aver fine e dopo noi ne avremmo viste delle altre. Tutto ciò è caduto in quel semi-oblio che l'abitudine chiama storia. Ma verso il 1916-1917, la guerra sembrava che non dovesse più finire. In più, da lontano, sia per me che per i miei amici, essa prendeva delle proporzioni falsate da una prospettiva troppo larga. Di qui il disgusto e la rivolta. Noi eravamo risolutamente contro la guerra, senza perciò cadere nelle facili pieghe del pacifismo utopistico. Noi sapevamo che non si poteva sopprimere la guerra se non estirpandone le radici. L'impazienza di vivere era grande, il disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta moderna, alle sue stesse basi, alla logica, al linguaggio, e la rivolta assumeva dei modi in cui il grottesco e l'assurdo superavano di gran lunga i valori estetici. Non bisogna dimenticare che in letteratura un invadente sentimentalismo mascherava l'umano e che il cattivo gusto con pretese di elevatezza si accampava in tutti i settori dell'arte, caratterizzando la forza della borghesia in tutto ciò che essa aveva di più odioso (...)". 
Partendo dalla definizione di Tristan Tzara, dare un significato al termine Dadaismo e' un compito assai arduo, da non sottovalutare.
[caption id="attachment_9098" align="aligncenter" width="1000"] Fila superiore, da sinistra a destra: Max e Lotte Burchartz, Peter Röhl, Vogel, Lucia e László Moholy-Nagy, Alfred Kemeny; fila in mezzo: Alexa Röhl, El Lissitzky, Nelly e Theo van Doesburg, Sturtzkopf; fila inferiore: Werner Graeff, Nini Smit, Harry Scheibe, Cornelis van Eesteren, Hans Richter, Tristan Tzara, Hans Jean Arp.[/caption]
Parallelo - ma non incidente - al resto delle avanguardie del novecento, il Dada si sviluppò a cavallo delle due guerre, in particolare, come reazione “non-artistica” alle atrocità della Grande Guerra.
Se nello stivale italiano si sviluppava il militarismo e l'ode alla guerra con i Futuristi, e nei Paesi Bassi si facevano spazio le forme geometriche dei padri del De Stijl, nella Svizzera neutrale e non belligerante nasceva (e floridamente si sviluppava) il più emblematico dei movimenti d'avanguardia.
Per decenni, dopo la “fine” del Dada come movimento artistico - anche se tracce dei suoi insegnamenti si riscontrano nel Surrealismo, nelle neoavanguardie e tutte le correnti artistiche conseguenti -basti guardare l'Arte povera e la pop art - molti studiosi e sociologi cercarono di spiegare le origini del nome. C'è chi lo attribuì alla parola russa “da” - enfatizzando la possibilità che il movimento avesse una matrice comunista (e in particolare Leninista); altri lo fecero risalire alla parola francese “cavallo a dondolo”, o all'ancestrale “Da-da” pronunciato dai neonati italiani e tedeschi per matrice linguistica. La verità è che nessuna di queste ipotesi, sebbene non totalmente false, può essere definita completamente vera.
L'analisi etimologica, per quanto spicciola, è necessaria per capire a fondo le radici e il vero senso della rivoluzionaria tendenza culturale e sociale che rappresentò il Dada.
L'incertezza, il non-senso, il rifiuto di razionalità e logica furono i caratteri portanti della cultura dadaista, che si prefigurava - anche semplicemente nel nome, cui origine rimane priva di fonti - come una delle più prolifiche fucine d'avanguardia del suo secolo.
Nato nella Zurigo del 1916, immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, il movimento si sviluppa dal piccolo palcoscenico del “Cabaret Voltaire” (che fa da culla all'intera corrente artistica), attraverso le menti creative di Tristan Tzara e dal regista Hugo Ball, che dirige i primi spettacoli Dadaisti.
[caption id="attachment_9106" align="aligncenter" width="1000"] Il Cabaret accoglie fin da subito la danza, la musica e le letture. Al Cabaret si tengono mostre d’arte russa e francese, danze, letture poetiche, esecuzioni di musiche africane. Spettacoli provocatori e dissacranti che si trasformano in autentici eventi, interventi culturali. Specchiando la situazione generata dalla Prima guerra mondiale, l’arte esibita è caotica e brutale. In almeno un’occasione il pubblico attacca il palco del Cabaret Voltaire. Anche se è il luogo di nascita del movimento dadaista, il Cabaret ha a che fare con ogni settore dell’avanguardia, incluso il futurista Marinetti. Vengono presentati artisti radicalmente sperimentali, molti dei quali finiscono col cambiare l’espressione delle loro discipline artistiche; gli artisti in questione includono Kandinsky, Klee, de Chirico ed Ernst.[/caption]
La forma degli spettacoli non è dissimile da quelli presentati durante le “Serate Futuriste” nella vicinissima Milano – la differenza è che il Dadaismo protesta contro la guerra, e lo fa scardinando la società del tempo, negando ogni sviluppo, e servendosi dell'arma a doppio taglio dell'irrazionalità. I primi spettacoli Dada erano il delirio dell'arte scenica, cui partecipazione con il pubblico si poneva come punto cardine: questo era coinvolto nell'opera, chiamato a partecipare allo spettacolo d'arte messo in scena e l'ospite era invitato a cantare canzonette assurde, ironiche, su un sottofondo “rumoroso” di metallo e plastica che formavano i vestiti di scena dei 'non artisti' Dada.
Ancora Tristan Tzara: “Per fare un poema dadaista. Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada".
Per la prima volta, la danza entrava di diritto tra i cardini di un'avanguardia, basti pensare agli spettacoli di danza moderna astratta di Sophie Taeuber-Arp, che portava in scena le sue ballerine senza coreografia, indossando maschere prive di volti.
Il Dada fu tra i primi sperimentatori del 'ready-made' - in realtà sperimentato in primo luogo da Duchamp, poi adottato nelle tendenze Dadaiste - che faceva di un oggetto qualsiasi (quale, ad esempio, la ruota di una bicicletta) un opera d'arte, non dissimile dai quadri dei grandi artisti; da qui, l'idea che “se tutto è arte, nulla lo è”.
[caption id="attachment_9105" align="aligncenter" width="1000"] L’universo Dada all’interno del Cabaret Voltaire era, prima di tutto, una costellazione di giovani rifugiati, artisti, intellettuali, obiettori di coscienza che provenivano da differenti Paesi. Solo pochissimi di loro potevano dirsi propriamente svizzeri. Il movimento Dada si è rivelato, anche per gli stessi dadaisti, come imprevedibile, inaspettato. Ma la Svizzera e specialmente Zurigo erano, prima che scoppiasse il conflitto, terreno fertile per far crescere tutti i tipi di alternative, dettate da idee moderne e rivoluzionarie, così come rappresentate da Monte Verità ad Ascona.[/caption]
Il ready-made fu probabilmente la “scoperta” più rivoluzionaria della cultura Dada, il picco massimo del loro anarchismo.
Nonostante l'aspra critica alla cultura, alla società e, in particolare, all'arte del suo tempo - senza risparmiare Cubisti e Futuristi, che erano “disprezzati” dai Dadaisti perché considerati troppo 'istituzionali' - dopo una primissima “fase” caratterizzata da pura sperimentazione artistica, il Dadaismo si omologò lentamente al resto delle Avanguardie, sviluppando un proprio “Manifesto” e accettando nei suoi circoli o “Galerie Dada” le opere futuriste e cubiste, perdendo il suo spirito rivoluzionario per rifugiarsi in una sorta di nichilismo artistico, di rifiuto totale verso le altre forme d'arte, che non fossero completamente, indiscutibilmente, libere.
Proprio seguendo questo principio nel 1918, il Manifesto del movimento portò uno dei suoi fondatori, Tristan Tzara, a definire il Dadaismo come «Dada non significa nulla»
I vari circoli Dada, come quello di Berlino - ormai completamente politicizzato ed asservito alla Rivoluzione Spartachista - o al prolifico Dadaismo d'oltreoceano (era l'epoca di Man Ray e di Ballet mécanique, agli albori del Surrealismo) diventarono autonomi e si consolidarono in altre correnti o sparirono del tutto.
Il Dadaismo, quindi, è stato a tutti gli effetti un “fuoco di paglia”. Nonostante l'abnorme impatto mediatico, e la sua fondamentale impronta nella storia dell'arte contemporanea, il Dada fu un periodo di passaggio che quasi spinge molti storici dell'arte ad esitare nel definirlo “movimento artistico” - esso fu, coerentemente alla sua primissima impronta concettuale, una “sperimentazione continua” che finì per ritrovarsi isolato dalle canoniche forme d'arte, quali pittura, scultura, danza, proprio per il suo disprezzo verso le stesse.
 
Per approfondimenti:
_Valerio Magrelli, "Profilo del dada" - Edizioni Laterza;
_Luigi Di Corato, Elena Di Raddo, Francesco Tedeschi, "Dada 1916. La nascita dell'antiarte" - Silvana Editoriale
_Tristan Tzara, "Con totale abnegazione" - Editore: Castelvecchi
 
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Simili a novelli Amleto, oggi i giovani non provano più “meraviglia” di fronte allo spettacolo di questo mondo, ma disgusto, pessimismo, rassegnazione, perfino cinismo. Del resto, come biasimarli? Chi, di fronte a questo mondo out of joint, disgiunto e disgregato, non è a volte sopraffatto da un disincantato pessimismo? Tutti gli orizzonti di senso sono caduti, il mondo si è fatto piatto e soffocante. In cosa ancora credere? In cosa ancora sperare?
Sulla soglia di questo abisso, che coincide con la più radicale spoliazione di senso in cui l‘umanità si sia imbattuta, ciascuno di noi è spinto a pensare, poiché “pensare” è davvero “oltre-passare”. È solo questa consapevolezza che può venire in soccorso ai giovani: “per quanto corrotto sia il mondo, tu sei venuto al mondo per ricomporlo”. La ricomposizione del mondo, il rinvenimento di un senso che non sia il cimitero di pseudo-valori in continuo mutamento creati e distrutti dalla comunicazione pubblicitaria, è infatti ciò a cui anela il nostro tempo, l‘utopia del nostro saeculum obscurum.
Eppure utopia non è una parola nuova: utopia è la parola con cui si schiude l'età della modernità, che nel suo complesso è tutta una grande utopia. In questo senso "utopia" non è qualcosa di "altro" rispetto al nostro presente, ma è quel "non-luogo" che è il nostro presente. Ou-topia non indicherebbe allora la terra promessa verso cui siamo in cammino, ma la condizione stessa in cui versa l'uomo contemporaneo, il quale da tempo ha preso stabile dimora sull'isola di Utopia. Per certi versi noi siamo infatti cittadini di quella nuova Atlantide descritta all'alba della modernità da Sir Bacon. Qual è infatti la legge, il nómos di "Utopia", di cui siamo cittadini? Un nómos, perfetta immagine del logos.
Noi viviamo in un'epoca tutta informata dal trionfo di un potentissimo impianto tecnico/scientifico. Il logos - concepito come vera natura dell'uomo - è ciò da cui precede l'ordine di Utopia, un ordinamento politico perfettamente concorde con il logos, garante dello "augmentum scientiarum" (la costante crescita del sapere scientifico) in quanto utile all'uomo. Utopia infatti è "il luogo del benessere", il luogo della creazione di duraturi stati di benessere. L'isola in cui "la magia" del sapere tecnico-scientifico può la salvezza dell'uomo, la sua eudemonia (la felicità come fine ultimo dell’agire umano).
Ma il sapere, per "potere" - per produrre il crescente stare bene - deve operare una fusione con il potere politico. Allora Utopia - o la migliore forma di repubblica - nasce nel momento in cui sapere e potere si fondono e cioè l'istanza di progresso si radica fino al cuore del potere politico, diventando la "causa" dello stesso potere politico. È qui che nasce l'idea di una sovranità che si legittima, in virtù della crescita del sapere (e del benessere) che il suo ordinamento rende possibile.
Lo Stato cessa di essere l’immagine di una societas peregrina, di una umanità in cammino verso la propria essenza, per diventare lo stabile presupposto dell’incessante procedere verso nessun-luogo (u-topia) del progresso tecnico-scientifico. Come si sviluppa dunque questo “abbraccio” di sapere e potere? Con la subordinazione del politico al progresso tecnico, da cui direttamente dipende l’aumento indefinito del benessere, che è l’anima spirituale della modernità.
La ricerca dell’utile non è propria del capitalismo, ma di tutta un’epoca: “ipsissima res sunt veritas et utilitas” (assolutamente proprie della cosa sono, la verità e l’utilità), - solo per citare Francis Bacon.
Il moderno politico, non conosce altra causa che non sia la tutela del progetto tecnico-scientifico e quindi cura il suo stesso e implicito fine: l’utile. Qui si scatenano le potenze del moderno: nell’istante in cui il telos, il fine dello Stato, diventa il progresso tecnico, è evidente che la tecnica è diventata – de facto – l’obiettivo di coordinamento dell’intera società. Il sistema funziona sempre più automaticamente, in virtù della razionalità implicita delle sue norme di funzionamento, escludendo ogni necessità di decisione politica. Se infatti quest‘ultima è decisione sullo stato d’eccezione, come dice Carl Schmitt, l’annullamento di ogni “eccezione” nega al politico ogni “luogo” in Utopia.
Questa è la crisi della politica che noi oggi viviamo: la mancanza di una causa, che non si riduca alla tutela, alla promozione e alla protezione del progetto tecnico-scientifico.
[caption id="attachment_9088" align="aligncenter" width="1000"] La nuova Atlantide (in inglese New Atlantis) è un racconto utopico incompiuto, scritto da Francesco Bacone nel 1624 e pubblicato postumo nel 1627. Bacone narra di un gruppo di 50 viaggiatori che, partiti dal Perù per andare in Asia, naufragano nell'isola di Bensalem, nei mari del Sud. Il nome stesso dell'isola deriva dalla conflazione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme. Attraverso il racconto in prima persona di uno dei naufraghi, si conosce la cultura e la vita del popolo dell'isola. Cristianizzati grazie ad un'arca contenente una Bibbia inviata direttamente da san Bartolomeo, i bensalemiti vivono in pace fra loro, coltivando la sapienza attraverso i viaggi che alcuni di loro compiono nel mondo civilizzato per carpirne le invenzioni più utili. Sono in grado di parlare più lingue: l'ebraico, il greco, il latino classico, lo spagnolo ma non sembra l'inglese. La famiglia e il matrimonio sono le basi della società di Bensalem. L'istituzione più importante dell'isola è la Casa di Salomone o Collegio delle Opere dei Sei Giorni, istituita dal re Atlantideo Solamona, il quale diede il suo nome la sua fondazione. In un lontano passato l'isola non era isolata come nel momento dell'arrivo dei naufraghi (1612 circa) e ciò caratterizza il mistero attorno a questa popolazione, la quale "conosce molte cose delle nazioni del mondo ma nessuno conosce loro". Nella "House of Solomon" i bensalemiti si dedicano ad esperimenti scientifici realizzati con il metodo baconiano, per controllare la natura e applicare la conoscenza per migliorare la società.[/caption]
Ma Utopia, non è solo eu-topia: essa sta a significare anche “negazione del luogo”. Ovvero “non luogo” che ha fatto di tutti i luoghi un unico spazio – il villaggio globale – e di tutte le convinzioni “la convinzione” sull’efficacia della tecnica per il raggiungimento di qualsiasi scopo. Utopia è così negazione del luogo soprattutto nel senso di “sradicamento”.
Essere cittadini di nessun luogo (Utopia), significa essere infatti consegnati alla sradicante istanza di incessante progresso verso nessun luogo: Utopia, che si configura così come l’eterno presente, l’eterno ritorno dell’uguale.
L’uomo, risucchiato nel vortice del progresso tecnico-scientifico, procede sempre “avanti”, rimanendo tuttavia sempre nello stesso “non-luogo”. La coercizione al progresso e all‘incessante superamento si traduce nel trionfo dell’attualità e quindi nella rottura di ogni possibilità di tradizione. Tutto diventa il continuo necessario superamento di sé. Lo si nota non solo nella moda (mo-dificazione, movimento), non solo nei prodotti di consumo – consumati, prima ancora del loro utilizzo (perché in linea di principio già superati) -, ma lo vediamo nei rapporti tra gli individui, i quali hanno a tal punto assorbito le istanze di incessante rinnovamento tanto da rifletterle nei loro rapporti reciproci: ciò che vediamo è un immedesimarsi di volta in volta con ciò che è presente, che è subito superato e dimenticato. Rincorrendo “un altro” che è sempre “oltre” come può l’uomo contemporaneo amare ciò che attraversa?
Ma se il nostro tempo è perfetto compimento di Utopia, quale significato dare oggi, alla parola Utopia? Evidentemente un altro significato: se Utopia è il nome del nostro presente, pensare Utopia significa ripensare il nostro tempo.
Certo, questo ripensamento è un compito arduo, perché è la seduzione di Utopia è potente: la via dello sradicamento “promette” eudemonia, felicità, lo stare bene; “Vieni qui! Perché qui starai bene! Qui la tua eudemonia sarà oggetto di vero e potente culto! Qui sarà coltivata”!
[caption id="attachment_9089" align="aligncenter" width="1000"] Lucas Cranach il Vecchio: "L'età dell'oro" (particolare). L'eudemonismo è la dottrina morale che riponendo il bene nella felicità (eudaimonia)[1] la persegue come un fine naturale della vita umana. Dall'eudemonismo va distinto l'edonismo che si propone come fine dell'azione umana il «conseguimento del piacere immediato» inteso come godimento (come pensava la scuola cirenaica di Aristippo) o come assenza di dolore (secondo la concezione epicurea).[/caption]
Ma questa via inganna, seduce ingannando: il prezzo di quella eudemonia promessa – una terra promessa, situata sempre al di là – è l’anima dell’uomo. Ciò che l’uomo perde consegnando la sua anima all’istanza di incessante progresso e movimento infinito, è proprio eudemonia! Cioè la possibilità – per citare Nietzsche - di radicarsi nella terra e quindi aprirsi alla linfa della pienezza. Sradicato dalla terra, l’uomo è svuotato e questo vuoto, non può essere colmato da nessun progresso, da nessun andare. Più l’umanità procede verso nessun luogo e più sprofonda nell’abisso del non-senso. Perché dal momento in cui il tuo unico senso è la volontà, è il procedere infinito, l’uomo precipita nel vuoto del non-senso, in un delirio che non ha termine, insensato. Allora il vuoto del non-senso è il prodotto di quell’Utopia, che pensa ad eudemonia come ad un prodotto, come a qualcosa che tu produci o una terra che tu raggiungi, una terra promessa.
Ripensare l’Utopia, significa sottrarre perciò Utopia all’idea di progresso, per riportarla nel suo radicamento nel suo significato più profondo, che è quello di speranza. La speranza che l’uomo possa in ogni momento ricordare se stesso: in ogni istante puoi fare “esodo” dall’isola di Utopia, in ogni attimo puoi rimetterti in viaggio verso te stesso. Come Ulisse: questo viaggio è un Odissea.
In ogni istante vi è la possibilità per l’uomo di mettere in crisi il proprio presente, in discussione se stesso: la filosofia serve proprio a questo e ci giunge in aiuto, nel momento del massimo sconforto.
Cos‘è del resto la filosofia se non questo “itinerario”? Philo-sophia, un mettersi in cammino verso se stessi, per liberarsi dalle catene che ci legano in nessun luogo, l‘irrompere di una crisi di immedesimazione con il mondo. Il mondo può essere mutato solo se prima l’uomo ri-pensa l’idea del proprio rapporto con il mondo e quindi l’idea che forma il suo agire, ma ciò significa – appunto – ripensare il rapporto che ogni singolo individuo ha con se stesso.
Perché solo ripensando l’idea che informa il rapporto dell‘uomo con il mondo è possibile ripensare il rapporto dell‘uomo con se stesso. La filosofia è la speranza che l’umanità, l’uomo, il singolo esserci, possa in ogni momento riattivare questo contro-movimento non verso qualcosa che è “al di là”, non verso qualcosa di “altro”, ma come un movimento che a non altro tende se non a ricondurre il ricercante stesso a sé, alle sorgenti del suo esserci.
Filosofia è questo ricordare, è una lotta contro l’oblio, specialmente nel tempo della dimenticanza e del trionfo dell’attualità. Ciò che è dimenticato non é però negato: il dimenticato può essere in ogni momento ricordato (ricordare, ovvero rimettere nel cuore), ponendolo al centro del nostro esserci. Questo è il pensiero filosofico vero: un movimento che riporti l’uomo a raccogliersi in se stesso, richiamandolo dalla dispersione in questo mondo disgiunto. Allora Utopia diviene sinonimo di speranza, il più umano dei sentimenti, ma non per modo di dire – solo l’uomo è capace di sperare, perché solo l‘uomo è capace di trascendenza. Ed è proprio alla nostra trascendenza, ovvero al carattere estatico del nostro esserci, che la speranza ci riconsegna. Utopia allora diventa la speranza di una gioventù, capace di ridare un senso e un fine elevato alla propria esistenza, a partire dalla coscienza di sé in quanto uomini aperti per essenza alla dimensione che mai tramonta e in cui ogni uomo è chiamato a cercare il proprio senso.
 
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Nel 1947 gli inglesi decisero di rimettere il mandato della Palestina alla neonata ONU – succeduta alla Società delle Nazioni – e in quello stesso anno cominciarono le manovre diplomatiche per costituire una maggioranza favorevole alla costituzione di uno Stato ebraico in Palestina.
Il Segretario Generale dell’ONU incaricò della questione il Primo Comitato dell’Assemblea Generale che a sua volta decise, con 13 voti favorevoli, 11 contrari e 29 astenuti, di incaricare un Comitato Speciale di 11 membri (Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Jugoslavia, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) di studiare la questione e riferire all’Assemblea per decidere il destino della Palestina. Gli 11 commissari del Comitato Speciale (UNSCOP) che non avevano nessuna conoscenza della situazione, arrivarono il 14 giugno 1947.
[caption id="attachment_9053" align="aligncenter" width="1000"] Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Trygve Lie e membri del Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (UNSCOP) si riuniscono al Lake Success il 9 gennaio 1948 sulla questione israelo-palestinese.[/caption]
Durante la loro permanenza nel paese, nel luglio 1947, due cacciatorpediniere britannici intercettarono la nave Exodus con 4.554 immigrati ebrei clandestini diretti in Palestina. I passeggeri, tranne 130, si rifiutarono di sbarcare in Francia e il governo britannico rimandò la nave in Germania. L’episodio della Exodus sollevò una grande emozione e portò l’opinione pubblica, nell’ignoranza della questione palestinese, a sposare la causa sionista e stabilì una correlazione tra il genocidio nazista degli ebrei europei e la creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
[caption id="attachment_9054" align="aligncenter" width="1000"] Exodus 1947 (in ebraico Yetzi'at Eiropa Tashaz, cioè Exodus Europa 5707, dove 5707 è l'anno 1947 secondo il calendario ebraico) è il nome di una nave, anche conosciuta come President Warfield, che nel 1947 fu incaricata di trasportare gli ebrei che partivano illegalmente dall'Europa per raggiungere la biblica Terra di Israele, allora sotto il controllo britannico con l'antico nome romano di Palestina.[/caption]
Gli 11 commissari dell’UNSCOP, dopo aver ascoltato l’Esecutivo Sionista che presentava una proposta di spartizione della Palestina, partirono per un giro di informazione nei campi di raccolta dei profughi ebrei in Europa.
L’UNSCOP completò il suo rapporto il 31 agosto 1947 e presentò due relazioni. La relazione di maggioranza (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) presentò un piano di “spartizione con unione economica” che divideva la Palestina in uno Stato arabo, uno Stato Ebraico e una zona internazionale di Gerusalemme sotto la giurisdizione dell’ONU. La superficie dello Stato Arabo Palestinese sarebbe dovuta essere di 4.476 miglia quadrate, pari al 42,88% del totale, e quello dello Stato Ebraico di 5.893 miglia quadrate pari al 56,47%; 68 miglia quadrate (0,65%) avrebbero costituito la zona internazionale. Lo Stato Ebraico avrebbe avuto una popolazione di 498.000 ebrei e 497.000 palestinesi , quello arabo palestinese 725.000 palestinesi e 10.000 ebrei; Gerusalemme 105.000 palestinesi e 100.000 ebrei.
La relazione di minoranza (India, Iran, Jugoslavia) presentò un “piano per lo Stato federale” che prevedeva l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale che avrebbe avuto “un governo federale e due governi nazionali, uno ebraico e uno arabo”.
Per studiare il rapporto dell’UNSCOP, e per guadagnare tempo, si costituì un “Comitato ad hoc” che cominciò i suoi lavori il 25 settembre 1947 e a sua volta nominò, il 22 ottobre 1947, due “Sottocomitati”. Il primo “Sottocomitato” (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Polonia, Sudafrica, Stati Uniti, Uruguay, Russia, Venezuela) raccomandò l’adozione del Piano di spartizione proposto dall’UNSCOP con qualche piccola modifica. Il secondo “Sottocomitato” (Afghanistan, Colombia, Egitto, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Yemen) chiese invece la Costituzione dei Sottocomitati in modo che rappresentassero tendenze opposte e propose di chiedere il parere della Corte Internazionale di Giustizia prima di prendere una decisione, di risolvere la questione dei profughi ebrei lasciando loro la libertà di scegliere il luogo nel quale vivere e di formare un’assemblea costituente palestinese che garantisse i diritti umani e politici di tutti i cittadini e i diritti delle minoranze.
Il Comitato ad hoc si riunì, il 19 novembre 1947, per esaminare le relazioni dei due Sottocomitati e decise di adottare quella del primo. Infine l’Assemblea Generale si riunì il 24 novembre per discutere del rapporto del Comitato ad hoc che presentò il rapporto del Primo Sottocomitato che riprese quello del Comitato Speciale formato dal Primo Comitato dell’Assemblea Generale. Per raggiungere la maggioranza dei due terzi è stata necessaria una azione concentrata di lobby da parte dei sionisti americani, un’intensa attività dissuasiva statunitense e un energico intervento del rappresentante sovietico. Alcuni membri misero in evidenza la non titolarità dell’ONU di disporre del territorio palestinese. Altri denunciarono le minacce di ripercussioni economiche sui loro Paesi in caso contrario e le pressioni personali a cui sono stati sottoposti.
Il tentativo di dare una parvenza di legalità al costituendo Stato ebraico passò con 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astensioni. Il 29 novembre l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la risoluzione 181 in cui raccomandava la spartizione del territorio della Palestina secondo il piano proposto dall’UNSCOP.
Questo piano incontrò il favore dei sionisti, ma non dei palestinesi e l’impasse diede il via alle ostilità fra le comunità. Nel maggio 1948 i britannici si ritirarono e contemporaneamente i sionisti proclamarono lo Stato di Israele; questi eventi segnarono un’escalation del conflitto, caratterizzata dallo scontro tra Israele e Stati arabi. All’inizio del 1949, Israele, uscito vittorioso dalla guerra, firmò una serie di armistizi che estero le sue frontiere ben oltre quanto previsto dal piano ONU del 1947.
[caption id="attachment_9055" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Territori riconosciuti a Israele dall'ONU e conquiste del 48-49; mappa della distribuzione della popolazione nel 1946; David Ben Gurion legge a Tel Aviv la proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio.[/caption]
Il risultato del conflitto fu dunque la fine della Palestina come entità territoriale a sé: tre quarti del territorio del mandato furono occupati da Israele e la Giordania annesse la Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa; Gaza, popolata principalmente da profughi, restò sotto il controllo egiziano. Nei successivi venti-trent’anni il conflitto israelo-palestinese fu oscurato dal più vasto conflitto arabo-israeliano, combattuto tra Israele e la coalizione di Stati guidata dall’Egitto, dove nel 1952 gli Ufficiali Liberi (al-Ḍubbāt al-Aḥrār) avevano deposto re Fārūq instaurando la Repubblica. Per i palestinesi il 1948 fu l’anno della Nakba – letteralmente “disastro” o “catastrofe” – una sconfitta che andò ben oltre la disfatta militare. Circa 700-750.000 profughi, la gran parte dei circa 1.300.000 palestinesi allora residenti in Palestina, furono costretti ad abbandonare le aree passate sotto il controllo di Israele; alcune stime hanno portato tuttavia il totale dei profughi a circa 900.000.
L’esodo del 1948-49 e le sue motivazioni hanno costituito per mezzo secolo uno dei maggiori motivi di frizione e di polemica del contenzioso arabo israeliano. Per decenni infatti le fonti israeliane e filo-israeliane, anche quella più in buona fede, hanno cercato di eludere il problema della responsabilità dello Stato ebraico sostenendo che l’esodo era stato prevalentemente, se non interamente, volontario o dettato comunque dagli incitamenti dei governi e comandi arabi, che esortavano i palestinesi a lasciar liberi i villaggi per le operazioni degli eserciti in campo, che li avrebbero comunque “riportati a casa” in breve tempo. Questa tesi è passata per lungo tempo nella percezione dei mass media e dell’opinione pubblica occidentali, puntualmente contestata dalle fonti palestinesi e dagli analisti. In anni recenti sono venute anche le opere dei cosiddetti “nuovi storici” di Israele, studiosi come Benny Morris e Ilan Pappé, i quali hanno riconosciuto e documentato la responsabilità dei sionisti in questo campo. A titolo d’esempio, proprio lo storico Benny Morris – analizzando un rapporto dei servizi di intelligence israeliani dell’epoca – ha scritto che il 55% dell’esodo va ascritto direttamente o indirettamente alle operazioni militari delle forze regolari ebraiche, un altro 15% agli attacchi dell’Irgun Zvai Leumi e della Banda Stern, un 2% all’opera di “disinformazione” ebraica e un 2% a precisi ed espliciti ordini di espulsione, in totale quindi il 74%; solo il 5% fu dovuto a ordini o appelli dei comandi e delle autorità arabe, mentre un buon 10% va ascritto a quello che Morris ha definito “la paura generale” di attacchi ebraici o di rappresaglie per attacchi arabi contro le vicine località controllate da forze ebraiche.
Questa paura è stata sistematicamente suscitata e alimentata proprio dalle azioni delle forze ebraiche, spesso con una obiettiva convergenza fra unità regolari e gruppi terroristici. Esemplare da questo punto di vista l’azione contro il villaggio di Deir Yassin alle porte di Gerusalemme, condotta il 9 aprile 1948 dall’Irgun Zvai Leumi con il concorso della Banda Stern e la acquiescenza del comando locale della Haganah; un azione che è passata alla storia per la sua crudeltà e perché, ancora prima della proclamazione dello Stato d’Israele, ebbe un ruolo determinante nel dare avvio all’esodo palestinese e nel determinare quella “paura generale” di cui parla Morris.
All’alba di quel 9 aprile due unità dell’Irgun e della Banda Stern attaccarono il villaggio, che faceva parte del territorio assegnato dall’ONU alla Zona internazionale di Gerusalemme; dopo aver facilmente neutralizzato un piccolo nucleo di resistenza locale, gli attaccanti – riferì l’ufficiale della riserva e storico militare Meir Pa’il sul giornale Yedioth Ahronoth del 4 aprile 1972 - «cominciarono a rastrellare le case. Tiravano su tutto ciò che vedevano, donne e bambini compresi. I comandanti non provarono a fermare il massacro». Alla fine i morti furono 254, in maggioranza appunto donne e bambini. L’impatto della strage sulla popolazione palestinese fu enorme; nei mesi successivi, all’arrivo delle forze sioniste il grido: «Deir Yassin, Deir Yassin», spesso rilanciato con i megafoni degli aggressori, era sufficiente a provocare vere e proprie ondate di panico e fughe di massa.
