[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1653301199670{padding-bottom: 15px !important;}"]64°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Intelligenza artificiale: fra tecnica ed etica nel contemporaneo. Emanuele Frontoni[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1653302008436{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il 64° EVENTO DAS ANDERE, svoltosi sabato 21-05-2022, alle ore 18:00 presso Palazzo dei capitani ed avente titolo "Intelligenza artificiale: fra tecnica ed etica nel contemporaneo" è stato introdotto dall'Arch. Marica Rella e moderato dal consigliere Diego Della Valle ed ha visto come ospite il Prof. Emanuele Frontoni. La giornata ha visto i saluti istituzionali della dott.ssa Patrizia Petracci, presidente della Commissione cultura del consiglio comunale.
L'intelligenza artificiale, nata in America nel 1956, stupisce il mondo intero già nel 1977, quando ad un confronto agli scacchi batte l'allora campione del mondo Garry Kasparov: l'Intelligenza Artificiale da allora si è evoluta ad una velocità tale da cambiare in modo sostanziale la nostra quotidianità. Dalla medicina all'agricoltura, dalla sorveglianza sociale alla finanza, la sua evoluzione ci induce a riflessioni e decisioni dalle quali potrebbero svilupparsi cambiamenti culturali e sociali di marcate proporzioni.
Il Professor Emanuele Frontoni, Professore Ordinario all'Università di Macerata e co-Director del Vision, Robotics e Artificial Intelligence Lab dell'Università Politecnica delle Marche ci aiuterà a scoprire i sorprendenti traguardi raggiunti dall'I.A. nel nostro operoso territorio.
 
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1650893091332{padding-bottom: 15px !important;}"]63°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Luce e Architettura. L'illuminazione dello spazio architettonico. Federica Cammarota[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1650896405345{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 23-04-2022 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo - 63100 Ascoli Piceno) il 63°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite la dott.ssa Federica Cammarota, la quale ha dissertato sul significato tecnico e valoriale della progettazione riguardante l'illuminazione. L'evento "Luce e Architettura. L'illuminazione dello spazio architettonico" è stato presentato da Giacomo De Angelis e moderato dall'arch. e presidente Giuseppe Baiocchi. L'incontro ha visto la presenza del consigliere comunale avv.Emidio Premici.
La lezione si è incentrata sulle tematiche della tecnologia LED, degli scenari luminosi, delle modalità di progettazione della luce e sul consumo energetico. Gli esempi dei lavori effettuati dalla lighting designer Cammarota hanno infine consolidato la discussione che ha suscitato un bellissimo dibattito finale. L'associazione Das Andere, ringrazia l'Ordine degli Architetti per il patrocinio all'evento.
Come la Cammarota ha rimarcato durante la sua Lectio Magistralis: «La progettazione della luce negli ultimi anni, e in particolare con l’avvento dell’illuminazione LED, ha subito una profonda trasformazione con la specializzazione della disciplina che sempre più gestisce la creazione di atmosfere luminose più che dei punti luce, e lo sta facendo attraverso la creazione di vere e proprie esperienze, e con l’utilizzo di dettagli luminosi sempre più minuziosi e di nuove tecnologie.

L’uomo, come visitatore e fruitore dello spazio, è sempre al centro del progetto della luce, sia in riferimento alla luce funzionale che in riferimento all’illuminazione emotiva, quindi progettata per avere effetto sulla percezione degli spazi, anche quando la luce va a celebrare prevalentemente l’architettura, il visitatore resta comunque al centro della scena: stupore, curiosità, raccoglimento, entusiasmo o esaltazione, sono tutte emozioni che vengono provocate nel visitatore attraverso la narrazione e la valorizzazione di un concept luminoso che può riprendere, enfatizzandolo, o ampliare, arricchendolo, il concept architettonico.

Contemporaneamente, quella stessa tecnologia LED che permette la creazione di scenari luminosi anche estremamente complessi, viene oggi utilizzata al fine di ridurre il consumo energetico. I consumi LED sono infatti talmente bassi rispetto alle fonti luminose alogene e precedenti, che oggi è possibile incrementare di molto gli effetti luminosi e le atmosfere negli spazi - spesso molteplici e programmabili - mantenendo comunque un notevole risparmio energetico, come può avvenire ad esempio convertendo uno spazio architettonico datato o creandone uno nuovo.

Così come con tutte le tecnologie, anche nel caso dell’illuminazione la vera arte non sta nello sfrenato utilizzo delle nuove fonti di illuminazione, né in termini quantitativi che qualitativi, ma nel saperle usare con il fine di comunicare e di esprimere delle identità architettoniche e culturali mai uguali tra loro».

 
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1648861804389{padding-bottom: 15px !important;}"]Tintin l’avventuriero belga creato dall’arte di Hergé[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 02-04-2022[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1655166715937{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il treno di periferia che, partito da Bruxelles, vi sbarca a Louvain-la-Neuve contiene già tutti gli elementi di un’immagine di Tintin. Né arcaico, né futurista, è semplicemente senza età: consumato dall’uso, modesto, mantenuto in buono stato e insolitamente pittoresco rispetto alla timida estetica belga. Ci si aspetta di veder spuntare un capostazione alla Hergé: grassottello, berretto in testa e fischietto tra i baffi, su sottofondo di una canzone di Charles Trenet. Poi le pareti rosso mattone di una serie di casamenti tutti uguali – residenze studentesche, qualche negozio – intrecciati nel verde, cinque minuti a piedi su un camminamento liscio ed è già ora di imbarcarsi. Ed eccoci giunti sul binario d’imbarco. Louvain-la-Neuve, nuova città universitaria creata nel Brabante Vallone dopo la disputa linguistica del 1967-68 che costrinse gli studenti francofoni ad abbandonare l’antica università di Louvain-Leuwen (ad una trentina di km dalle Fiandre), è stata edificata sull’ampia piattaforma che copre un parcheggio e alcune vie di scorrimento.
[caption id="attachment_12699" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Georges Remi e suo fratello minore Paul nel 1918; Gli scout di Saint-Boniface a Thusis; Periplo in Germania con i "routiers" di Saint Boniface nel settembre del 1929.[/caption]
Qui sorge il museo di Hergé dedicato a Georges Prosper Remi (1907 - 83) il fumettista creatore di uno dei più grandi fumetti europei: Tintin. Ma come ha fatto un semplice ketje , nato belga sotto l’imperioso scettro e la non meno imperiosa barba di Leopoldo II detto “il congolese”, a diventare in settantasei anni uno dei fari del XX secolo? Come ha fatto un piccolo boy-scout pasticcione, il cui solo merito era di avere una certa mano nel disegno, a imporsi quasi suo malgrado attraverso il fumetto come un genio dell’eterna infanzia e dell’arte moderna, oggi riconosciuto degno di un museo alla sua gloria? Cosa ha trasformato Georges Remi l’oscuro in Hergé il chiaro?
La storia inizia alle 7.30 del 22 maggio 1907 a Etterbeek, comune limitrofo di Bruxelles. In casa di Alexis Remi, 24 anni, che lavorava nelle confezioni sartoriali, e di Elisabeth Dufour, 25 anni, casalinga – lui vallone, lei fiamminga – nasce il primo figlio, battezzato con il nome di Georges-Prosper, detto Georges. Remi Georges: che il lettore non dimentichi queste iniziali.
Niente sorride al bambino. Non i genitori, scialbi e convenzionali piccoli borghesi di un regno industrioso, e meno ancora l’avvenire, chiuso come il cielo basso del loro “plat pays”. Ma Georges si impegna: è un ragazzino obbediente e studioso ma, soprattutto, ha una smodata passione per il disegno, fonte di evasione e di ammirazione da parte dei compagni. I piedi tra le scorie e il naso tra le stelle, non per niente il “surrealismo” è un minerale nativo nel Belgio di Magritte. I quaderni dello scolaro si coprono di schizzo che rappresentano per lo più dei soldati – la Prima Guerra Mondiale è scoppiata quando aveva sette anni.
La seconda, e decisiva, nascita di Georges Remi si colloca nel 1921, quando entra tra i boy-scout della scuola media Saint-Boniface dove è stato ammesso in quinta moderna. Messosi in luce per le sue doti di “bravo ragazzo” elegante, cortese e che sa sbrogliarsela, diventa capopattuglia degli Scoiattoli con il nome di Volpe Curiosa. Nonostante i valori cattolici del suo ambiente, il prode movimento giovanile recentemente fondato da Robert Baden-Powell lo apre al vasto mondo dove il sogno e l’avventura sono finalmente permessi. «Lo scoutismo è la resurrezione in pieno XX secolo dell’antico ideale della cavalleria cristiana» affermava il generale appena dieci anni dopo: il riferimento cattolico è a quel tempo una sorta di marchio di resistenza in una società troppo vicina geograficamente al dramma russo, reduce della rivoluzione bolscevica del 1917.
I campi estivi portano Volpe Curiosa e la sua truppa in Italia, Svizzera, Austria, Spagna. Questi Paesi di un’Europa vista finora solo sui libri di geografia sono già l’estero per il giovane brussellese che fantastica di lontani orizzonti. Per raggiungere di più esotici dovrà ricorrere all’immaginario. Fin dai suoi inizi infantili Georges Remi si è servito del disegno per raccontare delle storie. La sua immaginazione da feuilleton trovava un naturale sfogo nella punta della matita e mentre cominciavano a uscire i primi giornalini illustrati per ragazzi lui si era inventato una casareccia arte del racconto a immagini fisse, ma concatenate, animate dal lettore grazie alla prodigiosa macchina da ellissi costituita dall’intervallo bianco che le separava e insieme le univa. Un’arte già «sonora» grazie alla nuvoletta del fumetto che per il momento serviva solo a esprimere la sorpresa (un punto esclamativo) o la perplessità (un punto interrogativo). Nel 1921 L’Epatant pubblica a disegni le avventure di Charlot, uno degli idoli dell’adolescente affascinato dai primi balbetii del cinema, peraltro ancora muto.
