[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1503752739298{padding-bottom: 15px !important;}"]La rappresentazione della chiesa nel Don Chisciotte[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Sirianni del 26/08/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1503755728324{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
"Ciascuna delle varie nazioni in cui abbiamo parcellizzato il pianeta ha, per simbolo e compendio, un libro. (...) LʼItalia (e il mondo) ha scelto lʼopera di Dante, uomo energico e dogmatico, colmo di tristi e severe passioni, notoriamente meno simile allʼItalia di quanto non lo sia il dilettevole Ariosto. (...) La Spagna, persuasa dallʼEuropa, si riconosce nellʼopera di Cervantes, che certamente non ricorda né lʼInquisizione né lo stile interiettivo e retorico che siamo soliti associare a tutto ciò che è ispanico". Jorge Luis Borges
[caption id="attachment_9307" align="aligncenter" width="1000"] Don Chisciotte della Mancia (1605)  (titolo originale in lingua spagnola: El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) è la più rilevante opera letteraria dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra e una delle più importanti nella storia della letteratura mondiale. Vi si incontrano, bizzarramente mescolati, sia elementi del genere picaresco, sia del romanzo epico-cavalleresco, nello stile del Tirant lo Blanch e del Amadís de Gaula. I due protagonisti, Alonso Chisciano (o Don Chisciotte) e Sancho Panza, sono tra i più celebrati personaggi della letteratura di tutti i tempi.[/caption]
«Con la Iglesia hemos topado Sancho» è un detto popolare spagnolo attribuito erroneamente al Don Chisciotte di Cervantes. La locuzione si usa per riferirsi a quelle situazioni in cui ci si trova dinanzi a un ostacolo difficile da superare.
Il verbo topar, di fatto, significa “incorrere in” (un ostacolo, una difficoltà che impedisce di avanzare normalmente per il proprio cammino). La chiesa rappresenterebbe dunque, in senso metaforico, lʼostacolo insormontabile dinanzi al quale bisogna arrestare il proprio cammino e con cui fare i conti. Da un punto di vista storico, secondo questa interpretazione, la rappresentazione che Cervantes dà della chiesa e del mondo ecclesiastico non è affatto positiva.
Basti pensare alle varie scomuniche entro cui incappa nel 1585 per aver sequestrato derrate di proprietà ecclesiastica per rafforzare questo argomento. Ma, come ho già anticipato, questa frase è attribuita erroneamente al Don Chisciotte.
Il passo in questione si trova nel capitolo IX della Parte seconda dove, Don Chisciotte, dopo aver «camminato un duegento passi» , credendo di aver raggiunto la reggia della sua amata Dulcinea, una volta dinanzi alla mole, «comprese che quellʼedifizio non era palazzo regale ma la chiesa madre del villaggio» . In questa situazione esclamerebbe la fatidica frase. Ma nella versione originale di Cervantes troviamo «con la iglesia hemos dado, Sancho», che letteralmente significa, seguendo la traduzione consegnataci da Alfredo Giannini: «ci siamo ritrovati alla chiesa, Sancio» . Dado, dunque, non topado. Don Chisciotte si sarebbe semplicemente trovato dinanzi la chiesa di Toboso. Non la Chiesa con la “C” maiuscola, ma il particolare edificio di un particolare luogo. Questa precisazione filologica ci costringe a riformulare quellʼinterpretazione iniziale, forse un poʼ ingenua, che prevedeva un Cervantes in contrasto con il mondo ecclesiastico. Diviene doveroso, dunque, cercare in altri passi dellʼopera degli indizi storiografici che ci possano permettere di dare una esegesi più particolareggiata della questione. Innanzitutto, c'è da dire che quello degli hidalgos era un popolo che aspirava a «vivere “nobilmente”, ossia senza lavoro disonorante, al servizio del Re o della Chiesa; e che sacrifica tutto, spesso persino la vita, a questo ideale. Per un hidalgo come Don Chisciotte, la Chiesa non poteva essere vista in maniera negativa perché dava ragione della sua onorabilità. Nel capitolo XXXIX della Parte Prima, Don Chisciotte descrive la Chiesa ai suoi discepoli come il mezzo attraverso il quale si può raggiungere la ricchezza: "C'è un proverbio nella nostra Spagna, secondo me verissimo, come verissimi son tutti, essendo brevi sentenze ricavate da lunga e saggia esperienza. E quello a cui accenno dice: “O chiesa, o mare o casa reale”, come se dicesse più chiaramente: “Chi voglia contar qualcosa ed essere ricco, segua lo stato ecclesiastico; o navighi esercitando lʼarte della mercatura, ovvero entri nella corte al servigio del re”; perché si suol dire: “Meglio minuzzolo di re che favore di signore".
Senza dubbio, la Chiesa rappresentava lʼinsieme di possibilità che potevano realizzare i sogni di qualsiasi hidalgo.
[caption id="attachment_9304" align="aligncenter" width="1000"] El Toboso: Piazza di Juan Carlos I - Spagna[/caption]
Non solo, la Chiesa era detentrice di tutti i valori morali necessari per poter vivere dignitosamente la propria nobiltà, ma essa era minacciata dai mori che, in Spagna - nel periodo storico in cui scrive Cervantes - erano ormai diventati una fetta considerevole di popolazione. Nel capitolo XXXVII della Parte Prima del Don Chisciotte troviamo un passo riguardante la conversione di una mora rappresentativo del contrasto tra cristiani e Moriscos: "(...) Ditemi, signore - disse Dorotea: (...) questa signora è cristiana o Mora? Perché lʼabito e il suo silenzio ci fa pensare che sia quel che non vorremmo che fosse. (...) Mora è nel vestire e nel corpo; ma nell'anima è quanto mai cristiana, avendo vivissimo desiderio di essere tale.Quindi non è battezzata? - replicò Lucinda. Non c'è stato agio a ciò - rispose lo schiavo - da quando è partita da Algeri, sua terra e paese natale. Finora, del resto, non s'è vista in pericolo di così vicina morte da far obbligo di battezzarla senza che prima avesse conoscenza di tutte le cerimonie che ordina la nostra santa madre chiesa; ma a Dio piacerà che presto sia battezzata, col decoro che si conviene alla sua qualità, che è maggiore di quel che appare dal suo e dal mio abito".
Il fatto che Cervantes espliciti la provenienza della mora non è un caso: «tutte le diatribe antimoresche si riassumono nella dichiarazione del cardinale di Toledo: sono “veri maomettani, come quelli di Algeri”» . Gli algerini erano considerati i più resistenti alla conversione e Cervantes lo sapeva benissimo. In questo passo sembra molto polemico verso il mondo ecclesiastico, dando lʼimpressione che anche la mora più ortodossa dovesse arrendersi alla conversione, cedendo dinanzi alla morale forzata del popolo cristiano di Spagna. Per gli spagnoli dei secoli XVI‒XVII «il problema moresco è un conflitto di religioni, ossia, in senso lato, un conflitto tra civiltà; un problema, quindi,
difficile e destinato a durare» . La conversione dei mori al Cristianesimo non dipendeva dallo Stato, ma dalla Chiesa che costringeva battesimi forzati in massa . Lo Stato, i sovrani, i nobili, non potevano nulla contro le decisioni delle cariche ecclesiastiche, le quali agivano, a volte, anche contro gli ordini dei sovrani (si pensi, ad esempio, al cardinale Francisco Jiménez de Cisneros che, nel 1499, prese la decisione di convertire i mori di Granata contro il parere delle autorità locali, violando la promessa dei Re cattolici che nel 1492 avevano assicurato la libertà religiosa) . Pertanto, sembrerebbe che i nobili hidalgos non potevano far altro che accettare le decisioni della loro onorabile Chiesa, seppur, spesso, contro i loro interessi e quelli dei sovrani. Ma lo storico Fernand Braudel ci ricorda che, verso la fine del XVI secolo, i mori rifugiati in Castiglia prolificarono e si arricchirono enormemente «in un paese inondato di metalli preziosi, troppo popolato di hidalgos per i quali lavorare era un disonore» . Nella Spagna degli anni ottanta, non più la Chiesa, ma i mori divennero i ricchi capaci di garantire agli hidalgos la loro tanto agognata nobiltà. Nel 1596 «in Andalusia e nel regno di Toledo sono più di 20000 coloro che possiedono redditi superiori ai 20000 ducati» . Questa situazione divenne intollerabile per i vecchi cristiani e creò parecchi disordini. Già nel 1588 lʼinterprete della chiesa di Spagna, «il cardinale di Toledo, faceva parte del Consiglio di Stato e si faceva forte dei rapporti del commissario dellʼinquisizione di Toledo, Juan de Carillo», propose al Consiglio di Stato di deliberare contro la moltiplicazione e lʼarricchimento dei Moriscos; e così fu. Il 29 novembre il consiglio allʼunanimità diede «ordine agli Inquisitori di fare unʼinchiesta nella loro giurisdizione e di fare un censimento dei Moriscos» . La conversione col battesimo forzato non era riuscita ad ottenere lʼassimilazione dei mori e la Spagna decise, così, di espellere tutti i Moriscos dai territori cristiani . Ma Cervantes ci ricorda che i rinnegati potevano comunque tornare a patto che venissero rispettati degli obblighi prima di convertirsi alla fede cattolica: "Sei giorni stemmo in Vélez, al termine dei quali il rinnegato, informatosi di quanto gli correva obbligo di fare, andò alla città di Granada a fine di ritornare, per mezzo della Santa Inquisizione, nel santissimo grembo della Chiesa, e gli altri cristiani liberati se n'andarono ciascuno dove gli parve meglio".
Nella nota 262 del testo sopracitato possiamo approfondire il ruolo dellʼInquisizione di Toledo nei confronti dei rinnegati:
"il Rodríguez-Marín, riportandosi a documenti dell'Inquisizione di Toledo custoditi nell'Archivio Storico Nazionale, ci fa sapere che ogni rinnegato, nel rimettere piede in Ispagna, doveva, per non incorrere in gravi responsabilità come sospetto d'eresia, presentarsi subito al più vicino Tribunale del Sant'Uffizio, dimostrando innanzi tutto, con validi documenti, che da tempo aveva il fermo proposito di rientrare nella Chiesa cattolica, quindi far la sua abiura ed eseguire la penitenza che gli fosse imposta".
[caption id="attachment_9305" align="aligncenter" width="1000"] Tramonto a Mota del Cuervo in Castiglia-La Mancia - Spagna[/caption]
Per concludere, possiamo dire che in Cervantes la rappresentazione della Chiesa del mondo ecclesiastico e dellʼInquisizione è di tipo critico. A dispetto di quanto poteva sembrare allʼinizio, non è una visione del tutto negativa, ma, dalla lettura del testo, è possibile scorgere un atteggiamento spesso molto polemico e satirico da parte dellʼautore, un atteggiamento che vuole evidenziare le contraddizioni nelle quali, nel suo periodo storico, è incorsa la fonte generatrice di tutti i valori di cui si fa strenuo difensore il suo amato personaggio.
La sua esegesi, dunque, diviene un esempio potentissimo su come rapportarci anche alla nostra contemporaneità, colma di problemi di carattere religioso che invadono tragicamente tutto il Mediterraneo. Forse bisognerebbe riscrivere un nuovo capitolo del Chisciotte, con una «pagina che non sʼimpaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé» .
Una Parte Terza che tenga conto, con lo stesso apporto critico, dei problemi della nostra contemporaneità. Ma, come Borges sostiene nel suo racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte: «Comporre il Chisciotte, al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, è quasi impossibile. Non invano sono passati trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte» .
 
Per approfondimenti:
_Miguel de Cervantes Saavedra, "Don Chisciotte" - Edizioni Bur 2016;
_Jorge Luis Borges, "Finzioni" - Edizioni Einaudi, Torino 2010;
_Braudel Fernand, "Civiltà e imperi del Mediterraneo nellʼetà di Filippo II" - Edizioni Einaudi, Torino 2010.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1503317646270{padding-bottom: 15px !important;}"]Sartre e il concetto di libertà[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex 21/08/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1503322411842{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Uno dei temi più discussi all’interno della corrente esistenzialista che ha attraversato il Novecento, viene rappresentato dal tema della libertà e dal rapporto che quest’ultima ha con l’uomo. Il progetto del proprio sé davanti all’essere, si configura come un arduo “ostacolo” da “superare”. Tale virgolettatura sta ad indicare quanto sia continuamente in movimento il dipanarsi del progetto della vita di ogni uomo ed evidenzia quanto in realtà sia complesso il meccanismo che intercorre tra le scelte dell’uomo che guarda il suo futuro (imminente o prossimo) e le possibilità che si prospettano per ricongiungersi ai propri obiettivi.
Nel 1943, una delle figure più illustri dell’ambiente intellettuale francese, Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre, scrive il suo capolavoro che gli diede la fama internazionale: L’essere e il nulla. Quest’opera, rappresentante di uno dei capisaldi dell’esistenzialismo novecentesco, affronta tutte le dinamiche della dimensione umana, sotto il punto di vista dell'esistenza.
[caption id="attachment_9288" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo, critico letterario francese, considerato uno dei più importanti rappresentanti dell'esistenzialismo, che in lui prende la forma di un umanesimo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, ma in una prospettiva soggettivista e relativista. In seguito Sartre diverrà un sostenitore dell'ideologia marxista e del conseguente materialismo storico.[/caption]
All’interno del testo confluiscono le molteplici influenze che hanno costituito gli studi dell’autore a monte della stesura dell’opera, da una parte la matrice husserliano-heideggeriana sul tema del rapporto coscienza-mondo ed essere umano-essere delle cose, da un’altra parte quella hegeliana sulla Fenomenologia attraverso la mediazione di Kojève che ha permesso all’autore di sviluppare la contrapposizione tra l’essere dell’uomo e l’essere delle cose, insomma una quantità di matrici che hanno permesso a Sartre di arrivare fino alla radice dei problemi esistenziali che accompagnano l’uomo nella propria vita e di indagare sul nocciolo dei perché dell’esistenza.
Un’opera , dunque, densa e carica di temi, che porta alla luce in maniera molto preponderante quel tema iniziale su cui era stata fatta menzione, ovvero, il tema della libertà dell’uomo dinanzi alle scelte. Sartre attua una differenziazione tra l’essere in-sé delle cose, visto come un qualcosa di immutabile, fermo, statico; e l’essere per-sé della coscienza, ovvero, l’essere umano (Sartre 2002) visto ovviamente come elemento di irrequietezza e in movimento perenne.
Su questo frangente, vediamo chiaramente come la matrice husserliana fa il suo corso, poiché attraverso Husserl apprendiamo come la coscienza è sempre "coscienza" di qualcosa.
L’essere in-sé in Sartre rappresenta quel mondo di elementi auto-sufficienti di fronte alla coscienza dell’uomo, e che rivelano il mondo dato, nella sua manifestazione immediata, intravedendo la non-essenzialità umana.
L’in-sé , dunque, nell’ottica sartriana, non è mai diverso da ciò che è, rappresentando il reale essere nella sua essenza. Di contro l’essere per-sé, nella sua mobilità e irrequietezza, assume le caratteristiche di una negazione di se stesso su cui si apre il nulla dell’essere. Qui vediamo come la matrice hegeliana subentra all’interno dello sviluppo del concetto, l’essere per-sé della coscienza dell’uomo genera la negazione di se stesso, proprio perché nel continuo movimento attua un logoramento di sé a partire da sé. Perché questo? Per rispondere al quesito, Sartre evidenzia come l’essere umano (l’essere per-sé) essendo diretto continuamente verso un progetto futuro, non è mai ciò che è (in funzione del proprio passato), ma è sempre ciò che non è (in funzione di un futuro che deve ancora arrivare). Si ha constatazione della negazione hegeliana, nel momento in cui si prende coscienza che l’essere del "per-sé essendo" è volto verso il futuro e  non verso qualcosa di concreto e definito come "l’essere in-sé delle cose" che sono immutabili e statiche. Esso è condannato ad essere sempre qualcosa di diverso ed estraniato da se stesso, proprio per questa sua caratteristica di essere volto verso il futuro che ancora non è. Giunti alla consapevolezza che l’essere concreto si sintetizza nelle cose, nell’in-sé, Sartre evidenza come al di fuori ciò, non vi sia altro che il nulla - come poc’anzi riportavamo all’interno del discorso.
Diversamente, il nulla non può essere un prodotto delle cose, che staticamente, sono ferme e inermi lì davanti all’uomo, poiché il nulla è un prodotto della coscienza dell’uomo che "è", come dice l’autore, “presenza alle cose” e in quanto presenza ha la mansione di dar senso a quegli elementi che costituiscono il mondo, poiché all’interno della loro qualità di essere concretamente, sono allo stesso tempo inermi e prive di coscienza, dunque senza senso e significato.
Sartre pone in analisi, dunque, il fatto che l’uomo, attraverso un processo di autocoscienza con le cose del mondo, comprende quel processo di annullamento del sé, estraniandosi. Allo stesso tempo quel processo di annullamento è anche delle "cose" e "dell’in-sé", proprio per via del potere di dar senso e significato a tali elementi: è il concetto di poter scegliere la differenzia "dell’in-sé", dal "per-sé". Il "per-sé" della coscienza dell’uomo assume la propria libertà in questa negazione, o meglio, in questo annullamento doppio che attua nei confronti di sé, in quanto non è mai ciò che è ma soltanto ciò che sarà, e parallelamente delle "cose", in quanto padroneggiando il loro senso e significato, può anche optarne l'annullamento. Con questa duplice mansione si scorge il fatto che in fondo l’uomo, proiettato nella sua condizione esistenziale in cui fa esperienza di questo nulla nullificante, si ritrova ad essere protagonista di una libertà che lo accompagna nelle sue scelte, nei sui progetti, nel suo divenire. La libertà, evidenzia Sartre - sulla scia segnata precedentemente da Kierkegaard -, rappresenta l’angoscia su cui l’uomo si affaccia. Essere padrone delle proprie azioni, valutando da sé e senza intercessioni, la qualifica delle nostre scelte prese a monte, risulta per l’uomo angosciante. L’opera di Sartre che affronta questo tema della libertà, alla quale l’uomo è impossibilitato a sottrarsene, dà la possibilità di scorgere la traccia di quella lettura dettagliata, condotta dall’autore nei confronti di Heidegger e del suo "Essere e tempo" (1927).
L’uomo di Heidegger prende coscienza dell’angoscia nel momento in cui di fronte ai progetti che si prefissa fa esperienza del suo essere gettato nel mondo e della nullità dell’essere a cui si espone, cosa che può essere superata tramite una presa di coscienza nel cosiddetto, heideggerianamente, essere-per-la-morte, in Sartre all’interno di questa “gettatezza” l’uomo ha il dovere di prendere coscienza dell’angoscia come una condizione dell’essere di fronte allo scegliere del futuro. Lungi dall’essere determinati da valori precostituiti (idealismo), l’uomo genera il progetto di sé attraverso la libertà verso cui è condannato: conoscere sé stesso.
[caption id="attachment_9290" align="aligncenter" width="1000"] Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre: si conoscono a luglio alla Sorbona. Lui, 24 anni, basso, vestito senza cura, strabico, con scarsa propensione all’igiene personale. Grande affabulatore. Lei, la ragazza dell’alta borghesia. Bella, dalla pelle chiarissima, che viene subito attratta dal magnetismo dell’intellettuale.[/caption]
L’angoscia è dettata da questa consapevolezza, dal sapere che si è liberi di fronte all’essere, poiché si è, per dirla con Jaspers, naufraghi dell’essere, senza quei punti di riferimento che ti veicolano verso una decisione. Nell’azione l’uomo genera se stesso, la libertà nasce dall’atto concreto che si manifesta attraverso l’intenzione umana, “ogni azione deve essere intenzionale” , dice Sartre, “essa deve, effettivamente, avere un fine e il fine a sua volta si riferisce a un motivo”(5). Mediante la consapevolezza della propria libertà, si prende consapevolezza agendo senza influenze e senza condizionamenti, si acquista coscienza del progetto scelto per il mio sé - dice nuovamente Sartre a riguardo: "(...) Io sono infatti un esistente che impara la sua libertà mediante i suoi atti” -, mediante l’agire dunque comprendo di essere libero. Non essendoci strutture basate su valori che determinano le mie intenzioni e non essendo agito da nient’altro che me stesso, i valori rappresentano qualcosa che assume senso nel momento in cui progetto me stesso, sono i valori che diventano il prodotto del mio progettare.
Però questa totale libertà, assume dei tratti che conducono ad una accezione negativa di questa libertà: Sartre parla propriamente di un essere condannato ad essere libero. In espressioni simili, diventa chiaro il fattore che non vi sia una totale felicità alla base di questa libertà, poiché nella libertà di scelta - facendo quest’esperienza diretta dell’angoscia, generata dall’ignoto che si prospetta di fronte alla scelta stessa -, si cela un approccio all’angoscia che porta l’uomo a fuggire da sé e da tale libertà. Sartre definirà questa fuga con il termine “malafede", che deve essere intesa come forma di menzogna nei confronti di se stessi: essere nei confronti di noi stessi in malafede.
Nel momento in cui pratichiamo la menzogna verso noi stessi, sfuggendo, per paura, all’angoscia generata dalla libertà verso cui siamo condannati, ci sottraiamo al tenere testa alle difficoltà, ai mali, che ontologicamente sono costitutivi della nostra esistenza. Su tale discorso Sartre, edifica un ragionamento che differenzia le funzioni che nell’agire umano, assumendo la volontà e le passioni. Nel capitolo dell’opera, intitolato, “Essere e fare: la libertà”, l’autore ci introduce il rapporto che intercorre in forma soggettiva da due diversi fronti: la volontà, le passioni dell’individuo e la libertà.  Scrive l’autore: “(...) la realtà-umana, nel suo stesso nascere, decide di definire il suo essere proprio mediante i suoi fini”. Dunque nel raggiungimento intenzionale e volontario del proprio fine si scorge, l’individuo in quanto tale, si svela il suo essere. In questo gioco di volizioni, la libertà diventa il fondamento pre-intenzionale dei fini personali dell'uomo, raggiungibili attraverso la volontà e tramite le passioni irrazionali, tutti elementi che già agiscono sull'uomo.
Diversamente c’è da sottolineare come Sartre evidenzi il fatto che nel momento dell’atto, dell’azione, della messa in pratica della scelta, la libertà sia un momento contemporaneo alla volontà o alla passione: vi è soltanto da capire quali entità - tra la volontà e passioni irrazionali -, giochino in questa libertà nell’agire. L’uomo è libero di lasciarsi abbandonare alle passioni, alla paura, al sentimento, alla gioia e farsi trasportare da questi elementi, per giungere a finalità prodotte da questi fattori inconsci. Di contro l'uomo può ritrovarsi ad essere volontariamente libero di assumere un determinato comportamento ed essere intenzionato a raggiungere un fine prestabilito. Si parla di modalità dell’essere o come Sartre stesso dice espressamente: “(…) in rapporto alla mia libertà non vi è alcun fenomeno psichico privilegiato. Tutte le mie maniere di <<essere>> la manifestano ugualmente (…)”.
Si parla di vere e proprie modalità di essere, in cui si manifesta la libertà di scelta del come agire: allora si potrà scegliere di essere volontà o passione, si optare un fine partendo da un punto scelto dal singolo, oppure scegliere ugualmente e in ogni caso l'auto-progettarsi della propria soggettiva libertà.
 