[caption id="attachment_9056" align="aligncenter" width="1000"] Il massacro di Deir Yassin ebbe luogo il 9 aprile 1948, quando circa 120 combattenti sionisti appartenenti all'Irgun e alla Lehi (comunemente nota come "banda Stern") attaccarono il villaggio palestinese di Deir Yassin (Dayr Yāsīn, in arabo traslitterato), vicino Gerusalemme, che contava allora circa 600 abitanti.[/caption]
Ma se Deir Yassin fu l’episodio più tristemente noto, assurto a simbolo del martirio e della resistenza palestinese, non fu affatto l’unico. Ci fu ad esempio il massacro di al-Dawayima presso Hebron, nel giugno 1948 con l’uccisione – secondo il già citato professor Meir Pa’il – di almeno 50 civili, mentre fonti locali palestinesi parlano di almeno 200, e quella di Safsaf, presso Safed, il 29 ottobre 1948, dove alcune decine di uomini furono uccisi dopo essere stati catturati mentre le donne furono indotte a lasciare il villaggio. Casi emblematici furono poi quelli di Haifa e di Ramle e Lod, non semplici villaggi ma città importanti.
Ad Haifa l’attacco contro la città, condotto da forze ebraiche molto superiori agli arabi che la difendevano, fu preceduto da trasmissioni in cui si diceva: «È giunto il giorno del giudizio, oggi è tale giorno (…). In nome di Dio allontanate dai quartieri arabi le donne e i bambini». Alla mezzanotte del 22 aprile 1948 cominciò il bombardamento della città araba con i mortai mentre dalle sovrastanti pendici del Monte Carmelo venivano fatti rotolare bidoni di olio infuocato e gli altoparlanti continuavano a trasmettere avvertimenti e minacce. Migliaia di palestinesi presero così la fuga, ammassandosi nel porto, nel quartiere tedesco (controllato dagli inglesi) e stipandosi su autobus e barche che si allontanavano dalla città. A Lod (Lydda) e Ramle la popolazione fu terrorizzata con bombardamenti aerei e di artiglieria; poi, al momento dell’ingresso in città l’11 luglio furono compiute veloci scorribande intimidatorie nelle strade, accompagnate dal lancio di volantini; la mattina dopo a Lod, in risposta a sporadici tiri di cecchini, si scatenò una vera e propria caccia all’arabo con sparatorie indiscriminate che provocarono la morte di almeno 250, o forse addirittura 400, abitanti arabi. Subito dopo, nel pomeriggio del 12 luglio, iniziò l’espulsione sistematica della popolazione. Raccontò Yitzhak Rabin nelle sue memorie (pubblicate negli Stati Uniti nel 1979) che Ben Gurion seguiva le operazioni dal Quartier generale e alla domanda su cosa si dovesse fare con la popolazione araba «fece un gesto energico e conclusivo con la mano e disse: “Espellerli!”».
Così fu determinata, in tante località della Palestina, la sorte della popolazione araba. Dispersi nei campi di raccolta dei paesi confinanti, per i primi tre lustri i profughi vissero sotto il peso della Nakba, tra scoramento e frustrazione, ma illudendosi ancora di poter contare su una rivincita degli Stati arabi. Poi a metà degli anni sessanta sarebbe venuto il tempo della maturazione e della sofferta coscienza di dover contare solo sulle proprie forze e su una autonoma volontà di riscatto.
Mentre gli altri palestinesi erano rinchiusi nei campi profughi, diventavano cittadini in Giordania, restavano non cittadini nella Striscia di Gaza, i 160.000 palestinesi rimasti nel neonato Stato ebraico furono sottoposti a governo militare nel 1948. Questo regime sarebbe durato per diciotto anni e la memoria di questo periodo oscuro ha avuto un ruolo importante nella formazione dell’identità dei palestinesi che oggi vivono in Israele; portando tra l’altro a un punto di rottura le relazioni tra minoranza e maggioranza. I capi della comunità ebraica si mostrarono impreparati ad affrontare la situazione binazionale creatasi nella Palestina dopo la fine del Mandato. Erano infatti intenzionati a creare uno Stato puramente ebraico. Pur avendo accolto favorevolmente la risoluzione del 1947 sulla partizione, che comportava la creazione di uno Stato ebraico con una popolazione costituita all’incirca dallo stesso numero di ebrei e palestinesi, non si può escludere che già nel 1947, fossero convinti che la guerra e i loro piani di espulsione avrebbero pressoché azzerato la presenza palestinese. In ogni caso, a fronte di un ampio dibattito relativo a tutti gli altri aspetti della vita politica, si constata l’assenza, alla vigilia della fondazione dello Stato di Israele, di un dibattito sistematico sullo status dei palestinesi residenti in Israele.
La legalità del governo militare imposto alla minoranza palestinese nell’ottobre 1948 trovava un fondamento nei cosiddetti “regolamenti di emergenza” emanati dai britannici, nel 1945, contro le organizzazioni clandestine ebraiche.
Questi regolamenti, che conferivano ai governatori militari un potere notevole sulla popolazione sottoposta alla loro giurisdizione, diventarono uno strumento pericoloso nelle mani di governatori militari spietati, quando non sadici, tratti in genere dalle unità non combattenti e in età di pensionamento. Il loro comportamento crudele si concretizzò - in maggioranza - in angherie nei confronti della popolazione con una serie di abusi non molto dissimili da quelli cui sono in genere sottoposte le reclute. Ma il governo militare israeliano ebbe anche altri aspetti. Il suo carattere militare consentiva di perseguire la politica di confisca delle terre nel nome della “sicurezza” e "dell’interesse pubblico”.
Gli attivisti politici anche solo vagamente sospettati di aderire al nazionalismo palestinese erano tranquillamente espulsi o incarcerati.
A seguito della catastrofe del 1948, il popolo palestinese – frustrato, diviso e in larga parte disperso nei campi profughi – si ritrovò privo sia di una leadership reale che di organizzazione autonome. Il tentativo del muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī di formare a Gaza un sedicente “governo di tutta la Palestina” si dissolse nel nulla. La bandiera della “liberazione della Palestina” veniva agitata dai regimi arabi, e soprattutto da quelli nazional-rivoluzionari, da un lato come strumento della loro politica estera, dall’altro per tacitare le proprie masse popolari che vedevano la “sopraffazione sionista” come un affronto all’intera nazione araba.
Anche le azioni di guerriglia che periodicamente si verificavano nella “Palestina occupata” (come veniva definito lo Stato di Israele), quando non erano dovute a iniziative individuali o di singoli gruppi andavano inquadrate nella strategia dei paesi arabi confinanti e in primo luogo dell’Egitto di Nasser, cui si affiancherà la Siria all’inizio del 1963 con l’avvento al potere del Partito Baʿth; mentre la Giordania, prima con re Abdallah e poi con re Hussein, cercherà di fatto un modus vivendi con lo Stato ebraico, con il quale del resto aveva condiviso la spartizione del territorio palestinese.
Base principale delle unità di commandos era, negli anni cinquanta la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto; da lì avvenivano la maggior parte delle infiltrazioni. A questo stillicidio gli israeliani reagirono subito duramente, con spedizioni di rappresaglia al di là dei confini non solo egiziani; fra i più massicci e sanguinosi raid ricordiamo quello del 14 ottobre 1953 contro il villaggio giordano di Qibya, dove vennero uccisi 69 civili, e quello del 21 febbraio 1955 a Gaza, con l’uccisione di 38 soldati egiziani e il ferimento di altri 44, operazioni entrambe condotte da un reparto speciale denominato Unità 101 e comandato da un prominente ufficiale di nome Ariel Sharon.
L’attacco del febbraio 1955, fra l’altro, contribuì a convincere Nasser che con Israele non c’era alcuna possibilità di dialogo, mentre l’esistenza delle basi di commandos a Gaza fu tra i motivi che spinsero il governo israeliano a partecipare nell’ottobre 1956 alla sciagurata avventura coloniale franco-britannica di Suez.
Fu questo un primo momento di svolta nella vicenda della Palestina, cui allora il mondo guardava in modo occasionale e distratto. La lezione di Suez indusse Nasser ad attribuire maggior credito alla “carta palestinese”, sia come elemento di mobilitazione panaraba che come strumento di pressione per una possibile soluzione negoziata di una crisi che andava ormai al di là del contenzioso arabo-ebraico per investire gli equilibri e le egemonie a livello regionale; e dall’altro lato la seconda disfatta dopo quella del 1949, con il rapido e travolgente successo delle forze israeliane nel Sinai, convinse quei palestinesi che – con Yāsser ʿArafāt, allora presidente dell’Unione studentesca – avevano partecipato alla guerra nelle file dei “commandos” egiziani della necessità di imboccare la via di una autonoma organizzazione, senza “delegare” agli Stati arabi la causa della liberazione della Palestina. Fu comunque un processo di maturazione e organizzazione graduale, che richiese alcuni anni di gestazione.
[caption id="attachment_9059" align="aligncenter" width="1000"] Yāsser ʿArafāt (Il Cairo, 24 agosto 1929 – Clamart, 11 novembre 2004) è stato un politico palestinese, ed è stato un combattente, ed una figura di spicco del panorama politico mondiale[/caption]
Fu necessario dunque aspettare la prima metà degli anni Sessanta perché i termini “Palestina” e “identità palestinese” tornassero a far parte del quotidiano vocabolario politico. Il 28 maggio 1964 si riunì a Gerusalemme Est il “Primo congresso nazionale palestinese”, su iniziativa della Lega degli Stati Arabi e soprattutto di Nasser, con un richiamo nel nome, ma una cesura espressa in quel “primo”, rispetto ai “congressi palestinesi” degli anni venti.
L’assise alla quale parteciparono più di 400 delegati scelti fra i notabili residenti in Giordania e nei campi della diaspora, si concluse con costituzione formale dell’OLP – Organizzazione per la Liberazione della Palestina – e l’adozione di quella che veniva definita la Carta nazionale palestinese. Il documento affermava che la Palestina «è la patria del popolo arabo palestinese e parte integrante della nazione araba», proclamava «nulla e senza effetto» la Dichiarazione Balfour del 1917 e «totalmente illegale» la creazione dello Stato d’Israele e indicava l’obiettivo strategico nella «liberazione di tutta la Palestina»; ma non conteneva nessun riferimento ad un futuro Stato indipendente palestinese.
Venne nominato Presidente dell’OLP Ahmad al-Shuqayrī, notabile palestinese nativo di Acri (ʿAkkā), legato all’Egitto e all’Arabia Saudita. Nel settembre successivo il vertice arabo riunito al Cairo ratificò la nascita dell’OLP, definita “supporto della entità palestinese”, e decise la creazione di un Esercito per la Liberazione della Palestina, vera e propria armata regolare articolata in brigate da inquadrare negli eserciti arabi del fronte. Da tutti questi elementi risultava chiaramente come l’OLP fosse allora una organizzazione verticistica, creata e diretta dall’alto e concepita non come un autonomo organismo di lotta, ma come strumento della politica degli Stati arabi e quindi da essi strettamente condizionata; non c’era traccia dei concetti di specifica identità nazionale palestinese e di lotta popolare di liberazione, quali sono venuti maturando dopo il trauma del giugno 1967 e il conseguente impetuoso sviluppo della Resistenza.
Quei concetti tuttavia erano già attuali anche se relegati nell’ombra, dietro le quinte della politica ufficiale, dove un gruppo di intellettuali palestinesi erano all’opera per creare una organizzazione diversa, almeno allora alternativa all’OLP e fondata sulla convinzione che artefice della liberazione dovesse essere lo stesso popolo palestinese. Era il gruppo guidato da Yāsser ʿArafāt e del quale facevano parte uomini come Fārūq al-Qaddūmī, Khaled al-Hassan, Khalīl al-Wazīr e Ṣalāḥ Khalaf, tutti destinati a costituire in futuro il vertice politico-militare dell’OLP rinnovata.
Dopo la disfatta del 1956 nel Sinai, ʿArafāt si era trasferito dal Cairo in Kuwait dove lavorava come ingegnere, e lì aveva iniziato a stabilire il collegamento con altri intellettuali e professionisti della diaspora che condividevano la sua delusione e le sue idee. Nel 1959 il gruppo diede vita alla rivista “Our Palestine” (La nostra Palestina), che riuscì ad avere una discreta diffusione e che cominciava a battere il tasto di un autonomo “nazionalismo palestinese”, dibattendo anche i problemi organizzativi del costituendo movimento di liberazione.
Negli anni fra il 1961 e il 1963 la nuova organizzazione cominciò a prendere corpo, si definirono le strutture politiche e militari e fu scelto il nome: al-Fatḥ che derivava da FTḤ, acronimo inverso dell'espressione araba Ḥarakat al-Taḥrīr al-Filasṭīnī (Movimento di Liberazione Palestinese). Al-Fatḥ si presentò sulla scena pubblica il 1 gennaio 1965, pochi mesi dopo la creazione dell’OLP, con un comunicato militare diffuso a Beirut sulla prima azione contro “il nemico sionista”: un modesto attentato, riuscito solo in parte, contro una installazione idrica ma che sarà celebrato come l’inizio della lotta armata di liberazione.
Il movimento di ʿArafāt non aveva nessun rapporto con l’OLP, anzi era del tutto inviso all’organizzazione di al-Shuqayrī e ai regimi arabi per la sua autonomia e per la sua visione della lotta palestinese, che contestava fra l’altro anche il fatto che una parte del territorio nazionale fosse sotto dominio arabo (cioè giordano ed egiziano). Ne conseguì che al-Fatḥ fu resa di fatto illegale nei paesi arabi: ʿArafāt venne arrestato in Siria e in Libano, dove resterà in carcere diversi giorni, Abu Iyad (Ṣalāḥ Khalaf) verrà incarcerato in Egitto mentre Abu Jihad (Khalīl al-Wazīr) verrà arrestato in Siria e a Gaza; e il primo “martire” della guerriglia – secondo la terminologia abituale – cadrà ucciso non dal “nemico sionista” ma dai soldati giordani al suo rientro da un’azione oltre confine. Un inizio difficile, dunque; in ogni caso gli attori erano ormai pronti, anche se non potevano sapere che di lì a poco si sarebbe alzato il sipario su un dramma ben superiore alle loro aspettative.
Conclusa la Guerra di Suez, la tensione sulla frontiera tra Siria e Israele continuò a salire a partire dal 1957. Nel 1958 Israele iniziò i lavori per la deviazione delle acque del Giordano e cercò di estendere gradualmente il controllo su una fascia di territorio lungo la frontiera con la Siria. L’esercito israeliano cominciò a sparare sui cittadini siriani che andavano a lavorare nelle loro terre nelle immediate vicinanze della linea di cessate il fuoco stabilita con gli accordi di armistizio del 1949. Man mano che i contadini siriani arretravano gli israeliani si impossessavano delle loro terre. I tentativi di resistenza vennero stroncati con la politica di “difesa attiva” e “rappresaglia preventiva”.
Nella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio 1960, le truppe israeliane attaccarono il villaggio di Tawafik e lo rasero al suolo. Nel marzo dello stesso anno altri raid israeliani in territorio siriano estesero il controllo militare israeliano sulle terre a est del lago di Tiberiade. Gli attacchi, che causarono decine di morti e feriti, proseguirono nel 1961 e 1962. L’occupazione delle zone smilitarizzate, il continuo ampliamento dei territori conquistati e i raid israeliani sempre più massicci provocarono ripetute condanne da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU tra il 1963 e il 1967.
Nel 1965 le incursioni israeliane diventarono più frequenti in Siria e Cisgiordania, con ripetuti attacchi contro le città di Qalqīlya e Jenin. Nello stesso anno al-Fatḥ intraprese la lotta armata con sporadiche azioni contro installazioni militari israeliane. All’attività di guerriglia, Israele rispose bombardando i centri abitati in Siria e in Cisgiordania. L’esercito giordano rafforzò il controllo sui campi profughi e lungo le linee del cessate il fuoco. Nonostante gli arresti di massa degli attivisti palestinesi in Giordania, le truppe israeliane intensificarono le azioni di “rappresaglia”. Un’operazione militare israeliana su vasta scala colpì nel novembre del 1966 la regione di Hebron. Tra le decine di villaggi bombardati, particolarmente colpito fu quello di As Samu' dove vennero abbattute 125 case, la scuola e l’unica fabbrica. A partire dal maggio 1966 Israele riceverà massicce forniture di armi dagli Stati Uniti che inizialmente si aggiunsero all’armamento francese, per poi sostituirlo. La pressione israeliana sulla Siria si fece costante. Il 14 luglio 1966 l’aviazione israeliana bombardò massicciamente le istallazioni militari siriane. Il 15 luglio i caccia israeliani inseguirono quelli siriani in profondità nel loro territorio e li abbatterono. Motivo dichiarato degli scontri furono le infiltrazioni dei contadini e pastori siriani che Israele considerava “soldati camuffati”. Inoltre Israele accusava la Siria di dare rifugio ai guerriglieri palestinesi.
I bombardamenti israeliani si intensificarono nei primi mesi del 1967. Il governo siriano chiese a quello egiziano di intervenire in virtù di un accordo di difesa comune. Il governo egiziano cercò di fare pressione su Israele per limitare le azioni contro la Siria e il 22 maggio 1967, ed annunciò di voler chiudere lo stretto di Tiran, nelle acque territoriali egiziane, alla navigazione israeliana, aperto dopo la Guerra di Suez nel 1957.
Lo stretto non veniva comunque usato da navi israeliane da almeno due anni. Il 3 luglio il presidente americano Lyndon Johnson diede il via libera ad un attacco su vasta scala. Il 5 giugno i caccia israeliani distrussero a terra l’aviazione egiziana e il 7 giugno le truppe di Tel Aviv conquistarono il deserto del Sinai egiziano e raggiunsero il Canale di Suez che venne bloccato.
L’esercito egiziano, intrappolato nel Sinai venne annientato. Migliaia di prigionieri egiziani vennero uccisi e i loro corpi gettati in fosse comuni. La Siria annunciò di accettare il cessate il fuoco deliberato dal Consiglio di Sicurezza l’8 giugno. Nel pomeriggio venne bombardata Damasco. Il bombardamento della capitale siriana continuò il 9 giugno, mentre le truppe israeliane occuparono l’altopiano siriano del Golan e procedettero in direzione di Damasco. In sei giorni l’esercito di Tel Aviv conquistò quelle regioni palestinesi che erano sfuggite al suo controllo nel 1948.
Nei nuovi territori palestinesi conquistati si tentò di ripetere la grande pulizia etnica compiuta tra il 1947 e il 1949. Già il 7 giugno le truppe israeliane procedettero alla demolizione della città di Qalqīlya. Due terzi degli edifici vennero distrutti con cariche esplosive e bulldozer. Ai corrispondenti stranieri fu vietato avvicinarsi. Lo stesso mercoledì cominciò l’abbattimento di Emmaus, Yalo e Beit Nuba, tre villaggi nei dintorni di Latrun, famosa per l’omonimo monastero, vicino Gerusalemme. Gli abitanti dei tre villaggi rasi al suolo e gran parte degli abitanti di Qalqīlya vennero espulsi prima verso Ramallah poi oltre il Giordano. Il giorno dopo, giovedì 8 giugno, i bulldozer iniziarono la distruzione di Beit Sura. L’opera di distruzione durò fino al 27 giugno. Tutto il territorio venne dichiarato zona militare chiusa. Altre cittadine subirono la stessa sorte, lo stesso giorno 8 giugno: Beit Mersin e Beit Awa. La zona di Gerusalemme fu la più colpita e la stessa Città Santa non sfuggì all’opera di cancellazione del paesaggio storico palestinese. Parte del centro storico di Gerusalemme venne distrutto. Il 17 giugno alle quattro del mattino le truppe israeliane circondarono il popolare quartiere Haret il-Maghrebe (dei Marocchini) a ridosso della Spianata delle Moschee e ordinando agli abitanti di andarsene. I bulldozer cominciarono a demolire le case mezz’ora dopo.
Seimila abitanti vennero cacciati via. Oggi al posti dell’antico quartiere c’è una piazza in cui è vietato l’ingresso ai palestinesi. Lo stesso giorno, il 17 giugno 1967, vennero espulsi gli abitanti del quartiere Haret il-Yahud (dei Giudei).
Anche in altre zone l’esercito conquistatore procedette alla distruzione dei centri abitati e all’espulsione degli abitanti. Alcuni paesi nella regione di Hebron vennero evacuati e il villaggio di Sufir subì distruzioni. Il 13 giugno 1967 il generale Herzog, comandante militare della Cisgiordania appena occupata, informò la stampa che l’esercito israeliano aveva organizzato “un servizio autobus per trasportare gli arabi in Transgiordania”.
Se da una parte questo era vero, dall’altro era vero anche che l’aviazione israeliana continuò a bombardare le colonne dei profughi con il napalm.
La distruzione dei centri abitati, anche con bombardamenti al napalm, proseguì a guerra finita per tutto il 1967, ma già entro la fine di giugno la nuova versione della pulizia etnica aveva prodotto centinaia di migliaia di nuovi profughi.
In un mese le truppe israeliane avevano considerevolmente diminuito il numero degli abitanti della Cisgiordania. Anche la Striscia di Gaza fu teatro di espulsioni di massa. Decine di migliaia di abitanti, già profughi del 1948, vennero scortati fino al Canale di Suez. Stessa sorte toccò agli abitanti della regione siriana occupata. I centri abitati furono quasi tutti distrutti e gli abitanti espulsi. Poche migliaia della minoranza drusa siriana del Golan verranno risparmiate.
I profughi siriani furono di 117.000. I nuovi profughi palestinesi, cacciati al di là dei confini della Palestina mandataria furono, secondo lo storico Nur Masalha, circa 320.000. Una cifra destinata a crescere per la metodica pressione israeliana ad allontanare la popolazione.
La Guerra dei sei giorni mise in evidenza la fragilità degli Stati arabi e l’incapacità dei governi nel difendere i propri paesi. La perdita di prestigio dei regimi nazionalisti di ispirazione panaraba si rifletté sull’OLP ma nel frattempo accelerò, presso i palestinesi, la crescita di un movimento di protesta che venne assunto dai nuovi movimenti di guerriglia. Il fenomeno assunse dimensioni di massa soprattutto in Giordania, dove ai palestinesi rifugiati sin dal 1948, se ne aggiunsero altre centinaia di migliaia espulsi dalla Cisgiordania occupata dagli israeliani. La crisi dell’OLP emerse nel dicembre 1967 con le dimissioni di Ahmad al-Shuqayrī a cui succedette Yahya Hammuda, il comandante dell’armata dell’Organizzazione. Alla IV sessione del CNP (Consiglio Nazionale Palestinese) riunitosi al Cairo nel luglio 1968 parteciparono per la prima volta come membri effettivi, esponenti dei gruppi di guerriglia (al-Fatḥ, As-Sa'iqa, FPLP). Nel febbraio 1969 (V sessione) venne eletto a presidente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione Yāsser ʿArafāt capo di al-Fatḥ, il gruppo maggioritario che impresse all’OLP un radicale cambiamento rendendola più autonoma e trasformandola in una “cornice” delle formazioni combattenti. Venne inoltre rivista la Carta Costituzionale approvata nel 1964.
[caption id="attachment_9061" align="aligncenter" width="1000"] La carta ci mostra dapprima la situazione nel 1967 che vedeva Israele raggiungere la sua massima espansione attraverso le offensive del Sinai, della Cisgiordania e del Golan. Nella seconda parte viene illustrata la sistemazione prevista dal piano Allon che prevedeva la restituzione dei territori occupati ad eccezione di Gerusalemme Est e di alcune zone strategiche. La terza parte evidenzia la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto da parte israeliana nell’ambito dell’accordo di pace tra i due paesi. Estratto dalla rivista geopolitica di Limes (Le carte a colori di Limes 5/07 La Palestina impossibile).[/caption] Tra il 1969 e il 1970 la guerriglia si trovava al suo culmine. Dalle basi in Giordania e in Libano i fida’iyyn (combattenti) compirono incursioni in Palestina scontrandosi con l’esercito d’occupazione. L’aviazione israeliana bombardò incessantemente il Libano e la Giordania spingendo i governi dei due paesi a cercare di limitare le attività della resistenza. Gli scontri con gli eserciti libanese e giordano aumentarono. Ma l’esistenza in Libano di un sistema multi-partitico, di partiti democratici e organizzazioni di massa spinse il governo a firmare nel 1969 un accordo con la guerriglia (detto Accordo del Cairo) col quale venne legalizzata l’attività politica e armata palestinese.
L’attività di al-Fatḥ e FPLP, i due gruppi armati più consistenti, minacciava tutto l’equilibrio regionale che aveva al centro la stabilità della Giordania da cui dipendeva la supremazia israeliana.
In Giordania il movimento della guerriglia giunse nel 1970 ad uno scontro con il regime monarchico. La scintilla venne accesa dal triplice dirottamento di aerei civili effettuato da guerriglieri del FPLP. L’esercito bombardò e poi occupò le città e i campi profughi causando decine di migliaia di vittime in quello che sarà poi ricordato come Settembre nero. Con la mediazione di Nasser, venne firmato un accordo al Cairo fra ʿArafāt e re Hussein, il base al quale cessarono i combattimenti e i palestinesi armati si ritirarono dai centri abitati e si radunarono nella valle del Giordano. Nonostante l’accordo la repressione continuò e nel luglio del 1971 l’esercito giordano occupò definitivamente le basi dei fida’iyyn, ormai isolati e lontani dai centri abitati. I dirigenti della guerriglia si trasferirono in Libano dove negli anni Settanta concentrarono la loro attività politica e militare.
In Libano, oltre che con l’intervento israeliano quasi quotidiano nel sud del paese, l’OLP dovrà presto misurarsi con le milizie della destra libanese. Il Partito Falangista Libanese (al-Katā'eb al-Lubnāniyya) guidato da Pierre Gemayel, il Partito Nazionale Liberale (Numūr al-aḥrār) guidato da Camille Chamoun e il Movimento Marada (Tayyār Al-Marada) del Presidente della Repubblica Suleiman Frangieh con il suo quartier generale nella località settentrionale di Zghorta formarono milizie armate col proposito di disarmare i palestinesi. Anche la sinistra libanese guidata dal leader druso Kamal Jumblatt, solidale con i palestinesi, si armò. La «Sarajevo» della guerra civile libanese fu un incidente verificatosi a Ain Rummaneh, un quartiere cristiano di Beirut, il 13 aprile del 1975. Alcuni sconosciuti aprirono il fuoco durante una funzione religiosa a cui stava assistendo il leader delle Falangi, Pierre Gemayel, uccidendo la sua guardia del corpo ed altri due uomini. I miliziani maroniti, come rappresaglia, attaccarono un autobus palestinese di passaggio, massacrando 28 passeggeri, per la maggior parte fida’iyyn palestinesi di ritorno da una parata militare. Rappresaglia dopo rappresaglia la violenza si allargò a tutto il paese per lasciare sul terreno, soltanto nel primo anno e mezzo del conflitto, più di 30.000 morti, 200.000 feriti e 600.000 rifugiati.
La prima fase del conflitto, segnata da stragi di popolazioni inermi (la più atroce fu quella degli abitanti del campo profughi di Tel al-Zaʿtar il 12 agosto 1976) si concluse dopo l’intervento siriano nel 1976, lasciando il paese diviso in zone controllate da milizie armate antagoniste che ad intervalli più o meno lunghi ripresero le ostilità.
Con il perdurare di una situazione di conflittualità permanente e con la scomparsa delle strutture dello Stato, i partiti cedettero il terreno dell’azione politica alle milizie armate che mano a mano diventarono sempre più mono-confessionali. Lo scontro assunse una dimensione confessionale e la lotta fra le classi sociali sembrava passare in secondo piano mentre lo Stato israeliano continuava a bombardare il paese. Gli accordi di Camp David fra Egitto e Israele, firmati il 17 settembre 1978, neutralizzarono l’esercito egiziano e permisero all’esercito israeliano di intensificare le sue attività belliche sugli altri fronti. I raid aerei contro il Libano si susseguirono sempre più intensi. Il 12 marzo 1978, le truppe israeliane invasero il Libano meridionale. In quattro giorni di ininterrotti bombardamenti l’aviazione israeliana uccise oltre 700 persone. Il 29 novembre le truppe israeliane tornarono a occupare il Libano meridionale. Il 26 aprile 1981 l’esercito israeliano si ritirò dal Sinai egiziano. Il 7 giugno Israele bombardò il reattore nucleare di Osiraq, alle porte di Baghdad. Il 17 luglio, un bombardamento aereo israeliano più violento del solito uccise 300 persone a Beirut.
In luglio si raggiunse un accordo di cessate il fuoco tra l’OLP e il governo israeliano. Per undici mesi il confine restò tranquillo, tranne che in due occasioni di bombardamenti israeliani a cui i gruppi armati palestinesi e della sinistra libanese non risposero. Il 14 dicembre 1981 il governo israeliano annetté “giuridicamente” il Golan.
Il 3 giugno del 1982 un gruppo di guerriglieri palestinesi sparò, appena fuori dall’Hotel Dorchester di Londra, all’ambasciatore israeliano Shlomo Argov, ferendolo gravemente. Nonostante gli attentatori facessero parte della fazione di Abū Niḍāl, nemica giurata dell’OLP e considerata da molti un gruppo semi-mercenario, il 4 giugno Israele decise di invadere il Libano per sradicare dal paese l’organizzazione guidata da Yāsser ʿArafāt.
In 8 giorni l’esercito israeliano giunse alle porte di Beirut. Dal 5 giugno in poi tutti i principali campi profughi nel sud del Libano vennero sottoposti a incessanti bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare. L’intenzione di Tel Aviv sembrava quella di radere al suolo i campi rendendoli permanentemente inabitabili. Nell’opera di annientamento dei palestinesi, Israele poteva contare sul volenteroso incoraggiamento maronita.
Poco tempo dopo, di fronte alla Knesset, l’allora Primo ministro israeliano Menachem Begin difenderà i massicci attacchi contro la popolazione civile: «Da quando in qua la popolazione civile del Libano meridionale è diventata “per bene”?», chiese con sarcasmo. «Neanche per un istante ho dubitato che la popolazione civile meritasse quella punizione» affermerà Begin. I prigionieri palestinesi vennero costretti a restare per lunghissime giornate, legati e bendati, sotto il sole cocente, senza ne cibo né acqua, spesso picchiati e costretti a soddisfare i loro bisogni corporali lì dove si trovavano. Molti di loro vennero condotti in Israele per essere incarcerati, stipati in camion o autobus sotto i colpi e gli insulti delle guardie, quando non vennero intrappolati a gruppi in reti e con queste trasportati, così appesi, dagli elicotteri.
In 8 giorni l’esercito israeliano giunse alle porte di Beirut. A fine del mese si contarono 30.000 libanesi e palestinesi uccisi. Oltre la metà erano bambini di 13 anni. Dopo aver distrutto le città e i campi profughi del Libano meridionale, le truppe israeliane entrarono a Beirut Est controllata dalle milizie falangiste addestrate e armate da Tel Aviv e posero d’assedio Beirut Ovest. Dopo 77 giorni di intensi bombardamenti si raggiunse un accordo per l’evacuazione dei combattenti palestinesi dalla città sotto il controllo di una forza multinazionale che giunse a Beirut il 21 agosto. Il 1 settembre ebbe termine l’evacuazione dei combattenti palestinesi, il 13 si ritirò in anticipo sui tempi previsti la forza multinazionale che avrebbe dovuto garantire la protezione delle popolazioni civili dopo l’evacuazione dei combattenti palestinesi, il 14 venne ucciso Bashir Gemayel (capo delle milizie falangiste posto a presidente della repubblica il 23 agosto), che verrà sostituito dal fratello Amin.