È questo il talento che i boy-scout scoprono in Georges per sfruttarlo ne Le Boyscout belge, rivista mensile del movimento. A partire dal 1924 il giovane disegnatore firma le illustrazioni «Hergé» (dalle iniziali G.R. invertite). Hergé ha diciannove anni quando, nel luglio 1926, compone il suo primo fumetto per il giornale scout: Les Extraordinaires aventures de Totor, C.P. des Hannetons, presentato come un “grande film comico” della presunta compagnia “United Rovers”. Le ventisei tavole, dalle vignette classicamente sottotitolate ma già con, qua e là, qualche fumetto esclamativo, vorrebbero in effetti essere un «film di carta» che rispecchia goffamente la passione di Georges per le comiche e i western americani che va regolarmente a vedere con la madre nei primi cinema aperti a Bruxelles. Totor, l’eroe dal viso rotondo contrassegnato da due punti per gli occhi e da una virgola per il naso, ha sulla fronte una ciocca spiaccicata che sembra aspettare solo un colpo di vento per drizzarsi a ciuffo. L’anno precedente Hergé si è inserito nella vita attiva. Lavora al servizio abbonamenti del quotidiano Le Vingtième Siècle. Un giornale conservatore, «molto conservatore» lo definisce Paul Jamin, amico e scout e in seguito assistente di Georges. «Le inserzioni pubblicitarie – ricorda divertito – esortava il lettore, che spesso le scambiava per informazioni, a preferire la cioccolata “cattolica” alla cioccolata “Victoria”, che invece era liberale» . Per completare il quadro, Jamin descrive il direttore del giornale, l’abate Wallez, come un despota tonante e perentorio: «L’abate, uomo di destra e simpatizzante con il fascismo, conosceva Mussolini»; Nobert Wallez esercita una forte impressione sul giovane impiegato di cui non tarda a intuire il promettente talento e di cui diventa l’onnipotente mentore. Tanto più che il reverendo direttore ha per fedele segretaria una graziosa ragazza, Germaine Kieckens, alla quale Georges è tutt’altro che indifferente.
[caption id="attachment_12701" align="aligncenter" width="1000"] I principali protagonisti del fumetto Tintin: ; il cane Milou; Dupond e Dupont; il capitano Haddock; il professor Tournesol - © Hergé-Moulinsart 2022.[/caption]
La figura tutelare di Wallez fa confluire intorno a sé i vari temi, finora sparpagliati, del destino di Georges Remi: la fondamentale ideologia di un «piccolo Belgio» timorato e tendenzialmente antisemita – come del resto tutta l’Europa. L’ideale cavalleresco dello scoutismo e il suo culto della purezza: le amicizie giovanili «per la vita e per la morte», lo portano alla prima pubblicazione, il 10 gennaio del 1929 nel suo personale Tintin nel Paese dei Soviet su Petit Vingtième, supplemento settimanale per i ragazzi di cui Hergé è stato nominato redattore-capo, segna lo sbocciare di un autore che ancora non crede in se stesso: «Non era una cosa – dichiarerà a Chancel – nata per durare: era un gioco, una specie di scenetta da recitare intorno al fuoco del campo scout». Un gioco, si, ma nel quale, «proprio per gioco, l'ho fatto entrare in politica – precisa Hergé a Numa Sadoul, autore di un’importante serie di interviste con il disegnatore. Non dimentichiamo che Le Vingtième Siecle era un giornale cattolico e che, a quell’epoca, dire “cattolico” equivaleva a dire “anticomunista” e questa era già una consolazione”. I bolscevichi vi venivano letteralmente mangiati vivi! Fui senza dubbio influenzato dall’atmosfera del giornale, ma anche da un libro intitolato Moscou sans voiles (Mosca senza veli) di Joseph Douillet, console del Belgio a Rostov sul Don, che denunciava con violenza i vizi e le turpitudini del regime. Vista la fonte a cui attingevo, ero sinceramente convinto di trovarmi sulla strada giusta. E poi, avevo la benedizione del mio direttore».
Il successo di quest’avventura in bianco e nero, tutta dialogata a fumetti e senza sottotitoli, in cui Totor si trasforma in un Tintin con il ciuffo rialzato sulla fronte dalla corsa dell’automobile, è tale che l’abate Wallez decide di mettere in scena un «autentico» rientro a Bruxelles del piccolo reporter. L’8 maggio 1930 una comparsa (scout) travestita da Tintin-mugik sbarca alla Gare du Nord con in braccio un fox-terrier tinto di bianco per l’occasione, tra gli evviva di centinaia di ragazzini già divenuti suoi fan. Ovviamente Germaine Kieckens si vede un’ulteriore prova del genio del suo direttore («Era un essere eccezionale»!) il quale si affretterà a pubblicare sotto forma di album quelle prime tavole di Tintin (5.000 esemplari andati a ruba) in edizione limitata, numerata e recante la dedica di Tintin e Milou in persona. «Georges firmava “Tintin” e io “Milou” con un piccolo scarabocchio canino» racconta a Benoit Peeters la compiacente segreteria che Hergé, su insistenza di Norbert Wallez, sposerà nel 1932.
Nel 1931 la stessa trovata pubblicitaria saluta il complemento, su “Le Petit Vingtième”, di Tintin in Congo, dedicato alla gloria paternalista – “razzista” sarà il severo giudizio di alcuni commentatori contemporanei, contraddetti nel dicembre 2012 da un giusto arbitraggio della corte d’appello di Bruxelles – della colonia africana concessa da Leopoldo II ai sudditi belgi. Stavolta Tintin sbarca con in testa il casco coloniale e Germaine precisa che per l’occasione sono state ordinate «delle carrozze a cavalli con a bordo uomini neri» per scortare i nostri eroi dalla Gare du Nord fino alla sede del giornale. L’album, già disponibile, viene venduto insieme a un omaggio: «un oggetto artistico congolese di grande valore» .
Nel frattempo Hergé ha cominciato a pubblicare sul suo giornale delle gag di una o due pagine su Quick et Flupke, gamins de Bruxelles (Quick e Flupke, monelli di Bruxelles) che manda avanti di pari passo con le avventure di Tintin e Milou. Già travolto dal successo, sgobba della mattina alla sera malgrado il fattivo aiuto della moglie.
Dal 1930 il giornale “Coeurs vaillants” di Parigi pubblica le storie di Tintin con grande soddisfazione di Hergé che vede così allargarsi il numero dei suoi lettori. Ben presto però scopre con delusione e dispetto che le sue immagini a «fumetti» sono state sottolineate alla vecchia maniera dall’editore francese, che teme l’incomprensione delle sue pecorelle. Certamente alla fine Hergé finirà per imporre la propria concezione «moderna», ma dovrà battersi contro le riserve nutrite dall’abate Courtois, direttore del settimanale giovanile francese, nei confronti di un eroe «senza famiglia»: reticenze vinte nel 1935 con la creazione ad hoc, da parte di Hergé, della serie «familiare» Jo, Zette et Jocko in cinque episodi, con le avventure che continuarono ad uscire regolarmente fino al 1944.
Sempre negli anni Trenta, in Belgio, nasceva il rexismo (1935 - 45), un partito nazionalista belga guidato dal cattolico Léon Joseph Marie Ignace Degrelle (1906 - 94). Degrelle conosceva Hergé dall’infanzia degli scout ed i due erano molto amici. Fu così che il Maestro illustrò a Degrelle la copertina di uno dei suoi libri. Solo più tardi il rexismo, vicino al fascismo clericale spagnolo, divenne il simbolo, in Belgio, della collaborazione con gli occupanti tedeschi.
Questa breve collaborazione con il partito, costò ad Hergé alcune problematiche nel dopoguerra. Non solo, ma Degrelle pubblicò successivamente (scritto nel 1990, ma pubblicato nel 2000) Tintin mon copain (Tintin amico mio), dove attraverso delle relazioni autobiografiche Léon Degrelle, sosteneva di essere stato l’ispirazione fisica e morale di Hergé per la creazione di Tintin, conducendo una vita avventurosa parallela a quella dell’eroe dei fumetti. Il libro verrà stampato in 1.000 copie, di cui 850 immediatamente sequestrate e distrutte: abbiamo tra le mani un libro controverso. Molto difficile da trovare, per molto tempo, fino a quando alcuni rari siti non lo hanno offerto in pdf in rete.
[caption id="attachment_12700" align="aligncenter" width="1000"] Nella prima foto Adolf Hitler durante la prima guerra mondiale con il cane bianco; nella seconda immagine, un giovane Léon Degrelle con i pantaloni da golf; la portina del romanzo "Tintin mon copain"; infine nell'ultima immagine, partiamo da un antefatto: Degrelle durante la conquista francese dei tedeschi fu catturato dagli Alleati e passerà attraverso 21 prigioni prima di essere finalmente depositato nel campo di concentramento di Vernet. Il 24 luglio verrà rilasciato per ordine del maresciallo Pétain. Conoscendolo vivo, il suo amico Hergé fece un disegno molto eloquente per festeggiarlo: in questa vignetta, vediamo il giornalista Tintin camminare per una strada mentre un terminale indica che sta andando in direzione di Bruxelles e proviene da Tolosa. Non è un caso, poiché il campo di Vernet si trova a 60 chilometri da Tolosa. Attraverso Tintin, sembra essere dunque Degrelle che Hergé rappresenta.[/caption]
Ma allora cos’è davvero questo libro sovversivo? Tintin mon Copain, infatti, è soprattutto simile a un’autobiografia di Léon Degrelle in cui condivide la sua amicizia con Georges Rémi alias Hergé, e la sua influenza sul personaggio di Tintin.