Per approfondimenti:
_Jean Paul Sartre, "L’essere e il nulla" - Edizioni Il Saggiatore, Milano 2002;
_Ernst Bloch, "Teoria ontologica del non-essere-ancora";
_G. Fornero e S. Tassinari, "Le Filosofie del Novecento" - Edizioni Bruno Mondadori, 2002;
_M. Heidegger, "Essere e tempo" - Edizioni Longanesi, Milano.
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Dalla durata biologica dell’esistenza organica, a quella mentale della memoria, il tempo si colloca fra le tematiche di maggior ispirazione per gli artisti, tuttora operanti, e quelli dell’ultimo secolo. I mezzi utilizzati sono molteplici, dalla fotografia alla pittura, materiali scultorei deperibili o capaci di rendere immortali forme fatte a testimonianza dei nostri giorni.
Artisti come lo svedese - appartenente alla corrente della Pop Art -  Claes Oldenburg (1929), con i suoi monumentali hamburger, i coni gelato, i volani e i numerosi oggetti, i quali saranno concrete tracce inestinguibili per le generazioni future. Lo svizzero  - ideatore del "nuovo realismo" - Jean Tinguely (1925-1991) rimane nella storia per il suo livello performativo, con composizioni meccaniche in movimento. Egli ambiva a scongiurare la probabile distruzione della società moderna, già nei primi anni sessanta. Anche Andy Warhol (1928-1987) - massimo esponente della Pop Art (arte popolare) - nelle sue opere ha abbracciato la tematica temporale, diffondendo e parallelamente conservando le memorie della cultura di massa, immortalando il fenomeno dell’adulazione idolatrica degli anni settanta. Il suo campo lo vede muoversi dalle immagini sacre, fino alle Star del cinema, arrivando - infine - agli oggetti di uso comune come Campbells Soup Cans e Brillo Soap Pads Boxes. In questo scritto si focalizzerà l’attenzione su tre artisti dell'arte contemporanea: il franco-polacco Roman Opalka (1931-2011), l'italiano Giuseppe Penone (1947) e il britannico Damien Hirst (1965), in loro sono condensati tre approcci molto differenti al tema.
Roman Opalka nacque nel 1931 in Francia, ad Abbaville-Saint-Lucien. Trascorse l’infanzia in Polonia, paese d’origine dei genitori, vivendo gli orrori della guerra. La sua famiglia infatti, fu deportata in Germania nel 1939, dove visse in condizioni di vita precarie fino al 1945, quando fu liberata dagli americani. Negli anni successivi al 1945, l’artista cominciò a studiare litografia alla Scuola di Arte e Design di Lodz, completando i suoi studi artistici a Varsavia presso la locale Accademia di Belle Arti. I primi lavori di Opalka, una serie di monocromi bianchi, rientrano nelle tendenze riduzionistiche; ma nel 1965 darà una svolta alla sua pittura, sviluppando una ricerca catalogativa concettuale, la quale verrà portata avanti fino alla sua morte, avvenuta nel 2011 meritando l’appellativo di “artista che dipinse il tempo”.
[caption id="attachment_9273" align="aligncenter" width="1000"] Roman Opalka[/caption]
Come egli steso disse: "La mia morte è la prova logica ed emotiva del completamento del mio lavoro". In ogni opera della serie, Opalka dipinge la progressione numerica in bianco su una tela completamente nera, partendo dal bordo a sinistra in alto, la numerazione dei giorni è in ordine progressivo e riempie tutta la superficie della tela. La serie di numeri non parte dallo zero, considerato dal pittore come “fuori dalla tela”, ma dall’uno “elemento base di un tutto”.
Nel caso di errori, l’artista non cancellò mai il numero sbagliato, ma riprende ogni volta la progressione numerica a partire dal numero giusto lasciando la parte inesatta. Nel 1972 dopo aver dipinto il primo milione, iniziò a schiarire progressivamente dell’1% il nero del fondo, per arrivare al grigio e poi al bianco totale, raggiunto con il numero 7.777.777. Nello stesso anno l’artista iniziò a registrare la sua voce, mentre scandiva in polacco la successione numerica di ogni cifra nell'esatto momento in cui la stava dipingendo - pratica che egli definì molto utile dipingendo bianco su bianco.
Sempre nel 1972, decise di abbinare un autoritratto fotografico in bianco e nero scattato nel medesimo giorno di lavoro. Nelle sue foto Opalka mantiene fissi alcuni elementi, come l’espressione, la distanza dall’obiettivo, lo sfondo e la camicia: l’intento è far emergere le trasformazioni “scultoree” del suo volto, testimonianza dello scorrere del tempo.
Traslandoci in Italia, l'artista Giuseppe Penone nasce a Garessio, in provincia di Cuneo, il 3 aprile 1947. Da giovane frequenta l'Accademia di Belle Arti di Torino e nel 1967 entrerà a far parte del movimento dell'arte povera. La sua ricerca nasce dal desiderio di ritrovare un senso e un legame con la natura, infatti nel bosco di Garessio mette in atto una serie di performance mirate a sondare le possibilità che l'uomo ha di interagire con il mondo naturale e di modificarlo.
[caption id="attachment_9274" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Penone[/caption]
Nel 1970 inizia a indagare il rapporto tra il corpo umano e l'ambiente esterno, questa volta cittadino in sintonia con le tendenze della body art (arte del corpo). Il suo primo successo verrà intitolato "Continuerà a crescere tranne che in quel punto". Questo lavoro nasce dal un contatto tra l’artista e un albero: un lavoro tanto intenso da avergli fatto maturare la convinzione che all'interno dell'elemento arboreo ci sia una memoria. Per questo la decisione di fermare il momento del contatto. Penone vuole rappresentare la mano dell’uomo, nell’atto di lasciare la sua impronta indelebile sulla natura. Quest’opera parla della capacità dell’essere umano di modificarne il corso. Il calco della sua mano è stato realizzato in acciaio e in bronzo. Altra mirabile composizione è il "Cedro di Versailles". In seguito al lavoro "Continuerà a crescere tranne che in quel punto", l’albero cresceva e il contatto rimaneva fissato all’interno del legno. Il ragionamento dell’artista fu quello di ritrovare il momento esatto del contatto, da quello ha immaginato che internamente al legno vi fosse la forma stessa dell’albero, al quale ha ridato la luce seguendo la venatura. L'opera fu una piccola rivoluzione all'interno della pratica scultorea, poiché e si ricollega all’idea michelangiolesca, la quale si presenta - spesso - come una scultura "primitiva", all’interno della materia.
Diversamente Damien Steven Hirst, artista Inglese nato a Bristol nel 1965, tratta il tema della morte. Proveniente dagli studi presso il Goldsmiths College di Londra, è considerato il maggior esponente del gruppo britannico conosciuto come “Young British Artist”. Il tema della fine-vita lo accompagna per tutto il percorso artistico. Steven Hirst apre interrogativi sul senso dell’esistenza e sulle prospettive umane della mortalità, così come l'esorcizzazione della stessa, attraverso lo strumento della medicina, della religione, della procreazione o dell'esaltazione della materialità: concetti profondi, molto spesso in contrasto con la crudeltà della forma.
[caption id="attachment_9275" align="aligncenter" width="1000"] Damien Steven Hirst[/caption]
Sua prima opera di grande successo fu il "For the love of God", (Per l'amor di Dio), una scultura prodotta nel 2007. Quest'opera è una riflessione sulla caducità dell’esistenza umana, la vanitas. Raffigurante un teschio umano, il manufatto è realizzato con platino, denti umani e 8.601 diamanti, per un totale di 1.106,18 carati. Il teschio, simbolo della mortalità dell’uomo, viene qui unito al diamante - materiale più durevole esistente in natura e simbolo di eternità. Questa scultura quindi, si pone come simbolo del tentativo estremo di sconfiggere la morte. Del 1991 è il suo "The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living" (L'impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo)Quest’opera è stata il simbolo dell’arte britannica per tutti gli anni novanta: il corpo imbalsamato di uno squalo-tigre di quattro metri, immerso nella formaldeide all’interno di una grande teca di vetro.
Il titolo riassume in modo molto preciso il concetto dell'evocazione della condizione umana, la quale è sospesa tra la morte e la vita, materializzando l’idea di quest’ultima e fermando il naturale processo di decomposizione del corpo deceduto.
 
Per approfondimenti:
_http://www.ikongallery.co.uk/programme/current/gallery/299/-giuseppe_penone/ ( 2/06/16)
_http://www.ikongallery.co.uk/programme/current/gallery/299/-giuseppe_penone/ (2/06/16)
_www.artribune.com/2013/01/penone-la-scultura-la-natura-e-lartista/(5/06/16)
_www.scultura-italiana.com/Biografie/Penone.htm (13/06/16)
_www.mart.tn.it/penone
_http://www.demetra.net/2013/06/10/giuseppe-penone-lartista-che-dialoga-con-tronchi-foglie-radici/
_http://www.flashartonline.it/article/roman-opalka/
_http://falsariga.altervista.org/l-artista-che-dipinse-il-tempo/
_http://damienhirst.com/biography/solo-exhibitions
_https://www.theguardian.com/artanddesign/jonathanjonesblog/2011/nov/24/damien-hirst-modern-art-tate
_https://it.wikipedia.org/wiki/Damien_Hirst
_http://www.damienhirst.com/the-physical-impossibility-of
_http://www.nytimes.com/2007/10/16/arts/design/16muse.html
_https://en.wikipedia.org/wiki/Roman_Opa%C5%82ka
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1502040546948{padding-bottom: 15px !important;}"]L'introduzione del reato di tortura in Italia[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi 07/08/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1502041790363{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La Camera ha approvato il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano con 198 voti favorevoli, 35 contrari e 104 astenuti. Il ddl – di iniziativa parlamentare e a prima firma di Luigi Manconi del Partito Democratico – era stato approvato dal Senato con lo stesso testo lo scorso 17 maggio e quindi è diventato legge. Il corpus normativo del codice penale si è ampliato con l’aggiunta dell’articolo 613- bis. Quest’ultimo disciplina il reato di tortura per la prima volta nella storia dell’ordinamento italiano, che finora è stato tacciato d’inadempienza in merito agli obblighi di incriminazione previsti da varie Convenzioni di matrice europea e internazionale.
Il testo della norma si profila come frutto di un atteggiamento compromissorio che forse, parzialmente, ha “snaturato” l’originale attitudine della disposizione in esame.
In ogni caso, mentre l’articolo 613 bis tipizza la condotta che integra reato di tortura, l’articolo 613 –ter si atteggia a coronamento della disposizione, delineando i parametri normativi dell’’ istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
 
Cosa dispone l’articolo 613 bis?
È prevista la reclusione da 4 a 10 anni per chi “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa (...), se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. La fattispecie è aggravata - da 5 a 12 anni di reclusione - se i fatti di cui sopra “sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
N0n rilevano sul piano della punibilità le “sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Alcune aggravanti sono previste allorché dai fatti anzi citati conseguano:
_una lesione personale: la pena è aumentata fino a 1/3;
_una lesione personale grave: aumento di 1/3;
_una lesione personale gravissima: aumento della metà;
_la morte quale conseguenza non voluta: 30 anni di reclusione;
_la morte quale conseguenza voluta: ergastolo.
 
Nel caso dell’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter), si applica la reclusione da 6 mesi a 3 anni al pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio "il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso".
La disciplina di cui all’articolo 613 bis estende i propri effetti fino a recare modifica all'art. 191 c.p.p., in tema di prove illegittimamente acquisite. Il nuovo comma 2-bis stabilisce la inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Ulteriori disposizioni prevedono:
_il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano "fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura"; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani;
_l'esclusione dall'immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale; in tali lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.
Ma perché è stato necessario introdurre il reato di tortura in Italia? Dal più recente rapporto di Amnesty International emerge che 112 Paesi nel mondo praticano ancora la tortura. Molti di questi, per contrastare un simile atteggiamento- unanimemente percepito come illecito, si sono dotati di una fattispecie repressiva apposita; ma in questo composito gruppo di Paesi riformatori non figurava l’Italia. Tuttavia il bel Paese ha finito per doversi allineare a questa tendenza: un’ulteriore procrastinazione avrebbe comportato embarghi non indifferenti allo Stato, nel lungo periodo.
Il peso cruciale di questi dati si sommava alla preoccupazione general preventiva che si atteggia a scopo primigenio di ogni stato di diritto. Pertanto, a prescindere dalla radice del sistema giuridico – common law o civil law che sia - non si può contravvenire all’esigenza di rispettare il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. Essa, infatti, invade lo spazio di libertà del cittadino, incidendovi in maniera più o meno invasiva in base alla qualità della sanzione (pecuniaria o detentiva). Il reato di tortura, è stato così finalmente predisposto dal legislatore per dirimere quelle controversie aventi ad oggetto fatti di reato non altrimenti incriminabili o, comunque, incriminabili mediante misure ingiustificatamente meno severe rispetto agli standard internazionali.
Alcuni recenti fatti di cronaca, come i casi “Cucchi”, “Aldrovandi” e “G8 di Genova” hanno infine riportato in auge la diatriba sulla necessità di introdurre una fattispecie apposita.
Se ci poniamo il quesito di cosa sia il reato di tortura per l’ONU, osserviamo come la "Convenzione Onu" del 1989 definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione”.
La stessa Convenzione precisa che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l’azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale “o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Come obblighi internazionali, il divieto di tortura è previsto da numerose convenzioni internazionali sui diritti umani, come la Convenzione Onu contro la tortura del 1989, la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e della pene o trattamenti crudeli, e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, la Convenzione Onu del 1989 contro la tortura obbliga gli Stati ad inserire nel proprio diritto penale interno il reato di tortura. Sono moltissimi gli Stati, che proprio al fine di conformarsi a tale obbligo, hanno previsto il reato di tortura nel codice penale e, in alcuni casi, ne hanno sancito il divieto anche a livello costituzionale.
Ora operiamo uno sguardo al diritto comparato: il reato di tortura nel resto del mondo.
 