[caption id="attachment_9064" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra. Menachem Wolfovitch Begin (Brest-Litovsk, 16 agosto 1913 – Tel Aviv, 9 marzo 1992) è stato un politico israeliano, Primo ministro di Israele dal 1977 al 1983. Fu insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1978. Shlomo Argov (dicembre 1929 - 23 febbraio 2003) è stato un diplomatico israeliano. Era l'ambasciatore israeliano nel Regno Unito, il cui tentato assassinio ha portato alla guerra del Libano del 1982. Bashir Gemayel (Beirut, 10 novembre 1947 – Beirut, 14 settembre 1982) è stato un politico libanese.[/caption]
L’assassinio di Bashir Gemayel ebbe come conseguenza immediata la tristemente nota carneficina di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila, organizzata dal capo dei servizi segreti falangisti Elie Hobeika, con la complicità degli israeliani. A poche ore dalla morte di Bashir, il 15 settembre 1982, Sharon, rompendo l’accordo stipulato con il diplomatico statunitense Philip Habib, fece entrare il suo esercito a Beirut Ovest, occupandola completamente in 24 ore. Per giustificare un simile gesto l’allora ministro della difesa israeliano affermò che ʿArafāt aveva lasciato dietro di sé 2.000 combattenti palestinesi che si nascondevano nei campi di Sabra e Chatila. Alle 6.00 del pomeriggio del 16 settembre, Amir Drori, capo del Comando Settentrionale Israeliano, autorizzò le milizie di Hobeika ad entrare nei campi per cercare i guerriglieri. L’eccidio di civili inermi iniziò immediatamente e andò avanti per tutta la notte, per il giorno dopo e la notte successiva: la carneficina non si fermerà prima delle 8.00 del mattino del 18 settembre. Circa un migliaio tra uomini, donne e bambini vennero brutalmente massacrati. Per tutte le quaranta ore dello sterminio le truppe israeliane fecero cordone intorno ai campi, e durante la notte lanciarono bengala affinché nei campi così illuminati i falangisti potessero proseguire il loro “lavoro”.
Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio» (risoluzione 37/123, sezione D). La definizione fu approvata con 123 voti favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario.
Con la partenza dei combattenti palestinesi da Beirut e la loro dispersione in otto paesi arabi, l’OLP, il cui gruppo dirigente si era installato a Tunisi, perdette la sua ultima base territoriale ai confini con la Palestina. La decisione di lasciare Beirut e lo sgomento seguito ai massacri di Sabra e Chatila portarono a una scissione in seno ad al-Fatḥ. Le divergenze degenerarono spesso in scontri armati fra i miliziani di al-Fatḥ dislocati nella valle della Beqāʿ e quelli nel nord del Libano.
ʿArafāt tornò a Tripoli che venne assediata dalle forze dei dissidenti di al-Fatḥ e dalle truppe siriane. L’assedio terminò con la partenza di ʿArafāt e dei combattenti a lui fedeli a bordo di due navi dirette nello Yemen (dicembre 1983). Sulla via per lo Yemen, ʿArafāt si fermò in Egitto e incontrò il presidente egiziano Mubārak. L’incontro sollevò molte polemiche perché ruppe l’isolamento politico imposto all’Egitto dalla Lega degli Stati Arabi dopo gli accordi di pace separata con Israele. Le divergenze fra le principali componenti dell’OLP (al-Fatḥ, FPLP, FDLP) sorte dopo gli scontri di Tripoli e la rottura con la Siria, si acutizzarono e raggiunsero il loro culmine dopo la firma "dell’intesa giordano-palestinese” in base alla quale l’OLP avrebbe optato per una confederazione giordano-palestinese nell’eventualità di un ritiro israeliano dai territori palestinesi occupati nel 1967.
Alla XVII sessione del CNP ad Amman nel novembre 1984 parteciparono i delegati di al-Fatḥ ma non quelli del FPLP e del FDLP. La crisi accennava a istituzionalizzarsi nel marzo 1985 con la creazione del “Fronte di salvezza palestinese” a cui parteciparono i dissidenti di al-Fatḥ e i piccoli gruppi con sede a Damasco e a cui si aggiunse poi il FPLP. Anche il FDLP e il PC palestinese, che proprio in quegli anni cominciava a raccogliere consensi, erano contrari all’accordo con la Giordania ma restarono fuori dal “Fronte di salvezza”. La creazione del “Fronte di salvezza” non avrà conseguenze pratiche. L’attacco ai campi profughi palestinesi da parte delle milizie di Amal, che tentarono di estendere il loro controllo all’intero settore ovest di Beirut, e l’abrogazione dell’accordo giordano-palestinese da parte di re Hussein nel febbraio 1986 posero fine alla questione. Ma l’OLP dopo il 1982 aveva già cambiato fisionomia. Avendo cambiato obiettivi e perso la base territoriale delle proprie milizie, alla dirigenza dell’OLP restava solo la gestione del Fondo Nazionale Palestinese che era diventato fonte di sostentamento per migliaia di militanti che vivevano alla giornata in campi allestiti nei vari paesi arabi o in giro per il mondo. In esilio, lontana da qualsiasi comunità palestinese, la dirigenza dell’OLP che si identificava con quella di al-Fatḥ, verrà colta di sorpresa dallo scoppio di quella che passerà alla storia come la Prima Intifada.
Fin dai primi giorni dell’occupazione di Cisgiordania e Gaza (giugno 1967), la resistenza assunse delle modalità scaturite dall’esperienza della lotta di massa, fra le due guerre mondiali, contro l’occupazione inglese. Ma nella coscienza politica palestinese vi era un dato nuovo, emerso dopo la Nakba e si trattava della consapevolezza della minaccia all’esistenza stessa della società e dell’identità dei Territori Occupati. Tanto più che al momento dell’occupazione le truppe israeliane tentarono di ripetere la cacciata della popolazione dai territori.
[caption id="attachment_9067" align="aligncenter" width="1000"] La prima intifada (anche semplicemente "intifada", che in arabo significa "rivolta") fu una sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano che iniziò nel campo profughi di Jabaliya nel 1987 e presto si estese attraverso Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.[/caption]
Cominciò la creazione di insediamenti per coloni nei territori appena conquistati. A tale scopo vennero requisite le terre coltivate e sequestrate le fonti d’acqua. La colonizzazione israeliana era accompagnata da una repressione politica ed economica sistematica: i palestinesi assistettero ad una riedizione del processo di trasformazione della Palestina. Fu così che si sviluppò una forma di resistenza passiva che si riassunse nel termine sumud col quale si indicava la volontà di restare aggrappati alla propria terra a qualsiasi costo. Era soprattutto nel consolidarsi del sumud, divenuto con gli anni base di una nuova coscienza nazionale, nell’accumulo di esperienze nell’affrontare l’operato del sistema di occupazione, tendente ad espropriare i palestinesi nel loro paese e nell’intollerabilità delle condizioni di vita imposte, che andavano individuati i motivi principali dell’esplodere dell’Intifada o “insurrezione”. L’esperienza del sumud era ben diversa da quella della guerriglia che ha contraddistinto l’azione politica e militare dei palestinesi della diaspora.
La scintilla che fece esplodere il malcontento - a lungo covato nei confronti della nuova occupazione - fu un incidente automobilistico avvenuto l’8 dicembre 1987. Un veicolo militare israeliano investì nella Striscia di Gaza, una macchina ferma ad un distributore di benzina con a bordo quattro lavoratori palestinesi del campo profughi di Jabālyā. Quattro passeggeri rimasero uccisi, altri feriti.
Migliaia di palestinesi, nei giorni seguenti, scesero nelle strade per protestare. Durante i funerali delle vittime, nel campo di Jabālyā, dove 60.000 palestinesi vivevano in condizioni di totale povertà in un agglomerato che già aveva subito gli attacchi brutali dell’esercito israeliano durante le sommosse del 1971, la situazione si infiammò immediatamente, anche grazie al diffondersi di una voce secondo la quale l’incidente era stato, in realtà, un deliberato atto di vendetta per la morte di un israeliano, pugnalato due giorni prima a Gaza. Già la stessa notte una postazione dell’esercito di occupazione israeliano venne presa a sassate e un palestinese venne ucciso. Il giorno dopo cominciarono i primi scioperi e manifestazioni e l’esercito israeliano sparò sulla folla uccidendo alcuni manifestanti . La rivolta si allargò a macchia d’olio in tutti i Territori Occupati. I manifestanti affrontarono l’esercito israeliano armati di pietre, fionde e molotov: ebbe così inizio l’insurrezione popolare, conosciuta dal mondo con il nome arabo di Intifada.
Non passò molto tempo che la rivolta, scoppiata in modo spontaneo, venne inquadrata in un sistema segreto di organizzazione e coordinamento. Già dai primi anni ’80 esisteva nei Territori un’organizzazione denominata “struttura popolare”: questa era formata da una rete di “comitati popolari” (modellati sui “comitati nazionali” del 1936 eletti direttamente dagli abitanti del villaggio o del quartiere cittadino) che detenevano una grande libertà d’azione a livello locale e che si occupavano dei vari aspetti della vita civile palestinese colmando il vuoto lasciato dall’amministrazione israeliana, la quale si sarebbe dovuta occupare di fornire servizi e strutture alla popolazione civile dei Territori Occupati.
Alla fine del dicembre 1987, però venne creato, nella clandestinità, un “Comando Nazionale Unificato” (CNU) allo scopo di coordinare il movimento e i vari “comitati popolari” e dare indicazioni generali d’azione.
Inizialmente composto dall’avanguardia politica locale, in seguito il controllo del CNU (Comitato nazionale unificato), venne assunto dal comitato esecutivo dell’OLP (L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina), attraverso i rappresentanti delle sue maggiori componenti. Dal gennaio 1988, il CNU emise dei “comunicati”, numerosi volantini e documenti contenenti istruzioni riguardanti le diverse attività di protesta che andavano dagli scioperi generali alle manifestazioni. Pamphlet, giornali e manuali dell’Intifada vennero pubblicati contenenti analisi di carattere generale dell’occupazione ma anche istruzioni precise su obiettivi e modalità della rivolta. Il primo comunicato clandestino del CNU venne distribuito nei Territori Occupati il 4 gennaio 1988 e proclamò uno sciopero generale. La struttura organizzativa era quindi una piramide il cui vertice era costituito dal “Comando Nazionale Unificato” e alla cui base si trovavano invece diverse organizzazioni e sindacati. Questi però ad un certo punto non si rivelarono efficaci alla conduzione operativa della rivolta (anche se il sindacato acquisì un ruolo sicuramente significativo nel regolare ed organizzare la forza lavoro) e vennero così formati dei “comitati di base” che mantennero un costante collegamento con il CNU. La composizione fluida di questo sistema coordinativo ostacolava i servizi segreti israeliani nel tenerli sotto controllo e nell’infiltrare agenti. Per la prima volta i palestinesi presero in mano il proprio destino senza consultare la direzione dell’OLP a Tunisi, che però non si fece attendere per molto: l’OLP, infatti, cercò di guadagnare un suo ruolo già nel gennaio 1988.
Il punto di forza era rappresentato dai “comitati popolari” che permisero a tutta la struttura organizzativa di penetrare in modo capillare, raggiungere e coinvolgere i palestinesi di tutte le comunità e villaggi. Per questo la rivolta riuscì a mantenere la sua efficacia e forza finché rimase in piedi la struttura decentrata dei “comitati” con un CNU che svolgeva un ruolo di moderatore, fino alla fine del 1988. Con il tempo, però, si verificò un declino dell’iniziativa locale, un rafforzamento delle spinte centralizzatrici e una crescita di autorità del CNU che, a metà della rivolta, era formato da giovani docenti universitari, studenti radicali ed ex politici. Questa trasformazione indebolì senza dubbio la rivolta poiché venne a diminuire il pieno coinvolgimento della base popolare, cuore e anima della Prima Intifada. Con l’Intifada nacque Hamas, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (Movimento Islamico di Resistenza), emanazione dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.
La leadership era formata da giovani universitari, per la maggior parte provenienti dai campi profughi, rappresentanti una nuova realtà nella società palestinese. Hamas cominciò ad emergere come possibile alternativa all’OLP agli inizi degli anni ’90, grazie al suo intenso lavoro sociale attraverso associazioni caritatevoli, istituti educativi laici e religiosi e una rete di moschee.
[caption id="attachment_9071" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra: Paesi (in verde scuro) che riconoscono lo Stato della Palestina Nella foto di destra: Manifestazione a favore di Ḥamās a Betlemme[/caption]
Le prime misure adottate dal governo israeliano per sedare la rivolta consistettero nell’espulsione di alcuni leader. I servizi segreti interni (Shin Bet) diedero la caccia ai dirigenti clandestini dell’Intifada, ma il movimento popolare riuscì a far emergere nuove figure. La repressione non fece altro che aumentare la partecipazione e l’intensità dell’Intifada. I palestinesi riuscirono con mezzi primitivi a mettere in crisi l’apparato militare israeliano: così Rabin, con l’inizio del 1988, mise in atto una politica ancora più dura e repressiva di quella già fino ad allora portata avanti. Iniziò allora un periodo cupo durante il quale l’esercito perdette ogni freno: gli abusi e gli eccessi di brutalità, che comunque non erano mancati nel passato, contro la popolazione civile si moltiplicarono. Già alla fine del 1990 si contarono 1.025 vittime, più di 37.000 feriti e quasi 40.000 arrestati. La risposta israeliana alle manifestazioni era caratterizzata da un’estrema durezza: da ambo le parti fu una lotta senza quartiere. Il 30 ottobre 1991, a Madrid, si riunì una “Conferenza Internazionale per la Pace in Medio Oriente”. La Conferenza, seguita alla Prima guerra statunitense contro l’Iraq, era stata proceduta da svariati atti preliminari.
Nel maggio 1989, Yāsser ʿArafāt, presidente dell’OLP e leader di al-Fatḥ aveva dichiarato “decaduta” la Carta dell’OLP (quella elaborata nel 1964 e rivista nel 1968). Negli ultimi mesi del 1989 e nei primi del 1990 l’emigrazione di ebrei sovietici verso Israele, conobbe un’accelerazione senza precedenti e nell’ottobre 1991 l’Unione Sovietica ristabilì le relazioni diplomatiche con Israele, interrotte nel 1967. Nel gennaio del 1991 erano stati assassinati a Tunisi tre capi di al-Fatḥ. Dei 15 fondatori del movimento rimanevano in vita Yāsser ʿArafāt e l’inoffensivo Fārūq al-Qaddūmī, formalmente capo del Dipartimento politico, ma nei fatti privo di qualsiasi potere contrattuale.
L’OLP non era formalmente ammessa alla Conferenza, ma partecipava ai lavori una folta delegazione di palestinesi emersi negli anni dell’Intifada come leader popolari ben accetti alla dirigenza dell’OLP a Tunisi. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, i negoziati proseguirono a Washington, ma si interruppero dopo l’espulsione di 415 attivisti palestinesi decisa dal governo Rabin nel dicembre 1992. Il 13 luglio 1993 il capo dell’OLP, Yāsser ʿArafāt, firmò una lettera indirizzata al capo del governo israeliano, Yitzhak Rabin, in cui si impegnava a “rinunciare al terrorismo” e a “riconoscere lo Stato d’Israele”. Il 13 settembre 1993 L’OLP e Israele firmarono alla Casa Bianca una “Dichiarazione di principi”, in seguito nota come “Oslo I”, che avrebbe dovuto portare a un “autogoverno dei palestinesi”. Il 1994 si aprì all’insegna del proseguimento dei massacri dei palestinesi.
[caption id="attachment_9073" align="aligncenter" width="1000"] Gli accordi di Oslo, ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi (DOP), sono una serie di accordi politici conclusi a Oslo (Norvegia) il 20 agosto 1993.[/caption]
Il 25 febbraio il colono Baruch Goldstein irruppe nella Moschea d’Abramo a Hebron e uccise 29 fedeli in preghiera. Proseguirono le trattative fra l’OLP e il governo Rabin. Pochi giorni dopo verranno firmati accordi riguardanti questioni economiche (Parigi, 29 febbraio 1994), sulle modalità di applicazione della “Dichiarazione dei principi” (Il Cairo, 4 maggio 1994), sull’estensione del regime dell’autonomia alla Cisgiordania (Washington, 28 settembre 1995), in seguito noto come “Oslo II”.
Nell’ottobre 1994 Israele e Giordania firmarono un trattato di pace. Il 4 novembre 1995 venne ucciso - da un colono estremista - il presidente israeliano Yitzhak Rabin.
Punto centrale degli accordi era la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese con corpi di polizia e servizi di informazione ai quali venne ben presto chiesto di partecipare alla repressione. Già nell’aprile 1995 la polizia palestinese, presente allora solo a Gaza, arrestò 170 presunti “simpatizzanti di Hamas”, mentre il governo diede una forte accelerazione alla politica degli “omicidi mirati” uccidendo Yaḥyā ʿAyyāsh, leader di Hamas. Il 20 gennaio 1996 si organizzarono le elezioni vinte da al-Fatḥ che ottenne l’80% dei seggi del “Consiglio Legislativo”. ʿArafāt venne eletto “Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese”.
La creazione dell’ANP non fermò la continua erosione del territorio palestinese con la creazione di nuovi insediamenti per coloni israeliani. Il 27 settembre 1996 l’apertura di un tunnel sotto la collina della Spianata delle Moschee divenne motivo di una protesta popolare. La polizia israeliana sparò sui manifestanti e uccise 44 persone, mentre circa 700 rimasero ferite. Il 25 febbraio 1997 cominciarono i lavori di costruzione di un grande insediamento a Gerusalemme Est, in violazione degli stessi accordi di Oslo, mentre gli Stati Uniti posero il veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il 14 maggio 1998, in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, l’IDF sparò sui manifestanti palestinesi, ne uccise 9 e ne ferì 200. Il mese dopo il governo israeliano approvò un piano per l’ampliamento del territorio di Gerusalemme. In ottobre l’ANP firmò a Wye River un nuovo accordo in cui si impegnava a “reprimere i gruppi ostili alla pace”.
Il 28 settembre 2000, il capo del Likud, il generale Ariel Sharon, si recò sulla Spianata delle Moschee accompagnato da centinaia di poliziotti. Le manifestazioni di protesta che esplosero spontaneamente a Gerusalemme vennero represse secondo le solite modalità: la polizia sparò sui manifestanti, ne uccise 7 e ne ferì 250. La protesta popolare ben presto dilagò dando inizio a un nuovo periodo di forte mobilitazione popolare che verrà in seguito definito come Seconda Intifada o Intifada di al-Aqṣā. Ben presto i moti popolari cedettero il passo all’azione di gruppi armati. Infatti, in base agli accordi di Oslo erano stati introdotti nei Territori Occupati ingenti quantità di armi e di uomini armati provenienti dall’estero, all’evidente scopo di spostare sul terreno militare lo scontro tra il disarmato e pacifico movimento di resistenza popolare palestinese e l’esercito di occupazione israeliano.
La repressione dei moti popolari dell’ottobre 2000, proseguì con uso massiccio di armi pesanti. Nel febbraio 2001, il generale Sharon sostituì Ehud Barak alla guida del governo israeliano. I raid con elicotteri da guerra israeliani si intensificarono e alla fine di marzo l’esercito israeliano invase le zone assegnate alla polizia palestinese secondo gli accordi di Oslo. Da parte palestinese, continuarono gli attentati su tutto il territorio israeliano. 
In aprile le vittime civili palestinesi della Seconda Intifada salirono a 400. Il 18 maggio, un attentatore suicida palestinese si fece esplodere in un supermercato uccidendo cinque soldati israeliani. Pochi minuti dopo l’attentato i caccia F16 israeliani bombardarono le città di Ramallah, Nāblus e Ṭūlkarem causando decine di morti. In luglio vennero creati dieci nuovi insediamenti israeliani nei Territori Occupati.
Il 29 agosto venne ucciso a Ramallah Abū ʿAlī Muṣṭafā, leader del FPLP (Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), con due missili lanciati dall’esercito israeliano. Per tutta risposta il 17 ottobre un commando del FPLP uccise il ministro israeliano Rehavam Ze’evi. Il 18 l’aviazione israeliana bombardò le sei città affidate all’ANP nei Territori Occupati uccidendo 40 civili palestinesi. In dicembre i caccia F16 bombardarono l’ufficio del capo dell’ANP ʿArafāt a Gaza accusato di “non fare abbastanza per combattere il terrorismo”. ʿArafāt venne confinato nel suo ufficio a Ramallah sotto assedio israeliano. Il 16 gennaio 2002, la polizia dell’ANP arrestò il nuovo leader del FPLP Ahmad Saʿdāt.
Si alternarono attentati suicidi palestinesi a bombardamenti e omicidi mirati israeliani. In aprile l’esercito israeliano occupò di nuovo la città di Betlemme, Qalqīlya e Ṭūlkarem, precedentemente consegnate all’ANP.
Alla fine di marzo del 2002 Israele lanciò, colpendo aree residenziali, la più grande offensiva militare dai tempi dell’inizio dell’Occupazione della Cisgiordania nel 1967. Chiamata Operazione “Scudo difensivo”, l’invasione di città palestinesi raggiunse livelli incredibili di violenza nei confronti della popolazione civile, la distruzione di edifici e infrastrutture governative, l’incendio di numerosi negozi, centri e attività commerciali, danni incommensurabili al patrimonio culturale e distruzioni di infrastrutture civili. L’esercito israeliano tagliò acqua ed elettricità dalla maggior parte delle aree e impose pesanti coprifuoco sugli abitanti della città. Tutte le città palestinesi e il loro tessuto sociale ed economico hanno subito un livello incomparabile di violenza e distruzione, ma la parte più grave dell’Operazione “Scudo difensivo” è stata condotta nel campo profughi di Jenin, la cui invasione è stata etichettata da tutte le organizzazioni per la difesa dei diritti umani come “crimine di guerra”.
[caption id="attachment_9076" align="aligncenter" width="1000"] Frammento fotografico dell'operazione "scudo difensivo". L'operazione è stata una grande operazione militare condotta dalle Forze di difesa israeliane nel 2002, nel corso della Seconda intifada. È stata la più grande operazione militare nella Cisgiordania, dopo la guerra dei sei giorni del 1967. L'obiettivo dichiarato era quello di porre fine all'ondata di attacchi terroristici palestinesi. Il casus belli fu l'attentato suicida avvenuto il 27 marzo al Park Hotel a Netanya; un attentatore palestinese si fece esplodere, uccidendo 30 persone e ferendone altre 140.[/caption]
L’offensiva ha avuto inizio con l’attacco al quartier generale di Yāsser ʿArafāt a Ramallah. L’esercito entrò a Betlemme, Ṭūlkarem, Qalqīlya il 1 aprile e Jenin e Nāblus il 3 e 4 aprile. Queste aree vennero dichiarate “zone militari chiuse”, ogni via d’accesso venne bloccata e fu impedito il passaggio ai soccorsi umanitari e medici. Jenin venne assediata e l’accesso alla città impedito dal 3 al 18 aprile circa. Un fuoco sostenuto, l’assalto dei carri armati e missili sparati dagli elicotteri Apache diedero il via all’attacco contro il campo profughi. Poiché i blindati non poterono entrare nei vicoli, i bulldozer demolirono le case sui due lati delle strade. Con la morte di ʿArafāt, nel novembre 2004 vennero indette le elezioni presidenziali per la designazione del suo successore.
Il primo dei quattro round di elezioni municipali – che si svolsero tra il dicembre 2004 e il dicembre 2005 – inaugurò per i palestinesi un anno di appuntamenti con le urne. Nel gennaio 2005 Maḥmūd ʿAbbās fu eletto dopo una campagna elettorale che mostrò forti divisioni all’interno di al-Fatḥ: Marwān Barghūthī – che dall’aprile 2002 era detenuto nelle carceri israeliane – si presentò come candidato alternativo ad ʿAbbās. La candidatura di Barghūthī creò scompiglio nelle file di al-Fatḥ - diversi sondaggi prevedevano un testa a testa fra i due leader per la presidenza – ma venne ritirata un mese prima delle elezioni. Il ritiro di Barghūthī e il rifiuto di Hamas di presentare un proprio candidato consegnarono la vittoria ad ʿAbbās, che prevalse con il 62,5% dei voti. Il successo di ʿAbbās era però più fragile di quanto le percentuali potessero far supporre: ʿArafāt era stato eletto dieci anni prima con quasi il 90% dei voti in elezioni che avevano visto un affluenza molto più alta – il 71% dell’elettorato contro il 45% del 2005 – e la vittoria di ʿAbbās si doveva, in buona parte, alla trattativa dell’ultimo minuto con la “nuova guardia” del partito che aveva portato al ritiro di Barghūthī. La crisi di al-Fatḥ fu resa evidente dall’andamento delle consultazioni successive, dove gli islamisti presentarono le proprie liste. Hamas ottenne un sostanziale successo dapprima nelle elezioni locali: dal primo round – in cui l’organizzazione conquistò oltre il 35% dei voti, e 13 municipi su 28 – al quarto – quando essa si impose a Nāblus, Jenin e al-Bireh – il movimento islamista mostrò per la prima volta quanto fosse solido il consenso di cui godeva nei Territori, anche al di fuori delle proprie tradizionali roccaforti di Gaza e Hebron. Alla vigilia delle elezioni per il Consiglio la “minaccia” nei confronti del monopolio di al-Fatḥ aveva dunque assunto tratti molto concreti. Numerosi osservatori dubitavano tuttavia che Hamas sarebbe riuscita a replicare il buon risultato locale in un’elezione nazionale; immaginare una sconfitta di al-Fatḥ - centro della politica palestinese dalla fine degli anni Sessanta – per opera di quella che era principalmente considerata un’organizzazione terroristica sembrava impossibile. L’esito del voto del 25 gennaio 2006 fu dunque per molti versi un fulmine a ciel sereno e uno shock per la comunità internazionale: non solo Hamas vinse le elezioni, ma si impose in modo netto, aggiudicandosi quasi il 45% delle preferenze e 72 seggi su 132, mentre al-Fatḥ si fermò al 41% e 45 seggi. Hamas ottenne così la maggioranza assoluta dei seggi del Consiglio e la possibilità di formare un governo. Nel marzo 2006 Ismāʿīl Haniyeh – tra i fondatori di Hamas – divenne così il primo ministro dell’ANP.
Per il movimento islamista la scelta di partecipare alle elezioni rappresentò una svolta fondamentale: per la prima volta Hamas accettava di partecipare al sistema politico creato dagli accordi di Oslo, pur senza riconoscerli apertamente.
La dirigenza del movimento aveva già discusso questa possibilità nel 1996, ma allora era stata scelta la strada del boicottaggio. Nel 2005 il contesto era cambiato, per via della crisi di al-Fatḥ e del crollo catastrofico del processo di Oslo.
La Seconda Intifada era stata combattuta da tutti i gruppi armati palestinesi, ma aveva rafforzato Hamas rispetto ai suoi concorrenti politici. La delusione per l’esito di Oslo aveva premiato politicamente la credibilità di chi vi si era sempre opposto fin dall’inizio, e fin dall’inizio della rivolta di Hamas era stata sempre in prima linea nello scontro con Israele. Tracciando un parallelo col Libano degli Hezbollah, politicamente vicini all’organizzazione islamista, Hamas si trovava nelle condizioni migliori per rivendicare come un successo della resistenza il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, avvenuto pochi mesi prima delle elezioni. Capace di coniugare un seguito di massa con l’efficienza delle proprie milizie, rinforzate da una schiera apparentemente inesauribile di aspiranti kamikaze, Hamas venne duramente colpita da Israele; tuttavia la repressione finì per favorire gli islamisti. Hamas non dipendeva per la sua attività dalla macchina dell’ANP, che fu quasi interamente distrutta nelle fasi più violente dell’Intifada; l’organizzazione fu inoltre in grado di mantenere un’unità logistica e una catena di comando incomparabilmente più solide rispetto a quelle di al-Fatḥ, preda invece di incontrollate spinte centrifughe. Le risorse della sua rete di assistenza, dopo il collasso dell’ANP, erano più che mai fondamentali per le impoverite famiglie palestinesi; inoltre i quadri del movimento si erano fatti negli anni una reputazione di onestà, abnegazione ed efficienza che contrastava con la gestione disinvolta di al-Fatḥ. Anche la politica israeliana di esecuzioni mirate produsse risultati controproducenti: gli omicidi di alti dirigenti di Hamas come lo shaykh Aḥmad Yāsīn e Abd al-Aziz al-Rantissi rafforzarono il consenso verso gli islamisti senza intaccarne la capacità politica e operativa. La morte di Yāsīn in particolare, assassinato da un razzo lanciato da un elicottero mentre stava uscendo da una moschea a Gaza, fece di lui un martire e decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali.
Hamas affrontava dunque la prospettiva di partecipare alle elezioni locali e nazionali da un nuovo punto di vista: la forza dell’organizzazione era cresciuta, il momento era politicamente propizio e il crollo del processo di pace offrì la possibilità di compiere un simile passo senza dover sottoscrivere la linea politica di al-Fatḥ. Gli osservatori internazionali, non furono tuttavia gli unici ad essere sorpresi dalla vittoria di Hamas: secondo Khaled Hroub la stessa leadership dell’organizzazione non si aspettava una vittoria così netta, ma puntava piuttosto a svolgere un ruolo di “cane da guardia” nei confronti di al-Fatḥ. Agendo dall’interno delle istituzioni dell’ANP, Hamas avrebbe potuto controllare al-Fatḥ cercando di far pesare nel dibattito le ragioni della resistenza. L’ingresso nell’ANP avrebbe inoltre potuto garantire qualche protezione rispetto alla repressione israeliana. Questo tentativo di sperimentare un cauto ingresso nel sistema andò però oltre le previsione della leadership e Hamas si trovò ad affrontare direttamente la responsabilità di governare l’ANP, in un momento di grande tensione. Il nuovo premier Ismāʿīl Haniyeh – dirigente dalle posizioni pragmatiche che aveva sostenuto l’idea della partecipazione di Hamas alle elezioni già nel 1996 – assunse la carica lanciando appelli di relativa moderazione e cercando di formare un governo di unità nazionale con le altre organizzazioni.
Tanto il programma elettorale che quello del governo, e altri documenti dello stesso periodo, rappresentavano un’evoluzione in senso pragmatico rispetto a precedenti occasioni; a partire dal 2002 l’organizzazione, assieme ad altri gruppi, aveva anche proposto inutilmente a Israele di discutere una tregua – in termini islamici una hudna – e ne aveva dichiarate diverse unilateralmente a partire dal 2003.
L’impressione di molti osservatori fu che Hamas volesse esplorare le possibilità offerte dal nuovo contesto avviando una trattativa indiretta – il cui onere formale sarebbe toccato al Presidente ʿAbbās – che si fosse concentrata sulla prospettiva di una tregua a tempo indefinito fondata sui termini della soluzione dei “due popoli due Stati”. Un tale meccanismo avrebbe consentito di trattare con Israele senza affrontare scogli formali quali il riconoscimento dello Stato ebraico o l’adesione agli accordi di Oslo.