In realtà, Degrelle è nato in una famiglia cattolica con valori radicati. Frequenterà la facoltà di giurisprudenza a Lovanio dove appare già come un uomo dalla forte personalità e pieno di carisma. Incontrerà poi, un po’ per caso, l’abate Norbert Wallez che – come detto – dirige il piccolo quotidiano “Le Vingtième siècle”. Fu lì che conobbe un giovane designer di nome Georges Rémi. I due uomini, poco più che ventenni, hanno in comune di essere stati scout e di aver avuto la stessa educazione cattolica. Ben presto, simpatizzano nonostante le loro notevoli differenze. Hergé è piuttosto timido, discreto, un “raschietto di carta” tranquillo e poco abile con il gentil sesso. Degrelle, al contrario, è uno spaccone, un chiacchierone pacato che non usa mezzi termini, un avventuriero ad alta energia e un donnaiolo molto seducente. Nonostante le loro differenze, i due uomini furono legati da un’amicizia incrollabile. A quel tempo Degrelle stava già scrivendo alcuni articoli per Le Vingtième Siècle mentre Georges Rémi si occupava della realizzazione delle illustrazioni. Curiosità vuole che – forse come sostiene lo stesso Degrelle –, l’idea del fumetto così come lo conosciamo oggi, si crea nella testa di Hergé dopo aver ricevuto un regalo messicano dallo stesso Degrelle, che in quel periodo si trovava in Messico come corrispondente per il giornale Le Vingtième Siècle circa lo sterminio in Messico dei cristeros. Il presente del vallone fu proprio un fumetto, un formato che già circolava negli Stati Uniti, ma che era sconosciuto in Europa. Degrelle continua sempre a sostenere nella sua biografia, che per sdebitarsi Hergé inserì i pantaloni da golf al suo personaggio proprio per rendere omaggio alla trovata del suo amico Degrelle. Ed ancora il rexista prosegue nella sua notizia più rivelante: il suo fedele cane Snowy che lo segue ovunque, fu ispirato osservando una foto nella trincea tedesca che mostrava un cagnolino bianco dal muso indagatore, sguardo accattivante e sornione che era ai piedi di un soldato tedesco. E chi era questo soldato? Nel suo libro Degrelle ammette anche di avere «quasi paura di rivelarlo»: questo soldato era un certo Adolf Hitler.
Al di là delle indiscrezioni, si è anche detto a volte che l’autore di Tintin avesse negato la sua relazione con il “Beau Léon” come veniva chiamato Degrelle: fu una bugia. Difatti l’11 gennaio del 1973 Hergé, che era al culmine della sua popolarità, dichiarò: «Degrelle era un uomo rispettabile, era lui stesso sul fronte orientale e non vi mandò certo solo qualche povero diavolo. E militarmente, si è comportato lì come un eroe». L’amicizia era un sentimento sacro per Hergé e non avrebbe mai negato quello che aveva mantenuto per anni con Degrelle. Certamente la verità, sulle indiscrezioni di Degrelle, è sicuramente morta con i due uomini.
Tornando al suo fumetto per eccellenza, eccoci appena rientrati dal Congo, dove Tintin et Milou si imbarcano per l’America dei gangster di Chicago e dei pellerossa espropriati dai petrolieri. Ormai Hergé è libero di viaggiare a suo piacimento fin nei paesi più lontani, ma sempre senza muoversi dalla sua mansarda e sempre sulle ali fittizie del suo inviato speciale, più raddrizzatore di torti che giornalista. Tintin e Milou sono appena rientrati in Bruxelles che già ripartono in senso inverso, stavolta diretti in Oriente. Inizialmente nel Medio con l’avventura egizio-indiana de I Sigari del Faraone, nel 1932; poi nell’Estremo, con Il loto blu, che conferirà al fumetto una inaspettata connotazione politico-sociale. Difatti Hergé si schiera a favore del popolo cinese aggredito nel 1931 dal Giappone – la poco conosciuta invasione della Manciuria, primo atto della Seconda Guerra Mondiale. Questa presa di posizione umanista in un conflitto in atto è una scelta personale fondata, per la prima volta, su una realtà scrupolosamente documentata.
A questo riguardo, nel 1934 Hergé viene assistito e consigliato da un giovane studente cinese delle Belle Arti di Bruxelles, Chang Chong-jen, il quale calligrafa addirittura gli ideogrammi contestatari sulle bandiere presenti nelle vignette «Abbasso l’imperialismo» o «Aboliamo i trattati ineguali». I due resteranno legati da un’intensa amicizia fino al ritorno in patria – e anche dopo – di Chang nel 1935. Tale è l’impatto de Il loto blu che nel 1939 la moglie del maresciallo nazionalista Chang Kai-shek (1887 - 1975) invita Hergé in Cina, ma l’imminente guerra in Europa impedirà all’artista di recarvisi.
[caption id="attachment_12705" align="aligncenter" width="1000"] Tintin nel Congo belga: una vignetta dove il nostro protagonista è in compagnia di un missionario cattolico che insegna ai bimbi neri a leggere e scrivere e li evangelizza.[/caption]
A partire da I sigari del Faraone, Casterman, erede dell’antica casa editrice di Tournai, è diventato il felice editore degli albi di Tintin, pubblicati in anteprima da Le Petit Vingtième. Nel 1937 il primo ad uscire per i tipi di Casterman è L’orecchio spezzato: la trama del nuovo episodio riporta il nostro eroe all’Ovest, in un’immaginaria repubblica – ovviamente delle banane – dell’America centrale: il San Theodoros. Hergé si diverte a mettere in scena un caricaturale armamentario a base di piraña, cerbottane, teste mummificate, caudillos (Alcazar), rivoluzioni e bombe a miccia.. Ma l’oggetto-chiave dell’intreccio, il feticcio Arumbaya, è ispirato a un’autentica statuetta precolombiana esposta nel museo brussellese del Cinquantenario dove il disegnatore è andato a documentarsi, allo stesso modo che l’Aniota, il terribile uomo-leopardo del Congo, era stato ripreso da una celebre statua esposta al Museo reale dell’Africa Centrale, a Tervuren. Come dire che per Hergé le storie, anche se semplici pochades, erano credibili solo se ancorate a una realtà verificabile.
A questo punto il papà di Tintin ricapitola i punti fermi di un’opera già vista ma tutt’altro che premeditata. Ne sono prova le seguenti osservazioni personali: «Si parte sempre da un’idea semplice, che permette di coinvolgere Tintin in importanti eventi di portata internazionale evitando il più possibile l’uso del testo e dando la massima importanza al movimento. Ed ecco che ritroviamo – sempre in 124 pagine in bianco e nero, arricchite nell’album da quattro tavole fuori testo a colori, il nostro piccolo reporter in Scozia, in kilt e berretto con pompon, alle prese con dei falsari e un buon vecchio gorilla tipo King Kong. Ma la guerra incombe e di fronte alla minaccia tedesca l’amore per l'ordine e i pregiudizi conservatori di Hergé vacillano. Nel 1938 applica alla lettera i precetti artistici enunciati, rivelando le proprie preoccupazioni politiche. Tintin viene coinvolto nel turbine di un drammatico complotto in atto tra pseudo immaginari Stati centro-europei: la Sildavia del buon re Muskar (un Belgio travestito da paese slavo) e la Borduria, armata dall’infame Musstler (contrazione dei nomi di Mussolini e Hitler). Sarà in questo episodio delle avventure di Tintin, intitolato Lo scettro di Ottokar, che la diva Castafiore emetterà i suoi primi gorgheggi..
Pieno di buona volontà e patriota, Hergé si presentò durante la mobilitazione (a metà settembre 1939), tranne per il fatto che il 12 aprile 1940 fu ritenuto inabile per motivi di salute e rimandato a casa in congedo non retribuito. Così emigra in Francia, soggiornando nella regione parigina poi al Puy de Dôme con lo stilista Marijac, ma con la capitolazione, il re Leopoldo III chiede ai suoi sudditi di riprendere le loro attività. Hergé torna in Belgio ma il Petit Vingtième non esiste più!
Durante i mesi di maggio e giugno 1940, l’esercito tedesco schiacciò in due Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio e Francia.
L’acuta consapevolezza della tragedia in atto, il 10 maggio 1940 che vide il Belgio soccombere davanti allo strapotere della Wehrmacht, non impedisce a Hergé, fautore della «neutralità» raccomandata da Leopoldo III e desideroso di conservare il lavoro di cui vive, di fare una scelta tutt’altro che illogica dal punto di vista del suo ambiente di formazione, ma gravida di conseguenze nei confronti della storia.
Visto che Le Vingtième Siècle e Le Petit Vingtième hanno chiuso i battenti lasciando in sospeso la pubblicazione di Tintin nel paese dell’oro nero, il giovane e ormai celebre disegnatore accetta il posto di capo-redattore di Soir-Jeunesse, supplemento del grande quotidiano brussellese. Piccolo problema, da metà giugno il ribattezzato Le Soir è nelle mani dei nazisti. Sarà soprannominato “La sera rubata”.