Turchia
Nel 2016 lo Stato turco ha abolito "l'Istituzione nazionale per i diritti umani”, a seguito del tentato golpe del 15 luglio 2016.
Il leader turco Erdogan ha stretto ancor più le maglie del controllo e della repressione. Sono aumentate le segnalazioni di torture e maltrattamenti durante i periodi di custodia, nelle zone del sud-est a maggioranza curda, ma ancor di più a Istanbul e ad Ankara. Lo stato d'emergenza ha eliminato tutte le tutele per i detenuti e ha permesso pratiche precedentemente vietate: il periodo massimo di detenzione preventiva è stato portato da 5 a 30 giorni e sono state introdotte misure per impedire per 5 giorni ai fermati in custodia preventiva l'accesso a un legale e per registrare le conversazioni tra cliente e avvocato durante la detenzione e passarle ai pm. Le visite mediche sono effettuate in presenza di poliziotti e i loro esiti arbitrariamente negati agli avvocati dei detenuti. Nell'ultimo anno migliaia di persone sono state rinchiuse in centri di detenzione illegali.
 
Iran
In Iran la tortura è una tecnica impiegata per estorcere “confessioni”. I detenuti sotto l'autorità del ministero dell'Intelligence e dei Guardiani della rivoluzione sono stati regolarmente sottoposti a prolungati periodi di isolamento. Le denunce di torture sortiscono spesso effetti contrari: fanno proseguire e inasprire le torture e portano a pesanti sentenze. Secondo Amnesty International, i giudici continuano a considerare ammissibili le "confessioni" come prove a carico dell'imputato. Per chi viene arrestato spesso è ignorato il diritto ad accedere a un legale ed è negato anche l'accesso a cure mediche adeguate ai prigionieri politici. Sono in vigore pene disumani e degradanti, equiparabili a torture, quali fustigazioni, accecamenti e amputazioni.
 
 
Russia
In Russia torture e maltrattamenti sono pratica diffusa e sistematica durante la detenzione iniziale e nelle colonie penali. Sono stati denunciati recentemente uccisioni, arresti e torture di gay rinchiusi in prigioni segrete in Cecenia. Musa Mutaev, kirghiso, autore del libro Il sole verde, ha subito svariate torture e vessazioni fisiche e psicologiche prima di riuscire a fuggire nel 2004 in Norvegia e diventare scrittore. Nel suo libro racconta i sistemi di terrore usati dalle forze russe per estorcere confessioni indotte: scosse elettriche, rottura di arti, sangue.
 
Egitto
La drammatica fine di Giulio Regeni, il ricercatore italiano vittima di violenze inaudite e trovato morto in strada il 3 febbraio 2016, è lì impressa nella memoria, a triste monito delle disumane pratiche poliziesche in Egitto. Associazioni per i diritti umani hanno documentato decine di casi di decessi in custodia dovuti a tortura, maltrattamenti e mancanza di accesso a cure adeguate. Si sono praticate torture e maltrattamenti durante le fasi dell'arresto, come pure durante gli interrogatori. Molti sono stati vittime di sparizione forzata. I metodi utilizzati comprendevano duri pestaggi, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress.
 
 
Israele
Amnesty International leva il dito anche contro Israele. Torture o maltrattamenti sono inflitti nell'impunità a detenuti palestinesi (minori compresi) da agenti dell'esercito, della polizia e dell'agenzia israeliana per la sicurezza (Isa), in particolare nelle fasi dell'arresto e dell'interrogatorio. Le pratiche segnalate: percosse, schiaffi, incatenamento in posizioni dolorose, privazioni del sonno, posizioni di stress e minacce.
Dal 2001 ci sono state mille denunce, ma il ministero della Giustizia, competente in materia dal 2014, non ha avviato alcuna indagine penale.
 
Palestina
In Palestina la polizia come pure le altre forze di sicurezza della Cisgiordania, la polizia di Hamas e le altre forze di sicurezza di Gaza hanno abitualmente e impunemente torturato o maltrattato detenuti, compresi minori. Tra gennaio e novembre 2016 la commissione indipendente palestinese ha ricevuto 398 denunce tra tortura e altri maltrattamenti (163 da detenuti in Cisgiordania e 235 da detenuti a Gaza) ma non sono mai state condotte indagini indipendenti.
 
 
Regno Unito
Il Regno Unito è stato uno dei più veloci nell'attuazione della Convenzione contro la tortura dell'Onu del 1984 e nel prevedere la pena più severa, la detenzione a vita. Il riferimento normativo è il Criminal Justice Act del 1988 dove, nella Parte XI, c'è un'apposita sezione dedicata alla tortura commessa da un pubblico ufficiale e comprende sia quella fisica ("grave dolore o sofferenza") che quella psicologica (è "irrilevante" se le sofferenze che consentono di definire un atto come tortura siano di tipo "fisico o mentale" o se "siano stati provocati da azioni o da omissioni").
Qualche obiezione l'hanno però suscitata i commi 4 e 5 dell'articolo 134, che escludono la presenza di reato di tortura se chi ha posto in atto la condotta idonea a provocare gravi dolori o sofferenze possa provare di averlo fatto in virtù di una legittima autorità, giustificazione o scusa. La spiegazione? I commi sono stati inseriti in ottemperanza alla parte finale dell'articolo 1 della Convenzione Onu, in cui il termine tortura "non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate". Per esempio "un chirurgo che provoca sofferenze nell'esercizio legittimo della sua professione".
Un'ulteriore disposizione normativa contro la tortura è inserita nello Human Rights Act del 1998, la legge che ha recepito nell'ordinamento interno la Convezione Europea sui Diritti dell'Uomo.
 
 
Stati Uniti
Sul fronte Stati Uniti, l'ottavo emendamento della Costituzione americana proibisce di infliggere "pene crudeli e inconsuete". Non si parla esplicitamente di tortura ma, dagli anni Ottanta, la Corte Suprema americana ha stabilito che la tortura è contro la legge in base all'ottavo emendamento. In seguito agli attentati dell'11 settembre, però, nel 2003 il dipartimento di Giustizia americano dichiarò che "l'ottavo emendamento non trova applicazione" quando si tratta di ottenere "informazione di intelligence da parte di combattenti catturati". Nel 1994 il "Torture Act" (formalmente noto come Titolo 18, Parte I, Capitolo 113C del Codice statunitense) ha proibito la tortura da parte di dipendenti federali contro persone "in loro custodia o sotto il loro controllo", fuori dagli Stati Uniti. Ciò non ha impedito lo scandalo delle torture nelle prigioni militari all'estero, Guantanamo in prima fila. Solo dopo anni di polemiche, il presidente George W. Bush, nel 2007, ha firmato un ordine esecutivo per proibire alla Cia qualsiasi trattamento inumano nei confronti di prigionieri catturati nella lotta al terrorismo, impegnandosi a rispettare l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra che vieta la tortura contro i prigionieri di guerra. Nel 2009 il presidente Barack Obama ha messo al bando l'uso della crudeltà durante gli interrogatori ovunque nel mondo. Dal 2005 è inoltre in vigore negli Usa il Detainee Treatment Act, che proibisce "pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti" del personale nelle prigioni militari.
 
 
Germania
In Germania il divieto di tortura è di fatto contenuto nella Costituzione. Non esiste una norma specifica nell'ordinamento tedesco, ma è presente una serie di articoli di legge del codice penale in cui la fattispecie della tortura è specificata in maniera molto esplicita, con pene di reclusione che possono andare da 3 ai 10 anni. L'articolo primo della Legge fondamentale della Repubblica federale sancisce che è "dovere di ogni potere statale rispettare e proteggere la dignità dell'uomo"Sempre nel testo costituzionale, al comma 1 dell'articolo 104, si afferma che le persone tratte in arresto "non possono essere sottoposte né a maltrattamenti morali, né a maltrattamenti fisici".
Non solo. Nel codice penale vi è un esplicito ancoramento agli articoli 3 e 15 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, in cui si afferma che nessuno individuo può essere "sottoposto alla tortura oppure a punizioni o trattamenti disumani o umilianti", nonché che queste disposizioni valgono anche "se la vita della nazioni è minacciata dalla guerra o da altra emergenza di natura pubblica".
 
 
Francia
La Francia ha ratificato nel febbraio 1986, poco più di un anno dopo la sua stipula, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. È all'articolo 1 della Convenzione che si possono richiamare i giudici francesi quando incorrono in un reato di tortura: questo non è infatti definito con precisione dall'ordinamento giuridico d'oltralpe. Sono i giudici che definiscono, caso per caso, gli "atti di tortura e di barbarie".
Generalmente, si tratta di azioni violente estremamente gravi, che si traducono in un oltraggio all'integrità fisica della vittima ma senza che ci fosse intenzione di uccidere. L'autore di tali atti dimostra una crudeltà estrema, che suscita l'indignazione generale. Il grado di punizione per tali atti dipende dalle conseguenze, dagli strumenti impiegati e dalle caratteristiche della vittima. Secondo il Codice penale francese, articolo 222, l'autore rischia la condanna a 15 anni di reclusione criminale; la pena può essere aumentata a 20 anni se le vittime sono bambini sotto i 15 anni, persone vulnerabili come anziani, ammalati, invalidi o donne incinte, o ancora se gli atti sono stati commessi utilizzando o minacciando l'uso di un'arma. La pena può arrivare a 30 anni se gli atti di tortura o di barbarie sono commessi su un minore di 15 anni da un parente legittimo, naturale o adottivo o da qualsiasi altra persona che ha un'autorità sul minore, o ancora se gli atti sono commessi da una banda organizzata o in modo ripetuto su un minore di 15 anni o su una persona vulnerabile o se questi atti hanno provocato una mutilazione o un'infermità permanente. Se la vittima muore, può scattare l’ergastolo.
 