Il contesto post-elettorale mise tanto al-Fatḥ quanto Hamas davanti a uno scenario, il cui nodo problematico riguardava la definizione della loro relazione reciproca e di quella con la società palestinese. Fin da subito, tuttavia, gli eventi iniziarono a precipitare, portando ben presto Hamas e al-Fatḥ in rotta di collisione. Israele dichiarò di non riconoscere il nuovo governo, rifiutandosi di effettuare i trasferimenti di fondi che erano dovuti all’ANP e arrestando decine di esponenti di Hamas, tra cui diversi parlamentari e ministri. La comunità internazionale, almeno per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea, seguì la medesima linea, sospendendo i finanziamenti o cercando di aggirare il governo di Hamas. Il boicottaggio contribuì a esasperare la tensione fra Hamas e al-Fatḥ, creando un conflitto politico e istituzionale. La macchina amministrativa dell’ANP, e in particolare i servizi di sicurezza, era costituita da personale vicino ad al-Fatḥ, poco propenso a collaborare con il nuovo esecutivo. Mentre il governo era boicottato dai paesi arabi donatori, questi ultimi continuavano a finanziare la presidenza di ʿAbbās e a fornire addestramento ai servizi di sicurezza a lui vicini. Pochi mesi dopo le elezioni del gennaio 2006 al-Fatḥ rifiutò per la prima volta di prendere parte al governo di unità nazionale proposto da Hamas; nello stesso tempo la presidenza dell’ANP attuò una specie di golpe non violento nei confronti del governo appropriandosi di competenze nel campo legislativo e amministrativo. A partire dal quel momento vi fu uno stillicidio tra sostenitori delle due organizzazioni, che lasciarono sul campo diverse decine di morti prima della fine dell’anno. A dicembre, la minaccia di ʿAbbās di convocare nuove elezioni nel caso non si fosse trovato un accordo per il governo di unità nazionale innalzò ulteriormente la tensione, solo temporaneamente smorzata dalla costituzione di un fragile esecutivo d’intesa formato da rappresentanti di quasi tutte le liste elette al Consiglio. Gli scontri fra Hamas e al-Fatḥ ripresero a maggio e il conflitto esplose in modo definitivo il mese successivo. All’inizio di giugno quattro giorni di combattimenti a Gaza provocarono 500 feriti; la battaglia si concluse con la vittoria di Hamas. ʿAbbās reagì esautorando il governo di Haniyeh e nominando Salām Fayyāḍ primo ministro, mentre i militanti di al-Fatḥ iniziarono una serie di rappresaglie contro le strutture e i militanti di Hamas in Cisgiordania. Nonostante la situazione rimanesse tesa Hamas riuscì a consolidare il suo controllo sulla Striscia di Gaza. Gli eventi del giugno 2007 determinarono dunque una drammatica spaccatura istituzionale – tra la presidenza e il governo dell’ANP – e territoriale tra Gaza e Cisgiordania. Israele reagì isolando completamente Gaza; il blocco aggravò ulteriormente le condizioni della popolazione residente nonostante l’espansione del sistema dei tunnel verso l’Egitto, che consentiva di contrabbandare generi di prima necessità. Hamas si dimostrò tuttavia in grado di mantenere l’ordine, senza tuttavia rinunciare a colpire Israele con ripetuti lanci di razzi artigianali – i famosi Qassam – verso le località israeliane più vicine ai confini di Gaza.
[caption id="attachment_9077" align="aligncenter" width="1000"] Col termine striscia di Gaza (in arabo: قطاع غزة‎, Qiṭāʿ Ghazza; in ebraico: רצועת עזה, Retzu'at 'Azza) si indica un territorio palestinese confinante con Israele ed Egitto nei pressi della città di Gaza. Si tratta di una regione costiera di 360 km² di superficie popolata da circa 1.760.037 abitanti di etnia palestinese, di cui 1.240.082 rifugiati palestinesi.[/caption]
Alle 11.30 del mattino del 27 dicembre 2008 Israele scatenò una massiccia offensiva aerea contro la Striscia di Gaza, denominata Operazione “Piombo Fuso”. L’obiettivo ufficiale dichiarato dal governo israeliano era porre fine al lancio di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza verso Israele. Ma, come ha commentato il giornalista israeliano Michel Warschawski in un suo articolo scritto nei giorni dell’attacco: «La carneficina di Gaza non è una reazione “sproporzionata” ai razzi lanciati dai militanti della Jihad Islamica e altri gruppuscoli palestinesi sulle località israeliane vicine alla Striscia di Gaza, ma un’azione premeditata da molto tempo, come d’altronde riconosce la maggior parte dei commentatori israeliani».
Il 3 gennaio Tel Aviv invase la Striscia con forze di terra. Il 7 gennaio il bilancio delle vittime era già di 639 palestinesi morti e tremila feriti. Gli israeliani morti undici. Oltre ai centri di potere e alle case dei leader di Hamas, i caccia israeliani bombardarono università, moschee e i tunnel al confine con l’Egitto.
Il 6 gennaio l’artiglieria israeliana rase al suolo una scuola gestita dall’ONU uccidendo 40 persone, tra cui molti bambini: le immagini di questa tragedia faranno il giro del mondo scatenando reazioni unanimi di condanna. Il 18 gennaio Hamas e Israele annunciarono il cessate il fuoco: il bilancio dei 22 giorni di attacchi militari fu di 1.400 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. Tra i morti, centinaia furono i civili inermi, compresi di 300 bambini, oltre 115 donne, circa 100 anziani e circa 200 giovani non armati. 240 poliziotti vennero uccisi nei bombardamenti che hanno colpito le stazioni di polizia lungo la Striscia di Gaza e la cerimonia dei cadetti che si stava svolgendo a Gaza City nelle prime ore dell’Operazione “Piombo Fuso”. Questi numeri si basavano sui dati raccolti dai delegati di Amnesty International a Gaza e su casi documentati da Ong e personale medico di Gaza.
Secondo le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, due terzi dei morti furono composti da civili. Amnesty, che ha portato avanti la sua indagine tra gennaio e febbraio 2009, non ha però avuto né le risorse né il tempo per verificare queste informazioni.
Si contarono circa 5.300 feriti (di cui 350 gravi), molti resi disabili a vita, intere aree della Striscia ridotte ad un cumulo di macerie, decine di migliaia di persone ridotte senza una casa a cui far ritorno e l’economia di Gaza, già disastrata, subì il tracollo definitivo.
Da parte israeliana, 3 civili morirono colpiti da razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, mentre 84 persone rimasero ferite. Nove soldati vennero uccisi durante i combattimenti a Gaza (4 colpiti da fuoco amico) e 113 feriti.
L’8 luglio del 2014 Israele lanciò una nuova campagna militare nella Striscia di Gaza con il nome in codice “Margine di Protezione”. Anche in questo caso come per “Piombo Fuso” l’intento dichiarato era quello di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio. Secondo i dati delle Nazioni Unite, nei 51 giorni della guerra, che si è conclusa il 26 agosto, i bombardamenti e le incursioni via terra dell’esercito israeliano hanno causato la morte di più di 2.200 palestinesi, di cui 1.462 civili, un terzo dei quali bambini.
L’attuale approccio alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese ha portato a un’impasse, e la questione che va avanti da più di un secolo sembra destinata a durare per due ragioni principali. Prima ragione: le possibilità di uno Stato palestinese sostenibile in Cisgiordania e a Gaza, come molti analisti convengono, sono esili, grazie alla malandata configurazione dell’area e allo spazio ridotto. Sta invece emergendo ciò che resta di uno Stato, sotto la tutela di Israele – un insieme di bantustan palestinesi. Seconda ragione: la negazione israeliana del diritto al ritorno dei rifugiati implica che le tensioni tra i palestinesi e giordani dell’Est in Giordania continueranno. Anche in Israele l’antagonismo tra ebrei e arabi è destinato inevitabilmente a continuare, a causa della mancata risoluzione del problema palestinese e all’insistenza di Israele nell’essere uno Stato esclusivamente ebraico, e non uno Stato per tutti i suoi cittadini.
Perché si possa mai realizzare una pace duratura, è necessario superare la formula dei “due popoli due Stati” venutasi a consolidare con gli accordi di Oslo.
La soluzione dello stato unico è stato l’approccio palestinese alla risoluzione del conflitto con Israele, fin da quando l’OLP non adottò manifestamente nel 1988 la strategia dei due Stati. Al-Fatḥ adottò tale idea verso la fine degli anni Sessanta, ma per un breve periodo, senza aver riflettuto seriamente sulle modalità istituzionali e senza identificazione dei passaggi attraverso i quali avrebbe potuto essere raggiunta o cosa avrebbe significato sotto il profilo delle strategie militari e politiche. L’idea fu esposta all’opinione pubblica nel 1974, nel famoso discorso di Yāsser ʿArafāt, capo dell’OLP, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ciò che ʿArafāt chiedeva in poche parole, era la desionizzazione di Israele. La reazione di Israele e dei suoi sostenitori fu immediata e inequivocabilmente negativa: tale progetto era un espediente per la distruzione dello Stato ebraico. Dal quel momento la formula dello stato unico cadde nell’oblio, tranne che per alcuni attivisti risoluti. I critici di tale soluzione mettono l’accento sulla mancanza di sostegno pubblico al progetto derubricandolo a una mera utopia. La verità è che è molto più irrealistico pensare di continuare a parlare della soluzione dei due Stati. Recentemente il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva una legge che permetterà ai cittadini israeliani di appropriarsi forzosamente di terreni privati in territorio palestinese, limitandosi a compensare i proprietari con una somma in denaro. La legge avrà inoltre valore retroattivo, e legalizzerà di fatto qualsiasi insediamento presente in terra palestinese. La verità è che Israele ha già fatto lo stato unico, ora si tratta di trasformare questo stato in una vera democrazia dove ebrei, cristiani e musulmani possano vivere in pace con rispetto reciproco e senza nessuna discriminazione.
 
Per approfondimenti:
_Edward Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995;
_Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, BUR, 2003;
_Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970;
_Elias Sanbar, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire, Milano, Jaca Book, 2005;
_Janet Abu-Lughod, The Demographic Transformation of Palestine, in Id., The Transformation of Palestine: Essays on The Origin and Development of The Arab-Israeli Conflict, Northwestern University Press, Evanston, 1971;
_Marco Allegra, Palestinesi. Storia e identità di un popolo, Roma, Carocci, 2010;
_Ilan Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005;
_Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008;
_Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001;
_Antonio Moscato, Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, Roma, Sapere 2000, 1984;
_Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese, Pistoia, Editrice CRT, 2004;
_Nakba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Roma-Salerno, Fondazione Internazionale Lelio Basso, 1988;
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi, Firenze, Sansoni, 1973;
_Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of "Transfer" in Zionist Political Thought, 1882-1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992;
_Nur Masalha, A Land Without a People, Transfer and the Palestinians 1949-1985, Londra, Faber & Faber, 1997;
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Roma, Gamberetti, 1995;
_Patrick Seal, Abu Nidal, una pistola in vendita. I mille volti del terrorismo internazionale, Roma, Gamberetti, 1994;
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Milano, Il Saggiatore, 2010;
_Khaled Hroub, Hamas: un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano, Mondadori, 2006;
_Michel Warschawski, Israele-Palestina. La sfida binazionale: un sogno Andaluso del XXI secolo, Roma, Sapere 2000, edizioni multimediali, 2002;
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1481032854394{padding-bottom: 15px !important;}"]Il Dracula di Stoker: il romanzo gotico tra simbolismo e psichiatria[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 06/07/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1481043442887{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La rappresentazione metafisica europea del “male”, si incarna spesso in un unico personaggio letterario e cinematografico: il conte Dracula.
Nella letteratura del vecchio continente, il “Castello di Otranto” è il primo romanzo dove possiamo percepire il senso letterario gotico, ma nel “Dracula” di Bram Stoker l’inquietudine, la paura e la malvagità stessa si impersonificano all’unisono. Il conte dell’Impero Austro-Ungarico, funge da legante di tutta la trama, rendendo straordinaria la lettura.
Un vecchio alto, accuratamente sbarbato, ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi, senza una nota di colore in tutta la persona. Teneva in mano una antica lampada d’argento, la cui fiamma ardeva senza un tubo, né un globo di sorta, e proiettava lunghe, tremule ombre mentre oscillava nella corrente della porta aperta. (…) Un viso d’aquila, caratterizzato da un naso sottile e decisamente arcuato, con narici assai dilatate; una fronte alta e bombata, con capelli radi sulle tempie, ma fitti altrove. Le sopracciglia foltissime quasi si congiungevano sulla radice del naso, i peli tanto cespugliosi da sembrare arricciati. La bocca, per quello che potevo vedere sotto i grandi baffi, era ferma e di taglio crudele, con denti particolarmente bianchi e aguzzi, che gli sporgevano dalle labbra, il cui notevole colore rosso dimostrava una stupefacente vitalità in un individuo così anziano. Quanto al resto, orecchie pallide ed estremamente appuntite, il mento forte e deciso, le guance sode sebbene magre. (…) Le mani erano invece alquanto grossolane, larghe, con dita tozze. Particolarmente strano, il centro del palmo era peloso. Le unghie, sottili e belle, tagliate molto a punta”.
Così appare il male – facente parte di una razza diversa da quella dell'uomo – agli occhi del britannico Jonathan Harker, arrivato al castello del conte per risolvere una pratica per il suo studio legale, dove egli era impiegato.
[caption id="attachment_7030" align="aligncenter" width="1303"] Adattamento dell'omonimo spettacolo teatrale di Broadway del 1927, Dracula è un film del 1931 diretto da Tod Browning e da Karl Freund. E' una delle più note trasposizioni cinematografiche dell'omonimo romanzo di Bram Stoker del 1897. Nella foto Bela Lugosi interpreta il conte Dracula.[/caption]
Ma chi è il conte Dracula nell’immaginario europeo? Il vampiro può definirsi l’archetipo del male assoluto?
Seguendo un profilo storico, Vlad Dracula o Vlad Tepes governò la Valacchia nel tardo medioevo (1448) fino agli inizi del rinascimento (1476) diventando tristemente noto, come vero e proprio tiranno impalatore di uomini. Elemento non trascurabile fu la sua lotta contro l’esercito dell’impero ottomano: i turchi nel medioevo erano considerati uomini che il demonio aveva mandato sulla terra, erano l’incarnazione del male nel panorama cristiano. La Valacchia – provincia romena della Transilvania (oggi) – diviene così terra di lotta tra bene e male. Le fondi storiche sono state considerate di grande importanza per l’irlandese Bram Stoker poiché hanno conferito autorevolezza al malvagio personaggio. Difatti l’immaginario del “vampiro” era già stato toccato da John Polidori e Francis Varney.
[caption id="attachment_7032" align="aligncenter" width="1000"] La Fortezza di Poenari (rumeno: Cetatea Poenari), nota anche come Castello di Poenari, è una fortezza situata nel comune di Arefu, nel Distretto di Argeș (Romania), affacciata sulla valle scavata dal fiume Argeş. Fu eretto nel XIII secolo durante il regno di Valacchia, divenendo nel XIV secolo il castello più importante della famiglia dei Basarabidi. A distanza di pochi decenni il castello venne abbandonato e versò in rovina fino al XV secolo, quando venne recuperato e rafforzato da Vlad III di Valacchia, il personaggio storico ispiratore del mito di Dracula. A seguito della morte di Vlad III, nel 1476, il castello fu nuovamente abbandonato. Attualmente è raggiungibile salendo una scalinata di 1.480 gradini.[/caption]
La potenza di questa storia è ricercabile all’interno dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Il conte-vampiro Dracula è la personificazione del male: fascinoso e ammaliante da un lato, demonio irascibile dall’altro.
Queste due distinte personalità sono inserite anche in uno scenario fiabesco con tono di orrore: Dracula può assumere forme animali richiamando la metamorfosi delle fiabe ed è assetato di sangue essendo un “nosferatu” – un non-morto. Il sangue ha un forte valore simbolico nella cultura mitteleuropea, poiché è simbolo di vita: dopo aver succhiato il sangue, egli diviene persino giovane, mentre senza non può vivere tra i morti. Riferimenti ci sono anche sotto il carattere religioso, poiché Cristo trasforma il pane in corpo e sangue del Signore e così dà la vita agli uomini: lo trasforma in sangue perché senza di questo il corpo non vive. Del resto il conte della Valacchia oserà uccidere anche un infante – strappato alla propria madre – poiché il sangue di un bambino è ancora più ricco di linfa vitale. Segue breve descrizione: “Mentre ci guardava, i suoi occhi brillavano di una luce malvagia, il viso si atteggiava a un voluttuoso sorriso (…) Con un gesto d’indifferenza, ha gettato per terra, insensibile come un demonio, il bambino che fino a quel momento aveva tenuto fortemente stretto al seno, ringhiando come farebbe un cane sul suo osso”.
Il sangue di Dracula è comunque un sangue sporco, contaminato dal male stesso. E’ per questo motivo che si userà la tecnica della trasfusione quanto questi colpirà le sue vittime: il male presente nel sangue deve essere esportato come un veleno, per guarire l’animo. Occorre aggiungere che il succhiare è elemento di vita, modalità con cui il neonato vive. Un non-morto che vive, appunto. Dracula esercita quella libertà negativa che Isaiah Berlin descrive in “quattro saggi sulla libertà”. La libertà dell’egoismo personale e della travalicazione del proprio benessere a discapito del prossimo, il quale acquisisce il ruolo di vittima, che in questo caso  - per il conte - diventa  azione di sopravvivenza.
Demoniache sono le sue azioni e le sue fattezze fisiche, come si evince dalla descrizione di uno dei protagonisti del romanzo – il professore olandese Van Helsing: “Il vampiro sempre vive, e non può morire per solo passare del tempo. (…) Può anche diventare più giovane. (…) Lui non fa ombra, lui non fa riflesso in specchio. (…) Può trasformarsi in lupo (…) lui può essere pipistrello (…) Può venire in nebbia. (…) Lui viene su raggi di luna come pulviscolo. (…) Lui può vedere nel buio. (…) Il suo potere cessa (…) quando sopraggiunge il giorno. (…) mentre può fare come vuole (…) quando ha la sua casa-terra, la sua casa-bara, la sua casa-inferno… Esistono poi cose che talmente lo disturbano, che lui non ha più potere come l’aglio (…) crocifisso”.
Tra le metamorfosi possibili la più importante è quella del pipistrello: un essere strano, perverso, poiché appartiene ai mammiferi e non alla specie degli uccelli – un animale notturno, che nella notte diviene elemento del peccato. La simbologia dell’uccello è sconfinata ed è anch’essa parte di vita. Il pene è popolarmente chiamato “uccello”: proprio perché si eleva e in quel volo che da la vita, il seme. Il pipistrello è la nemesi del volatile: è repellente e di giorno non ha vitalità, rimanendo appeso e molle all’interno della caverna. Il sangue (vita) richiama la simbologia dell’uccello-pene ed è suggestiva l’immagine del battesimo di sangue con la signora Mina attaccata al petto di Dracula in una posizione che richiama la fellatio.
L’oscurità acquisisce un ruolo fondamentale, poiché è elemento di grande fascino ponendosi a dimensione dove esercitare azioni di gruppo. Se si considera la discoteca, questa diviene – per un ragazzo – una sorta di antro, di utero in cui compiere, senza essere visti, azioni proibite o comunque misteriose. Nel buio si cerca la prostituzione, i nostri desideri perversi e proibiti. Dracula è tutto questo.
Il colore nero, gioca anch’egli un ruolo fondamentale: esso è indefinizione, buio, morte e eleganza con cui certo è bene presentarsi al giudizio divino. Difatti il pipistrello è nero, come il mantello del conte.
Una caratteristica toccata è anche quella della solitudine: il conte è un uomo solo, isolato – a volte può intenerire – come si evince all’inizio del romanzo quando prepara con cura, da solo, la cena a Jonathan Harker con estrema eleganza e nobiltà, elemento di un glorioso passato, che parallelamente si accosta allo stesso stato Austro-Ungarico, in lento declino, dove la Valacchia non è altro che una regione di confine. Nello sfondo di questo antico passato si percepisce il sangue blu di Dracula – vittima di se stesso e ancorato nelle tenebre eterne.
Van Helsing è il sacerdote del Bene, che qui - dati i tempi della “morte di Dio” - non indossa le vesti di un chierico, ma l’abito della scienza – interpretando benissimo la corrente del positivismo. Un sacerdote che miscela alla perfezione ragione e scienza insieme a strumenti sacri e magici – elementi dello spiritismo di fine ottocento. Possiamo certamente affermare che l’opera di Stoker viene permeata da queste due entità che si fronteggiano con i propri diaconi: Dracula da una parte e Van Helsing dall’altra.
Per avere un quadro generale nel 1897 – data in cui esce il romanzo – il positivismo domina l’Europa. Questa corrente di pensiero si basa sempre su fatti concreti, verificabili, e la scienza positiva era proprio la ricerca degli eventi. La possibilità di descrivere e di misurare la realtà era il primo cardine di questo movimento culturale legato a regole ben precisi e controllabili. Tutto ciò che non viene comprovato dall’esperimento e dalla scienza non poteva definirsi positivista. Da qui nascerà la sociologia con lo studio antropologico, la psicologia sperimentale del dott.Wundt, la misurazione della personalità di Cesare Lambroso. Insomma l’atmosfera europea trepida di scienza. Di contro nello stesso periodo si assiste al più grande sviluppo dello spiritismo, alla convinzione della presenza del male tra streghe e spiriti. Tuttavia tale conflitto accademico avviene pacificamente e si arriverà anche al successo dell’elettromagnetismo, dell’ipnosi e della realtà ultra-terrena – tutte operazioni a metà tra scienza e spiritualità. Lo stesso socialista Lambroso – laico – credeva negli spiriti, entità certamente non positive. Ed è nel tema spirituale che si inserisce il letterato irlandese con il suo romanzo gotico, capolavoro della letteratura moderna. I morti e il divino sono inseriti nello spiritismo, non come teorie o teologie, ma come concetto di esperienza, in forte sintonia con il positivismo.
Dracula può essere definito un romanzo psichiatrico, poiché l’attenzione rivolta sempre verso comportamenti anomali. Sovente viene usata la parola “pazzia”.
Il comportamento aberrante è uno dei temi diffusi nella società colta di fine ottocento, basti citare Robert Louis Stevenson con “lo strano caso del dott. Jekyll e del signor Hyde” del 1886. Uno dei luoghi importanti nel romanzo è il manicomio, dove è internato l’omicida Renfield – individuo sfruttato dal malvagio conte per i suoi fini.
Si saprà, successivamente nel romanzo, che il "paziente" è stato "iniziato" da Dracula che lo utilizza come fonte di sostentamento. La furia omicida della povera vittima la si deve attribuire al conte - di cui rimane vittima - quando tenterà di ribellarsi e l'unico a poter rivoltarsi al male è solo un pazzo.
[caption id="attachment_7040" align="aligncenter" width="1000"] Scena del set-cinematografico di Tod Browning nel Dracula del 1931. nella foto il manicomio fungeva anche da laboratorio di analisi e esperimenti.[/caption]
Tornando alla figura di Van Helsing, lo psichiatra olandese è anche chirurgo e dottore in scienze occulte – tentativo da parte di Stoker di sedare la contraddizione tra il positivismo e lo spiritismo.
Sempre elemento psichiatrico è il comportamento pericoloso: Dracula viene spesso descritto come un criminale e non a caso – sempre alla fine dell’ottocento – si sviluppano importanti teorie sulla criminologia.
In questo scenario già di per sé contraddittorio nella coesistenza di tendenze positive (che riducono il comportamento all’intelletto) nasce con Sigmund Freud la psicoanalisi che traslerà la contrapposizione – nel romanzo – tra biologia come scienza positiva e psicoanalisi con riferimento all’inconscio e alla spiegazione tramite il sogno. Proprio l’ipnosi – nel romanzo di Stoker – avrà un ruolo chiave: dopo il “battesimo di sangue” di Mina Harker – da parte del conte – dove grazie a questa tecnica sarà possibile  localizzare l’esatta posizione di Dracula, che porterà i protagonisti verso l'epilogo ultimo dello scontro finale.
La morte in tutto il libro è un richiamo straordinario, drammatico e di grande simbolismo. La nostra società ha spettacolarizzato la morte, conferendogli un volto estetico: cinematografo, una finzione degna della celluloide. Una morte che essendo ineliminabile, occorre accettare e si può giungere persino ad amarla, come un male minore – rispetto alla dannazione eterna del demonio. Non-morte e morte, un gioco di parole, che il romanzo continuamente ripropone e dove l’interrogativo della post-mortem si sposa con la vita religiosa che si interseca tra desiderio e tensione. Dracula è un capolavoro della simbologia anche nella cinematografia: dal primo adattamento cinematografico del romanzo di Stoker, “Nosferatu il vampiro”, film muto di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922, al film diretto da Tod Browning nel 1931 con l’eterno attore romeno Bela Lugosi (il suo nome originario era Béla Ferenc Dezso Blaskó) il quale interpretò il ruolo che lo renderà celebre in Dracula. La celebrità arrivò anche al regista per l’utilizzo di pellicole in cui il ruolo del diverso e del mostro era stato trattato. Il film di Lugosi e Browning ha creato l’archetipo scenico del vampiro classico europeo e anche la stessa pellicola è considerata una delle versioni del romanzo di Stoker più celebri, ed è un classico del cinema horror.
[caption id="attachment_7041" align="aligncenter" width="10008"]senza-titolo-1 Locandine dei tre film: Murnau del 1922, Browning del 1931 e Coppola del 1992.[/caption]
Altro capolavoro indiscusso è il film diretto da Francis Ford Coppola del 1992 “Dracula di Bram Stoker” che ancora oggi domina la scena cinematografica del genere horror-vampiresco.
Tornando al romanzo, il finale sarà all’insegna della violenza – che per paradosso – non è applicata dal malvagio Dracula, ma da quei protagonisti “buoni” che gli danno la caccia: per tutto il romanzo, il lettore immagina il momento dello scontro finale, per poi – una volta giunto all’epilogo – rimanere di stucco, per la celerità della lotta conclusiva, la quale si consuma in poche righe. Un parallelismo finale può essere fatto proprio sull’assurdità della vita (per il conte, una non-vita) di cui spesso l’uomo è oggetto, che di colpo ci sbalza da una realtà terrena, sempre molto labile. Così avviene il trapasso: “Il coperchio ha cominciato a cedere sotto gli sforzi dei due uomini; i chiodi stridevano mentre venivano strappati, e infine il coperchio è stato rovesciato indietro. (…) Il sole stava per scomparire dietro le vette dei monti, e le ombre del gruppo di uomini si proiettavano lunghe sulla neve. E io ho visto il conte giacere nella cassa sopra la terra, una parte della quale si era sparpagliata addosso a lui, a causa della brusca caduta del carro. Era di un mortale pallore, simile all’immagine di cera, e nei suoi occhi rossi brillava l’orrido sguardo vendicativo che io conoscevo anche troppo bene. Mentre io guardavo, i suoi occhi hanno visto il sole tramontare, e il loro sguardo di odio si è trasformato in un’espressione di trionfo. Ma in quell’istante stesso, il gran coltello di Jonathan è piombato lampeggiando su di lui. Ho lanciato un urlo, nel vederlo recidergli la gola; in quel momento il coltello ricurvo del signor Morris si affondava nel cuore di Dracula. E’ stato una specie di miracolo: sotto i nostri occhi, il tempo di trarre un respiro, e l’intero corpo si è dissolto in polvere, scomparendo dalla nostra vista”.
 
Per approfondimenti:
_Bram Stoker, Dracula - Edizioni Oscar Mondadori
_Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica - Edizioni BUR 1966
_David Punter, Storia della letteratura del terrore - Editori Riuniti 1985
_Marinella Lörinczi, Nel dedalo del drago. Introduzione a Dracula - Edizioni Bulzoni 1992
_Clive Leatherdal, Dracula. Il romanzo e la leggenda - Edizioni Atanor 1989
 
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Forse mai nella plurimillenaria storia dell’umanità un così piccolo fazzoletto di terra quale è la Palestina è apparso carico di valori e simboli, fonte di tensione e di conflitti, teatro di aspirazioni e di guerre e di nostalgie struggenti.
I simboli legati alla storia di questo paese - Yāsser ʿArafāt, la kefiah, il ragazzo che lancia un sasso contro il carro armato – sono entrati nell’immaginario comune sia dei sostenitori della causa palestinese che dei suoi oppositori.
Questo breve saggio, senza alcuna pretesa di sistematicità, ripercorrerà le fasi salienti di quel processo storico che ha determinato uno dei problemi di più difficile soluzione nella storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell’indipendenza e dell’identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è a tutt’oggi ben nota.
[caption id="attachment_9025" align="aligncenter" width="1000"] Con il nome Palestina (in greco: Παλαιστίνη, Palaistine; in latino: Palaestina; in arabo: فلسطين‎, Falasṭīn; in ebraico: פלשתינה‎?, Palestina) viene indicata la regione geografica del Vicino Oriente compresa tra il Mar Mediterraneo, il fiume Giordano, il Mar Morto, a scendere fino al mar Rosso e i confini con l'Egitto.[/caption]
Per circa tre secoli e fino alla conquista Ottomana nel 1516, la Palestina era rimasta nell’orbita dei mamelucchi. Il dominio ottomano si protrarrà per quattro secoli esatti, fino al 1917, anno dell’ingresso a Gerusalemme delle truppe britanniche del generale Edmund Henry Hynman Allenby. Si trattò di un periodo di quiescenza; fortemente integrata con il territorio circostante, abitata da una popolazione in gran parte araba o musulmana e una consistente e vivace minoranza cristiana, vide al tempo stesso la presenza di una piccola comunità ebraica rimasta costantemente sul territorio e che comincerà a espandersi, pur sempre in misura limitata, nel corso del XIX secolo.
L’interesse delle potenze europee per la Palestina ebbe inizio dopo la spedizione di Napoleone in Egitto. Nel mondo anglosassone la regione divenne oggetto di particolare attenzione.
Nel 1865 a Londra venne creato il Palestine Exploration Fund, che, come altre future organizzazioni mise a disposizione cospicui finanziamenti per esplorare la Palestina. Nei resoconti di tali spedizioni, gli arabi palestinesi non erano ancora diventati degli “assenti”, ma non vennero considerati gli abitanti del luogo, bensì “coloro che si trovano sul luogo” come se si trattasse di una presenza casuale.
Sempre nella prima metà dell’ottocento videro la luce i primi progetti europei per la Palestina. Nel 1838 il facoltoso filantropo britannico Sir Moses Montefiore sponsorizzò la creazione di duecento villaggi ebraici in Galilea mettendo a disposizione un capitale iniziale di un milione di sterline. Nel 1839 il Globe di Londra, portavoce del Foreign Office, pubblicò una serie di articoli, nei quali si preconizzava la creazione di uno stato indipendente tra l’Egitto e la Turchia in Siria e Palestina e una colonizzazione massiccia da parte del popolo ebraico.
Nel 1841, sempre il Regno Unito, con il Jerusalem Bishopric Act, istituì un vescovado anglicano a Gerusalemme. Nel 1847 venne ristabilito, dopo 556 anni, il patriarcato latino a Gerusalemme. Tutti questi progetti avevano come minimo comun denominatore l’obiettivo di liquidare l’Impero Ottomano.
Gli ebrei, cittadini dell’Impero Ottomano, nella loro stragrande maggioranza, preferivano vivere al di fuori della Terra Santa, nonostante non esistessero limitazioni al loro insediamento in Palestina. Nell’Ottocento alcuni ebrei europei si recarono in Palestina per passare gli ultimi anni di vita e morire a Gerusalemme. Si trattava di persone pie che vivevano della carità dei loro correligionari in Europa. Il loro numero andò crescendo, da 10.000 nella prima metà del secolo a 24.000 nel 1880. Per dividere i proventi della carità formarono diverse congregazioni nazionali e linguistiche. Ce ne erano di parlanti yiddish, arabo, tedesco, ladino, francese, inglese, persiano e georgiano.