Censura permettendo, Hergé vi pubblica Il granchio d’oro in cui il capitano Haddock fa la sua prima apparizione tra due bicchieri di scotch. Poi, nel 1941, La stella misteriosa e, nel 1942, Il segreto del Liocorno. Questo sarà poi seguito da Il tesoro di Rackam il Rosso in cui entra per la prima volta in scena il professor Girasole e alla fine del quale Tintin, Milou, Haddock traslocheranno al castello di Moulinsart. La famiglia Tintin, quasi al completo, con la sola assenza di Lampion. A partire dal 1942 Hergé ha accettato le nuove condizioni di Casterman imposte dalle restrizioni riguardanti la carta da stampa: sessantaquattro pagine per album, ma a colori.
Al momento della liberazione, il 2 settembre del 1944, i giornalisti rimasti al Le Soir furono quindi processati per collaborazionismo. La maggior parte viene condannata a morte, con una pena poi trasformata in pochi anni di carcere. Anche Hergé ha problemi: il 7 settembre 1944, tre giorni dopo la liberazione, la polizia giudiziaria effettua una perquisizione nella sua abitazione. Le Soir viene chiuso e tra i collaboratori di Hergé che avranno problemi vediamo il pittoresco Jacques Van Melkebeke, grande appassionato di letteratura popolare, pittore e fecondo fornitore di trame per Tintin, raccomandato da Edgard Jacobs che a quel tempo aiutava Hergé a rifare a colori i precedenti albi in bianco e nero.
Dopo questo episodio, ancora una volta Hergé spiazza tutti con Tintin nella terra dei nazisti, pubblicato sul secondo numero di La Patrie che però non sfuggi alla censura nel settembre del 1944, nonostante il contenuto del fumetto.
Solo il 22 dicembre 1945, il dossier di Hergé fu archiviato, ma l’accusa propriamente dei partigiani verso Hergé quale fu? Quella di aver continuato a disegnare album sotto l’occupazione? Quindi aver contribuito a risollevare il morale di tante persone in questi tempi difficili e aver permesso a molte di loro di scappare per un momento e dimenticare la guerra? È per questo che quest’uomo è stato quasi condannato a morte? È per questo che il suo nome compare ancora nella “galleria dei traditori” del Museo della Resistenza di Bruxelles?
Ma in fondo, ciò che ha animato i persecutori di questo grande maestro è la gelosia: la gelosia del talento poiché queste persone non collaboravano minimamente, ma la gelosia del mediocre che si vendica su personaggi di grande valore.
Egli è profondamente rattristato per la malattia nervosa della madre – che nell’aprile del 1946 si spegnerà in un asilo per malati di mente – Georges ha perso il sacro fuoco, soffre di depressione e a un certo punto pensa addirittura di emigrare in Argentina. Si limita a lavoretti pubblicitari, ai produttori derivati e a rifare a colori per Casterman i primi album in bianco e nero.
[caption id="attachment_12703" align="aligncenter" width="1000"] Hergé, “Aviation nel 1939-1945”. Tintin nei panni di un alto ufficiale tedesco.[/caption]
La sua immagine è stata molto offuscata fino al giorno in cui Raymond Leblanc (1915 - 2008), un ex doganiere e combattente della resistenza, decise di chiamare Hergé per creare il giornale “Tintin” ed il primo numero del settimanale esce il 26 settembre 1946. Hergé assume la direzione artistica del nuovo giornale e con immutata fedeltà agli amici dei giorni bui, impone come capo redattore Jacques Van Melkebeke, rilasciato a piede libero. Il numero di settembre Il tempio del sole, continuazione de Le sette sfere di Cristallo.
Dopo qualche tempo, Hergé allestisce un vero e proprio studio per stare al passo con i ritmi di pubblicazione e gli ordini derivati legati a Tintin.
Nel 1946 ricicla un’idea che aveva avuto con Jacobs nel 1944: produrre una serie di cartoline che costituissero un’enciclopedia su temi specifici. Ogni carta sarà accompagnata dal personaggio Tintin vestito con un costume appropriato. Saranno quelli che chiamiamo i chromos che animeranno finalmente la sezione documentari del quotidiano Tintin.
Tra il 1946 e il 1950 apparvero i Discorsi del capitano Haddock sulla storia della marina. Dal 1950 le edizioni lombarde pubblicano color chromos indipendentemente dal giornale, offerte in cambio dell’acquisto di “Francobolli Tintin”. Un modo per avere un bel disegno e un po’ di contesto storico. Tintin ha quindi assunto la posa e il costume legati al contesto presentato. Un po’ come se Tintin avesse conosciuto diverse vite.
Vengono lanciate sette collezioni, tra cui “Aviation nel 1939-1945”. Troviamo così Tintin come un ufficiale inglese, americano, francese o… tedesco: è l’humor di Hergé, senza filtro, accademico, non politicizzato; un artista libero, non un prezzolato a pagamento – un comportamento che Hergé ha mantenuto anche sotto il dominio nazista, dove diverse opere furono censurate.
Dopo un ritorno al Paese dell’oro nero dove Hergé riprende non senza umorismo il filo della storia petrolifera interrotto della guerra, Tintin farà compiere al fumetto un grande passo in avanti. L’obiettivo è niente meno che la Luna – vent’anni prima che l’uomo vi pose realmente piede. Abbordando il campo della fantascienza, Hergé si assicura la consulenza di uno specialista, conosciuto anche lui a Le Soir: Bernard Heuvelmans (1916 - 2001). Il progetto si rivela talmente vasto che viene deciso di dedicargli due episodi, Obiettivo Luna e Uomini sulla Luna, la cui pubblicazione durerà ben quattro anni, dal 1950 al 1954 – subendo, nel 1951, una lunga interruzione sul giornale “Tintin”: decide così di allargare i propri orizzonti, circondandosi di collaboratori (una segretaria, coloristi, grafici) e di fondare sull’elegantissima avenue Louise gli “Studios Hergé” di cui il gioviale e devoto disegnatore fiammingo Robert Frans Marie De Moor (1925 - 92), principale responsabile dell’arredamento, diventerà ben presto il pilastro. Grazie a questa équipe, il razzo a scacchi bianchi e rossi può riprendere la crociera e finalmente “allunare”. Il 18 novembre 2012, a Parigi, un album di Obiettivo Luna con le dediche congiunte di Hergé e dei tre astronauti di Apollo XI (1969), verrà venduto a 35.525 euro. La gloria di Hergé è al culmine. La stampa si contende l’elegante disegnatore, che per giunta è anche uno squisito conversatore. I suoi albi si vendono a milioni di copie e ben presto verranno pubblicati in un centinaio di lingue e dialetti. I suoi personaggi vengono portati sullo schermo, come Le Mystère de la Toison d’Or, Les Oranges bleues, con Jean-Pierre Talbot nella parte di Tintin. La sua produzione assume caratteristiche sempre più personali. A L’affare Girasole (1954), in cui spunta Serafino Lamion, succedono nel 1956 Coke in stock e, soprattutto, Tintin in Tibet nel 1958. In questa traslucida, mistica e introspettiva vicenda in cui Tintin, partito alla ricerca del suo Chang perduto, incontra un adorabile uomo delle nevi: lo yeti. Hergé sembra davvero ritrovarsi uccidendo dentro di sé ciò che uno psicanalista junghiano, brevemente consultato in Svizzera, ha definito “il demone della purezza”.
[caption id="attachment_12704" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Il sergente Remi (a sinistra) nel 1926; Hergé, la moglie Germaine e il suo amico cinese Tchang a Bruxelles nel 1934; Edgar Pierre Jacobs (a sinistra), Jacques Van Melkebeke (al centro) ed Hergé (a destra); Hergé agli studi Boulogne-Billancourt con Jean-Pierre Talbot, durante la promozione del film Tintin e il mistero del vello d'oro, nel 1961.[/caption]
Nel 1960 esce I gioielli della Castafiore: stavolta si tratta di un’avventura priva di viaggi e dove, per ammissione dell’autore, “non succede niente”, ma la sua trama è una godibile commedia umana in cui si dispiega la sottile tavolozza di quello straordinario mago del racconto e delle immagini che è Hergé.
Gli “Studios Hergé lavorano a pieno ritmo, ma il capo vagola nelle nebbie della malinconia. I suoi rapporti con la Germaine sono tesi, a volte insopportabili, ma la coppia insiste per salvare le apparenze. Finché un bel giorno Hergé decide di introdurre nella sua squadra alcuni nuovi collaboratori. Tra di essi c’è una giovane, modesta e incantevole colorista di nome Fanny Vlamynck alla quale, molto tempo dopo, Hergé finirà per dichiararsi. Separatosi con la moglie, con la quale tuttavia rimane in corrispondenza, ne divorzierà solo nel 1977 per sposare Fanny. Accanto a lei la sua vita diviene serena e lieve, con la nuova moglie viaggia spesso e lontano dal vecchio continente; lui si appassiona alla pittura, ci si brucia le ali e alla fine diventa un collezionista illuminato: da Alechinsky e Fontana fino alla pop-art americana; tra gli amici della coppia ci sono i grandi intellettuali come il filosofo Michel Serres.
Ebbene nella concezione di vita di Hergé qualcosa dopo la guerra si è rotto, qualcosa cambia ed abbraccia il calore dell’età moderna, liberale. Nel maggio del 1977, alcuni giorni dopo il matrimonio con Fanny, Hergé acquista un triplice ritratto di se stesso fatto da Andy Warhol, che viene personalmente a Bruxelles per trovare e omaggiare il padre di Tintin. Nel 1981 riceve Chang Chong-jen, l’amico cinese finalmente rintracciato a Shanghai. Steven Spielberg gli spalanca le porte di Hollywood.. Purtroppo questa fase serena di tardivi riconoscimenti e onori coincidono anche con un esaurimento di vena creativa. Quando si accetta il mondo e non lo si “combatte” più tramite il talento, in questo caso fumettistico, ci si sente svuotati, non si hanno più energie vitali, ideologiche.