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In Siberia il 17 luglio del 1918 Nikolaj Aleksandrovič Romanov, la moglie Aleksandra Fëdorovna Romanova (nata Alice Vittoria Elena Luisa Beatrice d'Assia e di Renania) e i cinque figli, svegliati bruscamente nel cuore della notte vengono condotti in cantina. Da sedici mesi sono prigionieri nelle mani dei rivoluzionari. I carcerieri chiedono loro di posare per un ritratto: il governo bolscevico vuole mostrare al mondo che sono in buona salute. Il deposto Zar Nikolaj II stenta a comprendere: l’Imperatore di tutte le Russie, l’erede della dinastia che ha governato per tre secoli sul più grande paese del mondo, passerà alla storia come l’ultimo Zar. Quali eventi hanno travolto uno degli uomini più potenti della terra?
Questa è la storia dei tre giorni che decisero la fine degli Zar e la nascita di una Russia diversa.
Il conto alla rovescia inizia giovedì 28 Febbraio 1917, quando Nikolaj Romanov attraversa in treno le gelide steppe russe in un viaggio che avrebbe cambiato il corso della storia.
Il treno imperiale corre a tutto vapore verso Pietrogrado (dal 1914 al 1924, oggi attuale San Pietroburgo). Nikolaj è deciso a fermare la ribellione che minaccia la Russia e la sua stessa famiglia.
Tre giorni più tardi sarebbe sceso da quel treno come un cittadino qualunque, anzi come un uomo incalzato dalla morte. Travolti dagli eventi di Febbraio lo Zar e la sua famiglia vivranno abbastanza per osservare la bandiera rossa sventolare sul Palazzo Imperiale a sancire il trionfo di Vladimir Il'ič Ul'janov detto Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre del 1917.
[caption id="attachment_9222" align="aligncenter" width="1000"] Nicola II Romanov, (in russo: Николай Александрович Романов), Nikolaj Aleksandrovič Romanov, nasce a Carskoe Selo, il 18 maggio 1868, (6 maggio del calendario giuliano) e sarà assassinato a Ekaterinburg, il 17 luglio del 1918. E'stato l'ultimo Zar (Imperatore) di Russia.[/caption]
A Mogilev, il 27 Febbraio del 1917, lo Zar è al fronte: la Russia, alleata con la Francia e la Gran Bretagna è in guerra contro l’Impero Ottomano, l’Impero Austro-Ungarico e lo Stato tedesco a guida prussiana. L’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale è al suo apice. Un dispaccio da Pietrogrado porta notizie allarmanti: i rivoltosi hanno occupato le zone nevralgiche della città e la situazione è sull’orlo del precipizio. L’onda della rivolta che ormai infiamma il paese, può trascinare con se migliaia di soldati ormai pronti alla ribellione.
Bisogna comprendere come la monarchia assoluta zarista vivesse “fuori dal mondo”, ricevendo sempre notizie pacate. Di contro la situazione dopo il 27 Febbraio è già catastrofica: i soldati della capitale sono in rivolta e Nikolaj II, si ostina a credere che si tratti di semplici tafferugli. Lo Zar, una volta compreso la gravità della situazione, diviene risoluto per un'azione di intervento, la quale anticipi il dilagare dei tumulti nel resto del paese.
All’alba del 28 Febbraio, il treno imperiale lascia Mogilev – sul fronte meridionale – e si dirige alla volta di Pietrogrado, 900 km più a Nord. Nikolaj Aleksandrovič Romanov si lascia alle spalle una guerra, verso la quale ogni famiglia russa aveva già pagato un pesante tributo di sangue. La guerra per la Russia zarista fu un disastro: enormi le perdite in vite umane e incalcolabili le sofferenze, ma l’evento che fa crollare il regime è l’impatto che la guerra produce sul fronte interno, sull’economia, sui rifornimenti a Pietrogrado.
Nikolaj II aveva cercato in ogni modo di evitare il conflitto contro suo cugino, il Kaiser Friedrich Wilhelm Viktor Albrecht von Hohenzollern (Guglielmo II), ma la travolgente ondata di nazionalismo anti-germanico lo aveva convinto a dichiarare la guerra. Lo Zar si era illuso che lo scontro fosse stato risolto nel giro di qualche settimana, ma a tre anni di distanza quasi sei milioni di russi sono morti e del massacro non si vede la fine. Il paese nel 1917 è spossato dalla guerra e non è casuale che la rivoluzione scoppi proprio nel terzo anno del conflitto: la rivolta bolscevica nasce dal freddo, dalla fame e dalla voglia di deporre le armi.
In quel terzo anno di battaglie il Romanov è lontano dal cuore del suo Impero, dove scoppia la rivolta, la quale genera i primi frutti. Scrive Nikolaj sul suo diario: “il problema sta nelle terribili condizioni dei nostri reggimenti, i fucili scarseggiano e non possiamo più contare sulle nostre malandate ferrovie. Disordini sono scoppiati qualche giorno fa a Pietrogrado, perfino le truppe ne prendono parte! E’ così doloroso essere lontano e ricevere solo notizie cattive e frammentarie”.
Le proteste operai degenerano in aperta ribellione solo il 25 Febbraio 1917, cioè tre giorni prima che il treno imperiale lasci il fronte. Per intercettare i rifornimenti destinati alle truppe, bande di operai e soldati allo sbando - spinti dalla fame - occupano le stazioni ferroviarie. La vera scuola della rivoluzione è stata proprio l’esercito zarista: è lì che molti contadini analfabeti, cresciuti negli sperduti villaggi della grande Russia, entrano in contatto con le idee rivoluzionarie.
I risentimenti covati per secoli nell’animo russo, esplodono improvvisamente contro l’autorità e i suoi simboli. Le ribellioni scatenate dalla fame, ora trovano un nuovo corso nel fiume della rivoluzione.
[caption id="attachment_9224" align="aligncenter" width="1000"] Ryzhenko Pavel Viktorovich, Il Calvario dello Zar - Trittico[/caption]
Lo Zar è in ansia per le sorti dei suoi cari: le notizie sono incomplete e la Zarina è oggetto di un forte risentimento popolare in quanto tedesca.
A poche decine di chilometri dalla capitale in rivolta, nel Palazzo imperiale di Tsarskoe Selo si trascorre un’altra notte di ansia. All'esterno la temperatura è di quindici gradi sotto lo zero e a causa dei tumulti, il riscaldamento e l’elettricità funzionano a singhiozzo. La Zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova è di origini germaniche, ed è nipote della Regina Vittoria, dalla quale ha ricevuto un'educazione rigorosamente britannica. Da ventitré anni vive in Russia, ma non si sente ancora a suo agio nell’alta società pietroburghese. Lei e Nikolaj hanno eletto a residenza ufficiale il palazzo di Campagna di Carskoe Selo distante cinquanta chilometri dai clamori della capitale. Negli ultimi mesi, l’origine tedesca della Zarina ha scatenato l’odio dell'opinione pubblica, che l’accusa di passare “segreti militari” al nemico.
Per lo Zar Nikolaj II invece, la moglie Aleksandra è l’unico vero sostegno, essendo la persona a cui ricorre nei momenti più difficili: “Mia amata, ti ringrazio con tutto il cuore per la tua dolce e lunga lettera. Tu sei la ricompensa al peso delle mie responsabilità e alle mie preoccupazioni. Non so come avrei potuto sopportare tutto questo se Dio non avesse deciso di darti a me come moglie e amica. Questi pensieri mi è più facile metterli su carta per la mia sciocca timidezza. Ora mi sento di nuovo forte, ma mi manchi terribilmente. Ti bacio con affetto”.
Il matrimonio tra Nikolaj e Aleksandra non fu un’unione dettata dalla Ragion di Stato, ma fu il coronamento di un amore profondo e sincero, che avrebbe accompagnato la coppia per tutta la loro vita.
Quando nel 1894 Nikolaj la chiese in sposa, lei fu al settimo cielo. Vivere in Russia non sarebbe stato facile, ma lei non esitò un solo istante. L’incanto del loro fidanzamento venne scosso da un inatteso shock: il padre di Nikolaj, lo Zar Aleksandr III Aleksandrovič, morì improvvisamente e sulle spalle del giovane Nikolaj piombarono tutte le responsabilità dell’immenso Impero russo. Quando i consiglieri di corte annunziarono allo Cesarevič che era diventato Zar, Nikolaj scoppiò in lacrime asserendo: “Non sono pronto a essere uno zar. Non ho mai voluto esserlo. Non so nulla su come si governa. Non ho la minima idea di come si parli ai ministri" – e non imparò mai a farlo veramente. La parola Zar deriva dal titolo latino Caesar, attraverso l'antico slavo cĕsarĭ (цѣсарь). La contrazione della parola deriva dall'abitudine di abbreviare i titoli nei manoscritti ecclesiastici in antico slavo. Nikolaj non ebbe mai quella spinta interiore, che può far di un uomo un vero leader, quella volontà politica necessaria per governare un paese così vasto e frammentato.
[caption id="attachment_9228" align="aligncenter" width="1000"] Laurits Tuxen, L'incoronazione dello Zar Nikolaj II. La cerimonia avvenne presso la Cattedrale della Dormizione al Cremlino di Mosca il 14 maggio 1896. La titolatura completa degli zar di Russia iniziava con: "Per grazia di Dio, Noi Imperatore e autocrate di tutte le Russie - di Mosca, Kiev, Vladimir, Novgorod, Zar di Kazan', Zar di Astrachan', Zar di Polonia, Zar di Siberia, Zar del Chersoneso Taurico, Zar di Georgia, Signore di Pskov e Granduca di Finlandia, Smolensk, Lituania, Volinia, e Podolia; Principe di Estonia, Livonia, Curlandia e Semigallia, Samogitia, Bielostock, Carelia,Tver', Jugra, Perm', Kirov, Bulgaria e altri territori; Signore e Granduca di Novgorod, Černigov; Sovrano di Rjazan', Polotsk, Rostov, Jaroslavl', Bielozero, Udoria, Obdorsk, Kondia, Vicebsk, Mstilav e di tutti i territori del nord; e Sovrano di Iveria, Cartalia e delle terre di Kabardinia e dei territori Armeni; Sovrano ereditario e Signore della Circassia e principe delle montagne e altro; Signore del Turkestan, Erede di Norvegia, Duca di Schleswig-Holstein, Stormarn, Ditmarsch, Oldenburg e così via, così via, così via".[/caption]
Il giorno dell’incoronazione milioni di persone giunsero a Mosca da ogni angolo dell’Impero, ma l’evento gioioso si trasformo in tragedia, quando più di mille persone persero la vita calpestate dalla folla, per l’incompetenza della polizia.
Nikolaj e Aleksandra ne furono sconvolti, ma gli addetti ai cerimoniali li convinsero a non interrompere le celebrazioni. L’immagine del nuovo Zar - alla memoria del popolo russo -, sarà per sempre quella di un giovane monarca che danza allegramente, nel giorno in cui centinaia di sudditi hanno perso la vita per rendergli omaggio.
Sulla reputazione di Nikolaj II pesa anche un altro massacro: quarantotto ore prima che il treno iniziasse la sua corsa, l’esercito zarista aprì il fuoco sulla folla e quaranta dimostranti vennero uccisi nella centralissima piazza Znamenskaja. L’ordine di Nikolaj di reprimere le proteste nel sangue, peggiora ulteriormente la situazione: i soldati riconosco madri e sorelle tra gli scioperanti ed è la goccia che fa "traboccare il vaso”. Quella stessa notte alcuni reggimenti si sollevano contro i loro ufficiali e si uniscono ai rivoltosi: il prestigio della monarchia non era mai sceso così in basso. Tra i primi a ribellarsi è il celebre reggimento Preobraženskij, dove a diciannove anni lo stesso Nikolaj aveva raggiunto il grado di colonnello. Lo Zar si considerava – ed in qualche modo era – un tipico ufficiale, egli avrebbe preferito comandare un reggimento, piuttosto che essere l’Imperatore di tutte le Russie.
La situazione avrebbe richiesto uno statista determinato, ma Nikolaj II era un gentiluomo, il tipico rappresentante di quella aristocrazia di teste coronate che trascorrevano la loro elegante esistenza tra feste e crociere nelle più raffinate località d’Europa. Nonostante i legami di sangue che l’univano alle Case regnanti di mezzo mondo, il Romanov aveva un’esperienza di governo assai limitata.
Per natura era un gentiluomo vittoriano: amava le battute di caccia, si dilettava nello scattare foto ai suoi cari, presenziava i salotti, conversando amabilmente e disprezzando le anime vili. Era anche un ottimo padre di famiglia. Tra il 1895 e il 1910 Nikolaj e Aleksandra mettono al mondo quattro figlie Ol'ga (1895), Tat'jana (1897), Marija (1899) e Anastasija (1901).
Tuttavia, le figlie – per effetto della legge Salica, ripristinata dallo Zar Paolo I Petrovič Romanov - non potevano ereditare il Trono. La legge Salica, difatti, prevedeva che solamente un erede maschio poteva aspirare alla successione.
Dopo la nascita dell'ultima figlia passarono ancora tre anni prima che la Zarina partorisse il tanto atteso erede: Aleksej Nikolaevič, nato nella reggia di Peterhof il 12 agosto 1904. Qualche tempo dopo il lieto evento, i genitori scoprirono con grande costernazione che il principe era affetto da emofilia, un'incurabile patologia del sangue trasmessagli dalla madre.
La vita del giovanissimo Naslednik Cesarevič (letteralmente figlio dello zar - era usato per il primogenito maschio), era fortemente in pericolo e un gigantesco soldato lo sorveglia di giorno e di notte. La famiglia imperiale si vedrà costretta a proibirgli anche i giochi più innocenti. Quello che doveva essere il giorno più felice per la coppia, fu invece l’incubo peggiore della loro esistenza.
La Zarina è sempre in ansia con il piccolo Aleksej, sentendosi in colpa, poiché la malattia è ereditaria per via femminile, ma si trasmette solo ai maschi. Per il figlio primogenito e unico erede maschio del vasto Impero, anche uno spigolo scoperto, rappresenta una minaccia letale: il più piccolo taglio o livido può causargli una emorragia inarrestabile.
[caption id="attachment_9231" align="aligncenter" width="1000"] Foto della famiglia Romanov. Da sinistra a destra: le Granduchesse Tat'jana Nikolaevna Romanova e Marija Nikolaevna Romanova, lo Zar Nikolaj Aleksandrovič Romanov, la Zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova, la Granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova, lo Cesarevič Aleksej Nikolaevič Romanov e la granduchessa Ol'ga Nikolaevna Romanova.[/caption]
La sera del 27 Febbraio, poche ore dopo che Nikolaj II si era messo in viaggio, Pietrogrado era già nelle mani dei ribelli. Una nuova entità politica è nata e quel giorno i soldati con gli operai fondarono il primo consiglio rivoluzionario: il Soviet di Pietrogrado, che otto mesi più tardi sarà il protagonista della rivoluzione bolscevica d’Ottobre.
Nikolaj II non comprende il reale accadimento all’interno del paese, non intravede il baratro che gli si prospetta, poiché crede ciecamente – essendo stato educato fin dalla nascita in tale maniera – nel suo potere assoluto, concessogli da Dio. Per lo Zar, l’assenza della Monarchia significherebbe caos e guerra civile, ed egli si sente investito di questa responsabilità: evitare la disfatta è un suo compito strettamente personale. Il giuramento di incoronazione lo legava ai principi della autocrazia, elementi che rendevano inconcepibile l’idea stessa di una costituzione: tale concessione – stabilitasi oramai in tutte le monarchie europee – era ritenuta un peccato mortale. Vi è una palese contraddizione tra la natura dell’uomo e un essere piuttosto gentile, timido, cui non piace scendere in discussioni animate. Considera suo dovere di monarca, essere “duro”, autoritario e a volte anche dispotico.
Scrive la Zarina negli attimi di grande concitazione: “Amore mio sii determinato, la Russia ha bisogno che tu lo sia. Fai vedere a tutti che sei il padrone e la tua volontà sarà ubbidita. Il tempo della gentilezza e dell’indulgenza è finito: adesso è il tempo della volontà e dell’obbedienza. Che Dio mi aiuti ad essere il tuo angelo custode. (…) Mio prezioso e amato tesoro, gli scioperi e le rivolte in città sono sempre più irritanti, si tratta di bande di teppisti, giovinastri che vanno in giro urlando che non c’è pane e lo fanno solo per surriscaldare gli animi, come gli operai che impediscono ai loro colleghi di lavorare. Se facesse più freddo probabilmente se ne starebbero tutti a casa, ma tutto questo passerà presto”.
Già la sera del 28 Febbraio la linea ferroviaria per Pietrogrado non è più sicura per lo Zar. Dopo aver viaggiato a tutto vapore per ventisei lunghe ore, a meno di duecento chilometri dalla capitale il treno imperiale è costretto a fermarsi nella piccola stazione di Malaja Vishera, poiché la scorta dello Zar viene informata che i binari per Pietrogrado sono bloccati e la via è caduta nelle mani dei ribelli. Per la prima volta nella sua vita Nikolaj II si rende conto di non potersi muovere liberamente nel suo Regno. A malincuore lo Zar ordina di invertire la direzione e andare verso Pskov, sede del quartier generale dell’esercito del Nord.
Quale catena di eventi ha potuto portare un capovolgimento di ruoli così umiliante? La Russia si era trovata sull’orlo della Rivoluzione già qualche anno prima, quando la politica espansionistica del Giappone aveva scatenato la guerra russo-giapponese (1904/1905). Per raggiungere il mare del Giappone, alla flotta del Baltico, ci vollero mesi per circumnavigare l’Africa, poi l’Asia e solo per essere affondata dalle navi nipponiche nello stretto di Tsushima: una disfatta che umiliò la Russia di fronte al mondo intero. L’inattesa sconfitta fu un duro colpo per il prestigio dello Zar Nikolaj II e contribuì ad inasprire le tensioni sociali che attraversavano ormai tutti i settori della società russa.
Scioperi a catena paralizzarono Pietrogrado e altre grandi città. Nel Gennaio 1905, l’esercitò aprì il fuoco sui manifestanti che manifestavano per le vie della capitale e la storia ricorda quell’episodio come “La Domenica di sangue”.
Da quel giorno lo Zar divenne per i “rossi” Nikolaj "il sanguinario". La ribellione si diffuse per tutto il paese e lo Zar fu costretto a promettere riforme liberali: per la prima volta la Russia avrebbe avuto un parlamento, la cosìdetta Duma - termine proveniente dalla parola russa думать (dumat’), "pensare" o "considerare" -, ma non appena l’ordine fu ristabilito, delle azioni punitive restituirono il controllo assoluto dello Zar su tutto l’Impero. La Duma di Stato fu spogliata di ogni potere e tutto tornò all'origine o almeno così parve.
Dodici anni più tardi Nikolaj Aleksandrovič Romanov si ritrova in una situazione analoga, ma questa volta sedare la ribellione sarà molto più difficile. Dagli scritti della Zarina: “Che terribili giorni devono essere questi per te, Dio ti ha dato una croce pesante da portare. Il nostro caro comune amico, prega per te dall’aldilà e ci è più vicino che mai. Quanto vorrei sentire la sua voce consolatrice che arriva dritta la cuore”.
L’amico scomparso di cui parla Aleksandra è meglio noto come Grigorij Efimovič Rasputin: un contadino siberiano semi-analfabeta, la cui ascesa al potere sotto i Romanov aveva dato scandalo. Il finto monaco era un eccentrico ed era considerato da alcuni un “santo” e da altri “un arrampicatore sociale”. La sua misteriosa abilità nell’alleviare le sofferenze del piccolo Cesarevič Aleksej avevano convinto la zarina che Rasputin le fosse stato inviato da Dio.
Si potrebbe, perfino affermare, che la Monarchia cade in disgrazia per colpa “dell’effetto Rasputin”. La sua influenza sulla Casa Imperiale probabilmente non fu mai così grande, ma le voci scandalistiche sul suo libertinaggio sessuale e la sua influenza a corte distrussero l’immagine pubblica della Monarchia zarista. Il rocambolesco assassinio di Rasputin non era servito a liberare la zarina dalla sua morbosa ossessione religiosa, né tantomeno a liberare Nikolaj II dal suo progressivo isolamento. Dunque nel 1917, il treno giunge al comando di Pskov e il Romanov, vuole subito organizzare con i suoi generali più esperti una repressione efficace.
L’ultimo Zar era un patriota e un conservatore: per lui l’esercito era l’essenza stessa della Russia. Amava l’esercito più di qualunque istituzione e se vi erano personalità di cui si fidava ciecamente questi erano i suoi ufficiali. Ma giunto nel quartier generale, Nikolaj II nota nei suoi ufficiali uno strano senso di imbarazzo per l’assenza del generalissimo Nikolai Vladimirovich Ruzsky, il quale non è lì a rendergli omaggio. La sua defezione è uno schiaffo al protocollo militare, denso di significati.
[caption id="attachment_9233" align="aligncenter" width="1000"] Dalle memorie personali di una guardia dello Zar Nikolaj II: "Quando sono stato presentato per la prima volta a Sua Maestà, il Sovrano, egli guardandomi negli occhi affettuosamente, chiese: «Sei un parente del nostro Toumanoff?». Sentivo che Sua Maestà era felice di vedere un altro Toumanoff vicino a lui. Io avevo 21 anni, quando mi sono unito ad uno dei più brillanti reggimenti della guardia, come ufficiale. Con tutto l'ardore appassionato del mio cuore, ho riempito di adorazione la figura dello Zar. Più di tutto mi colpì il suo aspetto, in modo particolare gli occhi affettuosi, - capaci di bruciare gli angoli più nascosti delle nostre anime - i quali non potranno mai essere dimenticati da nessuno che ebbe la fortuna di vederli".[/caption]