La loro presenza non turbava la popolazione palestinese, da sempre abituata ai pellegrini e agli stranieri. Gli ebrei residenti a Gerusalemme vissero in tutti i quartieri della città e parteciparono alla vita cittadina. Gli ebrei stranieri erano ispirati da ideali religiosi, non politici e non formarono nessuna colonia, ma delle piccole comunità di fedeli. Le prime colonie straniere create in Palestina, a partire dal 1868, non erano opera di ebrei, ma di templari tedeschi che erano ispirati da motivi religiosi più che politici. La presenza ebraica in Palestina iniziò ad assumere consistenza e significato diversi per cause che si svilupparono ben lontano dal territorio palestinese, principalmente nella Russia zarista.
Nel 1881 in Russia venne ucciso Alessandro II, lo zar che aveva abolito la servitù della gleba nel 1861. Del gruppo degli assassini faceva parte anche un ebreo. A causa di ciò, venne scatenata un’ondata di pogrom anti-ebraici, orchestrati dalla “Santa Legione”, un’organizzazione segreta creata da un gruppo di granduchi e ufficiali della guardia imperiale russa. Tra il 1881 e il 1900 oltre un milione di ebrei abbandonarono l’Impero zarista. In quegli anni i governi europei divennero più attivi nel dirottare gli immigrati ebrei lontano dai paesi dell’Europa Occidentale. La prima grande ondata di immigrati russi si diresse soprattutto negli Stati Uniti e in misura minore in Sud Africa, in Inghilterra e Austria e negli altri paesi europei. Solo un esigua minoranza, sollecitata dalla propaganda sionista, scelse di andare in Palestina.
Nonostante il fatto che un primo insediamento, Pitah Tikva, fosse già stato fondato nel 1878, gli storici concordano nel ritenere il 1881 come la data d’inizio del processo di colonizzazione della Palestina. Questo inizio fu segnato dall’arrivo di 16 studenti russi di Kharkov che fondarono un’associazione che mirava a stabilire uno Stato Ebraico in Terra Santa. Il fatto più saliente restava il finanziamento della colonizzazione sionista iniziato quell’anno da parte del banchiere parigino Edmond de Rothschild.
Le idee in merito alla colonizzazione europea della Palestina, che sin dai primi del ‘800 circolavano nell’Europa Occidentale come parte di una discussione sulle prospettive coloniali riguardanti i territori dell’Impero Ottomano, si insinuarono nel dibattito sulla questione ebraica nell’Europa Orientale. Le idee circa la possibilità di uno Stato ebraico in Palestina affioravano qua e là in molti scritti, alcuni di autori ebrei, come Moses Hess, uno dei primi ideologi del sionismo che nel suo Rom und Jerusalem, die Letzte Nationalitätsfrage del 1862 scrisse: «Quando in Oriente le condizioni politiche saranno tali da permettere l’organizzazione di un primo processo di ricostruzione dello Stato ebraico, il primo passo sarà la fondazione di colonie ebraiche nella terra dei padri».
[caption id="attachment_9029" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto risalente al 1931, scorcio urbano di Petah Tiqwa o Petah Tikva (letteralmente "Soglia verso la speranza", nota come Em Hamoshavot, ossia "Madre delle Colonie") è una città di 210.376 abitanti di Israele situata nel Distretto Centrale, a nord est di Tel Aviv. La sua giurisdizione comprende 39.000 dunam (39 km²) per una densità di 5.394 abitanti per km². Nella seconda immagine, Edmond Benjamin James de Rothschild (19 agosto 1845 – 2 novembre 1934) è stato un banchiere francese. Filantropo francese e attivista per gli affari umanitari per la nazione ebraica e membro della prominente famiglia Rothschild.[/caption]
Come Chateaubriand, Lamartine e molti altri pensatori europei che si erano espressi a favore del trasferimento della popolazione ebraica europea in Palestina, il pensiero di Hess dimenticava un dato di non poca importanza: l’esistenza di una popolazione autoctona palestinese.
La negazione dell’esistenza della popolazione indigena divenne costante negli scritti degli ideologi della colonizzazione, così Israel Zangwill, alla fine del ‘800, riassunse in una formula il concetto basilare dell’idea sionista: «Una terra senza un popolo, per un popolo senza una terra». Theodor Herzl, invece animato da spirito pratico, non era solo consapevole del problema rappresentato dai palestinesi, ma individuò le possibili soluzioni e scrisse nel suo diario nel 1895: «Dovremmo incoraggiare questa misera popolazione palestinese ad andarsene oltre confine procurando loro un lavoro nei paesi di destinazione, e negandoglielo nel nostro. Sia il processo di espropriazione che quello di allontanamento devono essere effettuati con discrezione e cautela».
Tuttavia la negazione dell’esistenza della popolazione autoctona divenne «il più solido filo conduttore del sionismo» che, come scriveva l’orientalista francese Maxime Rodinson, lo legava all’imperialismo: «L’elemento che portò a collegare le aspirazioni dei commercianti, artigiani, ambulanti ed intellettuali ebrei, in Russia ed altrove, all’ombra concettuale dell’imperialismo fu un piccolo dettaglio apparentemente senza importanza: la Palestina era abitata da un altro popolo». Le idee sioniste trovarono una sistemazione organica nell’opera del giornalista ungherese di Vienna Theodor Herzl che pubblicò nel 1896 un’opera intitolata Der Judenstaat, “Lo Stato ebraico”, divenuta poi il manifesto programmatico del movimento sionista.
Così lo descrive Stefan Zweig Herzl, nel suo "Il mondo di ieri": "Theodor Herzl a Parigi aveva avuto un'esperienza che lo aveva profondamente scosso, una di quelle ore che trasformano tutta un'esistenza: aveva assistito quale giornalista alla degradazione pubblica di Alfred Dreyfus, aveva veduto quell'uomo pallido al quale strappavano le spalline mentr'egli esclamava ad alta voce: «Sono innocente!». In quell'istante aveva avuto nell'intimo del cuore la certezza che Dreyfus era veramente innocente e che l'orrendo sospetto di tradimento era pimbato su di lui soltanto perché ebreo. (...) aveva concepito il disegno fantastico di porre fine una volta per tutte al problema giudaico e precisamente fondendo l'ebraismo con il cristianesimo per mezzo di volontari battesimi di massa. Incline sempre a concezioni drammatiche, già s'immaginava di guidare in lunghi cortei le migliaia e migliaia di ebrei austriaci sino alla cattedrale di Santo Stefano, per liberare così, grazie a un rito esemplare e simbolico, il popolo perseguitato e disperso della maledizione dell'isolamento e dell'odio. Aveva dovuto riconoscere presto l'inattuabilità del suo piano, poi anni di lavoro lo avevano allontanato da quel problema originario, in cui vedeva la missione della sua vita; ora tuttavia, nel momento della degradazione di Dreyfus, il pensiero dell'eterna condanna gravante sul suo popolo gli trafisse il cuore come una pugnalata. Se l'isolamento è inevitabile, disse a se stesso, sia completo. (...) Pubblicò quindi il suo famoso saggio Der Judenstaat (Lo Stato ebraico), nel quale proclamava impossibile per il popolo israelitico ogni assimilazione e ogni fede in una totale tolleranza. Bisognava fondare una patria nuova nell'antica terra d'origine, la Palestina. Quando comparve quel fascicolo, breve ma dotato della forza penetrante di un cuneo d'acciaio, io frequentavo ancora il ginnasio, ma posso benissimo rammentare il disorientamento e l'irritazione generale degli ambienti ebraici borghesi. (...) Perché dovremmo andare in Palestina? La nostra lingua è il tedesco, non l'ebraico; la nostra patria è la bella Austria. Non viviamo forse ottimamente sotto il buon imperatore Francesco Giuseppe? Non abbiamo qui i nostri leciti guadagni, la nostra sicura posizione? Non siamo sudditi con pieni diritti, cittadini residenti e fedeli all'amata Vienna? E non viviamo in un'epoca di progresso, che annullerà nel corso di pochi decenni tutti i pregiudizi confessionali? (...) La risposta non venne dagli ebrei borghesi e agiati, viventi con tutti i comodi in Occidente, ma dalle grandi masse orientali, nel proletariato dei ghetti galiziani, polacchi, russi. Senza prevederlo, Herzl con il suo opuscolo aveva fatto divampare una fiamma dell'ebraismo che covava sotto la cenere dell'esilio: il sogno millenario e messianico confermato dai libri sacri di un ritorno nella Terra Promessa. (...) Persino seduto a quel vecchio scrittoio sovraccarico di carte, in un'angusta e miserevole stanzetta di redazione, dava l'impressione di un capo beduino di tribù del deserto; (...) Ma io non riuscivo a sentirmi veramente unito a quell'iniziativa; m'irritava anzitutto la mancanza di rispetto, oggi quasi incredibile, con cui i più diretti compagni di partito si compartavano nei riguardi di Herzl. (...) Parlando un giorno con lui dell'argomento, gli confessai con sincerità il mio malumore per la scarsa disciplina nelle sue file. Sorrise con un pò d'amarezza e rispose: «Non dimentichi che da secoli siamo avvezzi a gingillarci con i problemi, a litigare con le idee. Noi ebrei da duemila anni non abbiamo storicamente alcuna pratica nel realizzare qualche cosa per il mondo. La dedizione senza limiti va prima imparata, e io stesso non vi sono ancora giunto, giacché continuo a scrivere e a fare il redattore letterario della "Neue Freie Presse", mentre sarebbe mio dovere non avere che un pensiero solo, non scrivere una parola per alcun altro fine. Ma io sono avviato a migliorarmi, voglio prima imparare io stesso la dedizione illimitata, sperando che forse insieme con me la imparino anche gli altri»".
[caption id="attachment_9031" align="aligncenter" width="1000"] Israel Zangwill (a sinistra) nacque in una famiglia di ebrei russi emigrati, (Londra, 21 gennaio 1864 – Midhurst, 1º agosto 1926) è stato uno scrittore, drammaturgo e umorista inglese. Theodor Herzl (Pest, 2 maggio 1860 – Edlach, 3 luglio 1904) è stato un giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco. Ebreo-ungherese di lingua tedesca di origine ashkenazita, fu il fondatore nel 1897 del movimento politico del sionismo, che si proponeva di far sorgere nei Territori Coloniali del Mandato britannico della Palestina uno Stato Ebraico.[/caption]
L’anno successivo Herzl organizzò a Basilea un congresso al quale parteciparono 197 delegati che crearono l’Organizzazione Sionista Mondiale, avente come scopo la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Il programma di Basilea proclamava che «il movimento sionista aspira alla creazione di un rifugio del popolo ebraico in Eretz Yisra’el che dovrà essere garantito da una legge internazionale». Il secondo congresso sionista si svolse nel 1898 e aggiunse l’imperativo della colonizzazione della Terra di Israele per il raggiungimento di questo fine. In occasione del terzo congresso, Herzl propose di sostituire la ricerca di una legittimazione internazionale con l’ottenimento di una concessione in affitto ufficiale da parte del Sultano Ottomano. Era convinto che denaro e pressione dell’Europa, avrebbero indotto il Sultano ad acconsentire a una simile concessione. Herzl si recò quindi a Istanbul, senza però riuscire a essere ricevuto da ʿAbd ul-Hamid II, il Sultano Ottomano dal 1876 al 1908. I collaboratori del Sultano respinsero decisamente la richiesta di concessione in affitto della Palestina agli ebrei. Neppure l’offerta di una somma astronomica, di cui per altro Herzl non disponeva, riuscì a convincere il governo di uno Stato turco sull’orlo della bancarotta.
In seguito alla ferma opposizione da parte delle autorità Ottomane Herzl comprese che l’unico modo attraverso cui il progetto sionista poteva realizzarsi era attraverso la benedizione di una potenza straniera.
La scelta cadde sulla Gran Bretagna le cui mire di natura coloniale nei confronti del Medio Oriente l’avevano condotta a occupare l’Egitto nel 1882. I residenti britannici al Cairo, al pari di una scuola di pensiero espansionista presente in seno al Colonial Office in Inghilterra, guardavano alla Palestina come a una prossima acquisizione in caso del crollo dell’Impero Ottomano. Se gli ebrei, al pari dei missionari anglicani, facilitavano l’espansione britannica in terra di Palestina non c’era motivo per non ritenerli benvenuti. L’inclinazione filo sionista assunta dalla politica mediorientale britannica verso la fine del XIX secolo fu il risultato di una considerazione neo-coloniale della realtà e di un’antica concezione teologica che collegava il ritorno degli ebrei in Palestina al secondo avvento del Messia.
L’entrata dell’Impero Ottomano nella Prima guerra mondiale a fianco degli Imperi Centrali segnò una svolta di portata storica per il destino delle popolazioni e dei territori arabi dell’Impero Ottomano.
La particolare posizione strategica della Palestina, base di partenza per l’offensiva turco-tedesca contro il Canale di Suez che ne faceva un paese di prima linea, ha avuto conseguenze di grande importanza per il suo futuro.
Così racconta il giovane Thomas Edward Lawrence, ne "I sette pilastri della saggezza":  "Con la venuta dei Turchi, questa felicità divenne un sogno. Gradatamente i popoli semitici d'Asia passarono​ sotto il giogo ottomano, con una lenta morte. Furono spogliati dei beni, il loro spirito tarpato dalla presenza opprimente di un governo militare. L'ordine dei Turchi, era disciplina di gendarmi, la loro politica violenta, in teoria quanto in pratica. I Turchi insegnarono agli Arabi che gli interessi di una setta superavano quelli del patriottismo, che le cure piccine d'una provincia contavano più dei problemi nazionali.  A forza di sottili discrepanze li indussero a sospettarsi l'un l'altro. Perfino la lingua araba fu bandita dalle corti e dagli uffici, dalla burocrazia dello stato e dalle scuole superiori. Per poter servire lo stato un arabo doveva ripudiare le proprie caratteristiche di razza. Queste costrizioni non furono tollerate tranquillamente. La tenacia semitica affiorò nelle numerose rivolte di Siria, Mesopotamia, Arabia contro le forze più scoperte di penetrazione turca. (...) gli Arabi non volevano barattare la loro lingua ricca e duttile per le forme volgari del turco: invece permearono il turco di vocaboli arabi, e rimasero attaccati ai tesori della loro letteratura. Persero il senso geografico, le memorie razziali, politiche, storiche, ma si legarono tanto più fortemente alla lingua, elevandola quasi ad una nuova patria. Primo dovere di ciascun moslem era lo studio del Corano, il libro sacro dell'Islam, e incidentalmente, il massimo monumento della letteratura araba. (...) Poi venne la rivoluzione in Turchia, la caduta di Abdul Hamid, il predominio dei "Giovani Turchi". Per un momento l'orizzonte arabo si schiarì. Il movimento dei "Giovani Turchi" combatteva la concezione gerarchica dell'Islam e le teorie panislamiche del vecchio Sultano che, erigendosi a capo spirituale del mondo musulmano, avrebbe voluto guidarne senza ricorso anche le sorti temporali. I giovani rivoluzionari, infervorati dalle teorie costituzionali dello Stato Sovrano, imprigionarono Abdul Hamid. (...) «La Turchia turca, per i Turchi: Yeni Turan» diventò il loro motto. (...) ma innanzi tutto dovevano eliminare dal loro impero tutte le irritanti razze inferiori che osavano resistere al popolo dominatore; prima gli Arabi, la minoranza più numerosa. Perciò i rappresentanti degli Arabi furono dispersi, proscritti i loro notabili, proibite le loro associazioni. Ogni manifestazione araba e l'arabo stesso come lingua furono soppressi da Enver Pasha più rapidamente che non da Abdul Hamid prima di lui. (...) Con la guerra del 1914 (...) la mobilitazione concentrò il potere nelle mani dei Giovani Turchi più crudeli, ma anche più freddi e ambiziosi: Enver, Talaat, Jemal. Costoro si proposero di sterminare tutte le correnti non turche dello Stato, a cominciare dai nazionalismi arabi ed armeni. (...) I Turchi sospettavano degli ufficiali e dei soldati arabi nell'esercito. Speravano di annientarli con la stessa tattica di dispersione sperimentata contro gli Armeni. (...) I Turchi li dispersero dappertutto, purché capitassero presto in prima linea".
Alla fine del 1915 almeno 250.000 soldati britannici e coloniali erano stanziati permanentemente in Egitto. Con la guerra, Gemā´l Pascià, membro anziano del Comitato unione e progresso (İttihat ve Terakki Cemiyeti) e ministro della marina, venne nominato comandante della IV armata in Siria. Gemā´l Pascià attuò una persecuzione senza precedenti contro i nazionalisti arabi. La repressione ebbe un carattere di massa con gravi conseguenze. Al momento dell’inizio della rivolta araba del Hijaz, nel giugno del 1916, i tribunali militari turchi avevano condannato a morte oltre 800 attivisti. La repressione mirava a eliminare l’élite araba. Decine di migliaia di persone vennero rinchiuse nei campi di concentramento nel deserto. Molti morirono di fame e di malattie. Nel 1915 ebbe inizio il genocidio armeno. I profughi affluirono dall’Anatolia in Siria-Palestina. Con la guerra la Palestina venne ridotta alla fame. Dopo la disfatta dell’esercito ottomano in Iraq, nell’aprile del 1916, il territorio palestinese divenne il fronte principale sul quale si decisero le sorti della guerra. La Gran Bretagna cercò di stringere alleanze con i principi arabi dei territori semi indipendenti della Penisola Arabica.  In questo quadro si concluse l’accordo con Hussein, custode dei luoghi santi della Mecca e di Medina, noto come accordo Hussein-MacMahon. Secondo l’accordo, Hussein si sarebbe ribellato all’autorità sultanale e avrebbe aiutato la Gran Bretagna nella sua guerra contro l’Impero Ottomano. In cambio, il governo britannico si sarebbe impegnato a garantire l’indipendenza dei paesi arabi allora ancora sotto sovranità ottomana. L’accordo verrà completamente disatteso da parte britannica e lo stesso MacMahon scriverà nel luglio 1937: «Nel prendere questo impegno verso re Hussein non intendevo comprendere la Palestina nella zona entro la quale fu promessa l’indipendenza araba».
Nel giugno 1916 Hussein diede inizio alla rivolta. Alla Mecca si formò, sotto il comando di Faisal, figlio di Hussein, un esercito di volontari arabi che in breve tempo prese il controllo di tutto il Hijaz. Nel novembre 1916 Hussein si proclamava “re d’Arabia”, mentre l’esercito di Faisal raggiungeva la Siria. L’inizio dell’avanzata britannica in Palestina accrebbe l’importanza delle operazioni dell’esercito dei rivoltosi al comando di Faisal.
La violazione dell’accordo Hussein-McMahon rientrava in un disegno preciso del governo britannico. Parallelamente e contemporaneamente alle trattative anglo-arabe si svolsero quelle anglo-francesi per definire i termini della spartizione dei territori arabi fra le due potenze. L’accordo anglo-francese, noto come “accordo Sykes-Picot”, venne poi definitivamente firmato il 16 maggio 1916.
[caption id="attachment_9033" align="aligncenter" width="1000"] Le forze ottomane erano attestate su una forte linea fortificata che andava dalla città di Gaza, sulla costa, fino alla località di Beersheba, che era al capolinea della ferrovia che si estendeva a nord di Damasco. Il comandante inglese sul campo, Dobell, scelse di attaccare Gaza il 26 marzo 1917, utilizzando un piccolo movimento aggirante. Un secondo attacco alla fortezza di Gaza fu lanciato un mese dopo, il 17 aprile. Questa volta l'attacco venne appoggiato dal fuoco dell'artiglieria navale, gas asfissianti ed un piccolo numero di carri armati. Tuttavia, anche questo si risolse in un fallimento: si trattò infatti di un semplice assalto frontale contro postazioni ben fortificate, ed il suo insuccesso fu dovuto più che altro alla mancanza di flessibilità, piuttosto che a reali difetti in sede di pianificazione. Il suo costo fu di 6.000 caduti solo da parte inglese, e costò la rimozione dal comando dei generali Dobell e Murray. Al loro posto su insediato il generale Sir Edmund Allenby, che ricevette l'ordine tassativo di conquistare Gerusalemme entro Natale. Dopo aver visto di persona le difese ottomane, il generale richiese rinforzi: tre ulteriori divisioni di fanteria, aerei ed artiglieria. La richiesta stavolta venne accolta e, nel mese di ottobre, gli inglesi furono nuovamente pronti per attaccare. L'esercito ottomano aveva tre fronti attivi: Mesopotamia, Arabia e fronte di Gaza. Inoltre, era costretto a tenere truppe in difesa di Costantinopoli e nel settore (ormai calmo) del Caucaso. Le truppe a Gaza erano di appena 35.000 uomini, suddivisi nelle tre postazioni difensive di Gaza, Tel el-Sheria e Beersheba. Allenby poteva contare invece su 88.000 soldati ben equipaggiati.[/caption]
Il 1917 fu un anno tragico per la Palestina ridotta alla fame. Le truppe inglesi di stanza nel Sinai scatenarono un’offensiva su larga scala nella Palestina meridionale. Il 16 novembre cadde Giaffa e il 9 dicembre Gerusalemme. Per la seconda volta nella sua storia la Città Santa venne occupata da europei. L’anno dopo le truppe britanniche occuparono la Palestina settentrionale, ma già prima del loro arrivo gli inglesi avevano prefigurato il destino del paese. Il 2 novembre 1917 il governo inglese aveva trasmesso, tramite il ministro degli esteri Arthur James Balfour, la seguente lettera indirizzata al vice presidente dell’Organizzazione Sionista, oggi nota come “Dichiarazione Balfour”:
«Caro Lord Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede nazionale” (National Home) per il popolo ebraico, e intende fare tutti i suoi sforzi per favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese».
Il “popolo ebraico” in Palestina al momento della Dichiarazione raggiungeva, nelle migliore delle stime, 50.000 immigrati, mentre le “comunità non ebraiche”, cioè quella parte degli abitanti autoctoni delle regioni che sarebbero divenute obiettivo dell’insediamento coloniale, era di almeno 750.000, cioè 15 volte tanto. La trasformazione del popolo della Palestina in “assenti” era compiuta. Nella dichiarazione del governo britannico, i palestinesi diventavano i “non ebrei”. Negato il loro nome si negava la loro esistenza. Sarà un leitmotiv che accompagnerà tutta la politica sionista: i palestinesi non esistono. La Dichiarazione inaugurò una nuova fase storica nei rapporti fra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei (arabi e non arabi) all’insegna dello scontro.
Il ministro degli esteri firmatario della lettera era lo stesso Lord Balfour, noto per il suo antisemitismo, che primo ministro nel 1905, aveva promosso la “Legge sulla immigrazione degli stranieri”, Aliens Immigration Act, intesa ad arginare l’immigrazione in Gran Bretagna degli ebrei senza mezzi che fuggivano dalle persecuzioni antisemite nell’Europa Orientale. Le trattative che avrebbero portato alla Dichiarazione Balfour risalivano al 1914, quando Herbert Samuel, membro dell’Organizzazione Sionista, futuro primo Alto Commissario britannico in Palestina e allora ministro delle amministrazioni locali del governo britannico, preparò il primo dei memorandum relativamente alla possibilità di creare uno Stato Ebraico in Palestina. In questo memorandum, intitolato “Il futuro della Palestina” si prospettava una annessione della Palestina alla Gran Bretagna che avrebbe dovuto favorire il trasferimento e l’impianto di 3 o 4 milioni di ebrei europei.
Tuttavia l’insistenza dei sionisti per ottenere dal governo inglese un impegno preciso di cedere loro la Palestina una volta occupata, ricevette all’inizio della guerra vaghe promesse, che vennero precisate man mano che la crisi dell’Impero Zarista e dell’Impero Ottomano divennero più acute.
All’inizio della guerra una “sezione di propaganda ebraica” - creata nel Foreign Office - venne incaricata di propagandare le idee sioniste per guadagnare alla causa dell’Intesa gli ebrei dell’Europa Orientale. Il 7 febbraio 1917 iniziarono in forma ufficiale trattative tra il governo britannico e l’Organizzazione Sionista per raggiungere un accordo sulle aspirazioni sioniste. In un memorandum del 13 giugno 1917 il governo britannico concluse che: «Dobbiamo assicurarci tutto il vantaggio politico che può venirci dalla nostra unione con i sionisti e non c’è dubbio che questo vantaggio sarebbe considerevole, soprattutto in Russia».
Lord Balfour chiese quindi a Chaim Weizmann e Lord Rothschild di redigere il testo di una dichiarazione da sottoporre alla firma del governo. Nelle manovre sotterranee che si svolsero per raggiungere l’obiettivo, i sionisti sottoposero a forti pressioni gli scettici e i contrari. Organizzarono massicci invii di lettere compiendo grandi sforzi per guadagnare la simpatia del movimento sionista. Obiettivo di violenti attacchi fu il ministro delle colonie Edwin Montagu, ebreo contrario a un accordo con i sionisti, convinto che il riconoscimento della Palestina come sede nazionale degli ebrei sarebbe stato dannoso per gli ebrei non sionisti.
Il precipitare degli eventi nell’Impero Zarista accelerò i tempi di definizione della Dichiarazione allo scopo di convincere gli ebrei russi a sostenere lo sforzo bellico dell’Intesa. Prima della sua approvazione il presidente americano Wilson diede il suo assenso e il 16 ottobre il governo degli Stati Uniti comunicò a quello di Londra: «Il testo proposto dal movimento sionista ha la nostra piena approvazione». La Dichiarazione venne approvata dal governo britannico in forma definitiva il 31 ottobre 1917, mentre Montagu era in missione in India. La lettera contente la Dichiarazione era indirizzata a Lord Rothschild, vice presidente della Federazione Sionista Britannica e non al presidente Chaim Weizmann, che non era cittadino britannico.
Della Dichiarazione Balfour vennero fatte svariate letture. Una definizione sintetica ed efficace nella sua semplicità fu quella dello scrittore ebreo Arthur Koester: «In questo documento una nazione prometteva solennemente a una seconda nazione il paese di una terza».
Il documento era privo di valore giuridico dato che il governo britannico non aveva nessun diritto di disporre di un territorio non sottoposto alla sua giurisdizione e non aveva l’autorità di mettere in pratica gli scopi dichiarati. La Palestina al momento della Dichiarazione, formalmente e nei fatti, faceva parte dell’Impero Ottomano. Fu per dare una parvenza di legalità che il governo britannico si adoperò per rendere pubblica l’adesione dei governi dell’Intesa. L’ultimo governo zarista spazzato via dalla Rivoluzione d’Ottobre, cinque giorni dopo la consegna del documento a Rothschild, non fece in tempo a rendere pubblica la propria adesione. Il governo francese, che già il 4 giugno 1917 aveva dichiarato la propria “simpatia” alla causa dell’Organizzazione Sionista, renderà pubblica la sua approvazione della Dichiarazione Balfour il 14 febbraio 1918, mentre il governo italiano lo farà il 9 maggio 1918. Gli Imperi Centrali, d’altro canto, tentarono di guadagnare la simpatia dei sionisti. Il 17 novembre 1917, il ministro degli esteri austro-ungarico Czernin promise a una delegazione sionista l’appoggio del suo governo alla realizzazione delle aspirazioni sioniste in Palestina.
Il governo tedesco pubblicò il 21 novembre 1917 un comunicato in cui si impegnava a non trasformare Gerusalemme in un campo di battaglia di fronte all’avanzata dell’ esercito britannico, il 7 dicembre 1917 l’Alto comando tedesco ordinò alle truppe turco-tedesche di ritirarsi dalla città. A Istanbul, il 12 dicembre 1917, il gran visir Talat Pascià ricevette una delegazione sionista alla quale assicurò che erano venuti meno i motivi che in passato avevano imposto talune limitazioni all’insediamento degli ebrei in Palestina. Il 5 gennaio 1918, il governo tedesco assicurò a una delegazione ebraica l’adesione ai propositi di Talat Pascià di promuovere un fiorente insediamento ebraico in Palestina. Il governo ottomano farà una dichiarazione più impegnativa il 27 luglio 1918, in cui si impegnava a favorire «la creazione di un centro ebraico in Palestina per mezzo di un immigrazione e di una colonizzazione ben organizzate».
Mentre nel novembre 1917 l’esercito di Lord Allenby cominciava la conquista del territorio palestinese, il movimento sionista in Europa otteneva dichiarazioni di simpatia dai governi impegnati nella guerra, il governo britannico tessé la rete delle alleanze per ottenere il controllo della Palestina e i bolscevichi resero pubblici i trattati segreti conclusi dal governo zarista con le potenze dell’Intesa. L’accordo Sykes-Picot venne pubblicato sui quotidiani sovietici Izvestia e Pravda il 23 novembre 1917.
[caption id="attachment_9035" align="aligncenter" width="1000"] L'accordo Sykes-Picot, ufficialmente Accordo sull'Asia Minore, è un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell'impero ottomano nella prima guerra mondiale.[/caption]
I primi anni trenta furono un momento cruciale dal punto di vista politico. L’immigrazione ebraica accelerò il suo ritmo: nel 1939 in Palestina vi erano 1.070.000 palestinesi e 460.000 ebrei – che rappresentavano quindi circa un terzo della popolazione del mandato – e l’acquisizione dei terreni era proceduta di pari passo.
Gli insediamenti coloniali divennero campi di addestramento per le neonate organizzazioni armate sioniste. A Giaffa, il centro economico più importante con il porto più frequentato dal commercio internazionale, la situazione peggiorò continuamente. La vicinanza con la città ebraica di Tel Aviv in rapida crescita divenne fonte di attriti e scontri. La scintilla che fece scoppiare la rivolta fu la costruzione di due scuole arabo-palestinesi affidata dall’amministrazione britannica a un costruttore ebreo. Questi si rifiutò di assumere maestranze palestinesi locali e fece affluire operai ebrei dagli insediamenti vicini. I lavoratori del porto di Giaffa, seguiti da tutti gli altri, scioperarono in solidarietà con i loro compagni esclusi da lavoro.
La tensione salì e in seguito sfociò in scontri tra gli operai palestinesi disoccupati e i dipendenti del costruttore che non aderirono allo sciopero e si recarono al lavoro scortati da squadre di sionisti armati. Lo scioperò si allargò ad altre città. A Giaffa intervenne l’esercito che nei giorni 16, 17 e 18 aprile 1936 represse le proteste con violenza. Il 19 aprile il Partito Arabo Palestinese invitò allo sciopero generale. Il 21 aprile si fermò ogni attività in tutto il paese. Fu subito evidente che lo sciopero generale era destinato a durare a lungo. Infatti era appena terminato quello che per cinquanta giorni aveva paralizzato a Siria. Sul modello siriano, il giorno 21 aprile si formò a Giaffa un Comitato Nazionale per lo sciopero a cui parteciparono tutte le associazioni cittadine, oltre al Partito Arabo Palestinese e al Partito dell’Indipendenza. I due partiti promossero la creazione di Comitati Nazionali unitari che sorsero in pochi giorni i tutte le città della Palestina.
Il 24 aprile 1936 rappresentanti dei Comitati Nazionali si riunirono a Gerusalemme e decisero di creare un organismo rappresentativo unitario. Nacque così l’Alto Comitato Arabo della Palestina la cui presidenza venne affidata al muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī.