Tintin non è più il suo alter ego: «Odio Tintin, sapesse quanto lo odio» - arrivò a dichiarare al suo disegnatore Jacques Martin. Il suo genio si disperde nei lavoretti degli Studios Hergé con una produzione imbarazzante: sette anni per due numeri Volo 714 destinazione Sydney e Tintin e i Picaros; quanto all’ultimo episodio, provvisoriamente intitolato Tintin e l’Alph-art, in cui l’autore sembra voler distruggere tutti i feticci, compresa l’arte contemporanea, uscirà sotto forma di un album di schizzi nel 1986: forse l’ultimo guizzo del genio. 1986: molto dopo la morte di Georges Prosper Remi, avvenuta il 3 marzo 1983 a Bruxelles per i postumi di una leucemia.
[caption id="attachment_12706" align="aligncenter" width="1000"] L'équipe al completo nel 1958: da sinistra a destra ci sono Bob De Moor, Joseph Loeckx, Jacques Martin, Michel Desmarets (di spalle), Baudouin van den Branden, Josette Baujot, Hergé, France Ferrari, Fanny Vlamynck e Alexis Remi, il padre di Hergé.[/caption]
 
Per approfondimenti:
_I 24 album de Le Avventure di Tintin, pubblicati in oltre 80 lingue e dialetti da Caterman e da numerosi editori internazionali;
_Museé Hergé (catalogo), Bruxelles, Edizioni Moulinsart, 2011;
_Philippe Goddin, Hergé chronologie d'une oeuvre, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2000;
_Numa Sadoul, Tintin e moi, entretiens avec Hergé, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2003;
_Michel Serres, Hergé mon ami, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2000;
_Léon Degrelle, Tintin mon copain, edizioni Pelican d'or, 2008;
_Pierre Assouline, Hergé, edizioni Gallimard, Parigi, 1996.
 
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Sabato 26-02-2022 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo - 63100 Ascoli Piceno) il 62°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite l’avvocato Daniele Paolanti, il quale ha dissertato sulla sua ultima fatica letteraria “Le Ombre dei desideri" – Nostalgia letteraria e contemporaneità. Ha introdotto il Vice-presidente Francesca Angelini ed ha moderato il presidente Arch. Giuseppe Baiocchi.
[caption id="attachment_12680" align="aligncenter" width="1000"] Il Consigliere Comunale Avv. Emidio Premici prende la parola per i saluti istituzionali.[/caption]
La tematica di cui si è proposto lo sviluppo ha gravitato attorno ai componimenti elaborati dal poeta Paolanti, verso un sentimento antico e atavico di nostalgia: ovvero verso quel mondo amaramente dimenticato proprio dell’umile gente della campagna, abituata alla fatica ed al sacrificio e benedetta da tradizioni plurisecolari. La realtà sognata e per la quale si prova un delicato “desiderio di ritorno” è quella della cultura sottoproletaria propria delle aree agresti non ancora del tutto urbanizzate, poste al limes tra le Marche e gli Abruzzi. In quel segmento rustico e dimenticato dei cives piceni si è spesa l’infanzia di Paolanti e della sua famiglia, accanto al profumo dei sambuchi e delle ortiche, del legno verde, della brace sui focolari e della Fede.
Nel mondo liquido e orizzontale del progresso contemporaneo, tutto ciò che è autentico e vero, viene rimosso con sdegno, proprio perché la società di oggi vive di gnosi, distaccandosi completamente, con falsità appunto, dall’elemento organico. Ebbene questi componimenti poetici rappresentano un tentativo coraggioso di raggiungere di nuovo questa essenza immateriale del mondo: una percezione di serenità e verità, che può farci fermare un poco a ricordare e riflettere su cosa siamo e soprattutto su chi siamo, come società e come popolo.
 
 
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«Non riuscirò mai a descrivere o a dimenticare la bellezza della nostra ultima mattina all’accampamento. Il sole sorse verso le sei. Io mi svegliai poco dopo e rimasi sdraiata a guardare quella mutevole meraviglia dal mio letto. Era tutto perfettamente immobile, una spessa rugiada brillava sull’erba e in lontananza una foschia dorata, come un chiaro mattino di settembre a casa, il nostro fuoco era ancora acceso e di quando in quando un delizioso sbuffo di fumo veniva sospinto nella nostra tenda. Uccelli che cantano dappertutto. I colori delle farfalle e degli uccelli sono incredibili – verde, azzurro e violetto intenso. Il profumo dei boccioli sui biancospini è divino e nell’aria c’è un profumo perenne di mimosa»1.

Correva l’anno del 1º luglio 1895, quando fu ufficialmente proclamato il protettorato dell’Africa Orientale Britannica, da cui nacque pochi anni dopo (1902) la prima Costituzione. Il tutto era servito principalmente per contrastare l’espansionismo alemanno-tedesco guglielmino in quella stessa porzione di Africa Orientale. I tedeschi stavano costruendo una ferrovia verso l’interno a partire dal porto di Tonga: i britannici si lanciarono nell’impresa e costruirono la propria linea, lunga 950 chilometri, da Mombasa, sulla costa, al lago Victoria. L’operazione portò via ben cinque anni e mezzo con la sua ultimazione nel 1901. Prima di allora, gli unici viaggi all’interno erano le spedizioni arabe alla ricerca di schiavi o un’avventura da cavalieri solitari, alla Joseph Thomson (1858 - 95) che coniò il celebre motto “chi va piano, va sano e va lontano”: avventure intraprese con un esercito di portatori pronti a disertare e sotto continua minaccia di un attacco da parte delle tribù nomadi dei Masai. Gli operai indiani della ferrovia, importati dagli inglesi, morirono in gran numero, non a causa delle lance dei Moran (giovani guerrieri) Masai, che sembravano accettare la ferrovia e la superiorità della “magia” bianca con le loro armi belliche, ma per la dissenteria, la malaria, il tifo, le punture di mosca tse-tse, o semplicemente per il caldo. Molti altri caddero preda dei leoni mangiauomini di Tsavo, come ci ha raccontato minuziosamente dal Tenente Colonnello John Henry Patterson (1867 - 1947) nel suo celebre The Man-Eaters of Tsavo (1907). Sui due leoni, oggi si è scritto molto, addirittura che uccidevano perché erano resi nervosi per alcuni problemi ai denti.. in realtà il territorio selvaggio del Kenya, lasciava poco alla fantasia e molto alla realtà come ci ricorda in questo stralcio lo stesso Patterson: «Pozze di sangue contrassegnavano i luoghi ove la belva si era fermata per indugiare nella tipica abitudine dei leoni mangiatori di uomini, ovverossia leccar via con la ruvida lingua la pelle della vittima e arrivare così al sangue fresco. Fui portato a ritenere come questo fosse un loro tipico marchio di fabbrica a causa di un mio successivo ritrovamento di due corpi umani semi divorati: la pelle delle vittime era stata asportata, fatta a brandelli e sparsa tutto attorno al corpo; la carne appariva secca, come se fosse stata succhiata. Nel luogo ove il corpo della vittima era stato divorato mi trovai di fronte ad una scena raccapricciante. Il terreno tutto attorno era pieno di sangue e di pezzi di carne e ossa, ma la testa della jemadar era stata lasciata intatta, fatta eccezione per i fori dei denti canini utilizzati dal leone per afferrare e uccidere la povera vittima; la testa si trovava a poca distanza dai resti del corpo, con gli occhi ancora sbarrati nell’ultima espressione di orrore e di terrore impressa nel suo volto»2.

[caption id="attachment_12657" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto i Leoni di Tsavo imbalsamati. Dopo 25 anni, le pelli furono vendute al Chicago Field Museum per 5.000 dollari, e oggi sono in esposizione, insieme ai loro crani, in una teca dedicata. Dal libro nacque il celebre film "Spiriti nelle tenebre" (The Ghost and the Darkness), film del 1996 diretto da Stephen Hopkins. A destra il Tenente Colonnello John Henry Patterson.[/caption]
La ferrovia fu uno splendido e ambizioso esempio di ingegneria, intrapreso in condizioni sconcertanti e con una sicumera tutta vittoriana. I binari attraversavano i deserti, serpeggiavano su per le montagne; si calavano nei burroni, e fendevano foreste e paludi. Dal livello del mare la strada ferrata saliva a quasi tremila metri d’altezza, correndo attraverso i pascoli dei Masai e la terra della tribù dei Kikuyu, che erano meno disponibili a questa invasione. La locomotiva certamente non appariva pronta al compito, apparendo più un giocattolo a molla con le sue quattro carrozze e la sua locomotiva tracagnotta, su un binario che sembrava flessibile come fil di ferro. Ma il viaggio appariva stupendo, se si eliminasse la prima parte dell’intensa calura del deserto del Taru, senza scampo dalla polvere rossa appiccicosa che si incrostava, increspandosi sul fondo dello scompartimento. Successivamente nel fresco della pianura c’era lo spettacolo indimenticabile dei grandi branchi di zebre, giraffe, kongoni, gnu, gazzelle di Grant e di Thompson, che pascolavano nella savana o correvano affiancate in gruppi di otto o nove.
Nairobi, oggi definita da Lord Monson come: «il paese più pericoloso al mondo per l’aristocratico britannico maschio», quando fu fondata – nel 1899 – non era affatto così pericolosa. Posta sulla frontiera tra i Masai e i Kikuyu, appariva come l’ultima stazione ferroviaria possibile prima che le rotaie si inerpicassero di novecento metri su per la scarpata kikuyu, la parete orientale della Great Rift Valley. Chiunque abbassasse gli occhi sullo sconfinato fondovalle per la prima volta trovava insopportabile la prospettiva perpendicolare del paesaggio – una cosa del tutto nuova per i sensi europei.