Alle 22.00 del 01 Marzo 1917 presso la Stazione di Pskov, Nikolaj convoca al quartier generale Ruzsky per un incontro privato che riveli l’umore del suo Stato Maggiore. Per capire la posizione dei generali, bisogna tener conto che erano divisi tra la lealtà verso la dinastia dei Romanov e la fedeltà alla Russia e all’esercito, che per i militari rappresentavano entrambi, elementi di pari importanza. Aleggiava, dunque, una reale preoccupazione che se avessero continuato a sostenere “quello” Zar, l’esercito si sarebbe dissolto: un ammutinamento generale li avrebbe costretti ad arrendersi alla Germania guglielmina e la Russia stessa sarebbe sparita per sempre.
Nikolai Vladimirovich Ruzsky è convinto che ulteriori spargimenti di sangue servirebbero solo ad infiammare le folle ancor di più. Il suo “consiglio” è l'autorizzazione immediata della Duma, su ordine diretto dello Zar, per formare un governo di unità nazionale, il quale conceda al popolo una costituzione.
Nessuno aveva mai parlato allo Zar di tutte le Russie, come questo generale aveva osato fare a Pskov e per Nikolaj fu certamente un dramma. Certo, Ruzsky stesso dovette fare i conti con la preoccupazione diffusa, tra gli ufficiali, che il tentativo di imporre con la forza un’autorità zarista a Pietrogrado avrebbe mandato in frantumi quello che restava dell’esercito Imperiale e della disciplina militare.
Nikolaj II è sorpreso e disgustato: non si fida dei politicanti della Duma e una costituzione per lui, equivale al caos. Quella stessa notte tra l’uno e il due Marzo 1917, lo Zar scopre che la proposta del generale indisciplinato è condivisa da quasi tutti gli altri ufficiali dello Stato Maggiore e solo in quell’istante il Romanov si rese conto di essere completamente solo.
Quando la crisi comincia, Nikolaj II crede ancora di poter controllare la situazione, ma venutosi a trovare di fronte ad una rivoluzione che dilaga nella capitale con guarnigioni intere che si ammutinano e generali che rifiutano di sedare la ribellione, si rende conto che non ha alternative. Contro tutte le sue più radicate convinzioni Nikolaj è costretto ad accettare la proposta dei suoi generali: autorizzerà un governo della Duma e darà alla Russia una Costituzione.
Via telegrafo il generale Ruzsky comunica la decisione dello Zar al presidente della Duma Michail Vladimirovič Rodzjanko: “Sua Maestà, lo Zar Nikolaj II ha dato il suo consenso per la creazione di un consiglio dei ministri che risponda alla Duma”. Nonostante la concessione Imperiale, Rodzjanko non è soddisfatto: i suoi ripetuti allarmi sono stati sistematicamente ignorati, con lo Zar che non ha voluto mai riconoscere al parlamento un ruolo attivo. Oramai è troppo tardi e il responsabile del precipitare della situazione è lo Zar stesso. La sua arroganza nel prendere decisioni senza consultare nessuno finirà per costargli la corona. Prosegue ancora il presidente della Duma: “E’ evidente che né sua Maestà, né voi vi rendete conto di quanto accade qui. E’ scoppiata una terribile rivoluzione e sedarla non sarà facile. Le truppe non si limitano a disobbedire, ma arrivano persino ad uccidere gli ufficiali”.
Da questo scambio è chiaro che solo l’abdicazione di Nikolaj Aleksandrovič Romanov poteva soddisfare la folla dei rivoluzionari e rivoltosi. Alla richiesta di ulteriori dettagli Rodzjanko aggiunge: “Ovunque le truppe prendono le parti della Duma e il popolo e chiede con forza l'abdicazione dello Zar, in favore del figlio Aleksej Nikolaevič, con la reggenza di Michail Aleksandrovič Romanov, fratello minore del sovrano”.
Se operiamo un’analisi sulle rivoluzioni, dobbiamo stabilire come gli eventi accadino sempre velocemente: quello che oggi sembra un ragionevole compromesso, domani è già un sogno impossibile. Inizialmente la Duma, chiede a Nikolaj II di formare un governo che avrebbe avuto il sostegno di una larga maggioranza parlamentare, ma quando la guarnigione di Pietrogrado si ribella e nascono i Soviet (consiglio degli operai), la Duma si convince che solo l’abdicazione dello Zar, può riportare l’ordine.
Dagli scritti di Nikolaj Romanov, l’ultimo Zar di tutte le Russie: “Questa mattina è venuto Ruzsky e mi ha letto la sua lunga conversazione via telegrafo con Rodzjanko. Secondo quanto riportato la situazione a Pietrogrado è tale che un governo della Duma, sarebbe ormai impotente, perché dovrebbe competere con il partito social-democratico, rappresentato dal Comitato dei Lavoratori: i Soviet di Pietrogrado. Mi chiedono di abdicare”. Nikolaj II non si dà ancora vinto: prima di accettare l’esilio decide di consultare ancora una volta i comandanti militari, sperando ancora in un loro appoggio, ma nessuno è più disposto a sostenerlo. Per le 02:00 arrivano via telegrafo le risposte dei generali al fronte e tutti concordano: lo Zar deve abdicare.
I generali prima di ogni altra cosa, si considerano generali russi, che combattono una guerra russa e se la monarchia serve alla causa patriottica - per vincere la guerra -, sono pronti a sostenerla, ma nel tentativo di Febbraio 1917, molti di loro non si fidano più della capacità di Nikolaj II nella conduzione vittoriosa del conflitto. Messi di fronte alla scelta fra lo Zar e la Russia, scelgono sempre e solo la seconda. L’ultimo Romanov a sedere sul trono Imperiale è come stordito: tutti i generali più fidati lo hanno abbandonato al suo destino e il suo isolamento è completo e senza appello. Come appunterà sul suo diario, alle 15.00 del pomeriggio del 2 marzo 1917 Nikolaj Aleksandrovič Romanov rinuncia al Trono.
[caption id="attachment_9234" align="aligncenter" width="1000"] Michail Aleksandrovič Romanov, (San Pietroburgo, 28/11/1878 – Perm', 12/06/1918), è stato fratello minore dello Zar Nikolaj II di Russia. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Michele chiese allo zar Nicola II il permesso di tornare in Russia e di entrare nell'esercito, con l'accordo che anche sua moglie e suo figlio sarebbero venuti. Tornò a casa come generale russo, e comandò la Divisione Selvaggia, formata da ceceni e daghestani. Le fonti archivistiche, indicano come il 12 giugno del 1918 a Michele fosse ordinato da un gruppo di uomini di lasciare l'albergo a Perm' dove viveva in reclusione forzata, anche lui prigioniero del governo rivoluzionario bolscevico. Con il suo segretario furono portati in periferia, dove furono uccisi entrambi a colpi d'arma da fuoco e i loro corpi bruciati. Secondo la versione fornita dai sovietici, gli assassini erano lavoratori locali che odiavano il regime zarista ed erano infastiditi dalla vita lussuosa di Michail. I documenti, di contro, mostrano che l'ordine di giustiziarli fu impartito dalla Čeka di Perm'.[/caption]
Questo gesto sarà l’inizio della sua caduta: non potrà mai immaginare la sua amara e triste fine. Lui che fino a quel momento aveva deciso della vita e della morte di 160.000.000 di russi, adesso è un uomo come tanti. Tutto quello che aveva conosciuto e amato nella sua vita era sul punto di sparire per sempre.
Dal diario della Zarina: “Il mio cuore è in pezzi in questo momento di ribellione e angoscia. Penso a te, completamente solo. Non sappiamo nulla di te e tu non sai nulla di noi. (…) Loro ti informeranno sulla situazione: è spaventoso! Ci sono due forze contrapposte: la Duma e i Rivoluzionari. Due serpenti che spero si divorino l’uno contro l’altro. E’ chiaro che non vogliono che tu mi incontri prima di aver firmato qualche documento, magari una Costituzione o qualche altro abominio del genere”.
Sempre a Pskov alle 21:30 dello stesso 02 Marzo, arrivano due uomini esausti. Sono Vasily Vitalyevich Shulgin e Aleksandr Ivanovič Gučkov gli emissari della Duma: portano allo Zar la richiesta di abdicazione. Nikolaj II e Gučkov già si detestavano, per cui c’è un ulteriore elemento di tensione, quando ad arrivare con la scomoda richiesta è proprio il suo antagonista politico. Gučkov è uno di quei monarchici, che vorrebbe escludere i Romanov dalla politica attiva, ma è disposto a tutto pur di mantenere l’istituto monarchico come simbolo di ordine e legittimità. La grande maggioranza dei rappresentanti della Duma sono spaventati dal rischio di una rivoluzione sociale. Lo Zar fino a quel momento era stato un essere divino ed ora si trovava in questa piccola fangosa città di Pskov con questi due politicanti arrivisti – perché tali li considera – che si presentano con la richiesta di abdicazione: pensate che profonda umiliazione.
Ma Nikolaj II ha in serbo un colpo di scena: con freddezza informa gli emissari della Duma, che arrivano tardi, poiché l’abdicazione è già un fatto compiuto. Il nuovo Zar non sarà però il piccolo Aleksej Nikolaevič, ma suo fratello minore, il Gran Duca Michail Aleksandrovič Romanov.
E’ una decisione fuori da ogni protocollo, nata da un incontro privato e decisivo – avuto poche ore prima - con il dottore Sergey Petrovich Fedorov, una delle ultime personalità di cui aveva ancora fiducia. Quando la parola “abdicazione” era stata pronunciata, un pensiero lo tormentava nell’animo: l’incerta salute del figlio, avrebbe permesso ad Aleksej di regnare? Il dottore fu chiaro e diretto: Cesarevič Aleksej avrebbe forse potuto raggiungere l’età adulta, ma sarebbe sempre stato alla mercé di un incidente. Ascoltando le parole di Fedorov, Nikolaj II si rese conto delle implicazioni che l’elezione del figlio avrebbero comportato per la dinastia, già fortemente in pericolo. Inoltre se avesse firmato l’abdicazione in favore di Aleksej sarebbe stato per sempre separato da lui e in quel momento Nikolaj decide: il Cesarevič non sarà mai Zar.
Nel prendere la decisione di abdicare in favore del fratello Nikolaj Romanov non immaginava che tale scelta avrebbe creato ulteriori problemi. Sicuramente era preoccupato e si sentiva colpevole per aver spezzato la legittimità della successione, non avendone il diritto. Infine la fedeltà alla Costituzione soccombe, di fronte all’attaccamento di un padre per un figlio gravemente malato. Gli emissari del Duma, ignari dell’incontro non si aspettano un cambiamento nella linea di successione.
[caption id="attachment_10704" align="aligncenter" width="1000"] Aleksej Nikolaevič Romanov (Peterhof, 12/08/1904 – Ekaterinburg, 17/07/1918) è stato l'ultimo erede al trono dell'Impero russo, primo maschio e ultimogenito dello zar Nikolaj II e della zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova, dopo le sorelle Ol'ga, Tat'jana, Marija e Anastasija. Fu barbaramente ucciso, nella dimora-prigione di Ekaterinburg, la notte del 17 luglio del 1918 dai sicari della Čeka bolscevica.[/caption]
Nikolaj Aleksandrovič Romanov si ritira nel suo studio: le carte militari che fino a quel giorno avevano riempito il suo tavolo, ora non ci sono più: è presente solo il testo di abdicazione.
Così scrive quella notte: “In questi giorni di grave lotta contro il nemico esterno, che da tre anni sta cercando di assoggettare la nostra patria, il signore Iddio ha voluto sottoporre la Russia ad un’altra prova. Lo scoppio di disordini popolari, minaccia di produrre un effetto disastroso sulla futura condotta di questa dura guerra. Il destino della Russia, l’onore del suo eroico esercito, il benessere del popolo e tutto il futuro della nostra amata Patria, richiedono che la guerra – qualunque ne sia il costo – si avvii ad una conclusione decorosa. In questi giorni decisivi per la vita della Russia, noi consideriamo nostro dovere – verso la nazione – di unire tutte le forze del paese per un rapido conseguimento della vittoria. D’accordo con la Duma abbiamo ritenuto opportuno rinunciare al trono dello Stato russo e cedere l’autorità suprema. Non desiderando separarci dal nostro amato figlio, trasmettiamo la nostra successione al nostro fratello, il Gran Duca Michail Aleksandrovič Romanov e gli diamo la nostra benedizione perché ascenda al trono dello Stato russo. Voglia il signore Iddio aiutare la Russia”.
Manca poco alla 00:00 e Nikolaj Romanov raccoglie la penna, ma prima di firmare ha un ultimo moto d’orgoglio: vuole lasciare un segno sul suo ultimo atto ufficiale e retrodata la firma alle 15:05 del pomeriggio, alcune ore prima dell’arrivo degli emissari, perché nessuno pensi che la decisione dello Zar sia stata influenzata dalla Duma.
Lo Zar Nikolaj II adesso è un uomo come gli altri, il cittadino Col.Nikolaj Romanov. La notizia irrompe al Palazzo Imperiale come una cannonata e il testo dell’abdicazione è su tutte le prime pagine.
Quasi ventiquattro ore dopo, anche il nuovo Zar Michail Aleksandrovič Romanov rinuncia al trono firmando il manifesto fattogli avere dal politico socialista Aleksandr Fëdorovič Kerenskij. Il fratello minore di Nikolaj non possiede ambizioni politiche e nessuna voglia di farsi carico di una situazione ampiamente compromessa. In tre soli giorni una delle dinastie più antiche del mondo crolla come un castello di carte: la fine della monarchia è salutata con manifestazioni di giubilo in tutto l’Impero. La popolazione, ignara del regime comunista successivo, festeggiava i lieti eventi, non rendendosi minimamente conto di cosa si sarebbe evoluto il bolscevismo della rivoluzione. 
Segue il diario di Nikolaj: “all’ 01:00 ho lasciato Pskov con il cuore gonfio, per tutto quello che ho dovuto subire: intorno a me c’è solo tradimento, codardia, inganno”.
L’ultimo Zar (de iure fu Michail) è costretto ora a proseguire il viaggio incerto, prigioniero sul suo stesso treno imperiale. Ci vorranno sette giorni perché possa riunirsi alla sua famiglia a Tsarskoye Selo. Nei mesi che seguono la Russia precipiterà in un bagno di sangue: una spaventosa guerra civile tra l’armata bolscevica – l’anima più radicale della rivoluzione, definita “Rossa” e “L’armata Bianca” dei restauratori controrivoluzionari. Tale spargimento di sangue- senza esclusione di colpi – si concluderà il 17 Giugno del 1923 con la vittoria dei rivoluzionari bolscevichi che fondarono l’Unione Sovietica.
Nikolaj, il discendente di Pietro il Grande e Ivan il Terribile, giunge il 9 Marzo alle ore 11:45 a Carskoe Selo – antica residenza imperiale – come un cittadino qualunque: le nuove guardie non lo riconoscono neppure.
Dopo tre secoli di dominio assoluto, la prima famiglia di Russia sparisce fra le quinte delle Storia. Nella Russia scossa dal terremoto della Rivoluzione, quest’uomo timido e schivo è ancora percepito come una grave minaccia. Nikolaj Romanov ha 49 anni, gli resterà ancora un anno da vivere, prima che la morte lo liberi definitivamente da quel ruolo e quel potere che non ha mai voluto. Prigioniero del Governo provvisorio di Aleksandr Kerenskij, in seguito all'aggravarsi della situazione politica, il colonnello Romanov viene trasferito per ragioni di sicurezza in Siberia. In seguito alla Rivoluzione d'ottobre e alla salita al potere di Lenin, il Soviet degli Urali reclama i prigionieri reali come “bottino di guerra” della Rivoluzione.
A Ekaterinburg i prigionieri condividono l'abitazione con le guardie addette alla loro sorveglianza e sono sottoposti a numerose angherie. Vista l'avanzata della "Legione cecoslovacca" appartenente all'Armata Bianca controrivoluzionaria, il soviet locale dà ordine di accelerare i tempi dell'esecuzione. L'operazione viene affidata a un commissario della Čeka: questa fu un corpo di polizia politico, creato il 20 dicembre 1917 da Lenin e Feliks Edmundovič Dzeržinskij, il quale durò fino al 1922, per combattere i nemici del nuovo regime russo. Il commissario Jakov Jurovskij, organizza in gran segreto la fucilazione e il successivo occultamento dei corpi. Di fronte al diniego di numerosi čekisti, che si rifiutano di sparare sull'intera famiglia, è creato un commando composto da ex prigionieri di guerra austriaci e ungheresi, che hanno abbracciato - alcuni per paura, altri per sopravvivenza - la rivoluzione bolscevica.
Così nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918, il commissario sveglia l'ex Zar e tutta la famiglia, dando l'ordine di preparare i bagagli per una partenza. I Romanov e gli altri prigionieri del seguito, sono condotti nello scantinato della casa e Jurovskij ordina di disporsi per una fotografia di notifica, dopodiché chiama il commando.
Letta una improbabile sentenza l'ex Zar di tutte le Russie viene falciato dal fuoco. L'esecuzione durò venti minuti e la scena dovette essere altrettanto pietosa: nella confusione che ne seguì, il primo a cadere fu proprio Nikolaj II; di seguito la Zarina Aleksandra Fëdorovna; poi i membri del séguito, e infine i cinque figli, Ol'ga, Tat'jana, Marija, Anastasija, Aleksej. Alcune delle figlie non morirono con i colpi delle armi da fuoco immediatamente, per via dei gioielli che avevano sotto il corpetto: furono trucidate e finite a baionettate. Jurovskij dichiarerà: «I gioielli e i diamanti cuciti negli abiti facevano rimbalzare i proiettili sui corpi delle donne che, ferite e spaventate, non smettevano di dibattersi in preda al dolore e al terrore. Il mio aiutante dovette consumare un intero caricatore e poi finirle a colpi di baionetta».
I corpi vennero portati nel vicino bosco di Koptiakij e, dopo una previa divisione, furono bruciati a metà strada i corpi di Aleksej e Marija, mentre gli altri vennero denudati, fatti a pezzi e gettati nel pozzo di una vecchia miniera. Infine i resti furono sciolti con acido solforico e dati alle fiamme: era necessario che i controrivoluzionari non trovassero alcuna traccia dell'esecuzione avvenuta.
Nel 1990 in un bosco di betulle alla periferia di Ekaterinenburg (un tempo Sverdlovsk) i corpi vengono ritrovati in una fossa poco profonda - identificati con la tecnica forense convenzionale delle impronte genetiche -, rinvenuta in un bosco di betulle.
[caption id="attachment_10702" align="aligncenter" width="1000"] Konvojcem Alexander Levčenkovym, L'inferno della casa ipatʹevskogo.[/caption]
Il 16 luglio del 1998 la famiglia zarista è inumata nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo (ex Pietrogrado) in seguito a un funerale di Stato presenziato dal presidente Boris El'cin.
Il 30 aprile 2008, in seguito alla pubblicazione dei test del DNA da parte del laboratorio statunitense, il quale aveva in esame i resti ritrovati nell'estate, vengono definitivamente identificati i corpi della granduchessa Marija e dello zarevič Aleksej. Lo stesso giorno le autorità russe comunicano ufficialmente che l'intera famiglia è stata identificata.
Nel 2000 la Chiesa Ortodossa russa, guidata dal Patriarca Aleksej II, ha canonizzato e dichiarato santi martiri Nikolaj Aleksandrovič Romanov e la sua famiglia, per il contegno da loro tenuto durante la deportazione e la prigionia, per il fatto di aver – come attestano diari e lettere ritrovati dopo la morte – concesso in nome della fede il perdono ai loro carnefici e di aver auspicato la fine della guerra civile anche davanti alla possibilità di venire salvati dall'incipiente arrivo dell'armata bianca. Nikolaj II in prigionia rifiutò, addirittura, l'offerta di fuga propostagli da una lettera anonima inviata dallo stesso Consiglio dei Soviet.
L'ex Zar giustificò il diniego con un'altra lettera nella quale sosteneva che nell'azione si sarebbe sparso troppo sangue. Un'ulteriore prova di tale rassegnazione, e che è stata determinante nei lavori del Clero ortodosso, è la lettera inviata a tutti i familiari dalla granduchessa Ol'ga, dove ella scrive: "Papà chiede a tutti (...) che non cerchino di vendicarlo (...) poiché il male che adesso domina nel mondo diventerà ancora più grande. Il male, infatti, non può sconfiggere il male, ma solo l'amore può farlo (...)". San Nikolaj II, Imperatore martire e "grande portatore della Passione", unitamente a santa Aleksandra, sant'Aleksej, santa Ol'ga, santa Tat'jana, santa Marija, sant'Anastasija e santa Elizaveta sono festeggiati il 17 luglio.
Lo Zar e la sua famiglia sono stati ufficialmente riabilitati dal Presidium della corte suprema russa il 01 ottobre 2008, dopo una lunga battaglia legale. La corte ha riconosciuto come illegale l'esecuzione dello Zar e della famiglia. In questo caso sarebbe previsto il risarcimento danni, ma solo per gli eredi di primo grado, che in questo caso sono defunti.
La Russia, oggi capeggiata dal leader Vladimir Vladimirovič Putin è riuscita nella mirabile operazione di realizzare quell’analisi storica necessaria per la crescita e per il bene del paese, che l'Italia ancora non ha compiuto. Tale consapevolezza storica – che rende grande un popolo – è stata dimostrata ancora con più veemenza quest’anno, dove nella data del 17 Luglio 2017 migliaia di russi hanno sfilato a Ekaterinburg per l’anniversario della esecuzione della famiglia imperiale, il 17 luglio 1918: per una memoria storica e per una dignità culturale.
  Note: Per tutte le date russe uso il calendario giuliano "vecchio stile", che, rispetto al calendario gregoriano "nuovo stile" usato in Occidente, nel XVII secolo era indietro di dieci giorni, nel XVIII di undici, nel XIX di dodici e nel XX di tredici. Quanto ai titoli, uso il russo "Zar" al posto del romano-europeo "imperatore" per la giusta connotazione slavofila. I russi sono generalmente provvisti di un nome proprio e un patronimico.
 