[caption id="attachment_9037" align="aligncenter" width="1000"] Londra, 30 marzo 1930: il Gran Mufti di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī arrivo alla stazione Victoria di Londra con la delegazione araba. Muḥammad Amīn al-Ḥusaynī (in arabo: محمد أمين الحسيني‎; Gerusalemme, 1897 – Beirut, 4 luglio 1974) è stato un politico palestinese, Gran Mufti di Gerusalemme, fu uno dei principali leader nazionalisti arabi radicali degli anni trenta, indicato anche come un precursore del fondamentalismo islamico, malgrado i suoi lavori non abbiano mai inteso coinvolgere aspetti regolati dalla teologia islamica.[/caption]
Il 7 maggio 1936, 150 delegati dei Comitati Nazionali tornarono a riunirsi a Gerusalemme, decisero di proseguire lo sciopero, diedero alle autorità il termine di una settimana per il blocco totale dell’immigrazione e invitarono in caso negativo allo sciopero fiscale: il paese intero avrebbe smesso di pagare tasse e imposte. A Giaffa si riunì il congresso dell’Associazione delle donne che l’11 maggio annunciò la propria partecipazione allo sciopero; il 12 si riunirono tutte le camere di commercio della Palestina; il Congresso nazionale degli studenti creò una “Guardia Nazionale”; l’ordine degli avvocati decise di bloccare tutte le cause, escluse quelle contro gli scioperanti; l’ordine dei medici stabilì cure gratuite per gli scioperanti; i decani delle comunità pastorali del Naqab aderirono allo sciopero; i dirigenti amministrativi di 18 città si riunirono e decisero il blocco delle attività a partire dal 1 giugno; tutti i sindaci restituirono i loro sigilli; il 30 maggio entrarono in sciopero tutti i 137 funzionari e 1200 impiegati arabo-palestinesi del governo.
Il 23 maggio vennero arrestati due dirigenti dei comitati dello sciopero. Gli agricoltori della zona di Nāblus marciarono su Tûbâs dove erano tenuti i prigionieri, ma vennero respinti dai nuovi contingenti militari inglesi arrivati dall’Egitto.
La mattina dopo le truppe britanniche intervennero a Nāblus per reprimere una manifestazione di protesta uccidendo quattro manifestanti. Attacchi di gruppi armati contro i campi militari britannici e le basi sioniste si segnalarono un po’ ovunque. Un attentato con la dinamite distrusse l’oleodotto della britannica Iraq Petrolium Company. Il drenaggio del petrolio si bloccò e così il porto di Haifa. Durante l’estate gli attacchi degli insorti divennero battaglie campali. Arrivarono in Palestina volontari dalle altre regioni della Siria e tra questi emerse la figura del comandante siriano Fawzī al-Qāwuqjī. Da settembre tutto il paese divenne un campo di battaglia. Affluirono altre truppe britanniche dall’Egitto, da Malta e dall’Inghilterra. La repressione fu feroce: un’ondata di arresti colpì migliaia di cittadini che vennero tenuti nei campi militari e le punizioni collettive vennero impiegate su larga scala. Solo nei primi 3 mesi di sciopero i palestinesi versarono 30.000 sterline di multe collettive, quando il salario medio era di 3 sterline mensili.
L’amministrazione britannica inaugurò una nuova tecnica di punizione collettiva che nei successivi 70 anni sarà largamente usata come strumento di cancellazione della realtà palestinese. Il 16 giugno gli aerei britannici lanciarono volantini che annunciarono “lavori di urbanizzazione” del centro storico di Giaffa, “al fine di ampliare e migliorare la città vecchia costruendo due strade che saranno utili all’intera città”.
Alla popolazione si diedero 24 ore di tempo per lasciare le proprie abitazioni. Il 18 giugno i militari circondarono il centro della città con un vasto spiegamento di forze. Procedettero a svuotare l’area. Gli abitanti vennero deportati e i militari cominciarono una sistematica distruzione con la dinamite di tutti gli edifici. Il 21, dopo tre giorni di demolizioni, il centro storico di una delle città più antiche del mondo non esisteva più. Il 29 e il 30 giugno 1936 vennero demoliti altri 150 edifici e 850 capanne: 10.000 persone restarono senza dimora. Negli anni successivi la demolizione sarà la tecnica repressiva preferita dagli inglesi e successivamente dagli israeliani.
Il governo emanò delle “Leggi d’Emergenza” che consentirono arresti senza mandato, censura della stampa, controllo della posta, restrizione della libertà di movimento di singoli o gruppi, deportazione di singoli o collettive, confisca delle proprietà, demolizione delle abitazioni e di qualsiasi altro edificio, singolarmente o in blocco, chiusura di determinate aree, imposizione del coprifuoco, ecc. Le misure adottate in base alle Leggi d’Emergenza vennero considerate misure amministrative che non richiesero il ricorso all’autorità giudiziaria. Non c’erano cioè accuse formali, non richiedevano processi, non c’era giudizio e non ci si poteva appellare.
Nel 1936 l’autorità britannica in collaborazione con la Haganah, l’organizzazione militare sionista, formò la “Polizia d’Insediamento Ebraico” al fine di “difendere gli insediamenti”. L’amministrazione britannica si incaricò di provvedere all’armamento della nuova formazione militare sionista. Nello stesso anno, il governo britannico della Palestina incaricò Orde Wingate, capitano dell’esercito, di addestrare squadre specializzate in attacchi notturni reclutate nelle fila della Haganah. Lo sciopero generale palestinese si scontrò con l’infrastruttura sionista che colse l’occasione dello sciopero dei lavoratori palestinesi nell’amministrazione, nei servizi pubblici, specialmente nei porti e nelle ferrovie, e negli stabilimenti commerciali, per conquistare posizioni nevralgiche per l’economia del paese. Involontariamente lo sciopero palestinese completò l’opera del segregazionismo sionista. Esempio tipico: la costruzione del porto di Tel Aviv che soppianterà quello di Giaffa.
La repressione a cui si è appena accennato alimentò la rivolta. Gli insorti aumentarono di numero, in capacità d’iniziativa e nella qualità delle loro azioni contro le truppe d’occupazione e le squadre dei coloni sionisti che le affiancarono. In pochi mesi il controllo di vaste aree del Paese passò nelle mani di rivoltosi.
La guerriglia si diffuse nelle campagne dove i dirigenti politici dei ceti urbani godevano di prestigio e autorità, ma non controllavano il movimento. I leader cittadini credevano comunque di aver acquisito un sufficiente peso contrattuale nei confronti del governo britannico. L’alto Comitato Arabo presieduto dal muftì si rivolse ai monarchi dell’Arabia, dell’Iraq e della Transgiordania che diffusero un comunicato rivolto ai palestinesi in cui chiesero la cessazione dello sciopero, il ritorno alla normalità e affermarono: «Noi abbiamo fiducia nelle buone intenzioni della Gran Bretagna nostra amica». L’Alto Comitato Arabo invitò a sospendere lo sciopero. L’11 ottobre 1936, dopo 175 giorni, lo sciopero in Palestina, il più lungo sciopero generale mai effettuato, venne sospeso, ma le azioni insurrezionali non si fermarono.
Vennero chiamati in Palestina altre truppe britanniche ed esperti antiguerriglia quali il generale Bernard Law Montgomery, Charles Tegart e David Petrie, che sin dal 1937 ritennero che: «È chiaro che la liquidazione della ribellione con i mezzi militari sarà un’impresa lunga e costosa e che si impone una guerra contro la maggioranza della popolazione araba» Per tre anni, dal 1936 al 1939, le campagne palestinesi divennero un vero formicaio, e tra il settembre 1937 e l’aprile 1939 gran parte della Palestina sfuggì al controllo militare britannico.
[caption id="attachment_9040" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, soldati britannici dopo aver recuperato la vecchia città di Gerusalemme alla porta di Damasco, nel novembre del 1938. Nella foto di destra, vista di Gerusalemme nel 1939.[/caption]
Il culmine della ribellione fu raggiunto nel 1938, anno in cui i rivoltosi, oltre a controllare le campagne, cominciarono a organizzare un’amministrazione parallela. Nell’estate del 1938 i ribelli controllavano molte città importanti quali Giaffa e Nāblus e il 17 ottobre conquistarono la vecchia città di Gerusalemme. Nelle città controllate parzialmente dagli insorti la milizia sionista, la Haganah, compì attentati nei luoghi pubblici facendo stragi di civili. Il 6 luglio 1938 i miliziani sionisti fecero esplodere una bomba al mercato della verdura di Haifa facendo 23 morti. Ordigni esplosero nelle piazze e nei mercati di Giaffa, Gerusalemme e in altre città. Nel febbraio 1939, mentre era in corso la Conferenza di Londra, un’altra ondata di attentati sionisti colpì i mercati di frutta e verdura uccidendo 38 palestinesi.
La repressione fu spietata. Secondo le stime ufficiali britanniche, che sono di gran lunga inferiori alla realtà, più di 2.000 palestinesi vennero uccisi. Gli studiosi hanno valutato invece in 15.000 il numero dei palestinesi uccisi nella repressione della rivolta. Lo studioso Walid Khalidi ha documentato 5.032 uccisioni, 14.760 ferimenti e 5.600 imprigionati palestinesi.
Il 1948 rappresentò per il mandato di Palestina l’epilogo del ventennio turbolento che era iniziato nel 1929, con la prima rivolta palestinese contro lo Yishuv sionista. Gli avvenimento del 1948 segnarono la nascita dello Stato di Israele e quella del problema palestinese così come lo conosciamo oggi.
 
Per approfondimenti:
_Edward Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995;
_Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, BUR, 2003;
_Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970;
_Elias Sanbar, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire, Milano, Jaca Book, 2005;
_Janet Abu-Lughod, The Demographic Transformation of Palestine, in Id., The Transformation of Palestine: Essays on The Origin and Development of The Arab-Israeli Conflict, Northwestern University Press, Evanston, 1971;
_Marco Allegra, Palestinesi. Storia e identità di un popolo, Roma, Carocci, 2010;
_Ilan Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005;
_Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008;
_Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001;
_Antonio Moscato, Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, Roma, Sapere 2000, 1984;
_Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese, Pistoia, Editrice CRT, 2004;
_Nakba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Roma-Salerno, Fondazione Internazionale Lelio Basso, 1988;
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi, Firenze, Sansoni, 1973;
_Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of "Transfer" in Zionist Political Thought, 1882-1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992;
_Nur Masalha, A Land Without a People, Transfer and the Palestinians 1949-1985, Londra, Faber & Faber, 1997;
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Roma, Gamberetti, 1995;
_Patrick Seal, Abu Nidal, una pistola in vendita. I mille volti del terrorismo internazionale, Roma, Gamberetti, 1994;
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Milano, Il Saggiatore, 2010;
_Khaled Hroub, Hamas: un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano, Mondadori, 2006;
_Michel Warschawski, Israele-Palestina. La sfida binazionale: un sogno Andaluso del XXI secolo, Roma, Sapere 2000, edizioni multimediali, 2002;
 
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Lo spirito che pervade il mondo intellettuale europeo, agli inizi del periodo noto come “Età dei Lumi”, assume sempre più i caratteri di un desiderio indagatore e classificatore della realtà: un bisogno costante di ricerca che finisce per identificarsi nel mito stesso della “luce”, quella dell’intelletto umano, in grado di porre sotto il suo sguardo intere regioni dello scibile umano prima affidate, si pensava, all’arbitrio e all’ignoranza. Che posto poteva occupare dunque tra le arti “belle” quella dei suoni, che si presentava come “oscura”, asemantica, priva di definizioni univocamente accettabili eppure di ascolto così immediato e diretto? In un mondo che s’avviava all’affinamento della scienza e della tecnica, per meglio rispondere a rinnovate esigenze di produttività e di espansione dei mercati, quale ruolo doveva avere una forma di espressione del tutto sfuggente e indeterminata, ma allo stesso tempo così viva e presente nel tessuto connettivo della vita sociale dell’epoca?
[caption id="attachment_8988" align="aligncenter" width="1000"] Francisco Goya, Il sonno. 1800[/caption]
L’ondata riformatrice del sapere e l’anelito alla ricerca scientifica nell’Europa a cavallo dei secoli XVII e XVIII, cui si legheranno imprescindibili le idee di fede nella scienza e progresso, invasero infatti ogni campo finendo per scontrarsi proprio circa la definizione di un’arte che più di tutte rifugge da certe e univoche classificazioni: la musica, appunto. Questo avvenne in quanto da un lato la realtà che s’imponeva lasciava presupporre un desiderio di distacco con le precedenti forme di trasmissione della conoscenza, mentre dall’altro, la forza nascente di una classe borghese in espansione, necessitava di mezzi tecnici e scientifici adatti alle esigenze particolari, così come di un impianto nozionistico radicalmente nuovo e universale. Di qui il bisogno di dare un significato nuovo a concetti vecchi, o per meglio dire, tradizionali.
Secondo il filosofo e storico Enrico Fubini, due furono le invenzioni che segnarono nuove tappe nel corso della storia della musica: l’invenzione dell’armonia e quella del melodramma. Fu proprio quest’ultimo, con il suo fatale intreccio di musica e poesia, a costituire la “pietra dello scandalo” per tutti quei filosofi, intellettuali e critici, ansiosi di ridefinire il concetto di arte musicale. Quel che è certo, scrive Fubini, è che: “armonia e melodramma nascono non a caso contemporaneamente, dal momento che il melodramma implica necessariamente un accompagnamento musicale che consenta e favorisca una successione temporale dei dialoghi e dell’azione drammatica, ciò che la polifonia con il suo sovrapporsi parallelo di più voci svolgentesi contemporaneamente non poteva permettere”. Tale rivoluzione in campo artistico segnò, a partire dal Seicento, l’avvento di una nuova sensibilità estetica che inevitabilmente sollevava questioni filosofiche inerenti lo stretto rapporto tra musica e poesia. Da una parte infatti l’Opera, che serbava già in sé la bellezza e la contraddizione di tale rapporto, e che cresceva sempre più nei gusti del pubblico conquistando, a partire dal Cinquecento, i favori trasversali di tutte le classi sociali; mentre dall’altra vi era la sensibilità razionalistico- cartesiana del Seicento le cui problematiche invece finivano per escludere, con la condanna di questo genere musicale, tutta l’arte in quanto tale. Difatti per lo spirito scientifico dominante nella vita culturale seicentesca, “l’arte e il sentimento non hanno una loro autonomia e non assolvono a nessuna funzione essenziale nella vita dell’uomo; essi rappresentano solamente forme inferiori di conoscenza”. Qui un punto fondamentale: le esigenze di trasformazione di un mondo dove la borghesia cresceva acquistando sempre nuovi spazi, ponevano in essere una sempre maggior fede nelle capacità della tecnica e della scienza governate da un intelletto consapevole e raziocinante. A fronte di ciò, si pensava, la musica non assolve al compito fondamentale di garantire “conoscenza” in quanto essa si rivolge ai sensi, all’udito; laddove la poesia, per il sol fatto di servirsi di mezzi già codificati, le parole, parla alla ragione dell’individuo e ad essa va il primato nella classificazione gerarchica delle arti.
Una cosa su cui da tempo ormai gli intellettuali dibattevano era il concetto di imitazione della natura: senza andare nello specifico delle teorie adoperate, ai fini della nostra indagine, preme rilevare come, se la visione seicentesca della natura si identificava nel concetto di ordine razionalistico e universale, le cui leggi potevano essere indagate e conosciute dalle capacità dell’intelletto, va da sé che la musica acquistava un posto in secondo piano, per alcuni anche di infimo rilievo, per giungere alla conoscenza della realtà. “Nel Seicento”, scrive Fubini, “il termine natura è per lo più usato come sinonimo di ragione e di verità, e il termine imitazione per indicare il procedimento che abbellirà e renderà più accetta e piacevole la verità di ragione”. Bisognerà aspettare gli inizi del Settecento per assistere all’uso del termine natura “quale sinonimo di sentimento, di spontaneità, di espressività, e il termine imitazione per indicare la coerenza e la verità dell’arte drammatica, il legame dell’arte con la realtà”. Negli ambienti intellettuali di corte la musica verrà recepita piuttosto come un piacevole intrattenimento, un’imitazione dei sentimenti incapace di presentare null’altro che un piacevole scorrere di suoni e emozioni, non in grado quindi di suscitare nello spirito altro che gradevoli sensazioni assimilate a stimoli emotivi; laddove, per il primato delle arti si vedrà riconfermata ancora una volta la poesia per le sue potenzialità di descrivere la natura avvicinandosi al principio di verità e, quindi, per l’ intrinseca capacità di fare appello alla ragione.
La polemica ancora una volta in Francia, sorta su questo punto tra gli intellettuali Lecerf de La Viéville, Seigneur de Freneuse (1674-1707) e l’abate François Raguenet (1660-1722), non fa altro che confermare tale concezione. Il motivo della disputa è ancora una volta il melodramma, ma qui si confrontano i fautori dei due generi, il melodramma francese e quello d’oltralpe, italiano. Per i due teorici, invero divisi su tutto, la musica appare come un piacevole lusso per l’orecchio e nulla più. D’altronde, sempre Fubini: “l’accusa che più frequentemente si rivolgeva alla musica si riferiva appunto alla sua insignificanza e quindi alla sua incapacità di imitare alcunché. Nel melodramma il suo ufficio sarebbe limitato a ornare convenientemente e modestamente i concetti espressi dalle parole per renderli meglio accetti alla ragione. Ma di fronte ad una musica che tendeva sempre più ad estendere il suo dominio nel campo del melodramma (grazie all’ opera italiana- nda) e allo stesso tempo si imponeva ormai anche come musica strumentale bisognava… includerla nel Parnaso e attribuirle un qualche valore imitativo”.
La discussione sorge quindi sul modo di avvicinare questa, all’arte della poesia: per far ciò, sembrava a Lecerf di non trovare altro rilevante mezzo espressivo all’infuori del melodramma francese, il favorito dell’aristocrazia di corte, per la sua chiarezza, precisione di schemi e per la sua “monotonia”, qui vista in positivo come il programmatico ripetersi di formule melodiche e ritmiche, che sostenevano la poesia, vero “motore” del dramma. Nel Raguenet invece, la preferenza di gusto virava decisamente verso il genere dell’opera italiana, che in Francia riscuoteva un sempre maggior successo, tra tutte le classi sociali, soprattutto quella popolare, in virtù di una maggiore libertà di forme e periodi musicali, in forza della bellezza del suo “bel canto”, che ne avvantaggiavano la godibilità delle melodie in luogo della sterile ripetizioni di versi di idilli privi ormai di ogni riferimento al “reale”.
A spostare l’accento e ad infrangere così la barriera che si era venuta ad erigere nella cultura illuminista tra arte e razionalità, tra ragione e sentimento, si troverà, suo malgrado nonostante le polemiche, il compositore e teorico della musica francese Jean Philippe Rameau (1683-1764).
[caption id="attachment_8990" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Philippe Rameau /ʒɑ̃ fiˈlip ʁaˈmo/ (Digione, 25 settembre 1683 – Parigi, 12 settembre 1764) è stato un compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica francese.[/caption]
Questi non aveva nessun interesse ad inserirsi nelle “querelles” in corso, soprattutto per quanto riguardava la difesa dell’opera francese o italiana, tutt’altro: Rameau fu musicista raffinatissimo che produsse alcune tra le più significative pagine di musica strumentale dell’epoca, elaborando inoltre teorie sulla concezione dell’armonia e della musica che esonderanno dagli intenti didattici originari dell’autore per giungere a un superamento delle dispute dottrinali sino ad allora espresse. Quello che Rameau produsse lo fece con l’intento di restituire all’arte dei suoni dignità e valore; ciò senza essere un rivoluzionario (fu assimilato anzi, dai successori, ai musicisti dell’aristocrazia conservatrice), ma piuttosto affermando un principio, nell’ambito dei rapporti fra i suoni, che si richiamava nientemeno che ai teorici medievali e rinascimentali quali Zarlino, Mersenne, Cartesio e classici, come Pitagora.
Il mio fine è di restituire alla ragione i diritti che essa ha perduto in campo musicale”, sentenzia Rameau. Questi infatti, pur senza i toni del polemista, non accetta l’idea dominante della cultura illuministica di un’arte che non è in grado di porsi in rapporti di indagine con la realtà e, nel momento in cui imita i sentimenti, non costituisce un mezzo di conoscenza quanto piuttosto un lusso che accarezza le orecchie distraendo lo spirito dalla “vero” e “reale”.
La sua sfida, il compositore francese, la combatte sullo stesso terreno dei teorici della “Età dei lumi”: arriverà infatti ad affermare che la musica imita sì la natura, ma non si allontana dal principio di ragione; di contro, essa ne svela i rapporti più profondi poiché risulta governata dai medesimi principi di unità e armonia che sono presenti nell’intero mondo sensibile. Se dunque può essere razionalizzata, la musica non può essere più vista come un qualcosa di estraneo alla natura, ma anzi, come un modo di rivelare all’intelletto i suoi schemi originari e immutabili. Nel suo “Traité de l’Harmonie réduite à son principe naturel” pubblicato nel 1722, Rameau afferma: “La musica è una scienza che deve avere delle regole stabilite, queste regole devono derivare da un principio evidente, e questo principio non può rivelarsi senza l’aiuto della matematica”. Tale concezione dell’arte, di impianto per certi versi ancora razionalistico-cartesiano, non si pone in antitesi con le teorie che privilegiano i piaceri dell’orecchio: se infatti all’ascolto della musica proviamo piacere, ciò è possibile in quanto attraverso di essa possiamo giungere ad un divino ordine universale, alla conoscenza diretta della natura stessa. Possiamo concordare con Fubini quando afferma: “Un concetto fondamentale sta alla base del pensiero di Rameau: tra ragione e sentimento, tra intelletto e sensibilità, tra natura e legge matematica non c’è nessun contrasto, ma esiste di fatto un profondo accordo: questi elementi devono quindi armonicamente cooperare”, e ancora: “Rameau supera così le posizioni dei suoi contemporanei e si pone fuori dalle polemiche in cui suo malgrado si trova immerso. Infatti non sente alcuna esigenza di prendere posizione a favore della musica italiana o francese: la musica è anzitutto razionalità pura ed è quindi per sua natura il linguaggio più universale”.
Arriviamo dunque agli enciclopedisti. Nella monumentale opera di classificazione e sistemazione del sapere umano (la prima edizione va dal 1751 al 1780), gli intellettuali che presero parte alla stesura delle varie parti, sotto la direzione di Denis Diderot (1713- 1784) e di Jean Baptiste Le Rond d’Alambert (1717- 1783) provenivano dalle più disparate esperienze di studio in ogni campo scientifico e umanistico. E’ ovvio che anche per quanto riguarda le voci musicali, della cui stesura nell’opera se ne contano più di 1700, circolassero i pareri più discordanti. Quello che più di tutti emerge dalla concezione degli intellettuali impegnati nell’ Encyclopédie è la vena polemica, non priva anche di una certa pungente ironia, con cui essi difendevano le loro visioni in netto contrasto con l’impostazione del passato. Nello specifico ci preme sottolineare come, nella ben nota diatriba tra i fautori del melodramma francese e quelli del melodramma italiano, gli enciclopedisti capitanati da Jean Jacques Rousseau (1712-1778) si schierarono con fermezza proprio a favore di quest’ultimo. Questo perché nella loro ipotesi di riforma totale del sapere, pur non essendo musicisti, ma fruitori ed accesissimi appassionati dell’arte dei suoni, i pensatori francesi guardavano con sempre maggiore interesse alle libere forme della melodia italiana, in tal modo restituendo dignità e valore all’espressione musicale, ma allo stesso tempo ponendosi in netto contrasto con i valori tradizionali, nel cui solco, finì per essere relegato anche un musicista “riformatore” come Rameau.
Se le teorie di quest’ultimo sull’armonia risentivano dell’impostazione naturalistica di fine Seicento, per gli enciclopedisti i tempi erano maturi per una netta rottura con tutti gli schemi del passato: l’accento, dissero, andava posto più che sui rapporti tra i suoni, sulla successione di questi. In altri termini, all’armonia doveva essere preferita la ricerca della melodia. E del rapporto tra natura e musica, tra sentimento e imitazione? In questo campo, come si è detto, si cercò ancora una volta di dare un significato nuovo a terminologie di cui la tradizione aveva fatto largo uso: nella riforma del sapere in atto, per i pensatori dell’Encyclopédie la natura non era più considerata il regno della verità e della ragione, quanto piuttosto la voce libera, istintiva, al cui canto affidarsi per spiegare le teorie degli affetti umani. Se dunque, come si è detto, alla musica veniva riconosciuta la capacità di imitazione della natura, ormai tale accezione non poneva nessun esito negativo: l’arte dei suoni infatti poteva e doveva essere rivalutata proprio in virtù della sua forza di espressione dei sentimenti, per la sua vena istintiva e libera. Ciò, si comprende bene, in antitesi, sia con le critiche del pensiero scientifico precedente, sia con la visione di Rameau, che riconosceva alla natura un principio di ordine divino e universale.
[caption id="attachment_8992" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Léopold Boilly: Il Circolo. Nel dipinto Jean-Jacques Rousseau e René Louis Gerardin (marchese de Vauvray), presso lo Chateau d'Ermelonville.[/caption]
Su tutti, spicca la figura del pensatore ginevrino, Jean Jacques Rousseau; questi guadagnò sempre maggior rilievo nella stesura dell’enciclopedia tanto che a lui venne affidata la stesura della maggior parte delle voci musicali in essa, le quali voci confluiranno poi nel suo “Dictionnaire de musique”. L’originalità della concezione del filosofo svizzero non risedeva tanto nei propri gusti musicali, egli preferisce naturalmente l’opera italiana a quella francese: il tratto di straordinaria novità del suo pensiero si rivela nell’aver saputo, scrive Fubini, “sviluppare adeguatamente questo concetto di musica come linguaggio dei sentimenti e di aver elaborato una teoria sull’origine del linguaggio che giustificasse e fondasse tale concetto”. In altri termini, la definizione dell’arte dei suoni trovava la sua ragion d’essere in riferimento ad un linguaggio, quello umano, affatto disgiunto da quello dei sentimenti: ma che anzi vedeva quest’ultimo preesistente alla creazione del primo, sin dall’origine dei tempi. Infatti, per Rousseau musica e poesia non potevano porsi in antitesi; egli, circa la nascita delle lingue, afferma che in origine queste dovevano essere tutte musicalmente accentuate, e solo successivamente, nel parlato quotidiano, avrebbero perduto la melodiosità primigenia per divenire ormai solo uno strumento di espressione dei ragionamenti. Nel suo trattato, “Essai sur l’origine des langues”, pubblicato postumo solo nel 1781, il filosofo afferma: in origine “non ci fu altra musica che la melodia, né altra melodia che il suono modulato della parola; gli accenti formavano il canto, le quantità formavano la misura e si parlava sia per mezzo dei suoni che del ritmo che delle articolazioni e delle voci”.
Ormai il termine natura viene contrapposto proprio al concetto di ragione, in antitesi completa con le opinioni tradizionali; in quest’ottica, sostiene Rousseau, l’arte dei suoni acquista autorevolezza in quanto è l’espressione più pura e originaria degli affetti umani, “essa”, la musica, “non imita solamente, essa parla; e il suo linguaggio inarticolato ma vivo, ardente, appassionato possiede cento volte più energia della parola stessa. Ecco donde nasce la forza dell’imitazione musicale, ecco donde attinge il potere che essa esercita sui cuori sensibili” (op. cit. XII).
Infine, nonostante le tiepide prese di posizione dei vari Voltaire (1694-1778), forse il meno interessato tra gli enciclopedisti alle teorie sulla musica, e D’Alambert, il quale sposò tiepidamente le tesi che appoggiavano l’opera italiana, risentendo della vecchia impostazione illuministica, colui che rivoluzionò del tutto le teorie espresse fu proprio Denis Diderot. Il maggior fautore dell’Ecyclopédie sin dai primi scritti, “Principes généraux d’acoustique” (1748) e “Leçons de clavecin et principes d’harmonie” (1771), espose quella che fu chiamata “teoria dei rapporti”, in base alla quale, il piacere stesso della musica sarebbe dovuto alla “percezione dei rapporti dei suoni”.
[caption id="attachment_8994" align="aligncenter" width="1000"] Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet (Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778) è stato un filosofo, drammaturgo, storico, scrittore, poeta, aforista, enciclopedista, autore di fiabe, romanziere e saggista francese.[/caption]
Ma qui sta la novità: sebbene infatti un’intuizione del genere risenta dell’impostazione fatta propria da Rameau, per Diderot tale percezione dei rapporti relativi ai suoni non sembra svelarci un’ordine eterno e universale, secondo la concezione della musica matematico- pitagorica, quanto piuttosto il richiamo ad un valore inconscio e istintivo, tutto celato nel sentimento, piuttosto che nell’intelletto. Appare chiaro che un pensiero simile finiva per oltrepassare anche i limiti dell’impostazione di Rousseau, evidentemente troppo incentrata sulla rivalutazione della melodia come linguaggio originario, a scapito dell’armonia. La successione di più suoni emessi contemporaneamente svelava, per Diderot, tutta una serie di rapporti che mostravano come dietro la natura vi fosse un segreto essenziale per la vita dell’uomo: una ragione che poteva essere colta più dal sentimento che dalla ragione. Secondo tale visione la musica, essendo svincolata dalle apparenze del mondo esterno, costituiva la via privilegiata tra le altre forme di espressione artistica per giungere alla vera essenza delle cose. Si ribaltano in questo modo tutte le concezioni del passato: “Come mai”, si chiede il filosofo, “delle tre arti imitatrici della natura, quella la cui espressione è più arbitraria e meno precisa, tuttavia parla con più forza alla nostra anima? Forse che la musica mostrando meno direttamente gli oggetti lascia più spazio alla nostra immaginazione, oppure avendo noi bisogno come di una scossa per commuoverci, essa è più atta che non la pittura e la poesia a produrre in noi quest’effetto di tumulto?” (Oeuvres, I, p.409). Ed è proprio tale predilezione per il non finito, per il regno dell’indistinto, che, lungi dal propendere per una sorta di evasione nell’irreale, nel “nonsenso”, trovava la sua ragion d’essere nel richiamo alla natura, alla più profonda e vera essenza delle cose, celata dalle apparenze esteriori. Ormai i tempi segnavano un desiderio di abbandono delle visioni classicheggianti di un arte come innocente evasione, di puro lusso estetico, per tracciare invece la via di un sempre più stentoreo appello alla musica come vera e propria “cris animal”, come il prorompere degli istinti, come la voce reale del tumulto delle passioni umane. Ed è qui che risiede la forza rivoluzionaria di un pensiero come quello di Diderot. Egli, seppur in modo asistematico e “provocatorio” (non svolse mai le sue teorie sulla musica in trattati ordinati, ma le sparse nei suoi scritti apparentemente legati agli argomenti più vari) rappresentò infatti una innovativa sintesi tra le concezioni dell’arte di Rameau e Rousseau: il suo pensiero, in virtù di una affermazione della musica come valore finalmente autonomo, fu in grado di superare i limiti delle concezioni estetiche di un’epoca e di imporsi con tutta la sua straordinaria visionarietà per aprire, ormai definitivamente, le porte al romanticismo.
 
Per approfondimenti:
_L’Estetica musicale dal Settecento ad oggi - E.Fubini - Edizioni Einaudi;
_Breve storia della musica, M.Mila - Edizioni Einaudi;
_Enciclopedia della musica - Edizioni Garzanti;
_Traité de l’Harmonie réduite à son principe naturel, J. P. Rameau - Edizioni Les fiches de lecture d’Universalis;
_Essai sur l’origine des langues, J.J. Rousseau - Edizioni Essais folio;
_Principes généraux d’acoustique, Leçons de clavecin et principes d’harmonie, Oeuvres, D.Diderot - Edizioni Hermann éditeurs.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1474104037638{padding-bottom: 15px !important;}"]Il passaggio al bosco di Leone Ginzburg[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 27/06/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1474113371863{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il Ribelle è il singolo, l'uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice".