Il tè lo si prendeva alla stazione di Naivasha, all’inizio della zona montana e a partire da allora, su a Gilgil e poi a Nakuru, pian piano veniva rivelata la terra promessa, in tutta la sua immensa varietà e bellezza. Dopo qualche chilometro tra rovi e rocce si sbucava su migliaia di ettari di morbidi parchi inglesi, una nube di prati azzurrognoli in saliscendi fino all’orizzonte, mai toccati dall’aratro e apparentemente disabitati. In parte ricordavano il paesaggio della Scozia occidentale, con le stesse spettacolari formazioni rocciose, gli stessi pascoli e le foschie cariche di rugiada. I ruscelli gorgogliavano nelle vallate, il fico selvatico (sacro ai Kikuyu) e l’ulivo crescevano nelle foreste: l’aria era deliziosamente avvolgente, induceva un’estasi di benessere e la qualità della luce era sbalorditiva. In più c’erano i profumi, l’indefinibile aroma pungente della polvere rossa e l’acre fumo di legna che non mancava mai di suscitare la più profonda nostalgia.
Dopo la colonizzazione kenyana, il governo britannico offrì appezzamenti di terra fertile della Wanjohi Valley, vicino alla catena montuosa di Aberdare, a ricchi aristocratici inglesi. Il primo fra questi fu Hugh Cholmondeley, 3° Barone Delamere (1870 - 1931) che divenne amico dei capi Masai e apprese da loro come coltivare il suolo kenyano. Personaggio eccentrico, con le sue feste e le sue battute di caccia stravaganti divenne il capostipite di un modo di vivere sontuoso, adottato poi dai coloni successivi, che fruttò a quel luogo l’appellativo di “Happy Valley”.
Già prima di lui la moglie di Robert Gurdon, primo barone Cranworth (1829 - 1902), Lady Cranworth (Laura Rolfe nata Carr, 1807-68), aveva steso un intero capitolo nella guida che il marito aveva scritto per i nuovi coloni arrivati in Kenya, paese descritto come un vero e proprio paradiso in terra dell’uomo bianco. Il saggio si intitolava “Profitti e sport nell’Africa orientale” e la sua seconda edizione prendeva il nome di “Una Colonia in formazione”. Definì straordinariamente piacevole l’esperienza di colonizzatore, descrisse l’intensa nobiltà del paesaggio che il gentiluomo inglese e scozzese avrebbe trovato immediatamente familiare, campo d’azione sconfinato per le battute di caccia, la ricchezza del suolo e i milioni di ettari di terra da pascolo vergini che aspettavano solo di essere assegnate a qualcuno. Benché i ragazzi della buona società in altre parti dell’Impero si fossero conquistati una cattiva fama come colonizzatori, in Kenya, egli affermava, era diverso. Qui erano particolarmente adatti alle condizioni locali. L’alta opinione che avevano di sé, qui era condivisa dagli indigeni, in particolare dai Masai: la loro ignoranza, “spesso colossale”, in fatto di agricoltura avrebbe dato loro il vantaggio di affrontare senza pregiudizi gli ostacoli che i tropici avrebbero messo sulla loro strada e, quando al loro amore per lo sport, non c’era più niente che i nativi amassero di più che mangiare carne in gran quantità.
Eppure, a meno che la terra non fosse produttiva e remunerativa, questo “espresso lunatico”, come lo chiamavano gli Inglesi d’Albione non aveva alcun senso: era stato costruito per prestigio e competizione da superpotenze, e il suo unico risultato era quello di prosciugare il bilancio della colonia.
[caption id="attachment_12646" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra la stazione di Railway presso Nairobi. A destra Hugh Cholmondeley, 3° Barone Delamere (1870 - 1931).[/caption]
Così il Commissioner per l’Africa Orientale, Sir Charles Norton Edgcumbe Eliot (1862 - 1931), insigne studioso di Oxford ed eccellente diplomatico, nel 1901, dopo poco il suo arrivo, presentò un progetto di reclutamento di coloniali nell’Impero per coltivare la terra. L’idea era semplicemente quella di far sì che la ferrovia si pagasse da sé, trasportando merci dagli altipiani alla costa. Lo sviluppo della colonia era una considerazione secondaria, quasi accidentale invero. Fu lanciata una campagna di reclutamento a Londra, e la prima ondata di coloniali, arrivati nel 1903 dall’Inghilterra, dal Canada, dall’Australia e dal Sud Africa, sembravano dei cercatori d’oro dello Yokon. Cionondimeno, tra questi primi arrivati, c’erano molti Pari: Lord Hindlip,Lord Cardross, Lord Cranworth ed alcune vittime del sistema della primogenitura, quali Berkeley e Galbraith Cole, figli cadetti del conte di Enniskillen. Non mancarono i milionari, come l’americano Northrop MacMillan (1872 - 1925), amico intimo di Theodore Roosevelt. C’era il leggendario Ewart Scott Grogan (1874 - 1967), un accanito sciovinista inglese che era venuto a piedi dal Capo di Buona Speranza al Cairo. C’erano fuggiaschi, dissipatori, speculatori. E soprattutto c’era un uomo che sarebbe divenuto il leader incontrastato dei coloni inglesi: il già citato Delamere, che aveva già messo gli occhi sugli altipiani del Kenya al misericordioso termine di una scammellata di oltre 3.000 chilometri dalla Somalia. Era poi tornato in Inghilterra per sei felici anni, a occuparsi delle sue proprietà, ma il bacillo del Kenya aveva colpito anche lui, e vi tornò nel 1901 a comprare terreni. Lord Delamere era un leader molto naturale per i coloni. Aveva ereditato un’enorme proprietà nel Cheshire oltre a un grande patrimonio, subito dopo aver lasciato Eton – dove si era distinto come ragazzo irruente e indisciplinato, del tutto insensibile all’influenza civilizzatrice dei classici. Era arrogante e sprecone con un temperamento iracondo e violento: i suoi istinti politici erano austeramente feudali: fisicamente era piccolo e muscoloso, e niente affatto attraente. Ma aveva il dono di una suprema sicurezza di sé e della sua visione del futuro della colonia, che era ispirata a un antiquato senso del dovere verso l’Impero – laddove il dovere, molto semplicemente, era quello di annettere altro territorio a beneficio di se stesso.
Due provvedimenti del 1898 e 1902 regolarono il regime delle terre: la quasi totalità di queste fu dichiarata di proprietà della Corona, all’infuori di alcune aree riservate agli indigeni. Le zone migliori degli altipiani furono assegnate agli Europei. Nel primo progetto per i coloni, vennero assegnati quattrocentomila ettari in affitto per 999 anni. Il contratto voleva che venisse investito un certo capitale nei primi cinque anni e pagato un affitto annuo al Governo. L’inadempienza implicava la confisca. Delemere si assicurò il primo lotto, a Njoro, lungo la linea ferroviaria a nord-ovest di Nakuru. Fu a Njoro che egli iniziò l’esperimento che per poco non lo condusse alla rovina, ma che quasi da solo, gettò le basi dell’economia agricola in Kenya.
La distribuzione della terra era un processo caotico che aveva il suo centro nel Land Office di Nairobi. Nel 1904, l’anno in cui fu costruito il Norfolk Hotel – ben presto soprannominato “La Casa dei Lord”, per la sua lista degli ospiti, cacciatori inglesi di trofei – la città ancora assomigliava a un desolato accampamento, con le sue fila di capanne identiche e le sue strade di fortuna che, o erano coperte di fango in cui si affondava fino al ginocchio, o erano tappezzate di polvere rossa che gravava come una nube sopra la città. I futuri residenti piantavano le loro tende vicino al Land Office e aspettavano, spesso per mesi, che le loro domande venissero prese in considerazione dagli affaccendati burocrati. Il progetto governativo divenne un tafferuglio di frontiera in piena regola: i pascoli dei Masai nella Rift Valley, per esempio, furono considerati territorio libero, e fasce di territorio Kikuyu furono annesse a fattorie lungo la riserva – un costoso errore politico. Se a questo si aggiunge che il colono inglese medio sapeva poco o nulla della storia africana, delle distinzioni tribali, degli animali selvatici (che si pensava attaccassero a prima vista e per principio), il quadro poteva apparire assai complicato. Rimanevano sconcertati dalla virulenza delle malattie che colpivano le messi e il bestiame – alcuni si installarono su un territorio che i Masai da generazioni sapevano essere pessimo per il bestiame – e si infuriavano per le difficoltà che inevitabilmente sorgevano quando le concezioni edoardiane si scontravano con la visione più cosmica dei Kikuyu o dei Masai.
[caption id="attachment_12652" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra Denys George Finch Hatton (24 aprile 1887-14 maggio 1931), aristocratico inglese cacciatore di selvaggina grossa e amante della baronessa Karen Blixen (conosciuta anche con il suo pseudonimo, Isak Dinesen - nella foto di sinistra), una nobildonna danese che scrisse di lui nel suo autobiografico libro Out of Africa , pubblicato per la prima volta nel 1937. Nel libro, il suo nome è sillabato: "Finch-Hatton".[/caption]
I disegni inglesi, che miravano a introdurre graduali misure di autogoverno nell’ambito del mantenimento delle strutture coloniali, andarono presto deluse per l’irriducibile opposizione di alcune tribù, e in particolare di quella dei Kikuyu; questi ultimi, in seguito alle concessioni di terre agli Europei, erano stati esclusi dalle fertili zone degli altipiani e respinti in zone di riserva di scarsa fertilità.