Per approfondimenti:
_Marzia Sarcinelli, L' ultimo Zar. Nicola II, Alessandra e Rasputin - Mursia Editore;
_Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924 - Edizioni Oscar Mondadori;
_Simon Sebag Montefiore, I Romanov - Edizioni Mondadori;
_Roberto Pazzi, Cercando L'imperatore - Edizioni Bompiani.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1501513025457{padding-bottom: 15px !important;}"]Tempesta perfetta ad Amburgo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Dario Neglia 01/08/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1501514443926{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Se si vuole andare per mare, i nodi sono importanti. In particolare, ce n’è uno che di solito s’impara per primo, semplice ma al contempo molto utile. È un nodo cosiddetto di giunzione, serve a unire due corde di uguale spessore e regge anche discretamente la tensione di carico: quanto più essa aumenta, tanto più le due corde si stringono tra loro. Si chiama nodo piano, in inglese reef knot.
Un nodo piano è il simbolo scelto dalla Cancelliera Merkel per il G20 appena conclusosi. Per due giorni, il 7 e l’8 luglio, i capi di Stato e/o di governo delle prime venti economie al mondo si sono riuniti nella città fluviale di Amburgo, nel nord della Germania. È stato facile per Mme Merkel, leader del paese ospitante, spiegare la metafora del nodo durante la sessione inaugurale del vertice. A fronte della crescente difficoltà delle sfide mondiali, i leader politici devono stringersi sempre più tra di loro, unirsi, senza spezzare la corda. Ma il simbolismo va oltre. Infatti, la stessa città ospitante, Amburgo, (oltre ad aver dato i natali alla Cancelliera) è stata un emblema di apertura fin dal XVI secolo, soprattutto commerciale ma anche lato sensu (politicamente è molto progressista). Si tratta di un riferimento evidente, data la situazione attuale della vita politica internazionale. A questo si aggiunge il titolo programmatico dell’evento: “Dare forma ad un mondo interconnesso”.
[caption id="attachment_9213" align="aligncenter" width="1000"] Il G20 del 2017 è stato il dodicesimo meeting del Gruppo dei Venti (G20). Si è tenuto il 7 e 8 luglio 2017 nella città di Amburgo, in Germania. È stato il primo vertice del G20 ospitato dalla Germania e il terzo ospitato da un Paese dell'Unione europea, dopo quelli del 2009 in Regno Unito e del 2011 in Francia. La riunione è stata guidata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.[/caption]
Ad ogni modo, simboli a parte, ci sono almeno tre ragioni per le quali il vertice della settimana scorsa merita di essere ricordato. In primo luogo, la tempistica. La politica internazionale è sempre stata dominata dall’incertezza, ma il livello che si è raggiunto al giorno d’oggi è tale che molti parlano di una vera e propria età del caos. Il mondo è diventato talmente complesso da essere ingovernabile, si dice, tanto all’interno quanto all’esterno dello Stato, a causa dei profondi cambiamenti geopolitici, tecnologici, socioeconomici degli ultimi vent’anni. Terrorismo internazionale, climate change, crisi finanziarie, migrazioni di massa, hanno aumentato a dismisura le variabili in questa equazione da risolvere, rendendo immane il lavoro dei policy makers.
Il vertice di Amburgo era importante, quindi, in primis per tale motivo: benché di rado tali incontri raggiungano conclusioni espressive, stavolta le attese erano se possibile anche più alte del solito. I leader mondiali erano chiamati a pareggiare la fortissima domanda di ordine e stabilità con un’offerta adeguata. D’altronde, rappresentando circa l’85% del PIL e i 2/3 della popolazione mondiale, le decisioni prese in una sede del genere – se implementate in modo adeguato – possono davvero essere efficaci e cambiare le cose. A fortiori, peraltro, se si considera che le più importanti date elettorali sono passate da tempo. Gli Stati Uniti hanno già eletto Trump, la Francia Macron, la Brexit è alle spalle, così come le elezioni anticipate inglesi. La stessa Merkel, unica tra i grandi leader europei a dover ancora passare dalle urne a settembre (in realtà ci saremmo anche noi, ma ormai la nostra situazione è diventata una triste costante…) sembra proiettata verso una vittoria quasi sicura. Insomma, i principali partecipanti della conferenza erano in una condizione di full powers, per così dire. Avendo superato buona parte dei principali giri di boa, il momento era quello di un “ora o mai più”, considerate le circostanze e l’assenza di scusanti.
In secondo luogo, il G20 di Amburgo era di per sé importante già per la sola gravità dei problemi in agenda. Al primo posto, il cambiamento climatico, uno dei fenomeni meno appariscenti (rectius più controversi) eppure più nefasti nell’intera storia del mondo. L’Accordo di Parigi siglato nel 2015 nell’ottica di un contrasto al riscaldamento globale è stato fortemente depotenziato dall’America di Donald Trump, che ha denunciato il trattato tirandosene fuori. Quella che sembrava una questione non di certo archiviata, ma se non altro indirizzata sulla buona strada, peraltro dopo un lungo e faticoso processo negoziale durato anni, oggi è tornata prepotentemente ai primi posti della lista di questioni più spinose da risolvere.
E che dire del terrorismo? Gli Europei ne sono stati testimoni e vittime negli ultimi anni. La crisi geopolitica in Medio Oriente, specialmente Siria e Iraq, ha prodotto un’ondata di attacchi nel Vecchio Continente – ad opera del sedicente Stato Islamico – che è quasi riuscita a piegare migliaia e migliaia di persone alla dittatura del terrore. Ma questo è niente se si guarda al fenomeno delle migrazioni di massa. Si tratta del vero e proprio trend di lungo periodo dei nostri tempi, destinato a durare per decenni. Demograficamente l’Africa è una sorta di bomba ad orologeria pronta ad esplodere nel prossimo futuro. Ceteris paribus, gli analisti prevedono che il continente supererà Cina e India come tasso di crescita della popolazione. Entro il 2100 quattro persone su dieci nel mondo saranno nate in Africa. Se a ciò si unisce la miseria e il sottosviluppo di molti paesi soprattutto nella fascia sub-sahariana, si capisce perché così tanti disperati provino ad attraversare il Mediterraneo rischiando la propria vita, nella speranza di ottenere un futuro migliore di quello a cui sono condannati.
[caption id="attachment_9200" align="aligncenter" width="1000"] Un gruppo di manifestanti travestito con le maschere dei leader mondiali che si incontreranno nella città tedesca il 7 e l'8 luglio. Per l'occasione è previsto anche il primo faccia a faccia tra il presidente Usa Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin.[/caption]
Il commercio e l’economia si inseriscono analogamente nell’agenda di Amburgo, quali temi anzi privilegiati, essendo appunto il G20 un forum per discutere principalmente di questioni economico-finanziarie. L’economia mondiale si è ormai quasi del tutto ripresa dalla crisi del 2008, tuttavia ora i rischi provengono dal protezionismo di matrice americana, che ha già mietuto le prime vittime, ossia i due trattati di libero scambio TTIP e TTP, rispettivamente tra USA e UE, e USA e paesi del Pacifico. Last but not least, i tre grandi focolai di crisi che avvelenano le falde della politica internazionale. Primo, la più grande crisi dell’ultimo decennio: la Siria. Secondo, il conflitto che allora si credeva avrebbe portato il mondo sull’orlo di una nuova guerra mondiale: l’Ucraina. Terzo, quello più recente e che con ogni probabilità ha il curriculum migliore per aspirare al ruolo di miccia se davvero dovesse scoppiare la Terza guerra mondiale: la Corea del Nord.
Come si vede, gli argomenti erano dunque molti, e la loro importanza era tale da fare tremare le vene e i polsi. Ma di certo Amburgo passerà ai libri di storia anche per un terzo motivo. C’era un incontro, un vero e proprio vertice nel vertice, che i media di tutto il mondo stavano aspettando, e che avrebbe dovuto avere luogo per la prima volta proprio in occasione del G20 in Germania: il primo faccia a faccia tra Donald Trump e Vladimir Putin. Eufemisticamente, si è detto tutto e il contrario di tutto riguardo alla relazione più che tra i due paesi, proprio tra questi due uomini. E se le cose che i detrattori di Trump sostengono fossero vere, anche in minima parte, sarebbe forse lo scandalo più grande nell’intera storia della presidenza statunitense. In ogni caso, l’incontro c’è stato ed è durato un’ora e mezza più del previsto. Segno che evidentemente qualcosa da dirsi i due l’avevano.
È inutile negarlo, Trump è il catalizzatore dell’attenzione di tutti gli osservatori di politica internazionale, né potrebbe essere altrimenti trattandosi del Capo di Stato e di governo del paese primo al mondo per forza militare e secondo per potenza economica. Ma il 45° presidente degli Stati Uniti è a digiuno di affari internazionali, sicché quando a maggio si tenne il G7 a Taormina, l’attenzione era su di lui a causa del suo debutto sulla scena dei Grandi. Ma adesso, oltre ad attendere la sua entrata in scena su un palcoscenico più grande come il G20 e il primo incontro con l’omologo russo, si cerca di studiarlo per cercare di intuire quali saranno le sue prossime mosse. Compito alquanto difficile per un presidente che, alla meglio, è stato definito erratico.
In effetti, tutta una serie di questioni latenti ruotano attorno all’America trumpiana, vera e propria incognita della politica internazionale ancor più della Gran Bretagna post-Brexit. Anzitutto la qualità delle relazioni transatlantiche. I paesi dell’UE, padrona di casa tedesca in primis, devono ancora prendere le misure al nuovo inquilino della Casa Bianca, soprattutto sui grandi temi della lotta al cambiamento climatico e del sostegno al commercio mondiale. Dal canto suo, la Cina pare si sia già portata avanti col lavoro, alternando tra loro toni conciliatori e perentori rivolti a Washington, e soprattutto cercando di riempire il vuoto geopolitico che il neo-isolazionismo trumpiano sta creando. In ogni caso la relazione sino-statunitense è più unica che rara, data l’eccezionalità dei due soggetti, una superpotenza militare e l’altra economica. Quanto alla Russia…cela va sans dire. Sulla presunta liaison tra Trump e Putin i critici dipingono trame fosche di intorbidimento del processo democratico americano, mentre i sostenitori la sbandierano come esempio di una nuova “distensione” che potrebbe finalmente regolare la politica mondiale. Amburgo è stato il contesto in cui tutte questi temi si sono incrociati, aumentandone di molto l’importanza.
[caption id="attachment_9201" align="aligncenter" width="1000"] In occasione del vertice del G20 di Amburgo, il 5 luglio 1000 figure coperte di argilla sono apparse per le strade della città dando vita a una performance artistica e sovversiva. Una protesta silenziosa organizzata dal collettivo 1000 GESTALTEN per invitare la Germania e il mondo a combattere, una chiamata alla partecipazione politica a una società in cui il cambiamento non deriva dall’alto, ma da ciascun individuo, una critica verso l’apatia politica e l’impotenza dell’individuo nella società odierna. La performance artistica di 1000 GESTALTEN si è svolta come una storia sulla trasformazione e la crescita individuale e collettiva. I 1000 zombie hanno iniziato ad aggirarsi coperti da gusci polverosi di argilla, metafora di una società che ha perso il suo senso di solidarietà, egoista e indifferente. I gusci hanno poi iniziato a crepare, spinti drammaticamente da una seconda pelle, a simboleggiare un popolo che si è liberato dalle rigide strutture ideologiche e che lotta contro la spersonalizzazione.[/caption]
Tuttavia, sottolineare l’importanza e il valore particolare di questa conferenza, non implica che alla fine, anche in questo caso, si possa dire che si sono prese decisioni sensazionali o dall’effetto dirompente. Su molti temi la distanza tra i paesi resta troppo grande. Eppure la Merkel ha cercato in ogni modo – aiutata anche dalla sua innata capacità diplomatica – di ottenere quel minimo grado di condivisione che permette di arrivare ad un compromesso. Anche a scapito dell’efficacia delle decisioni prese. Difatti, così è stato, e traspare in un modo o nell’altro nel communiqué finale.
Riguardo al cambiamento climatico, vero e proprio pomo della discordia e tema fondamentale della conferenza, i paesi del G20 si sono limitati a “prendere atto” della decisione statunitense di abbandonare l’Accordo di Parigi, ma allo stesso tempo hanno sancito che esso è – e resta – “irreversibile” per le altre parti contraenti. Se l’UE, Germania e Francia in testa, riusciranno a legare la Cina (principale paese inquinatore al mondo) e l’India agli impegni presi nella capitale francese, come pare avverrà, e considerando anche che molti singoli Stati degli Stati Uniti hanno già detto che si impegneranno per rispettare l’accordo, la decisione trumpiana non sortirà il tanto paventato effetto di rendere de facto inefficace il trattato. Peraltro, va segnalato che – mai come in questa occasione e su questo tema – si è verificata una notevole frattura tra i paesi mondiali, e specialmente tra i paesi del G7 e gli USA. Alcuni commentatori hanno già coniato l’espressione “G19 +1” per sintetizzare l’isolamento dell’America di Donald Trump sul tema, ma forse sarebbe più corretto parlare di un “G6 +1”. Infatti, di certo nell’ambito del G7 la frattura è nettissima, mentre in ambito G20 alcuni paesi potrebbero pur sempre scegliere di schierarsi dalla parte degli USA (ad esempio Arabia Saudita, o Turchia).
Allo stesso modo, parlando di commercio internazionale – un altro tema avvelenato – si è consumata un’altra frattura silenziosa nello scontro tra i fautori del protezionismo e quelli del libero commercio. Così, quantunque nel comunicato finale si scriva che il commercio internazionale va stimolato, in qualità di volano della crescita mondiale, si aggiunge anche che contro le pratiche commerciali scorrette va riconosciuto un ruolo agli “strumenti di difesa”. Ma quali? E su quali prodotti? Come sempre, l’ambiguità dell’espressione non è un buon segno, perché indica che i diretti interessati che hanno fatto pressione per inserire questa piccola frase (ovvero gli Stati Uniti) potranno sfruttare tale vaghezza per avere più margine di manovra. Le voci di corridoio indicano l’acciaio europeo come probabile bersaglio di nuovi dazi che Washington sarebbe pronta ad imporre, arrivando anche al 25%. Così, le relazioni transatlantiche verrebbero invelenite anche sotto l’aspetto commerciale, dopo quello del climate change e il già menzionato fallimento del TTIP.
Riguardo al terrorismo poco si è fatto, ma va detto che il G20 non è il luogo privilegiato dove discuterne e prendere decisioni degne di tale nome. Tra i paesi partecipanti non si riesce nemmeno a trovare una definizione comune riguardo a quali soggetti annoverare tra i gruppi “terroristi” e quali no. Per i Turchi sono i Curdi, ma non per gli Occidentali, mentre il legame tra Arabia Saudita e frange estremiste conclamate è stato ampiamente dimostrato, ma tant’è.
Riguardo all’immigrazione e – lato sensu – alla cooperazione allo sviluppo verso l’Africa, pur in assenza di decisioni definitive, va riconosciuto che la Cancelliera si è prodotta in un notevole sforzo in prima persona per promuovere uno schema di patti bilaterali tra i paesi industrializzati e quelli africani, onde stimolare l’afflusso di capitali e sostenere lo sviluppo economico soprattutto dei paesi della fascia centrale del continente africano. Se non altro, questa rappresenta una novità che mai prima d’ora un paese organizzatore del G20 aveva messo in atto. Al contrario, il problema degli sbarchi di migranti sulle coste italiane non è stato affrontato nel forum, ma la discussione – che di sicuro ci sarà stata a livello informale – principalmente tra il nostro paese e gli altri partecipanti ha fatto registrare toni abbastanza diversi da quella solidarietà di facciata che gli altri paesi sembrano fare a gara per mostrarci, appunto solo a parole.
È stata poi la volta del colloquio Trump/Putin. Analizzato in ogni fotogramma e studiato fin nella mimica facciale o nel linguaggio del corpo, i due maschi alfa, come è stato detto, hanno optato in realtà per una sorta di basso profilo durante il summit. Il presidente statunitense, peraltro, appena il giorno prima dell’inizio del G20, a Varsavia, aveva tenuto un discorso dai toni quasi da scontro di civiltà tra l’Occidente ed il resto del mondo, ammonendo la Russia di smettere di interferire negli affari di altri paesi sovrani. D’altronde, la Polonia non è solo uno dei pochi paesi della NATO che rispetti l’impegno del 2% del PIL da destinare alle spese militari – come hanno sempre richiesto gli Americani – ma anche uno di quelli dove la russofobia è più radicata.
Ma, al dunque, tra i due uomini forti ha prevalso la sintonia o il presunto sforzo per trovare un’intesa (e – chi può dirlo – forse qualcosa di altro?). Tuttavia, l’Ucraina è argomento poco importante per l’America (mentre vale l’opposto per Putin) perché si possa giungere ad una soluzione che non sia il congelamento dello status quo. In modo analogo si è arrivati ad un nulla di fatto sulla Corea del Nord, stante la volontà della Cina di gestire un suo alleato come il regime di Pyongyang che – seppur pericoloso – fa comunque parte di quello che Pechino considera il giardino di casa sua, dove quindi non tollera ingerenze, neppure dagli Stati Uniti. Il principale risultato è stato dunque sulla Siria: un cessate il fuoco nella zona sud-occidentale del paese, che si aggiunge ad altre quattro zone di de-escalation già negoziate in altra sede. Non è un granché, ma probabilmente si voleva dimostrare che il conflitto siriano potrà essere risolto unicamente da un accordo russo-statunitense, cosa che è vera solo in parte, perché in gioco ci sono molti altri attori, dall’Iran alla Turchia, dall’ISIS ad Assad.
In fin dei conti, cosa resta del vertice di Amburgo? Senza alcun dubbio rimarrà la frattura, abbastanza profonda finora, che si è venuta a creare tra gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali. Se aumenterà o meno in futuro dipenderà dalle scelte di Trump. Gli Europei, tuttavia, sembrano aver ormai capito che devono prepararsi a tempi duri. A voler guardare il lato positivo, questo potrebbe essere lo stimolo tanto agognato per far sì che il Vecchio Continente raggiunga finalmente una maggiore unità politica. In ogni caso, l’UE dovrà iniziare a giocare quel ruolo da player mondiale che si addice al suo peso economico e demografico. O altri faranno al posto suo… Nella geopolitica esiste infatti una legge ferrea, l’horror vacui, ed è curioso che soprattutto i sostenitori della distensione Putin-Trump (piuttosto che Russia-USA) non considerino quest’ultimo aspetto.
Riguardo a quest’ultimo punto, infatti, come ha detto efficacemente Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group, non si sono mai visti nella storia «due leader così amichevoli a capo di due paesi con interessi così opposti». È quindi incredibile che lo stesso Trump, pur considerando il mondo un insieme di relazioni a somma zero, dove c’è chi vince e chi perde senza che si possano dare possibilità di mutua collaborazione per una vittoria condivisa, non applichi tale struttura di pensiero alle stesse relazioni russo-statunitensi. Qui, invece, si ritiene che l’America possa collaborare proficuamente con la Russia, in vista di non si sa bene quale fine. O meglio, per Mosca l’obiettivo risulta chiaro: uscire dall’isolamento geopolitico a cui il paese (giustamente) era stato relegato dopo l’illecito internazionale dell’annessione della Crimea. Tuttavia, ad esempio proprio sulla Siria, dove in più di ogni altro caso – si dice – dovrebbero vedersi i frutti di questa tanto declamata collaborazione, si osserva da più parti che Mosca ha vinto, ma cosa ne hanno ottenuto gli Stati Uniti oltre ad un loro disimpegno dalla regione con tutte le conseguenze del caso? Nella politica internazionale, come dicevo sopra, se lasci un vuoto altri lo riempiranno.
In conclusione, forse il vero aspetto di quest’ultimo G20 che bisognerà ricordare è legato ad un’altra celebre definizione, sempre di Ian Bremmer, che indica quale sarà il futuro a cui ci avviciniamo: un «G-Zero», un mondo confuso poiché privo di quei centri di potere capaci di dar forma alle relazioni internazionali in modo sistemico. Nella seconda parte del secolo scorso sono stati gli Stati Uniti a plasmare il nostro mondo, ma adesso assistiamo ad «un’America unilateralista, una Gran Bretagna che si ritrae, una Francia che si sta ancora riprendendo, una Russia revisionista e una Cina che ancora non è potenza dominante» (The Economist online, 7 luglio). A nulla servono questi consessi di leader politici, perché il mondo ormai è diventato tutto una grande incognita, e i processi sfuggono al potere che vorrebbe controllarli, di qualunque natura esso sia.
Tutto ciò è esemplificato proprio dalla stessa Germania merkeliana: una potenza commerciale, aperta e multiculturale, legata a doppio filo alla globalizzazione e che da essa trae la propria forza ed in essa prospera. Ciò nondimeno, essa è incapace di governarla da sola, debole sotto il profilo del potere militare a causa delle cicatrici del suo recente passato, disperatamente bisognosa di alleanze e diplomazia. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 6 luglio, la Cancelliera aveva detto che il vertice di Amburgo, il «suo G20», avrebbe dovuto rifondare «un ordine globale giusto». C’è da chiedersi se questo non sia un compito irrealizzabile, non tanto per la Germania quanto per la nostra epoca tout court. Forse dobbiamo sperare che si inventino altri nodi, per resistere alle tensioni future, perché pare che quelli vecchi – incluso il nodo piano – siano pericolosamente vicini al punto di rottura. E si sa, non si può andare per mare senza nodi che tengano.
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1501006746987{padding-bottom: 15px !important;}"]Omaggio a Karl I d'Asburgo-Lorena[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1501009798777{padding-top: 45px !important;}"]a cura di Giuseppe Baiocchi
 