Vorrei iniziare questo articolo riprendendo il noto Trattato del Ribelle del filosofo tedesco Ernst Jünger e avvicinandolo, se possibile, all’antifascista Leone Ginzburg.
Può essere considerato un ribelle? Questa è la domanda che mi sono posto e che voglio porre raccontando questo letterato. Perché Ginzburg, nato ad Odessa nella Russia zarista (oggi Ucraina), ha nella sua ordinarietà la sua straordinarietà “molto umana”.
[caption id="attachment_6059" align="aligncenter" width="1000"] Leone Ginzburg Odessa, 4 aprile 1909 – Roma, 5 febbraio 1944. E' stato un letterato e antifascista italiano.[/caption]
Nella grande battaglia della storia e della cultura del novecento Leone è “gettato” nei reali accadimenti.
La scelta, come per Ernst Jünger, è quella di appartenere al mondo degli eroi, realtà che fa da contro-altare alla dimensione di quella normalità che il letterato si sforzava di portare avanti come un buon padre di famiglia.
Il meno eroico degli eroici non dal punto di vista dell’etica, non dal comportamento, ma dal punto di vista dello stile. Riprendendo il sopra citato Trattato del ribelle di Jünger, il suo dire NO al giuramento di fedeltà al regime che veniva richiesto ai docenti universitari, fa entrare Ginzburg come una figura intellettualmente Ribelle, perché libera di operare la propria scelta, la propria convinzione. Nel 1931 saranno solo 12 su 1225, i docenti “ribelli” di un regime, che soprattutto nel primo decennio era considerato da tutti un modello all’avanguardia come sistema politico ed era una creazione tutta italiana, la quale era stata importata in molti paesi Europei.
Basta osservare le folle, per farci capire come il consenso sia stato vero e soprattutto storico, ma mai Leone ha avuto esitazioni nel suo dissentire le teorie fasciste anche, appunto, al culmine di popolarità della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime.
Dunque già finito il liceo avviene in Leone una opposizione naturale che per riprendere le parole di Jünger possiamo citare come “la libertà del singolo che passa al bosco”, in cui il singolo (sotto il regime) non pensa autonomamente ed eticamente, ma è totalmente disciplinato dalle logiche dell’anonimo impersonale Sì, per cui pensa come si pensa, vive come si vive, produce come si produce e cioè permeato totalmente dalla impersonalità anonima ed autoreferenziale del singolo.
Passare al bosco” allora, cioè la prima condizione per essere ribelli, significa abbandonare questo mare del conformismo e della manipolazione organizzata.
Nato da situazioni complicate e divenuto uomo sotto il regime fascista, la sua è stata una vita piena, vissuta nell’ombra, ricca di piccoli episodi cospirativi. Ha vissuto il carcere, ha vissuto il confino e durante la resistenza non ha neanche avuto modo di imbracciare un fucile: era un uomo di lettere.
E’ tra il gruppo storico degli intellettuali di area socialista e radical-liberale che collaborarono alla nascita della casa Editrice Einaudi, ma se nel gruppo dei fondatori Giulio Einaudi era l'anima imprenditoriale, si può dire che Leone Ginzburg fu, di fatto, il primo direttore editoriale della casa editrice. Vicino all'eredità gobettiana e al liberalismo radicale, Ginzburg intendeva tutte le sue attività (lo studioso, l'editore, il traduttore, il militante politico) come una missione.
[caption id="attachment_6067" align="aligncenter" width="1035"] Da sinistra a destra: Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli.[/caption]
Non era un “eroe” del nostro immaginario collettivo, ma come per Marc Bloch, “uomini comuni in circostanze non comuni” riprendendo un aforisma sui giacobini di Robert Darnton (storico statunitense della rivoluzione francese).
Fu tra i primi in Italia ad aderire al movimento "Giustizia e Libertà". Fu per questo arrestato nel 1934 in seguito alla segnalazione dello scrittore Dino Segre (membro dell’OVRA) e condannato a quattro anni di carcere.
Questo dettaglio ci lascia immaginare come il fascismo per essere un regime totalitario era abbastanza morbido rispetto alle realtà parallele portoghesi, spagnole e tedesche e deve essere contestualizzato nel suo periodo storico e non certamente oggi, nell’epoca della democrazia (“pax romana”) dove ovviamente risulta tutto enormemente deprecabile. Altro concetto non da poco è la comprensione di come sotto il fascismo era molto facile (senza prove) essere accusato da un membro che aveva la tessera, rispetto ad uno dei pochi cittadini italiani che non la possedevano.
Il ricatto era dunque usato dal regime per tenere sotto-scacco tutta una classe dirigente, ma il nostro letterato non si piega e verrà rilasciato solo nel 1936 in seguito a un'amnistia dove proseguì la sua attività letteraria e di antifascista.
Il suo spirito di ribellione pacato, ma imperturbabile ci richiama ancora ad un verso del Trattato del Ribelle del filosofo tedesco: “Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è ritrovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all'annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti – perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell'intenzione di contrapporsi all'automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo”.
Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe tre figli: Carlo divenuto noto storico, Andrea divenuto un economista, e Alessandra psicanalista di rilievo.
[caption id="attachment_6062" align="aligncenter" width="1000"] Leone Ginzburg e Natalia Levi[/caption]
Le scelte prese da Ginzburg non possono essere considerate comuni, ma il fine “comune” invece è quello di voler mettere ordine in un mondo dove la necessità dell’eroe era sempre più richiesta, di contro egli auspicava il suo vissuto in una società della pace e del benessere. Gli uomini come Leone hanno intravisto, nel massimo momento della catastrofe, un vissuto facile e lieto. Non sarà vero nello specifico per il ragionamento di quel preciso momento da parte del letterato, ma può essere vero in generale per gli uomini e le donne che hanno combattuto la guerra civile. Tutti gli schieramenti: Repubblica di Salò, Movimento Partigiano e Monarchia, tutti hanno intravisto un orizzonte roseo in quel momento tragico. Quell’orizzonte siamo noi nel bene e nel male. Viviamo in quello stesso mondo, che poi è uscito dal più grande suicidio Europeo.
La scelta che farà, sarà quella di dire sempre una serie di NO e di mantenere un enorme rigore: gli atti che segneranno la sua vita di ribelle, saranno il NO al giuramento e il NO che lui disse in Via Tasso ai nazisti che lo interrogavano, fino a farlo morire sotto le torture.
[caption id="attachment_6063" align="aligncenter" width="1065"] Ernst Junger insieme a Carl Schmitt nel 1940.[/caption]
Sandro Pertini (anche lui prigioniero) ancora ricorda quando lo incrociò nel carcere (ala a gestione tedesca) di Regina Coeli: “Guai a noi, se in futuro odieremo l’intero popolo tedesco” gli disse. Ma questa necessità di distinguere tra nazisti e tedeschi Leone Ginzburg la argomentò in alcuni numeri di “Italia Libera” giornale romano clandestino che dirigeva nella capitale e proprio a causa del quale fu arrestato nel momento proprio più duro, più aspro e più feroce della lotta. Tedeschi, appunto, non nazisti - tedeschi come il filosofo di Heidelberg che insieme alla Wehrmacht a guida prussiana partecipò all'operazione Valchiria finita male. Tenne fermo a questo discernimento intellettuale. Tutto questo non per instaurare un mondo corollato, un mondo epico, ma per installare un mondo della prosa, un mondo della normalità.
Guerra e pace, la migliore traduzione ancor oggi che si trova per il capolavoro di Tolstoj, fu scritta in confino mentre avveniva la cruenta battaglia di Stalingrado che rovesciò le sorti della guerra. Nel mentre possiamo immaginare le difficoltà di Leone nello scrivere l’introduzione, la revisione e la traduzione del testo con le vicissitudini gigantesche, ciclopiche che avvenivano in Europa.
Ginzburg distingue tra uomini della storia e uomini della vita e la lezione del letterato che proviene dal romanzo (sia attraverso i personaggi noti, che le comparse) è stato proprio quella di preparare il mondo della prosa, della quale poi si lamenterà concependo come “tempo migliore” proprio gli anni della gioventù e del dinamismo, quali: confini di polizia, interrogatori, vite stroncate, leggi razziali, bombardamenti, guerre, torture ed è forse questa la vera lezione che ci ha lasciato il novecento.
Il tema sospeso della narrativa del 900 (l’eroe) sempre ricercato dagli autori più disparati forse con Ginzburg finalmente si placa. Egli per tutto il tempo del fascismo corregge bozze e questa modalità fa sì, che si possa scorgere dietro questo personaggio un “fare pace” con il tempo nostro, che costantemente ricerca la figura del super-uomo di Friedirich Nietzsche.
L’intellettuale che rifiuta continuamente tutti i vantaggi, tutti i compromessi, tutte le comodità che il suo stato gli conferiva. Vantaggi che ancora oggi gli intellettuali posseggono ed accettano quando si trovano ad operare.
Da questo punto di vista la figura rimane strana, diversa e attraverso una temporalità che non si può conoscere arriva dritta fino al mito.
In “Storia notturna” del figlio Carlo Ginzburg si commenta come l’origine di tutti i racconti ci sia il viaggio nel mondo dei morti e se pensiamo alle circostanze della sua vita (non poteva firmare con il proprio nome per le leggi razziali del 1938) soprattutto legate al ruolo “molto velato” della gestione della casa editrice Einaudi, possiamo capire come la sua identità apparteneva ad un uomo che “è stato via”, non necessariamente nel mondo dei morti, ma come se fosse celato dalla realtà che lo accompagnava.
Leone Ginzburg non era sotto i riflettori: sia per scelta e sia per possibilità, ma rimane affascinante e ribelle per questo: il fascismo era un regime dei riflettori, un movimento totalitario che dava popolarità a tutti gli intellettuali che avevano sposato la causa, ma anche a quelli che non si opponevano (si veda Longanesi).
Il compromesso faceva vivere abbastanza nell’agio “intellettuale” gli scrittori e i giornalisti, come d'altronde oggi non è necessario fare grandissimi compromessi per rimanere “a galla”. Il nostro letterato, invece, è quello che per tutta la vita è stato Via, è straordinario perché si oppone al compromesso nell’epoca del totalitarismo. Si oppone al destino dell’uomo comune, vivendo una vita con pochi soldi, poche soddisfazioni, con pochissime capacità anche nell’agire: si pensi alla sua vita cospirativa che rispetto a quella del francese Bloch non ha paragoni. Ma nella sua modestia è straordinariamente eroico ed eticamente commuovente proprio perché ha accettato di essere in un luogo modesto, ed il fondamento della sua persona è il suo essere velato, il suo vivere nell’ombra, elemento oggi divenuto impossibile (se non a pochi grandi) nel contesto intellettuale.
Il suo non essere in vista, il suo “essere via”, tra “i morti viventi” che lo collocano storicamente fra i dissidenti del regime nel momento storico in cui il fascismo sembrava non dover finire mai (poiché Gitzburg, non è tra quelli che rompono con il fascismo negli ultimi anni) lo rendono tanto più eroico, quanto i suoi No fin dalla prima ora.
Dunque non si può che concludere questo articolo con un ultimo tratto del Trattato del Ribelle: “Il Ribelle deve possedere due qualità. Non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore né con i mezzi della propaganda né con la forza. Il Ribelle inoltre è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”.
 
Per approfondimenti:
_Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita - Edizioni Bompiani
_Ernst Jünger, Il trattato del ribelle - Edizioni Adelphi, piccola biblioteca
_Lev Tolstoj, Guerra e pace - Edizioni Einaudi - traduzione di Leone Ginzburg
_Goetz Helmut, Il giuramento rifiutato_I docenti Universitari e il Regime Fascista - La nuova Italia Milano 2000
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1498398278837{padding-bottom: 15px !important;}"]L’idea dello spazio pittorico nel trecento italiano[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Michele Lasala 28/06/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1499175466659{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Con Cimabue si è soliti far iniziare la grande avventura della pittura italiana. È con questo artista che per la prima volta assistiamo a una vera rivoluzione iconografica, nonostante l'artista sia fortemente legato agli stilemi e al linguaggio dell’arte "grecula". Ma il probabile allievo di Coppo di Marcovaldo evidentemente ha qualcosa in più rispetto ai suoi contemporanei, ed è l’umanità che traspare dalle sue Madonne e dai suoi Cristi, inseriti all’interno di uno spazio pur sempre bizantino, arcaico, ma già caratterizzato da un leggero senso del volume. Questa la vera rivoluzione. Le Madonne di Cimabue sono donne che cominciano ad abitare un mondo che assomiglia già al nostro. Lo possiamo notare nella Madonna col Bambino in trono e due angeli (1300 ca.) in Santa Maria dei Servi a Bologna, dove la Vergine, elegante, delicata e malinconica, ci fissa stando seduta su un trono tridimensionale. Qui la prospettiva non è ancora quella di Paolo Uccello o di Piero della Francesca, quella di Brunelleschi o di Lorenzo Ghiberti; ma quella assonometrica che denuncia la mancanza di ogni regola matematica e geometrica, di ogni numero e misura.
Tuttavia, all'interno le figure si caricano di umanità: la Vergine non è più uno schema, ma un corpo che si muove; gli angeli sono capaci di provare passioni, e il Bambino comincia ad essere irrequieto, tanto da toccare la spalla della Madre quasi come a voler attirare la sua attenzione. Con Cimabue, dunque, la pittura sta per diventare racconto.
Più o meno negli stessi anni, il pittore toscano realizza uno dei testi più significativi della storia dell’arte italiana: la Madonna di Santa Trinita, dove continua a parlare sì un linguaggio antico, però dimostra allo stesso tempo una certa scioltezza, e non manca di modificare la sintassi degli elementi raffigurati per creare qualcosa di mai visto prima, mai concepito. Lo si può capire chiaramente dalla rappresentazione del trono su cui siede la Madonna col Bambino; una architettura complessa e originale tutta giocata sui pieni e sui vuoti, al punto da ricordare qualcosa di Borromini. In basso, il trono infatti presenta tre aperture, in cui sono disposte, come in un trittico, le figure di quattro profeti: Abramo e David nella cavità centrale, Geremia in quella di sinistra, e Isaia nell’apertura di destra. Ad ambo i lati del trono, invece, come a volerlo sollevare verso la luce celeste, una schiera di angeli dalle vesti leggere e dalle ali policrome. Essi rievocano quelli dipinti da Pietro Cavallini nel Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere a Roma (1293 ca.), ma rispetto a quelli sembrano essere meno materiali. Vere e proprie intelligenze galleggianti nella luce dorata di Dio.
[caption id="attachment_8963" align="aligncenter" width="1000"] Cimabue, pseudonimo di Cenni (o Bencivieni) di Pepo (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302), è stato un pittore italiano. Nella immagine centrale: La Maestà di Santa Trinita, 1290-1300 - 385×223 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze; Pietro Cavallini: Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere (particolare), Roma 1293.[/caption]
Con Cimabue assistiamo a un primo, serio tentativo di rompere con la tradizione, poi sarà la volta di Duccio di Buoninsegna, che però allo spazio e alla forma preferirà la poesia della linea. Sulla sua Maestà del 1308-1311 per il Duomo di Siena valgono le parole di Longhi: «Guardate ora per un istante la rappresentazione sacra di Duccio: se vi cercaste spazio e forma, ancora una volta resterete delusi. Le mani della Vergine non sostengono il Bambino ma quale molle ondeggiamento è impresso, per tal modo alle dita! I santi e gli angeli non scortano e non hanno posizione nello spazio, ma, per questa ragione, quanto abilmente decorano tutta la superficie della tavola dall’alto al basso con uno svolgersi lento dal vertice della cuspide centrale. Tutto quello che ci appare deficiente come forma e come spazio riappare, per la stessa ragione, sovranamente delizioso come linea floreale». E in virtù di questa «linea floreale», tale perché ricorda «lo stelo incurvato dal vento» o «un’alga insinuata dalla corrente», Duccio risulta più lirico di Cimabue.
Ma ancor più lirico di Duccio e di Cimabue è Simone Martini, raffinatissimo fino all’inverosimile e capace di trasfigurare ogni cosa in pura essenza, in pura idea. Si pensi alla Annunciazione del 1333 (Uffizi), dove non compaiono né architetture né rocce e né paesi, perché ciò che a Simone interessa è rendere visibile alla mente ciò che agli occhi rimane invisibile: il dogma. Solo il vasetto coi gigli è un richiamo al mondo profano; tutto il resto appartiene allo spazio dell’assoluto, inaccessibile all’uomo. Simone è un pittore concettuale, utilizza la linea per creare non già storie, ma teoremi; non racconti, ma pensieri.
La sua Maestà in palazzo Pubblico a Siena, inoltre, riprende quella di Duccio, ma si trasforma in un ideale politico: «La Maestà di Simone Martini (1315) propone […] un’immagine riformulata in termini più esplicitamente politico-cerimoniali. Dopo l’esempio di Duccio, il soggetto richiedeva uno spazio larghissimo, una posizione centrale: il passaggio del tema dalla tavola all’affresco può spiegarsi anche così. […] Più scopertamente dunque la Civitas Virginis chiama la sua patrona nella sala del Consiglio del suo Palazzo Pubblico, circondandola degli stessi santi che la accompagnavano nel Duomo, sotto un larghissimo baldacchino sorretto da otto santi. […] Di regina coeli, com’era ancora nel Duomo […] Maria s’è fatta sovrana terrena, partecipa al Concistoro del Comune».
[caption id="attachment_8965" align="aligncenter" width="1000"] Simone Martini e Lippo Memmi: "L'Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita", tempera e oro su tavola (305x265 cm), del 1333, presso gli Uffizi a Firenze. Si tratta di un trittico ligneo dipinto a tempera, con la parte centrale ampia il triplo dei due scomparti laterali. Considerato il capolavoro di Simone Martini, della scuola senese e della pittura gotica in generale, venne realizzato per un altare laterale del Duomo di Siena. Simone Martini: "La Maestà del Palazzo Pubblico di Siena", affresco (970x763 cm) che occupa tutta la parete nord della Sala del Mappamondo (detta anche Sala del Consiglio) del Palazzo Pubblico di Siena. L'affresco è datato 1315 ed è considerato una delle principali opere dell'artista, nonché una delle opere più importanti dell'arte trecentesca italiana.[/caption]
La vera rivoluzione dello spazio nella pittura del Trecento in Italia (e da qui poi in tutta Europa) si ha comunque con un pittore lontanissimo da Simone e opposto rispetto a Duccio: Giotto. Prima del grande maestro toscano infatti le forme sembravano delle silhouette ritagliate e inserite in un ambiente che aveva tutta l’aria di essere più ideale che reale. Giotto invece colloca i suoi personaggi, vere e proprie persone e non certo archetipi, all’interno di uno spazio architettonico e paesaggistico tratto dalla realtà, quella stessa realtà che il pittore vede coi propri occhi e sente nella sua anima, anticipando così il realismo di Masaccio. Uno spazio fisico, vero, vissuto. Tuttavia, Giotto non si limita a riprodurre fedelmente quello che osserva, ma cerca piuttosto di esprimere il senso delle cose, e conferisce inoltre agli oggetti più vari, alle rocce sullo sfondo di un paesaggio, ai cieli azzurri delle città e delle campagne, agli animali e agli uomini vestiti alla moda, una qualche identità. Tutto è per Giotto pieno di vita, perché tutto è frutto della creazione di Dio. Lo spazio che egli rappresenta è lo spazio fisico e mondano dove tutto ha il carattere del transeunte, perché con la Creazione del mondo ha avuto inizio anche lo scorrere del tempo. Giotto è stato ciò che Dante è stato in letteratura e Duns Scoto in filosofia.
Da Giovanni Boccaccio a Cennino Cennini, da Filippo Villani a Lorenzo Ghiberti, non c’è intellettuale tra XIII e il XIV secolo che non abbia visto in Giotto il rinnovatore dell’arte dopo una secolare decadenza cominciata con la fine dell’Impero romano. Il pittore toscano finalmente avrebbe liberato l’arte dalla «rozeza de’Greci», come scrive Ghiberti nei suoi Commentarii, alludendo egli alla stile dei bizantini, considerato appunto rozzo, vecchio, statico, per nulla gentile rispetto alla raffinatezza di quello “moderno”. Mentre Boccaccio – mettendo in rilievo il naturalismo del pittore – diceva nel Decameron che Giotto «ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura […] che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse» sino a ingannare l’osservatore.
Questo naturalismo e questa capacità di conferire volume e spessore alle cose emergono con molta evidenza nella città più spirituale d’Italia, Assisi, e in particolare nel cantiere degli affreschi della basilica superiore di san Francesco, dove il giovane Giotto, assieme ad altri dotati maestri, come Jacopo Torriti, narra la storia del santo in una serie di riquadri che corrono lungo le pareti inferiori della chiesa. Ma le storie francescane sono solo una parte della decorazione ad affresco della basilica cui Giotto pose mano, perché accanto ai ventotto episodi della vita del santo, il maestro toscano dipinse con ogni probabilità anche le storie di Isacco. Sulla giusta attribuzione a Giotto di questo o quell’episodio la critica è ancora oggi divisa e il problema circa le storie da lui effettivamente dipinte rimane infatti tuttora aperto. Sta di fatto, però, che le maestranze che operarono nel cantiere assisiate cominciarono a parlare una lingua nuova nella pittura, giocando sul rapporto tra architettura dipinta e architettura reale, tra spazio vero e spazio raffigurato, e conferendo inoltre ai personaggi un certo espressionismo.
[caption id="attachment_8967" align="aligncenter" width="1000"] Giotto da Bondone: "Il Giudizio universale", affresco del 1306 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. Occupa l'intera parete di fondo e conclude idealmente le Storie. Viene di solito riferito all'ultima fase della decorazione della cappella e vi è stato riscontrato un ampio ricorso di aiuti, sebbene il disegno generale sia riferito concordemente al maestro.[/caption] Espressionismo che poi tornerà negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, il luogo in cui ha avuto inizio veramente la pittura moderna e – oseremmo dire, senza alcun timore di smentita – il Rinascimento. Qui Giotto racconta lungo le pareti laterali dell’Arena le storie di Anna e Gioacchino, di Maria e di Gesù entro riquadri che sembrano quasi dei monitor; mentre nella controfacciata realizza il grandioso Giudizio Universale. Natura e architettura, in questi episodi, convivono in stretto rapporto con gli uomini e con le bestie. In tutte le scene gli ambienti sono descritti con estrema precisione, e la storia sacra entra in intima relazione con la dimensione del quotidiano; gli edifici infatti sono contemporanei a Giotto e i cieli e le campagne sono i medesimi che si possono vedere una volta usciti dalla cappella. Anzi si può perfino dire che i riquadri entro cui il pittore ha rappresentato magistralmente gli episodi biblici non siano altro che delle finestre da cui osservare, al di là delle pareti, ciò che sta accadendo proprio ora su questa e su quella roccia, sotto questo e quell’albero, o davanti a questa e a quella povera capanna. Spazio interno e spazio esterno non si confondono, ma comunicano, determinando una sorta di contemporaneità tra il nostro tempo e quello neotestamentario; come a voler suggerire che in fondo la storia di Cristo non appartiene al passato, ma al presente, perché è qualcosa che sempre accade e sta accadendo anche ora. La scena dell’Incontro alla Porta dell’Oro, dove Anna e Gioacchino si baciano fondendo i loro visi in uno solo, l’azione avviene davanti alla porta aurea della città di Gerusalemme alla presenza di alcune pie donne e di un pastore, che Giotto pone all’estrema sinistra del riquadro. Il ponte su cui Anna e Gioacchino si uniscono nell’amore è l’elemento che mette in relazione due mondi, due realtà: quello rurale dominato dal silenzio e dalla lentezza, e quello urbano fatto di rumori, suoni e innumerevoli voci. Due spazi che dialogano fra loro non soltanto grazie al medium architettonico, ma anche in virtù dei sentimenti, che dai genitori di Maria si ripercuotono nell’animo delle donne sotto l’arco e in quello del pastore con la cesta in mano poco più in là, a dimostrazione che l’umanità trascende le classi e unisce le vite di ciascuno in un unico corpo. In pochi centimetri quadri Giotto, in questo episodio come in tutti gli altri, è stato in grado di raccontare quello che uno scrittore come Pavese avrebbe fatto in un romanzo. Anche in Pavese la campagna e la città sono i luoghi dove si soffre e si ama, ma i tempi in cui tutto questo viene narrato sono più lunghi. In Giotto invece tutto accade nel presente. Qui e ora.
Il naturalismo di Giotto verrà immediatamente recepito dai pittori locali, e poi dai numerosi maestri lungo tutta l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, ma verrà declinato in molteplici maniere a seconda dell’area geografica o addirittura della città in cui si manifesterà, presentando così particolari e singolari inflessioni dialettali. E così la pittura riminese si distinguerà da quella bolognese, così come quella padovana da quella veneziana, quella milanese da quella fiorentina, quella napoletana da quella fabrianese, quella pugliese da quella sicula. I pittori riminesi, e più in generale i pittori emiliani, furono coloro che aderirono fedelmente al nuovo linguaggio codificato da Giotto, e in particolare a quello assisiate; ciò fu possibile anche grazie alla presenza del maestro toscano nella Chiesa di san Francesco a Rimini, dove egli lasciò una meravigliosa croce dipinta (1297-1305), caratterizzata particolarmente dalla potenza anatomica del Cristo.
Neri da Rimini dimostrerà di aver compreso la lezione giottesca, e lo farà nelle figure delle sue iniziali miniate, dove avrà modo di conferire eleganza e raffinatezza ai personaggi collocati entro spazi a metà strada tra il sogno e la realtà.
Ma ad aderire al giottismo ortodosso furono già Giuliano da Rimini e il cosiddetto Maestro del 1302. Quest’ultimo, negli affreschi realizzati nel Battistero di Parma, inerisce i personaggi all’interno di uno spazio in cui compaiono architetture moderne e cieli azzurri. Stessi spazi si ritroveranno negli affreschi dell’Abbazia di Chiaravalle della Colomba (Piacenza) di un anonimo maestro emiliano e poi in quelli di Sant’Antonio in Polesine a Ferrara, realizzati dal cosiddetto Primo Maestro di Sant’Antonio in Polesine. Mentre Giovanni da Rimini si spingerà più avanti; elaborerà infatti architetture più complesse e profonde per conferire maggiore verità alla scena rappresentata. È il caso della Presentazione al Tempio nella Chiesa di Sant’Agostino a Rimini, dove i personaggi «si collocano con straordinaria plausibilità fisica e spaziale sullo sfondo dello svettante colonnato del tempio, sul pavimento sostenuto da robuste mensole prospettiche di chiarissima ascendenza assisiate, in uno spazio intriso da un’atmosfera arcana e antichizzante, delimitato da due colonne tortili che sono tra le più belle di tutto il Trecento pittorico italiano». Nella medesima chiesa, nel 1315, invece, il cosiddetto Maestro del coro di Sant’Agostino (ma forse più verosimilmente la bottega dello stesso Giovanni da Rimini) realizzerà una scena alquanto concitata: il Terremoto di Efeso. Uno straordinario fotogramma che racchiude in maniera superba tutta la tragedia e la disperazione di una città che sta crollando a causa della forza tellurica della terra. Si vedono infatti gli edifici cadere a pezzi e frantumarsi; la gente disperata fuggire confondendosi coi muri colorati della città oramai distrutta. Una scena in grado di evocare le città cubiste di Picasso, dove l’ordine e la misura sono andati irrimediabilmente perduti.
Diversa e singolare maniera di declinare il giottismo oramai dilagante in tutta Italia è quella dello Pseudo Jacopino di Francesco, che dalla Natività e Adorazione dei Magi di Raleiht alla Crocifissione di Avignone, dalla Morte di san Francesco di Roma al Polittico con la Pietà e la Presentazione al Tempio di Bologna, pur aderendo a un certo naturalismo, pare non rinunciare allo sfondo dorato di marca evidentemente bizantina; così rocce, animali, architetture e uomini sembrano inseriti in uno spazio per così dire surreale.
Stesso discorso varrebbe anche per un altro interessantissimo maestro emiliano, Vitale da Bologna. La sua maestosa e monumentale Madonna dei denti (1345, Bologna, Museo Davia-Bargellini) siede elegantemente su un trono gotico, e potente si staglia su di uno sfondo bizantineggiante, che crea un forte contrasto col suo manto scuro. Vitale ha però conferito alla Vergine una certa volumetria e un ceto spessore, e ha così evitato di appiattire il blocco della Madonna col Bambino sulla astratta foglia d’oro. Inoltre ha dato vita alle figure: così il ricciolo Gesù tocca con delicatezza estrema il trasparente velo sul volto della Madre, e quest’ultima inclina la testa verso il Figlio guardandoci languidamente come se fosse stata dipinta da Modigliani. L’umanità di Vitale si riscontra, tra l’altro, in altri maestri lungo tutto il Trecento italiano, e numerose infatti sono le tavole a fondo oro con la Madonna e il Bambino piene di candore e tenerezza.
Bellissima la tavoletta di Nicolò da Voltri (conservata nella Chiesa di San Rocco a Genova), dove Gesù si tocca il piedino come se stesse grattandosi; un gesto che si ritrova anche in una tavola conservata a Francoforte del poeticissimo Barnaba da Modena. Per non parlare poi della Madonna col Bambino di Bernardo Daddi (1320, Pinacoteca Vaticana), o di quella di Maso di Banco del 1340, dove il piccolo Gesù sembra voler immergere la mano nella veste di Maria in corrispondenza del seno, oppure del Polittico di Badia (1295-1300, Uffizi) dello stesso Giotto, realizzato poco prima dell’impresa assisiate. In tutte queste tavole lo spazio è ancora astratto, luminoso, ma le figure acquistano movimento e vitalità.
Ritornando a Vitale da Bologna, possiamo affermare che se da un lato egli non si scolli completamente da una certa tradizione iconografica, non volendo rinunciare allo schema ormai consolidato della Madonna assisa su un trono stagliata su un uno sfondo oro; dall’altro lato, il maestro emiliano sembra assumere un atteggiamento di apertura nei confronti del nuovo, e negli affreschi dell’Oratorio di Mezzaratta le cose sembrano infatti cambiare nella direzione di un realismo tutto moderno. La scena della Natività è in effetti un tripudio di corpi colorati in movimento gravitanti intorno alla capanna, che occupa il centro della intera rappresentazione. Gli angeli danzano e suonano, mentre il bue e l’asino assistono incuriositi al grande evento sacro. San Giuseppe versa contorcendosi dell’acqua nella stessa bacinella dove Maria bagna le sue dita aristocratiche. L’atmosfera è animata, il clima è quello della festa; e le figure sono corpi che si muovono in uno spazio non più celeste e irreale, ma fisico e mondano. Vitale ha reciso finalmente ogni possibile legame col mondo bizantino, e la sua lingua non è più il greco ma il latino.
Così come latina e non più greca è la lingua parlata dai Lorenzetti. Pietro e Ambrogio avranno Duccio di Buoninsegna come punto di partenza, anche se poi le strade che essi seguiranno si allontaneranno dai dettami ducceschi, sino a raggiungere esiti originali. I loro rispettivi percorsi a lungo andare divergeranno e fu il grande Toesca nel 1951 a definire i due fratelli come «tra loro diversi ma uniti nell’orbita dell’arte gotica in cui ciascuno trovò il proprio cielo». E l’arte gotica è proprio quella nata con Giotto sotto il segno della rivoluzione spaziale: «Proprio l’atteggiamento nei confronti della rappresentazione dello spazio è uno dei tratti per cui i pittori della nuova generazione si distinguono più nettamente dal loro maestro [Duccio], sostituendo al suo sovrano disinteresse un’attenta ricerca» .