I timori più acuti degli europei, in ogni caso, erano riservati al sole equatoriale, i cui raggi secondo loro non solo danneggiavano la spina dorsale, ma attaccavano anche il fegato e la milza: da qui nacque il successo degli indumenti londinesi peri tropici, con imbottiture protettive per la spina dorsale: una spessa striscia di garza che scendeva dal collo alle natiche, da indossare con estremo disagio. Lord Lugard consigliava di indossare una pesante fascia di flanella in vita. Winston Churchill, che fece una visita non ufficiale in Kenya come Sottosegretario di Stato per le Colonie, temeva gli effetti del sole sul sistema nervoso, il cervello e il cuore. Se era strettamente necessario togliersi il cappello, anche momentaneamente, era “meglio farlo all’ombra di un folto albero”, ebbe a scrivere. Altri consigliavano di non togliere mai il cappello, per nessun motivo, nemmeno dentro casa, dato che la lamiera ondulata, pur essendo una brillante invenzione inglese e un contributo memorabile all’architettura coloniale britannica, non era considerata adeguata contro i raggi del sole. Da questo venne la moda di indossare il doppio terai, due cappelli flosci a larga tesa, portati uno sopra l’altro. L’operazione di togliersi questa protezione eccessiva veniva compiuta stando in piedi sul letto, ben lontani dalle siafu, le formiche giganti che cacciavano la loro preda – qualsiasi cosa grossa quanto un’antilope – con arditi colpi di pinze, viaggiando in colonne spesso lunghe più di un chilometro. Il sistema nervoso dei bianchi non trasse alcun giovamento dalla consuetudine di indossare uniformi pesanti nelle elevate temperature dell’Africa. Tuttavia, gli eccessi a cui si spinsero i coloni per propiziarsi il sole, suggeriscono una paura più irrazionale di quella di un colpo di sole. Contro il sole, elemento da non poter condividere alla pari con i negri, si eressero dei veri e propri tabù, come quello che le donne dovevano bordare vestiti e cappelli non con la flanella, ma con un panno rosso vivo.
La coltivazione di questa terra era immensamente difficile, un processo esasperante di tentativi e verifiche che metteva a dura prova anche il più solido temperamento da pioniere. A dispetto delle loro origini previlegiate, i primi coloni si rivelarono del giusto calibro. Eppure erano cronicamente in passivo, come ci narra la storia avvincente di Delamare, il quale nel 1906 stava ormai coltivando 65.000 ettari dell’Equator Ranch – tutti recintati da milleseicento chilometri, o poco meno, di filo spinato. Ma nel 1909 era senza un soldo. Le proprietà nello Cheshire erano state spolpate ed egli fu costretto a svendere e a chiedere prestiti per cui garantì con quel che rimaneva dei fondi vincolati della famiglia. La sua difficile situazione era tipica, anche se più drammatica di molte altre. Aveva fatto esperimenti con le pecore, incrociando femmine locali con montoni inglesi, montoni locali con pecore della Nuova Zelanda, coi bovini, incrociando Hereford e Shorthorn con il Boran locale. Le bestie erano state variamente colpite: da peste bovina, che fa marcire la carne di un animale vivo, da pleuro-polmonite e da febbre del texas, che decimò gli Hereford; dalla peste ovina, dalla scabbia, dalla febbre della costa orientale, il virus più mortale di tutti, diffuso tra gli animali dalle zecche.
Delamere imbracciava il fucile e abbatteva un intero branco di zebre per impedire il diffondersi dei virus. Immergeva ogni giorno tutti i suoi capi di animali in una sola soluzione disinfestante, ma con scarsi risultati. Poi scoprì che il suolo era povero di minerali, per cui passò alla coltivazione di orzo e di grano che furono ripetutamente spazzati via dalla ruggine. Dopo il fungo vennero le locuste, e poi la siccità che imperversò per tre anni a partire dal 1907. Allora Delamere trasferì bovini e pecore a Soysambu, Elmenteita, l’attuale quartier generale della tenuta di Delamere, sul fondovalle della Rift Valley vicino al lago Naivasha e qui incominciò a prosperare.
Ai vecchi tempi, i somali erano i servitori alla moda, i “boys” più importanti in qualsiasi casa. Erano immensamente fieri ed eleganti, l’essenza stessa della nobiltà nomade, coi loro panciotti e le loro catene da orologio d’oro, le loro basse voci gutturali e i loro costumi rigorosamente maomettani. Molti di loro, come i Masai, erano ricchi di bestiame nel proprio paese, al di là della frontiera settentrionale del kenya. Le loro sorti erano legate a quelle del padrone, e a questo venivano associati per nome: Delamere con Hassan, Berkeley Cole con Jama, Denis Finch Hatton con Bilea, la danese Karen Blixen con Farah. Quest’ultima scrisse come una casa senza un somalo era come una casa senza un lume: «Ovunque andassimo, eravamo seguiti a distanza di un metro da queste nobili, misteriose e vigilanti ombre».
I Kikuyu, il cui territorio si estendeva da Nairobi fino alle pendici del monte Kenya, e che in seguito avrebbero superato in ambizione politica tutte le altre tribù, venivano impiegati come uomini di fatica o servitori domestici. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-18) furono arruolati, con le altre tribù, come portatori nei Fucilieri d’Africa e nel Carrier Corps, e morirono a migliaia in una delle più vergognose campagne mai condotte dall’esercito inglese, in cui, all’inizio delle ostilità, 300.000 soldati dell’Impero Britannico furono respinti da 14.000 tedeschi (3.000 tedeschi e 11.000 africani), sotto il comando del conte Paul Emil von Lettow-Vorbeck (1870 - 1964) che dovette ricorrere anche al saccheggio per procurarsi le provviste per tutta la durata della guerra. Quando si concluse, le forze britanniche erano state ridotte a 35.000 uomini, e le tedesche a soli 1.300. [caption id="attachment_12648" align="aligncenter" width="1000"] Africa orientale tedesca, truppe davanti davanti le case degli ufficiali. A destra: Paul Emil von Lettow-Vorbeck, chiamato anche il Leone d'Africa, era un generale dell'esercito imperiale tedesco e comandante delle sue forze nella campagna tedesca dell'Africa orientale.[/caption] Nel 1920 il protettorato fu diviso in due parti: protettorato del Kenya, costituito dalla fascia costiera di dieci miglia, sottoposto alla sovranità del sultano di Zanzibar; colonia del Kenya, sottoposta alla sovranità britannica e costituita da tutti gli altri territori del retroterra. Le zone di produzione erano le seguenti: Gilgil e Nakaru erano i centri della compravendita di bestiame, Thika era il caffè, Njoro era il grano, Naivasha era ovini e bovini, e Londiani, nell’ovest, era il lino. Tutte le leggi sulla terra avevano chiaramente favorito gli europei a discapito della popolazione africana. Gli altipiani sarebbero rimasti esclusivamente bianchi in eterno. Fu una politica miope e i Kikuyu fecero la loro prima protesta organizzata nel 1922 solo due anni dopo il Kenya divenne una colonia ufficiale della Corona. Ma gli anni Venti segnarono l’inizio di un’era più stravagante ed euforica. I coloni iniziarono a rimpiazzare le loro case di fango e canniccio con un’architettura più fastosa. Costruirono residenze a un piano in stile “Surrey Tudor” – un’architettura tipica del Kenya e dei suoi costruttori indiani, che cercarono di imitare Edwin Lutyens – con tetti di tegole invece che di lamiera ondulata, con focolari di pietra e grandi, comodi soggiorni, e con spaziose verande sostenute da pilastri di mattoni. Un Ealing Equatoriale provocato dagli infissi universalmente in acciaio, dall’angustia delle finestre stesse, volutamente piccole per tenere alla larga il temutissimo sole, e dalla cupezza delle pietre giallo-grigiastra, che gli artigiani indiani scalpellavano dalla roccia per fare pareti solide come casermoni. Anche i giardini vennero tracciati splendidamente: prima venivano seminati e spianati i prati, poi venivano scavati i margini, su una scala degna dei castelli di Sissinghurst o di Cranborne. Il suolo era ricco, non c’era stagione morta, e il giardino era sempre al massimo del suo splendore, con canna scarlatta, frangipani, bougainvillea alternata a tenere rose inglesi, gigli dal lungo stelo, fucsie e, come tocco finale, i viali di jacaranda, di Nandi flame e di eucaliptus. L’aria profumava di gelsomino e mimosa. I numerosi boys addetti ai giardini annaffiano e potavano tutto il giorno, facendo oscillare i pangas sui fitti fili d’erba kikuyu che formava la superficie del prato, dei campi da tennis e di croquet. I coloniali avevano riesumato le insegne della loro civiltà – l’argenteria, i ritratti e le stampe di famiglia, pezzi pregiati di mobilia, porcellane e tutte le chincaglierie che potevano essere sottratte alle vecchie soffitte delle case di famiglia che avevano lasciato per sempre. Molti commissionarono ad artigiani indigeni passabili imitazioni di mobili stile Seicento inglese. Con la loro abbondanza di servitù – a cui gli ordini andavano impartiti quotidianamente – gli aristocratici e gli ufficiali del ceto medio finirono col diventare schiavi degli immancabili riti della vita col maggiordomo. La tavola veniva imbandita – più volte – con le stuoiette segnaposto con scene di caccia, la coppa di petali di bougainvillea, la bottiglia di piri-piri (una innovazione presa in prestito dalla colonia indiana) e lo sherry, che si beveva con la minestra. Lo strabiliante talento africano per la preparazione dei cibi europei, in particolare dei pudding inglesi, fu fonte di insperato piacere. Dal canto loro gli africani erano strabiliati dal numero di pasti che gli europei reclamavano ogni giorno, e dalla quantità del cibo consumato. Sembrava che gli europei non facessero altro che mangiare. Questi vecchi coloniali fecero di tutto per conservare lo stile di vita delle nobili famiglie inglesi del contado, sostituendo la volpe da una coda di volpe portata dall’Inghilterra che veniva tenuta da un indigeno, il quale doveva fuggire dagli inglesi a cavallo.