A novant'anni dalla morte di Karl I d'Asburgo, ultimo imperatore dell'Austria-Ungheria, questo video propone una breve visione dell'uomo diventato - nel 2004 - beato della Chiesa cattolica. Senza l'intervento dei paesi vincitori della Grande guerra, decisi a cancellare l'equilibrio che poneva l'Austria-Ungheria sullo scacchiere europeo, Karl I avrebbe senz'altro mantenuto la corte di Vienna, rimanendo così al potere, per ricostruire tramite la democrazia - già da lui adottata - un'Europa più forte. Un imperatore che, contrariamente all'immagine che ne diede la potentissima propaganda dei Paesi vincitori della Prima guerra mondiale, era dotato di grandi qualità, umane e diplomatiche. Un ringraziamento particolare al professore Roberto Coaloa, il quale tramite il suo saggio "Carlo d'Asburgo, l'ultimo imperatore" - edito dalla casa editrice "Il Canneto" (2012) -, ha innescato la scintilla della conoscenza di questo straordinario personaggio storico della nostra Europa.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1500978754065{padding-bottom: 15px !important;}"]Giuseppe Tomasi di Lampedusa: noi fummo i gattopardi[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gianluigi Chiaserotti 28/07/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1501175657890{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Cadono i sessant’anni della morte dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, avvenuta a Roma, il 23 luglio 1957. Ricordarlo è essenzialmente commentare ed analizzare il suo capolavoro “Il Gattopardo”.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma e Montechiaro, principe di Lampedusa, nacque a Palermo il 23 dicembre 1896. Partecipò alla I Guerra Mondiale come ufficiale e rimase nell’esercito fino al 1925, laureandosi nel frattempo in Giurisprudenza all’Università di Torino. Il Tomasi si ritirò, quindi, a vita privata (anche perché avverso al Fascismo), viaggiando e dimorando per lunghi periodi all’estero.
Il Tomasi divenne, quindi, saltuariamente critico di letteratura francese e di storia, negli anni 1926-27, su “Le Opere e i Giorni” (mensile culturale di Genova), ma le vicissitudini della vita interruppero codesto suo approccio professionale alle lettere. Rimase il conforto della lettura, il modo originale di smontare pezzo a pezzo, quasi come un giocattolo, gli scritti altrui. E soprattutto la ricerca, autore per autore, ed opera per opera, di una precisa collocazione biografica ed ambientale. Scrive il professor Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del Lampedusa: «Per Lampedusa la letteratura è una sorta di diaristica cifrata, e la diaristica la sola gnoseologia; l’opera d’arte il mezzo attraverso cui una contingente esperienza umana, da individuale ed egoistica, poteva cristallizzarsi in esperienza durevole, valida oltre l’occasionalità delle circostanze».
[caption id="attachment_9165" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957) è stato uno scrittore italiano.[/caption]
Il Tomasi compose diversi saggi ed alcuni racconti, che, però, non diede mai alle stampe. Accadde che il Nostro accompagnò il cugino Lucio Piccolo di Calanovella, poeta scoperto da Eugenio Montale, ad un convegno letterario a San Pellegrino Terme (Bergamo) nel 1954. Ritornato a Palermo, il Lampedusa, affascinato, ma forse anche spronato dai forieri incontri avuti durante tale convegno, iniziò a scrivere il suo romanzo. Egli scrisse “Il Gattopardo” nel periodo che va’ dal 1955 al 1956, quindi, negli ultimi anni di vita, e praticamente tutti i giorni. E ciò indipendentemente dal successo, che la sorte in vita gli negò. Secondo la testimonianza della vedova dell’Autore, l’opera fu scritta “dal principio alla fine, tra il ’55 ed il ‘56” e ciò in pochissimi mesi".
Ma il proposito di comporre e scrivere un romanzo storico, ambientato in Sicilia, all’epoca dello sbarco di Garibaldi a Marsala, ed imperniato sulla figura di un suo bisavo, era stato annunziato dal Nostro alla consorte almeno un venticinquennio prima. Ed “Il Gattopardo” ottenne un così vasto successo in Italia ed all’estero, da costituire uno dei singolari “casi letterari” degli ultimi decenni. Ma Giuseppe Tomasi di Lampedusa non lo poté vivere il successo, infatti morì a Roma il 23 luglio 1957. Vediamo brevemente la trama del romanzo.
L’intreccio è più che noto: Sicilia 1860, isola borbonica, turbata nei suoi torbidi sonni secolari dai «falò che le squadre dei ribelli accendevano ogni notte» stranamente simili a «quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi». E’ l’epoca del tramonto borbonico con l’instaurazione, anche nell’isola, della monarchia sabauda. Il c. d. “mondo vecchio”, che, per i siciliani, vecchio non era, declina per fare spazio al c. d. “mondo nuovo”, emerso dalle idee illuministe, materialistiche e giacobine della Rivoluzione Francese.
L’intera opera è incentrata ed intessuta intorno alla imponente figura ed alle abitudini del capo di un prestigioso casato isolano: don Fabrizio Corbèra, principe di Salina [da ravvisarsi, come si diceva poc’anzi, in un bisavo dell’Autore, Giulio Tomasi di Lampedusa (1814-1885), se non, come alcuni esegeti affermano, nell’Autore medesimo, nobile generoso figlio della sua radiosa terra siciliana].
Don Fabrizio, lirico e critico nello stesso tempo, con occhio disincantato, fuori dagli avvenimenti, li vede mutare, li vede sfuggire dal di lui controllo e, suo malgrado, è del tutto incapace di adeguarvisi. «(…) è meglio il male certo che il bene non sperimentato (…)» scrive l’autore, facendo suo, un proverbio millenario nel momento in cui il protagonista vota affermativamente per il plebiscito di annessione al Regno d’Italia, e ciò con stupore generale della gente di Donnafugata, restia a ratificare, sia per ragioni personali, sia che per fede religiosa, sia anche per aver ricevuto immensi favori dal passato regime. Questa gente effettuò un viaggio “ad limina Gattopardorum” in quanto stimava impossibile che un Principe di Salina, Pari del Regno delle Due Sicilie, potesse votare in favore di quella che la gente denominava Rivoluzione.
Don Fabrizio, dall’alto del suo palazzo segue, altresì, con benevolenza, velata da un’amara ironia (ed allo stesso tempo si accorge che sta invecchiando: il suo “fluido vitale” non c’è più), la deliziosa storia d’amore tra suo nipote Tancredi Falconeri, combattente garibaldino, ed Angelica, figlia di don Calogero Sedara, Sindaco di Donnafugata, rappresentante della “nuova gente”.
A tal proposito, particolare fu la reazione del Principe di Salina nel vedere salire le scale del suo palazzo di Donnafugata, il detto don Calogero in frac, e ciò nel corso del pranzo d’inizio della villeggiatura, nel quale il Principe era semplicemente vestito con un abito da pomeriggio. Scrive il Tomasi: «(…) Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia» (del frac di don Calogero) «fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala». Praticamente don Fabrizio, massimo proprietario del feudo, si sentiva più come tale, ma fu costretto, dagli eventi della Rivoluzione, a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato in abito da sera.
Tutto codesto evolversi di fatti e situazioni, ben descritte e particolareggiate dal Tomasi, ha il suo epilogo nel ballo ove il protagonista, consumando un valzer con Angelica, si accorge più che mai del suo tramonto, di essere corroso da un tragico senso della morte e praticamente esce di scena. Tutta l’opera fu scritta di getto, ma la dovizia di particolari a cui l’Autore si è dedicato con paziente attenzione è segno che egli sentiva quel “mondo” più che suo.
[caption id="attachment_9166" align="aligncenter" width="1000"] Il Gattopardo è un romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore. L'autore trasse ispirazione da vicende storiche della sua famiglia, gli aristocratici Tomasi di Lampedusa, e in particolare dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi (nell'opera il principe Fabrizio Salina), vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Per il tema trattato è spesso considerato un romanzo storico, benché non ne soddisfi tutti i canoni.[/caption]
La figura del gesuita padre Pirrone, cappellano della Casa, il cane Benedicò, gli oggetti dell’arredamento, le figlie del principe, la tiepida e religiosa moglie, i periodi di villeggiatura (da agosto a novembre) in campagna ed a caccia in Donnafugata, con l’organista della chiesa, don Ciccio Tumeo.
Opera meditata a lungo, dunque, se pur scritta, anzi manoscritta, di getto, come si diceva poc’anzi. E’ più che lecito ritenere che la morte del Tomasi abbia impedito del tutto quel lavoro di revisione e di limatura che sarebbe valso a “Il Gattopardo” un carattere di maggior compiutezza.
Il romanzo apparve nell’autunno 1958 (dopo il rifiuto di Elio Vittorini per la Mondadori), a cura dello scrittore bolognese, ma ferrarese di adozione - città di antiche e feconde tradizioni, attraverso i secoli, di letterati, di poeti, di artisti, di politici, di giornalisti - Giorgio Bassani – al quale pervenne, a sua volta, da Elena Croce - e la compiutezza, nonché correttezza dell’edizione non venne messa in discussione fino al 1968, quando si riscontrarono centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. La questione era già stata sollevata da Francesco Orlando, docente di teoria e tecnica del romanzo alla Scuola Normale di Pisa, nel suo “Ricordo di Lampedusa” (1962) (pag. 82).
Infatti, come commenta quest’ultimo, tre sono le stesure dell’opera, e precisamente: una prima stesura manoscritta e raccolta in più quaderni (1955-1956); una seconda stesura dattiloscritta da Orlando e corretta dall’Autore (1956), ed, infine, una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: “Il Gattopardo (completo)”. Si è adottato la dizione “parti”, anziché capitoli, perché così volle il Tomasi nell’indice analitico. Infatti ogni sezione dell’opera è propriamente una parte, «cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della condizione siciliana», come limpidamente scrive Gioacchino Lanza Tomasi nella premessa dell’edizione dell’opera del 1969.
Infatti le otto parti in cui è composto il romanzo potrebbero tranquillamente essere a se stanti in quanto è come se ognuna iniziasse e terminasse l’illustrazione di un quadro.
Lo straordinario interesse del romanzo non sta tanto nella trama, che poi, come abbiamo visto, è la biografia del Principe di Salina, quanto piuttosto nel ricco e sottile gioco della complicata realtà interiore del protagonista, che nella finissima arte del Tomasi trova una limpida rappresentazione. Don Fabrizio - singolare temperamento, nel quale l’orgoglio e l’intellettualismo ereditati dalla madre, nobile tedesca, si scontrano in perpetuo con la sensualità e la fiacchezza ricevute in eredità dal padre – assiste inerte alla rovina del proprio ceto ed al sorgere, come si è detto poc’anzi, di una nuova classe sociale.
Il motivo della “nobiltà in sfacelo” non viene intonato a patetico rimpianto per un mondo che scompare, che viene meno, che si sfalda, così ben svolto in lirica contemplazione dell’inarrestabile fluire, perire e mutare delle cose: quel vedere andar tutto “alla deriva nei meandri” come scrive il Lampedusa “del lento fiume pragmatistico siciliano”. Peraltro la vena alquanto lirica del Tomasi trova un sapiente contrappunto in una costante venatura umoristica, la quale si ramifica per tutta l’opera, quasi elemento equilibratore ed argine all’arido ed invadente scetticismo del protagonista. Scetticismo che, quando inaridisca e non bruci entro di sé la consistenza fantastica della pagina, trova, in quel sorriso, una giustificazione ed un suo pungente limite.
Nel bisavo Giulio Tomasi di Lampedusa, alias don Fabrizio Corbèra, sembra quasi che ritroviamo il medesimo Autore, uomo aperto ai problemi ed alle complicazioni spirituali del nostro tempo, il quale nella sua realtà - alla conclusione di un ciclo storico, che è la Seconda Guerra Mondiale - crede di veder confermata la tesi del fallimento, sul piano sociale e politico del Risorgimento Italiano, che, con particolare arguzia definì «una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca» soprattutto riguardo al sempre attuale problema del Sud d’Italia. Fallimento, d’altronde, insito nel destino d’una regione e d’una gente antichissima e di antiche tradizioni.
La continuità/immedesimazione Corbèra/Tomasi, la quale, nei momenti migliori, si risolve in un gioco di psicologici scambi e di magiche dissolvenze, direi quasi, entro cui passato e futuro vengono liricamente annullati, si infrange nel momento in cui il Tomasi di Lampedusa balza bruscamente, quasi come un anacoluto, in primo piano con polemiche digressioni. E ciò è un altro recondito aspetto de “Il Gattopardo” che ha contribuito a farlo qualificare “saggistico”.
Come quando l’Autore esprime il suo amaro giudizio sulle conseguenze di quella “nottata di vento lercio”, cioè la nottata dei risultati dell’addomesticato plebiscito, nel corso della quale nel borgo di Donnafugata era nata l’Italia, ma era stata uccisa la “buonafede” dei Siciliani, ad opera di quello «stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata».
[caption id="attachment_9168" align="aligncenter" width="1000"] Il Gattopardo è un film drammatico colossal del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. La figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).[/caption]
Al momento storico (la piccola storia fatta di piccoli uomini) si avvicenda il più vasto motivo del fermo, eterno ed “indifferente” fluire del mitico tempo siciliano. Nell'ambiente, nel clima, nel medesimo “sole siciliano”, si direbbe che quella indifferenza trovi una mostruosa e drammatica ipostasi, nel senso della Trinità: «apparve l’aspetto della vera Sicilia (…) un’aridità ondulante all’infinito (…)»; «ondulazioni di un solo colore, deserte come disperazione», «Il sole narcotizzante (…) annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni».
Codesta è una tensione costante, che trova il suo centro propulsore nella natura del protagonista, e cioè a riportare ad una sua visione interna i dati concretissimi della realtà esterna, la quale assume i riverberi e le tonalità della sostanza spirituale di don Fabrizio. E’ più spesso la realtà sensibile ad aprirsi, con le sue violente suggestioni, dei varchi fin dentro le “zone non coscienti” del protagonista, con il suggerire certe lugubri fantasie che lasciano in fondo al suo animo “un sentimento di lutto”. Ecco quindi il pessimismo dell’autore, con il tema della morte che è uno dei più fecondi delle sue ispirazioni. La coerenza fantastica del romanzo va ricercata appunto nel motivo lirico della morte, o meglio, del desolato motivo d’origine esistenziale "dell’essere per la morte”.
E qui desidero precisare che la lirica conclusione del romanzo non si ravvisa tanto nella “parte”, la settima, della morte di don Fabrizio (nel 1883, invece il bisavo del Tomasi morì nel 1885) - con quell’incontro con la donna simbolo della fredda realtà stellare e con quell’assunzione in una patria iperurania del “puro calcolo” che sembrano un’astratta e metafisica soluzione, poeticamente sterile ed arbitraria – ma bensì nella “parte ottava” che rappresenta un desolato prolungamento (fino al 1910) della terrena esistenza del Principe di Salina, il cui fluido vitale va lentamente e stancamente esaurendosi nelle tre figlie superstiti, finché tutto trova pace «in un mucchietto di polvere livida».
E’ proprio qui che poeticamente si risolve il sentimento di quella “compiaciuta attesa del nulla” che domina tutto il libro. Analizziamo, per sommi capi, la figura di don Fabrizio.
Scrive il Tomasi di Lampedusa, don Fabrizio era “immenso e fortissimo”. Egli è per parte di madre erede di un’antica dinastia tedesca. La carnagione lattea ed i capelli biondo miele, segno evidente di questa discendenza, non ne rappresentano però l’aspetto più profondo, che invece riguarda il temperamento. Autoritario ed incorruttibile, orgoglioso difensore delle tradizioni e del proprio casato ma anche aperto alla scienza e singolarmente incline alle matematiche, apprezzato astronomo ed addirittura scopritore di due piccoli pianeti (il bisavo dell’Autore era un astronomo). Il Principe deve conciliare la sua anima germanica con la sensualità superficiale ed impulsiva, la facile irritabilità ed il disfattismo fatalista che gli vengono dal padre. Don Fabrizio è ironico e pessimista “in perpetuo scontento”, osserva, come abbiamo accennato, con inquietudine ed indolenza la rovina che sta per travolgere i privilegi della sua classe e la consistenza del suo patrimonio. Egli si considera l’ultimo Gattopardo.
L’ultima personificazione dell’araldico animale che campeggia nell’azzurro stemma della sua famiglia. Dopo di lui banali logiche di mercato stravolgeranno il senso medesimo dell’aristocrazia trasformandola in un vuoto decoro, utile forse ad agevolare carriere borghesi.
Il rifiuto che il principe oppone al nobile piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo, giunto da Torino con l’incarico di offrirgli il laticlavio di Senatore del Regno d’Italia, non è un gesto di orgoglio, ma la disperata fedeltà alle proprie radici, alle proprie tradizioni, al carattere dei siciliani, alla propria, ormai disillusa, “decenza” morale, perché, dice il Principe: «(…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: (…) ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza». Dice padre Pirrone al Principe: «Senatores boni viri, senatus autem mala bestia».
La grandezza, ma anche l’originalità del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sta nel fatto della immensa cultura dell’Autore.
Infatti il suo leggere, il suo documentarsi quasi quotidianamente lo spinsero a rivedere gli sciapi, ma veri diari dell’avo Giuseppe (1838-1908), il quale amava annotare la giornata incorniciata da rosari (il romanzo inizia con la quotidiana recita del Santo Rosario) e pratiche di devozione.
E qui nasce il naturale raffronto fra “Il Gattopardo” e “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, che descrivono effettivamente una civiltà al tramonto. Ma il Lampedusa, come scrive il Lanza Tomasi: «fa suonare il campanello di allarme non appena la volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di sembrare, mentre Nievo puo’ abbandonarsi alla retorica della patria e dell’amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande cittadino veneto e un cattivo italiano; Lampedusa stava all’erta di non esserlo mai».
In Ippolito Nievo ed in Giuseppe Tomasi di Lampedusa i loro racconti, entrambi altamente biografici, si rifanno alle impressioni ed alle annotazioni dei loro avi.
Altro raffronto con il romanzo storico lo possiamo comodamente e tranquillamente trovare ne “I Viceré” di Federico de Roberto, romanzo anch’esso che narra il trapasso dal Regno delle Due Sicilie a quello d’Italia, ponendo in risalto i problemi politici e sociali della Sicilia, raccontando le vicende di una famiglia dell’alta aristocrazia siciliana di origine spagnola (anche don Fabrizio lo era) gli Uzeda, i cui componenti, con il mutare delle generazioni e delle circostanze, continuano a distinguersi per alcune sinistre caratteristiche, come l’egoismo, la prepotenza e l’avidità.
Ma tutto ciò non c’è ne “Il Gattopardo”, ove don Fabrizio è tutt’altro che egoista, prepotente ed avido. Forse un larvato egoismo, ma misto all’invidia, lo troviamo in Concetta, la figlia maggiore di don Fabrizio, innamorata da sempre del cugino Tancredi, la quale non accetterà mai l’unione di quest’ultimo con Angelica.
La vicenda descritta ne “Il Gattopardo” può, a prima vista, far pensare che si tratti di un romanzo storico. Il Tomasi ha sicuramente tenuto presente, come abbiamo visto poc’anzi , una tradizione narrativa siciliana (la novella “Libertà” di Giovanni Verga, “I Viceré” del de Roberto e la novella “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito in Sicilia, dove erano vive le speranze di un profondo rinnovamento).
Ma mentre de Roberto è, senza dubbio, per codesta tematica il più significativo, indagando le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, il Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che “in extremis” si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che fosse il modo migliore perché tutto restasse com’era.
[caption id="attachment_9185" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Donnafugata si trova nel territorio del comune di Ragusa, a circa 15 chilometri dalla città. L'attuale costruzione, al contrario di quanto il nome possa far pensare, è una sontuosa dimora nobiliare del tardo '800. La dimora sovrastava quelli che erano i possedimenti della ricca famiglia Arezzo De Spuches. Fin dall'arrivo il castello rivela la sua sontuosità: l'edificio copre un'area di circa 2500 metri quadrati ed un'ampia facciata in stile neogotico, coronata da due torri laterali accoglie i visitatori.[/caption]
Questa rappresentazione è naturalmente ristretta, per la prospettiva da cui è descritta. Restano fuori dal romanzo molti eventi importanti (per esempio la rivolta dei contadini di Bronte del 2 agosto 1860, stroncata da Nino Bixio e descritta dal Verga). Da questo punto di vista quindi le mancanze de “Il Gattopardo” quale romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti. Scrive il giornalista ed uomo politico Mario Alicata: «Una cosa è cercare di comprendere come e perché si affermò nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un’altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi (coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole “tout court”)».
E quindi l’originalità del valore de “Il Gattopardo” va ricercata al di fuori della prospettiva del romanzo storico. Nell’avviarmi alla conclusione, mi sia concesso di citare alcuni tratti del romanzo.
L’arrivo del Principe e della sua famiglia a Donnafugata era considerata una festa per l’antico borgo. Ed è bellissimo quello che scrive il Tomasi al riguardo: «(…) perché i villici di Donnafugata non avevano nulla contro i loro tollerante signore, che così spesso dimenticava di esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, avvezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima alle fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano curiosi di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire a tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese. “Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima anzi».
Il non riuscire ad adeguarsi alla nuova situazione da parte di don Fabrizio è limpidamente dipinto dal Tomasi nel seguente passo: «(…) le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa».
Ed infine, la splendida, ma amara conclusione della “parte settima”, cioè la morte del Principe di Salina: «(…) [la morte] era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto». Ed il romanzo è tutto qui. I pensieri del Principe di Salina oscillano nel corso dell’opera tra “έρως” e “θάνατος”, amore e morte.
Nel romanzo esistono anche tratti pieni di curiosità: L’ultima “parte”, "l’ottava”, ambientata a Villa Salina nel maggio 1910, esattamente mezzo secolo dopo, la “prima parte”, con protagoniste le tre figlie sopravvissute al Principe, rimaste nubili. Fatto centrale di tale parte è la visita alla villa del Cardinale di Palermo, del quale il Tomasi scrive «(…) era davvero un sant’uomo;». Nell’affermare ciò, l’Autore si è sicuramente ispirato al suo antenato, Giuseppe Maria Tomasi (1649-1713), sacerdote dell’Ordine dei Teatini, cardinale di Santa Romana Chiesa, beatificato nel 1803, canonizzato da San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla, 1920-2005) il 12 ottobre 1986 e sepolto nella Chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Il Lampedusa nell’affermare la santità del cardinale, auspicava sicuramente la canonizzazione del suo antenato.
Tra le numerosissime recensioni al romanzo, è molto interessante quella del padre gesuita Giuseppe de Rosa sulla rivista dell’Ordine “Civiltà Cattolica” dell’aprile 1959. E’ una recensione molto ampia [ben quattordici (14) pagine] che tocca, oltre a quello morale e religioso, molti altri aspetti dell’opera. E’ un libro “bellissimo” ma che merita di «richiamare l’attenzione per i problemi umani che offre alla nostra meditazione».
Quindi il de Rosa analizzando la semplicità della trama, sviluppa il suo discorso critico partendo da una distinzione già effettuata dagli altri numerosi recensori, tra lo sfondo storico (“il tema che potremmo chiamare sociale”) e le meditazioni del protagonista (“il tema della morte”). Anche se entrambi in tutto questo don Fabrizio è “il portavoce dell’autore”. Non sappiamo nulla dei sentimenti intimi religiosi del Tomasi: «ma il Gattopardo non lo rivela un credente», ma «visibilmente un figlio della sua epoca, incredula e liberaleggiante in fatto di religione».
Infine, scrive Giorgio Bassani, nell’introduzione del romanzo del 1958: «(…) ampiezza di visione storica unita a un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso; delizioso senso dell’umorismo; autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incantevoli, realizzazione espressiva: tutto ciò (…) fa di questo romanzo un’opera d’eccezione. Una di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si prepara per tutta una vita».
Il romanzo ebbe anche la sua fortuna con il regista Luchino Visconti (1906-1976), il quale, nel 1963, ne trasse un vero ed autentico capolavoro di arte cinematografica.
Da poco la Feltrinelli ha dato alle stampe una nuova edizione del romanzo, sempre a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, con una più ampia introduzione, una parte inedita e delle poesie attribuite a Don Fabrizio ed a Padre Pirrone.
Filo conduttore dell’opera, come abbiamo visto, è la massima di Tancredi «(…) se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». E’, quindi, una spietata analisi del Risorgimento, accettato dall’aristocrazia siciliana nel senso di detta massima. Ed infatti come si fa a sradicare un popolo ed una terra da antiche tradizioni ed usi con superficiali avvenimenti imposti in un momento di generale turbamento? Se si vuole veramente cambiare, si deve procedere con attenzione e cautela, ed allora si avrà l’adeguamento necessario. Quindi solo chi conosce bene queste tradizioni ed usi puo’, restando dove il destino lo ha giustamente collocato, cambiare ed adeguare certi valori alla realtà (ogni riferimento alla odierna situazione italiana e del tutto “puramente casuale”).
Tutto questo ne “Il Gattopardo”, attualissimo sempre per chi voglia leggerlo o chi desideri leggerlo nuovamente, è dipinto in maniera magistrale e nulla viene meno all’intreccio ed al romanzo tanto cari a tutta la narrativa europea del secolo XIX. Le immagini offerte della Sicilia narrata sono vive, animate da uno spirito alacre e modernissimo, anche se ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea; tutto ciò risente dei canoni e dei modelli del romanzo moderno da Proust in poi.
Se si richiede di tornare alle vere tradizioni, quindi, non è per nostalgismo, ma per attuare un vero mutamento, si deve provare questa "forza del passato" per un futuro più costruttivo e migliore. Se ciascuno di noi potesse si sforzasse di compiere codesto pensiero, la lezione de “Il Gattopardo” sarebbe ben compresa e sempre animata da uno spirito costruttivo e degno della nostra nobile indole.
Ecco la vitalità e la vivacità dell’opera, la quale oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, rimane sempre un'opera educativa. Forse questo voleva intendere Giuseppe Tomasi di Lampedusa per le nuove generazioni, le quali tendono a costruire un futuro senza conoscere le tradizioni, la saggezza e la moralità di chi fu prima di noi.
 