Nella Crocifissione del 1320 (San Francesco, Siena) questa attenta ricerca porta Pietro a dipinge un Cristo dalla anatomia fortemente accentuata inchiodato su una croce che è l’asse portante di tutta la scena. Ai piedi della stessa sono i corpi dolenti delle Marie e di Giovanni Battista, ma in alto, intorno ai suoi bracci, ruotano gli angioletti straziati dal dolore galleggiando in uno spazio fatto soltanto di aria. Il giottismo di Pietro però è già presente negli affreschi con le storie della Passione del 1315-19 nella Basilica inferiore di San Francesco 
ad Assisi. Nella scena della Cattura di Cristo «lo sfondo è dipinto con il tradizionale azzurro ultramarino che nella pittura murale medievale era equivalente al fondo oro delle tavole dei mosaici; tuttavia nel cielo notturno appaiono stelle a distanze irregolari, che riprendono l’effettiva disposizione delle costellazioni, mentre la falce della luna tramonta dietro un costone roccioso» . È questo uno dei primi e lirici notturni della storia dell’arte.
Più moderno di Pietro è Ambrogio, che raggiunge esiti di grande originalità nella resa spaziale degli ambienti che va dipingendo dalle tavole ai muri. Una ricerca ossessiva, quella di Ambrogio, che va verso la conquista dello spazio e che avrà come punto più alto gli affreschi sul malgoverno e sul buongoverno in Palazzo pubblico a Siena, realizzati tra 1338 e il 1339. Nell’affresco con gli Effetti del buongoverno in città e campagna viene rappresentata la turrita città di Siena, rielaborata dalla fantasia del pittore, coi suoi palazzi moderni, i suoi scorci e le sue mura merlate che la dividono dalla vasta campagna. Una città animata in cui tutto funziona come dovrebbe: c’è il maestro che impartisce la lezione ai suoi studenti all’interno di un’aula universitaria; dei muratori al lavoro; delle fanciulle che danzano a suon di tamburello; ma anche dei contadini raccogliere il grano nell’agro limitrofo. Lo studio, il lavoro, il gioco, nella loro reciproca armonia, sono l’effetto più immediato di una politica retta dalla Giustizia e dal Bene.
Diversi saranno invece gli scenari cinematografici, quasi da colossal, concepiti da Altichiero da Zevio, il più grande tra i veronesi. Si pensi alla magnifica e drammatica Crocifissione, realizzata insieme a Jacopo Avanzi, nella Cappella di San Giacomo della Basilica di Sant’Antonio a Padova tra il 1372 e il 1379.
[caption id="attachment_8970" align="aligncenter" width="1000"] Altichiero da Zevio: "La Crocifissione" è dipinta entro tre arcate, ma le diverse scene sono trattate come un unico spazio. Al centro la Croce, isolata in alto e contornata da angeli, ricorda il medesimo soggetto di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, al pari del gruppo delle pie donne. Ma straordinario è il dispiegarsi della folla attorno al Golgota, con un campionario di stati d'animo e di scene di vita quotidiana che non ha paragoni in un soggetto del genere: soldati indifferenti, passanti, spettatori incuriositi o inconsapevoli, madri coi bambini alla mano, persone che commentano... e poi le scene secondarie, come quella degli sgherri che rientrano in città, o quella delle vesti tirate a sorte, il tutto con una tale vividezza che pare di trovarsi di fronte ad un vivido spaccato di una piazza trecentesca, con un'amplissima gamma di tipi umani e di atteggiamenti emotivi.[/caption]
Ariose e complesse architetture, che sembrano ricostruite direttamente a Cinecittà, compaiono poi negli affreschi che Altichiero realizzerà qualche anno più tardi nell’Oratorio di San Giorgio, sempre a Padova. Si veda la scena coi Funerali di santa Lucia oppure la Decollazione di san Giorgio, dove le lance dei soldati anticipano quelle che si vedranno, circa settant’anni dopo, nella Battaglia di san Romano di Paolo Uccello. E anche il paesaggio sullo sfondo sembra anticipare, nelle rocce e nelle architetture, qualcosa della pittura quattrocentesca. È con Altichiero che lo spazio diventa il protagonista della narrazione; ed è con gli occhi di Altichiero che possiamo già vedere in largo anticipo le sperimentazioni di Masaccio e Piero della Francesca. Ma con Masaccio e Piero siamo già nel pieno Quattrocento.
Per approfondimenti:
_G. Ragionieri, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2009;
_A. Tartuferi, I giotteschi, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2011;
_Cfr. M. Tomasi, L’arte del Trecento in Europa, Einaudi, Torino 2012;
_S.Settis, Iconografia dell’arte italiana. 1100-1500: una linea, Einaudi, Torino 2005;
_R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana (intr. C. Garboli), Rizzoli, Milano 1994;
 
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Che Vienna, nel 2016, centenario della morte di Francesco Giuseppe, abbia dedicato numerose mostre ed esposizioni allo stesso ed alla sua epoca, cominciando da Schonbrunn, il palazzo dove era nato il 18 agosto 1830 ed era mancato la sera del 21 novembre 1916, è logico ed opportuno, trattandosi dell’Imperatore che vi aveva regnato per 68 anni, dal lontano 2 dicembre 1848 e che vi fu sepolto nella Cripta dei Cappuccini, sepolcreto degli Asburgo dal 1633, il successivo 30 novembre, cripta che dette il titolo ad un celebre romanzo storico di Joseph Roth ed il rituale per accedervi fu a sua volta ricordato da Franz Werfel nel suo “Nel crepuscolo di un mondo”.
[caption id="attachment_8935" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra, Koloman Moser: stampa di francobollo su Francesco Giuseppe Asburgo-Lorena; a destra mappa etnica dell'Impero austro-ungarico.[/caption]
Questo ricordo, doveroso per gli austriaci, per cui le poste dell’attuale repubblica austriaca hanno dedicato un francobollo commemorativo del centenario della morte dell’ Imperatore, inizia con la sua ascesa al trono, nel dicembre 1848, dopo l’abdicazione praticamente imposta all’Imperatore Ferdinando, che visse poi in serenità a Praga fino al 1873, e l’altrettanto forzata rinuncia del padre, l’Arciduca Francesco Carlo, coronava gli sforzi che la madre, la bavarese arciduchessa Sofia, aveva fatto, perché questo suo figlio primogenito, fosse imperatore, cominciando dalla sua educazione fin da bambino.
Purtroppo il momento della assunzione all’Impero non era dei più felici, perché da mesi Vienna e l’Ungheria tutta, erano in rivolta contro l’assolutismo asburgico, impersonato dal Metternich, anche con eccessi come la barbara uccisione del Ministro della Guerra, il vecchio conte Latour, raggiunto nei suoi uffici, massacrato e poi appeso ad un lampione! Rivolte, quasi rivoluzioni represse a Vienna dalle truppe comandate dal maresciallo Von Windish-Graetz, ed in Ungheria, con l’intervento ancora peggiore, dell’esercito mandato dallo Zar Nicola I, in virtù dei principi della “Santa Alleanza”, truppe che avevano avuto ragione dei ribelli, così che questo giovane di diciotto anni, saliva su di un trono macchiato di sangue, cancellando quella Costituzione che Ferdinando, aveva, forse a malincuore concessa. Ed in Ungheria, dopo il vittorioso intervento russo, aprendo un solco parzialmente riempito solo dopo un ventennio, un generale austriaco, Haynau, già tristemente noto in Italia, nel 1848, per la sua repressione, che gli aveva meritato il titolo di “jena di Brescia”, fucilava ed impiccava ad Arad, ben 13 generali ungheresi e 114 altri militari, le cui domande di grazia erano state respinte, come avverrà pure nel 1852 per la domanda di grazia per il patriota e sacerdote, Enrico Tazzoli, reo di un delitto di opinione, impiccato poi a Mantova nel dicembre.
[caption id="attachment_8933" align="aligncenter" width="1000"] Thomas Lawrence, Principe di Metternich - 1815, Kunsthistorisches Museum[/caption]
 
Questo , mentre un altro giovane di 28 anni, Vittorio Emanuele II, salito al trono il 3 marzo 1849, dopo una sconfitta militare, in quel di Novara, aveva mantenuto la bandiera tricolore e soprattutto aveva conservato quello Statuto, concesso dal padre Carlo Alberto, con i relativi ordinamenti parlamentari che l’Austria avrebbe conosciuto solo nel 1867. Interessante questo parallelo tra un governo, quello del Regno di Sardegna, con l’intensa attività parlamentare e governativa nel decennio dal 1849 al 1859, mentre nell’Impero d’Austria, vigeva un regime assolutistico, da stato di polizia. Così da una parte si affermava il liberalismo di Cavour e dall’altra, mancato nel 1852, il principe di Schwarzenberg, campione del dispotismo, non emergeva nessuna personalità di valore che indirizzasse l’Imperatore, di per sé digiuno di esperienza politica e poco amante di letture, verso le necessarie riforme.
Così, quando nel 1854, scoppiò quella che fu chiamata “Guerra di Crimea” con Francia, Regno Unito, Impero Ottomano, unite contro l’Impero Russo, l'Austria rimase neutrale, con grande amarezza e delusione dello Zar Nicola I, che riteneva fosse un dovere di Francesco Giuseppe, appoggiare militarmente la Russia, in ricordo e ricambio dell’aiuto ricevuto per debellare la rivolta ungherese, mentre proprio in questa vicenda si inserì abilmente Cavour, fortemente appoggiato dai Savoia, mandando un corpo di spedizione in Crimea, che gli dette così l’opportunità di partecipare, unico rappresentante di uno stato italiano, al Congresso di Parigi nel 1856 e denunciare la situazione dell’Italia, ponendo le basi di quell’accordo con Napoleone III, definito due anni dopo a Plombieres. E peggio ancora si comportò l’Austria, cioè l’Imperatore, che nel 1859, addirittura lasciando all’oscuro il proprio Ministro degli Esteri, il conte Buol, inviò il 23 aprile il famoso “ultimatum” al Regno di Sardegna, seguito il 27 dalla dichiarazione di guerra, che fece scattare la clausola dell’alleanza “difensiva” con l’ Impero di Napoleone III, che così in tal modo poté intervenire militarmente in aiuto al Piemonte, portando alla vittoria, insieme con Vittorio Emanuele II, le truppe franco-piemontesi.
Questa inesperienza di Francesco Giuseppe, - in materia di conoscenze dirette dell’impero, avendo compiuto un solo viaggio nel 1845 a Venezia ed uno in Dalmazia -, fu pagata cara perché non bastava da una parte il coraggio personale, di cui aveva dato prova nel 1848, ancora arciduca, nel combattimento di Santa Lucia ed il senso del dovere e dell’ordine, l’amore e l’inclinazione al lavoro, che rispettò fino all’ultimo giorno e che ne fecero il primo impiegato dell’ impero, quando invece sarebbe stato necessario lo spirito d’iniziativa e decisioni rapide e nette, confermando un vecchio giudizio di Napoleone I che “l’Austria arrivava sempre troppo tardi sia con l’esercito che con le idee”.
E sempre nel 1859 l’infelice scelta, quale comandante dell’esercito austriaco che doveva invadere il Piemonte, del maresciallo Gyulay, anziché dell’Hess, costrinse Francesco Giuseppe, dopo i primi insuccessi, ad assumere personalmente il comando delle truppe, venendo sconfitto a Solferino e San Martino, perdendo la Lombardia, assegnata al Regno di Sardegna.
Così ci descrive la sua inesperienza, unita a grande coraggio, il letterato Joseph Roth nella celebre "Marcia di Radetzky": "A un tratto si stava nel tepore meridiano di un sole argenteo, coperto da nubi burrascose. Allora, tra il sottotenente e le schiene dei soldati, comparve l'Imperatore con due ufficiali del suo stato maggiore. Fece per portarsi agli occhi un binocolo da campo che uno degli accompagnatori gli porgeva. Trotta sapeva che cosa ciò significava: ammesso pure che il nemico stesse ripiegando, la sua retroguardia aveva pur sempre il viso rivolto verso gli austriaci, e chi alzava un binocolo si faceva riconoscere come un bersaglio che vale la pena colpire. E questi era il giovane Imperatore. Trotta si sentì il cuore in gola. La paura per l'inimmaginabile, immensa catastrofe che avrebbe annichilito lui stesso, il reggimento, l'esercito, lo Stato, il mondo intero, gli trapassò il corpo con brividi ardenti. Le ginocchia gli tremarono. E l'eterno malanimo dell'ufficiale subalterno di prima linea verso gli alti papaveri dello stato maggiore, che non avevano alcuna idea dell'amara realtà del fronte, dettò al sottotenente quel gesto che impresse il suo nome a lettere indelebili nella storia del reggimento. Con entrambe le mani afferrò le spalle del Monarca perché si chinasse. La presa del sottotenente fu fin troppo energica. L'Imperatore cadde a terra di botto e gli accompagnatori si precipitarono in suo aiuto. In quell'istante una pallottola trapassò la spalla sinistra del sottotenente, quella pallottola, appunto, che era destinata al cuore dell'imperatore. Mentre questi si rialzava, il sottotenente piombava a terra. Ovunque, lungo tutto il fronte, si ridestò il confuso e sporadico scoppiettio dei fucili impauriti e strappati al loro sopore. (...) Trotta guarì nel giro di quattro settimane. Quando fece ritorno alla sua guarnigione nell'Ungheria meridionale, era insignito del grado di capitano, della più alta onoreficenza, l'Ordine di Maria Teresa, e del titolo nobiliare. Si chiamò da allora in poi: capitano Joseph Trotta von Sipolje".
[caption id="attachment_8941" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Lilly König, Ritratto di Francesco Giuseppe a cavallo durante le guerre risorgimentali - 1855; Karl Philipp zu Schwarzenberg, indicato anche come Carlo I di Schwarzenberg (Vienna, 15 aprile 1771 – Lipsia, 15 ottobre 1820), è stato un feldmaresciallo austriaco; il conte Karl Ferdinand von Buol-Schauenstein (Vienna, 17 maggio 1797 – Vienna, 28 ottobre 1865) è stato un politico austriaco. Fu molto noto per i famosi "quattro punti" legati alla Guerra di Crimea e al tradimento più famoso della storia: dopo aver firmato un accordo di alleanza con la Prussia (20 aprile 1854), determinò la sensazione che un ingresso dell'Austria in guerra al fianco di Francia e Gran Bretagna fosse imminente. Buol prese contatti con il ministro degli Esteri francese Édouard Drouyn de Lhuys, conservatore, e ai primi di luglio del 1854 furono redatti i 4 punti che dominarono il corso diplomatico della guerra. Queste clausole dovevano essere accettate dalla Russia affinché si potessero aprire le trattative di pace: 1) I principati danubiani dovevano essere protetti da una garanzia europea; 2) La navigazione sul Danubio doveva essere libera; 3) Le restrizioni all'accesso di navi da guerra europee nel Mar Nero previste dalla Convenzione degli stretti del 1841 dovevano essere riviste; 4) I russi dovevano abbandonare le loro pretese di protettorato sui sudditi cristiani della Turchia.[/caption]
Le incertezze riguardavano anche la politica interna oscillante tra centralismo e federalismo e dominavano la politica estera austriaca relativamente al problema dell’unità germanica e del ruolo di comando nella Confederazione Germanica, per cui, anche in questo caso Francesco Giuseppe fu abilmente giuocato da Bismarck, il potente cancelliere del Regno di Prussia, che nel 1866 lo spinse a mobilitare per primo, senza che l’esercito fosse pronto e forzando il riluttante, ma fedele, generale Benedeck, ad assumerne il comando, con il risultato di essere travolto dai prussiani di Moltke a Sadowa, perdendo definitivamente il primato tra gli stati tedeschi, che così passava dai cattolici Asburgo ai luterani Hoenzollern, ed il Veneto, assegnato al Regno d’Italia, alleata della Prussia, in quella che per noi è considerata la Terza Guerra d’Indipendenza, però con un confine quanto mai infelice, tra Italia ed Austria, con il Trentino incuneato tra Lombardia e Veneto e ben lontano da Trieste. Inoltre l’Austria e quindi l’ Imperatore, a cui era demandato anche il più piccolo problema, dettero prova dopo la guerra, di ingratitudine nei confronti dell’ammiraglio Tegetthof, il vincitore di Lissa e del Benedeck, sulle cui uniche spalle fecero ricadere la sconfitta di Sadowa.
In questi anni si inserisce l’amara vicenda del fratello Massimiliano, quel fratello che nominato viceré del Regno Lombardo-Veneto, nel 1857, aveva cercato di riconciliare con l’ Impero gli abitanti del Regno, sollecitando inutilmente Vienna a liberalizzazioni e riforme, per cui inascoltato era partito sulla carducciana “fatal Novara”, lasciando il Castello di Miramare, con le sue “(...) bianche torri, attediate per lo ciel piovorno (...)”, per salire al trono di Imperatore del Messico, dopo essere stato obbligato dal fratello, prima di partire, a firmare l’atto di rinuncia al trono austriaco, per finire poi fucilato il 19 giugno 1867 a Queretaro, mentre pochi giorni prima, l’ 8 giugno, Francesco Giuseppe con la moglie, la bavarese Elisabetta, il cui fascino aveva colpito gli ungheresi, erano incoronati a Budapest, Re d’Ungheria, dando così origine e consacrazione a quella che da allora fu definita “duplice monarchia” che prese il noto nome de "Impero Austro- Ungarico”. Ed il successivo 18 agosto, a Salisburgo, si celebravano solennemente i 37 anni dell’ Imperatore, presente anche Napoleone III, con la moglie Eugenia, a cui non rimordeva la coscienza di aver spinto Massimiliano all’avventura messicana, praticamente lasciandolo solo ed indifeso quando aveva ritirato e reimbarcato per la Francia, il corpo d’armata francese comandato da Bazaine.
[caption id="attachment_8943" align="aligncenter" width="1000"] Ferdinando Massimiliano d'Asburgo-Lorena (Vienna, 6 luglio 1832 – Santiago de Querétaro, 19 giugno 1867), membro della Casa d'Asburgo, principe imperiale e arciduca d'Austria, fu imperatore come Massimiliano I del Messico. Con l'appoggio di Napoleone III (1852-1870) di Francia e di gruppi conservatori messicani, venne proclamato imperatore del Messico il 10 aprile 1864, ma molti governi stranieri (e buona parte degli stessi messicani) rifiutarono di riconoscere il suo governo. Nel 1867 venne fucilato dagli oppositori repubblicani. Questo evento colpì fortemente il pittore francese Manet, che gli dedicò il celebre dipinto: "L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano" (sulla destra).[/caption]
E questo 1867 fu anche importante perché finalmente l’Impero si dotava di una Costituzione, con il suo parlamento, il Reichsrat, costituzione che avrebbe regolato teoricamente la vita politica austriaca fino al 1918, ma come commentarono diversi storici in realtà lo Stato era in balia dell’arbitrio burocratico sotto la maschera del costituzionalismo, anche quando fu concesso il suffragio universale maschile ed il parlamento raggiunse i 507 deputati, con 233 seggi previsti per i tedeschi e 255 per gli altri gruppi slavi, mentre solo 19 erano assegnati alle minoranze italiane: ricorderemo il socialista, ma irredentista, Cesare Battisti ed il cattolico Alcide De Gasperi. Questa ridotta presenza italiana era il frutto della politica, messa in atto dopo le nostre guerre d’indipendenza, che avevano dato all’Italia la Lombardia ed il Veneto, malgrado la “Triplice" stipulata nel 1882, di favorire croati e slavi, fomentando la loro avversione nei confronti degli italiani, modificando ad esempio i collegi elettorali in modo da ridurre o far scomparire la rappresentanza italiana, che nel 1848 era maggioritaria in Dalmazia e totale in Istria.
L’accenno alla incoronazione a Budapest di Elisabetta Regina, ci fa soffermare sulla figura di questa consorte di Francesco Giuseppe, principessa bavarese, sposata a 16 anni, per libera scelta del giovane Imperatore, contravvenendo alla volontà della madre che aveva invece scelto per lui, la sorella maggiore di Elisabetta, la principessa Elena. Matrimonio effettivamente d’amore da parte imperiale, che le fu fedele per tutta la vita, che la assecondò in tutti i suoi desideri, che le scrisse sempre lettere affettuose, non considerando la relazione, in età più tarda, con l’attrice Caterina Schratt, relazione nota ed anche favorita dalla stessa Elisabetta. Diverso invece l’atteggiamento della giovane Elisabetta, oppressa fin dall’inizio del matrimonio dal rigidissimo cerimoniale asburgico, di derivazione spagnola, soffocante per una giovane abituata ad una vita libera a contatto con la natura, in una famiglia senza dubbio di origine regale, essendo un ramo cadetto della dinastia dei Wittelsbach, ma non schiava delle forme. Non potevano essere due caratteri più differenti e lontani fra loro, con esigenze diverse ed anche con passioni diverse dai viaggi che videro Elisabetta andare da Madera a Corfù, per finire tragicamente a Ginevra, all’amore della poesia, particolarmente Heine, mentre è noto lo scarso interesse culturale di Francesco Giuseppe, tra l’altro poco disponibile ad accettare i progressi tecnici dal telefono, alle automobili e alle attrezzature ginnastiche e balneari che amava invece la consorte. Questo distacco di Elisabetta dai suoi doveri di Imperatrice va ad esempio confrontato, non certo a suo vantaggio, con il ruolo che quasi negli stessi anni veniva svolto in Italia, a favore dell’unità nazionale dalla Regina Margherita, oggi quasi sconosciuta e dimenticata, nei viaggi nella penisola ed in tutte le manifestazioni ufficiali, sempre a fianco del marito, il Re Umberto I, di cui pure conosceva e perdonava certe debolezze!
Amante della poesia Elisabetta era ella stessa poetessa ed ora dopo oltre un secolo dalla morte le sue poesie riscoperte recentemente sono state pubblicate in un libro curato dalla storica viennese Brigitte Hermann e tradotte anche in italiano, che aprono, come sottolineato dallo storico Waldimaro Fiorentino, che ha recensito questo libro, uno scenario incredibile sui veri sentimenti della imperatrice, smitizzandone il personaggio, perché le sue poesie “sulla famiglia Asburgo e sulla politica imperiale degli anni Ottanta sono a volte spietate , addirittura provocatorie” e di questa spietatezza è prova, ad esempio, una poesia dove dice: “voi amati popoli di questo vasto impero, in gran segreto io vi ammiro tanto, perché col sudore e col vostro sangue, nutrite generosi questa schiatta depravata”, cioè gli Asburgo. E da queste poesie si comprende chi avesse ereditato il carattere ribelle, libertario, repubblicaneggiante di Elisabetta e cioè proprio il figlio, l’Arciduca Ereditario Rodolfo , morto suicida in quella alba tragica del 29 gennaio 1889 a Mayerling. Così, più tardi Francesco Giuseppe, dopo la morte di Elisabetta avvenuta il 10 settembre 1898, pare abbia detto che nulla nella vita gli era stato risparmiato, mai pensando a quanto sarebbe avvenuto a Serajevo sedici anni dopo!
[caption id="attachment_8947" align="aligncenter" width="1000"] Rodolfo d'Asburgo-Lorena, Arciduca d'Austria e Principe della Corona d'Austria, Ungheria e Boemia (Vienna, 21 agosto 1858 – Mayerling, 30 gennaio 1889), arciduca d'Austria. Era figlio di Francesco Giuseppe I Imperatore d'Austria, Ungheria e Boemia e di sua moglie ed imperatrice Elisabetta. Avrebbe dovuto essere l'erede al trono di Francesco Giuseppe, ma la sua morte, avvenuta per suicidio insieme alla sua amante, la baronessa Maria Vetsera, nel casino di caccia di Mayerling, nel 1889, impedì questo, destando scalpore in tutto il mondo e alimentando voci di cospirazione internazionale.[/caption]
Tra tanti eventi non certo positivi, si arrivava, grazie finalmente ad un uomo politico audace e spregiudicato, l’ungherese Andrassy, nel 1878, dopo il Congresso di Berlino, che poneva un punto fermo alla storica inimicizia tra gli Imperi Russo ed Ottomano, il congresso da cui l’Italia seppe solo uscire con le “mani nette”, alla assegnazione all’Impero Austro-Ungarico, della Bosnia-Erzegovina in amministrazione fiduciaria, che nel 1908 sarebbe divenuta annessione, rafforzandolo nei Balcani e dando inizio a quel lungo periodo di pace. Periodo di cui si giovò l’intera Europa, ma particolarmente l’Impero asburgico, per la parte economica e per lo sviluppo industriale, anche se nel suo interno crescevano le rivalità delle nazionalità componenti questo grande insieme multietnico, di oltre cinquanta milioni di abitanti, ed apparivano degli spunti antisemita. In questo scenario la figura di Francesco Giuseppe, fotografato in centinaia di occasioni diveniva simbolica e quasi carismatica, assurgendo ad elemento unificatore, anche se negli ambienti più qualificati culturalmente e politicamente si capiva che il mantenimento dello “status quo” non solo non risolveva i problemi, ma lentamente li aggravava e quindi non bastava a fermare il declino la ripetuta immagine dell’Imperatore, ancora alto, snello e sempre elegante nelle sue divise, sia nei balli di Corte che nelle riviste militari od anche a caccia che era forse la sua unica passione oltre il lavoro di ufficio. Ed in tutte queste manifestazioni e nelle sue vacanze nei territori dell’Impero, sembrava essere vicino al popolo, anche se riservava la stretta della sua mano solo all’alta nobiltà! E di questa sterile nostalgia c’è chi si nutre ancor oggi in varie parti dell’ex impero, meno in Austria, tranne forse il Tirolo.
In questo periodo di pace, che permetteva anche al giovane Regno d’Italia, di consolidarsi all’interno e di trovare il suo ruolo nel concerto europeo delle grandi potenze - dove "Europa" voleva dire "il Mondo" -, sia Vittorio Emanuele II, nel 1873 ed Umberto I , nel 1881, si recavano in visita a Vienna, visite ricambiate da Francesco Giuseppe a Venezia, non volendo venire a Roma, dove il Pontefice non riconosceva l’annessione all’Italia, considerando i cattolici Savoia, come usurpatori. Nasceva così in Italia, il problema dell’irredentismo, con la relativa reazione anti-italiana, da parte austriaca, con punte di frizione come quando il triestino Guglielmo Oberdan(k), per un presunto possibile attentato all’Imperatore veniva impiccato nel 1882, malgrado la domanda di grazia presentata dalla madre e gli appelli di numerose personalità tra le quali Victor Hugo. In questa ed in altre occasioni il governo italiano, considerando l’alleanza difensiva conclusa con gli Imperi Germanico ed Austro-Ungarico, si comportò sempre con estrema correttezza nei confronti degli alleati, come quando Giolitti, Presidente del Consiglio, nel 1911, fu costretto a censurare l’ode di Gabriele d’Annunzio, "La Canzone dei Dardanelli”, in quanto “ingiuriosa verso una potenza alleata e verso il suo sovrano”, censura da cui derivò il vero e proprio odio del poeta per Giolitti , culminato nel 1915, in quanto nella canzone Francesco Giuseppe era indicato come "(...) angelicato impiccatore, l’angelo dalla forca sempiterna (...)” e l’Austria come "(...) la schifiltà dell’aquila a due teste,che rivomisce come l’avvoltoio, le carni dei cadaveri indigesta (...)”.
Nessuno in tutto questo periodo voleva una guerra e realisticamente il Regno d’Italia pensava a soluzioni diplomatiche per la soluzione degli italiani irredenti, se non fosse intervenuto il 28 giugno del 1914, a Serajevo, capitale della Bosnia –Erzegovina, l’attentato e la morte dell’ Arciduca Ereditario, Francesco Ferdinando, e della moglie morganatica Sofia Chotek, ricordati, anche loro, nel centenario del triste evento, incredibile a dirsi, dalle poste della repubblica austriaca, con l’emissione di un “foglietto”, contenente due francobolli con i loro ritratti! Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, in quanto figlio del fratello minore dell’Imperatore, succeduto nella linea ereditaria, dopo la morte dell’unico figlio maschio, l’arciduca Rodolfo, era uomo dal carattere deciso come aveva dimostrato anche nel caso del suo matrimonio con una nobile di modesto rango, che non sarebbe mai potuto diventare imperatrice, né i suoi figli ereditare il trono, ed era di temperamento autoritario, diverso da quello dello zio. Poco amato dalla popolazione, aveva progetti di ristrutturazione dell’impero per dare spazio a boemi e slavi, cambiandone completamente il volto e frenandone la dissoluzione. Questo assassinio all’inizio, oltre allo sdegno, non aveva generato particolari reazioni, ma fu successivamente preso a motivo, da parte della classe dirigente militare e politica, più austriaca che ungherese, per dare al Regno di Serbia, considerato mandante dell’attentato e da alcuni definito “il Piemonte dei Balcani”, una solenne lezione, dimentichi che sugli slavi ortodossi esisteva l’alta protezione dell'Impero Russo. Così si ripeteva l’errore dell’ultimatum del 1859 e si metteva il vecchio, ottantaquattrenne, Imperatore, quasi di fronte al fatto compiuto.
In effetti Francesco Giuseppe non era più per le guerre, ricordando Solferino, con le migliaia di morti e feriti, lui che lì era stato presente, ma “ingravescente aetate” , non aveva più sufficiente energia per opporsi ai suoi sconsiderati ministri, che arrivavano anche ad affermare fatti inesistenti, per cui, con la stanca mano appose la firma alla dichiarazione di guerra alla Serbia, mai pensando che con quella sottoscrizione avrebbe dato inizio a quella che fu poi definita “Prima Guerra Mondiale” e posto fine non solo al suo impero, ma a tutto il principio monarchico predominante in una Europa che al momento vedeva solo tre repubbliche: Portogallo, Svizzera e Francia. Successivamente si sarebbe visto proprio l’Austria proclamare la repubblica e la decadenza della sua Casa e cadere altri tre imperi, germanico, russo ed ottomano, tutti, anche loro, sostituiti da repubbliche, cambiando così l’aspetto geopolitico ed istituzionale dell’Europa.
 
Per approfondimenti:
_Elsabetta d’Austria –“Diario poetico” – a cura e prefazione di Brigitte Harman – Edizioni MCS;
_Eugenio Bagger, “Francesco Giuseppe” – Edizioni Mondadori, 1929;
_Francois Feito, “Requiem per un Impero defunto” – Edizioni “Il giornale”, 1990;
_Franz Werfel, “Nel crepuscolo di un mondo” – Edizioni Mondadori, 1950;
_Gabriele d’Annunzio, “Merope” - Edizioni Il Vittoriale degli italiani, 1943;
_Joseph Roth, “La marcia di Radetzki” – Edizioni Adelphi, 1987;
_Joseph Roth, “La cripta dei Cappuccini” – Edizioni Adelphi;
_Nora Fugger, “Gli splendori di un impero “ - Edizioni Mondadori;
_Stefan Zweig, “Il mondo di ieri" - Edizioni Mondadori, 1946;
_Waldimaro Fiorentino, “Nessuna nostalgia ….” – da “Il sole -24 ore” del 12 agosto 1995 ed altri articoli
_Waldimaro Fiorentino, “La prima guerra mondiale" – Edizioni Catinaccio, 2015.
 
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