 Per approfondimenti:
_Tomasi di Lampedua, "Il Gattopardo" - Edizioni Feltrinelli
_Maria Antonietta Ferrarolo, "Tomasi di Lampedusa e i luoghi del Gattopardo" - Edizioni Pacini
_Maria Antonietta Ferrarolo, "L'opera-orologio. Saggi sul Gattopardo" - Edizioni Pacini
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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10 Giugno 2017 – Libreria Rinascita – Piazza Roma n°7, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Arch.Giuseppe Baiocchi
Saluti: Arch.Valeriano Vallesi
Interviene: Arch.Rosario Pavia
 

L’urbanista Rosario Pavia ha dissertato sul “Waterfornt” come infrastruttura ambientale. Ripartire – per le città costiere – da un riuso urbano di tutti quei manufatti esistenti sulla zona litoranea italiana e non svolgere continue riqualificazioni interne alla costa che non svolgono un vero ricongiungimento del tessuto urbano tra territorio e costa, con quest’ultima spesso isolata. Forse è giunto il momento di accettare fino in fondo questa condizione di conflitto, resa ancora più difficile dalla crisi finanziaria che frena sia gli investimenti infrastrutturali dei porti sia quelli di riqualificazione urbana. L’associazione ringrazia l’Assemblea legislativa delle Marche per aver finanziato il progetto delle due giornate di Studi su “La Forma della città” e “Ri-Costruire la città”.

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Nell’epoca del nichilismo più radicale e consolidato, l’uomo nel suo impatto con l’essere trova il dispersivo senso di vuoto, poiché non potendo disporre di punti di riferimento scelti e individuati secondo inclinazione, si ritrova ad essere oggetto di una logica pervasiva che sceglie al posto suo. Tale logica pone le sue radici in un processo storico, che oggi converte l’inclinazione pulsionale dell’individuo in arido asservimento di fronte a una forzata settorializzazione del lavoro, che a sua volta settorializza le scelte dell’uomo non permettendogli di rispondere a una domanda interiore su una ipotetica larga scala di possibilità, ma ponendolo in una condizione tale in cui si perde l’autenticità di qualsiasi scelta che sarà inconsapevolmente veicolata dai limiti posti dall’ odierna realtà.
La scrittrice francese Simone Adolphine Weil,  negli anni ’30 del Secolo passato, filosofa e attivista impegnata a tal punto da abbandonare la sua professione di insegnante e studiosa e entrar a lavorare come operaia alla Renault di Parigi, attraverso le sue a-sistematiche analisi della realtà pose in rilievo, parallelamente allo sviluppo dell’economia, il metodo di sviluppo della settorializzazione lavorativa e l'analisi della mancata variazione delle condizioni dell'uomo sul lavoro.
[caption id="attachment_9142" align="aligncenter" width="1000"] Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l'insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all'impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.[/caption]
Gli anni in cui opera Simon Weil, si configurano come lontani soltanto per categorie di interpretazione e temporalità, ma nello specifico risultano essere le radici della realtà, la quale progressivamente è andata sviluppandosi arrivando alla contemporaneità. La nostra realtà - parafrasando Nietzsche risulta essere quella di un nichilismo radicale -, ingloba nella sua essenza capitalistica i destini dei singoli individui, che non hanno inconsapevolmente nessun potere decisionale di fronte allo scegliere sul sé individuale. Oggi i limiti del possibile sono veicolati dall’economia, intesa non come spiegazione di processi che portano al progresso o al regresso di una nazione, ma intesa come “ideologia” che veda come unico scopo la mercificazione di tutto per una finalità unica che è l’accumulo di denaro.
Tale finalità intesa come unica e sola non può ammettere certamente il concetto di auto gratificazione che l’individuo vivrebbe nel momento in cui fosse posto nelle condizioni di scegliere una qualsiasi posizione che si adatti alle sue inclinazioni, poiché in questo caso sarebbe possibile scindere la felicità scaturita dalla bellezza di ciò in cui ci si impegna lavorando e la felicità derivata dal guadagno finale.
Il sistema di cui siamo individui costituenti non permette questa scissione, dato che il progresso della tecnologia misto a quella forma di economia aberrante promuove le tesi di un capitalismo che - nell’ottica di Simone Weil -, pone l’uomo in una condizione incontrollata di asservimento a un qualcosa di normalizzato e imposto. Un esempio tangibile potrebbe risiedere nelle Università, le quali oggi sono scelte in base a ciò che per l’individuo, ragazzo o adulto che sia, sembra più conveniente ai fini di una “sicurezza” nella propria collocazione futura.
L’annientamento pulsionale viene normalizzato plagiando l’individuo verso l’idea che soltanto alcune tra le scelte possibili, siano le giuste e adeguate: l’uscir fuori dai dettami di un sistema imposto renderebbe l'individuo come "diverso" e lo porrebbe come estraneo agli occhi di una collettività cieca. E’ proprio su questo contesto che si dipana la contrapposizione tra campi scientifici e campi umanistici, che vede in auge i primi a discapito dei secondi. Simone Weil , a suo tempo, nello scontro effettivo e pratico con il lavoro, quasi come se fosse una ricerca antropologica sul campo, lavorando all’interno della Renault, comprese come l’individuo gettato dentro quelle fabbriche non avesse la possibilità di sovvertire un sistema che lo schiacciava, sulla scia di questa alienazione definì la società come una macchina, la quale nella sua essenza comprime il cuore dell’individuo.
Sulla scia di tale lezione e alla luce della comprensione delle contraddizioni della nostra realtà, non possiamo che ri-definire l’odierna società nello stesso modo in cui a suo tempo la definì la Weil, poiché oggi non c’è spazio per il cuore, non c’è spazio per le inclinazioni, non c’è spazio per le passioni autentiche, ma bisogna sopperire alla datità oggettiva di un sistema che gioca su un unico perno che è, per come direbbe Edmund Husserl, la prosperity.
Quest’ultimo, un concetto che rappresenta in un’unica parola questo unico fine che gli individui difendono accuratamente tramutando il denaro da mezzo per lo stare al mondo a un fine unilaterale, sotto il quale tutto diventa sovrastruttura dipendente. Ma tuttavia , nelle parole e nelle analisi di Simone Weil, nonostante vi fosse questa idea che l’uomo non avesse prospettive di miglioramento della propria condizione, si potrebbe inserire l’idea che un testamento, in fondo, sia stato lasciato all’umanità. Un testamento da approfondire accuratamente, attraverso una comprensione che passa tramite l'analisi dell’uomo stesso, il quale viene sottomesso al giogo di un potere, difatti la Weil a suo tempo non riuscì a vedere nessuna prospettiva di miglioramento delle condizioni lavorative di quegli impiegati nelle fabbriche della Renault. Di contro la scrittrice non sta asserendo che non si debba combattere, dato l’abbattimento della legittimità nell'avere i diritti, ma esorta a disertare il concetto di asservimento in forma implicita.
Un asservimento, che deve essere combattuto in ogni forma, nella speranza che possa mutare - dal lavoro senza sosta degli operai degli anni ‘30 - verso l’imposizione gratuita di una scelta, di fronte a un percorso universitario da iniziare.
Tale procedura non deve essere percepita e acquisita come tale , ma di contro deve risultare come quella forza che spinge il vitalismo dell'antropologia umana. Nel combattere bisogna far penetrare e rendere visibile chi siamo, mettendo in gioco pulsioni e inclinazioni, così da rendere inerme ogni forma di sopore imposta. Per concludere riprendo le parole del grande Albert Camus: “mi rivolto dunque sono”.
 
 Per approfondimenti:
_Simone Weil, acuta e lucida interprete della realtà e delle sue contraddizioni, attraverso le sue teorie risulta difficile collocarla all’interno di canoniche correnti filosofiche;
_G. Fornero e S. Tassinari, “Le filosofie del Novecento” - Edizioni Bruno Mondadori, Milano;
_Edmund Husserl, “la crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendetale” - Edizioni il Saggiatore, Milano;
_Albert Camus, “l’uomo in rivolta”, Edizioni Bompiani, Milano, 1951.
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