[caption id="attachment_12650" align="aligncenter" width="1000"] Dal giorno della sua apertura, la vigilia di Capodanno del 1913, il Muthaiga Country Club ha occupato un posto speciale negli affetti dell'Africa. Con la sua miscela distintiva di comfort, cultura e fascino, si è affermato come uno dei club dei membri più illustri e popolari del continente. Ancora oggi, le sue tipiche pareti rosa ospitano alcuni dei grandi ricordi e delle pietre miliari della ricca storia dell'Africa orientale. Non è solo la storia a rendere il Muthaiga Club così speciale. Oggi, alcuni dei suoi momenti più belli sono contemporanei: le sue accoglienti camere da letto con bagno privato e i cottage con i loro comfort moderni, le sue strutture ricreative e per il fitness all'avanguardia, la sua biblioteca recentemente ampliata con oltre 15.000 libri. E, naturalmente, c'è il cibo, di cui il Club è giustamente orgoglioso: sontuosi banchetti di arrosti freschi e specialità del giorno seguiti dai nostri chef di formazione classica.[/caption]
I loro piaceri venivano organizzati con gusto per la forma e goduti con leggendaria passione. Avevano i loro campi di polo, i loro ippodromi, i loro country club, le loro gimcane e i loro pranzi, e, sempre, una riserva illimitata di champagne. Si ricorda un pranzo di Lord Delamere del 1926 con 250 invitati che finirono ben 600 bottiglie di champagne. Per far visita agli amici si coprivano spesso grandi distanze.
Un prominente “soldato colono”, che si sarebbe occupato del programma post-bellico, era Lord Francis Scott, figlio secondogenito del Duca di Buccleuch. Scott sarebbe divenuto il successore di Lord Delamere come leader dei coloniali dopo la morte di quest’ultimo, nel 1931.
Lord Francis aveva fondato un club di Polo e acquistato una scuderia di pony somali mentre faceva ancora i rilevamenti topografici delle sue terre e viveva in una tenda e le stoviglie di porcellana della moglie erano imballate in casse ammonticchiate in un angolo.
Successivamente grazie soprattutto ai Safari, di cui Denys George Finch Hatton (1887 - 1931) ne fu brillante precursore3, il Kenya divenne una romantica avventura per uomini ricchi e benestanti. Fu così che la già citata Happy Valley agli inizi del 1920 iniziò a prendere forma. Più o meno tutta la zona era compresa tra le Aberdares e la città di Gigil in pianura. Ma il suo vero centro era al di là del fiume Wanjohi che scende dal Kipipiri – la montagna che si erge alla sua fonte – e che è unita alla scarpata dell’Aberdare da una sella formata da una foresta di cedri. Era un paesaggio di suprema bellezza – la vallata, una grande pianura erbosa, la scarpata boscosa e verdeggiante con macchie di ginestra selvatica. Dalla Valle del Wanjohi si poteva vedere, oltre la vicina montagna del Kinagopo, dalla forma di un lungo e stretto promontorio, la Rift Valley. I grandi avvenimenti mondani erano le settimane delle corse dei cavalli a Natale e a mezza estete, quando gli agricoltori venivano a Nairobi e mettevano a soqquadro la città, inscenando corse coi rickshaw, spegnendo le luci stradali a colpi di fucile, azzuffandosi ubriachi nei bar – guidati dallo stesso Dalemere, che sparava alle bottiglie sugli scaffali – e buttandosi a capofitto in qualsiasi avventura sessuale avesse covato nei mesi precedenti. Delamere era ormai un personaggio dall’aspetto eccentrico, con i capelli sciolti sulle spalle, a mo’ di protezione dal sole, circondato dai capi Masai dipinti d’ocra, che si adunavano quotidianamente intorno al suo tavolo all’ora della prima colazione per assistere al suo rituale mattutino che consisteva nell’ascoltare il suo unico disco “All Aboard for Margate” sul fonografo a manovella. Egli viveva ormai come un membro della loro tribù, li ammirava appassionatamente e aveva imparato la loro lingua. Tuttavia non lo si poté mai accusare di “fare l’indigeno”: era decisamente troppo fiero per una cosa simile.
[caption id="attachment_12654" align="aligncenter" width="1000"] Nella riserva naturale Hippo point, una tipica casa di campagna inglese d’Africa e una torre eccentrica vivono circondate dalla natura selvaggia. Hippo Point è una riserva naturale privata, a circa settanta chilometri a nord di Nairobi su un istmo tra il lago Naivasha e il lago Oloiden, a un’altitudine di 2.000 metri. Grazie al suo microclima quasi perfetto, vi risiedono oltre 350 specie di uccelli e circa 1.200 animali. La proprietaria, Dodo, è un’interior designer di origine tedesca sposata con Michael Cunningham-Reid, figliastro di uno dei più illustri rappresentanti del Kenya coloniale, Lord Delamere. Figura chiave dell’era post-coloniale, nipote di Lord Mountbatten di Burma, Delamere fu uno dei pochi inglesi dell’epoca a stringere stretti rapporti con la nuova élite africana, e fu il primo straniero a ottenere il passaporto della neonata Repubblica del Kenya. Ph. Maganga Mwagogo[/caption]
I coloniali si radunavano nelle poche roccaforti del lusso che esistevano sul finire degli anni Venti. Quella di più vecchia data era il Norfolk Hotel, vi era anche il Torr’s Hotel, soprannominato Tart’s Hotel – l’albergo delle sgualdrine – costruito da Grogan nel 1928, dove ogni pomeriggio si tenevano tè danzanti nel salone circolare chiamato Palm Court. La più esclusiva di queste roccheforti era il Muthaiga Country Club. Un giovane visitatore francese, il conte Frédéric de Janzé (1896 - 1933), descrisse il Muthaiga Club in Vertical Land, un libro di “ritratti a penna e bozzetti di viaggio”. Il Muthaiga, col suo campo da golf, i suoi campi di squash, i prati per il croquet e il salone da ballo, era un club esclusivo per agricoltori dell’interno, perfettamente in linea con lo stile di St James’s Street. Benché le donne vi fossero ammesse per necessità, gli ebrei non lo erano. Il Muthaiga era costruito in stile keniota, ad opera di artigiani indiani, con grandi blocchi di pietra, rivestiti di ghiaietto rosato, le solite finestre degli infissi di acciaio e piccole colonne doriche per dargli un tocco di grandiosità. Le pareti erano color crema e verde, come in una casa di cura ben tappezzata, i pavimenti erano di lucido parquet. Con le sue comode poltrone foderate di cinz rievocava l’atmosfera delle case aristocratiche della Valle del Tamigi, di Betjemania – di Ranelagh o Hurlingham. Gli scapoli dormivano in una spartana “ala militare” in stanzette simili a celle. Le camere doppie, con letti gemelli, erano spaziose e austere, secondo lo stile coloniale, i bagni lussuosi. Tutti i pagamenti venivano effettuati tramite “buoni” di vari colori – i contanti non cambiavano mai di mano. Si poteva avere un drink a ogni ora del giorno, ma tra le sei e le otto di sera il bar era riservato ai soli uomini, o ai duri, come Waugh descrisse i membri che incontrò al Club. Il Club rimaneva vuoto per giorni, poi, all’improvviso, era impossibile trovare un tavolo, a meno di non essere nelle grazie di un potente somalo di nome Alì – che dirigeva la sala da pranzo ed era considerato un “genio” nell’arte di scovare un tavolo. Le serate erano occupate dal bridge, dal backgammon e dai molti ricevimenti privati, incluso l’annuale Ballo di Eton.
Durante le settimane delle corse il Club diventava veramente vivace. Le bevute incominciavano subito dopo mezzogiorno, con gin rosa prima di pranzo, seguito da gin fizz all’ombra dell’ora del tè, dai cocktail (Bronx, White Lady, Trinity) prima di cena e infine da whisky e champagne fino al momento di spegnere le luci. Ai balli serali, gli ospiti sembravano agghindati per comparire a corte, e le donne erano tenute a indossare un abito diverso ogni sera. Più tardi, mentre si scatenavano partite di ragby improvvisate, tutti i mobili della sala da ballo venivano fatti a pezzi come segno di proterva superiorità di classe. Una delle attrazioni più popolari era un gentiluomo di nome Miles, Arthur Tremayne ('Tich' 1889 - 1934), che si arrampicava fin sul soffitto e si appendeva alle travi come uno scimmione. Al culmine della stagione, le danze si concludevano di solito verso le sei del mattino, per quattro o cinque notti di seguito. Immediatamente dopo, entravano in scena il golf e lo squash. Nessuno aveva voglia di andare a dormire. Entro l’ora di pranzo del giorno dopo, era di nuovo tutto in ordine, erano state presentate ammende da pagare con i buoni colorati, e i trasgressori più scatenati venivano convocati nell’ufficio della Segreteria. Interessante appare in tutte le descrizioni dei testimoni oculari, come il tempo dedicato al sonno risulti così poco, soprattutto tenendo conto delle scappatelle sessuali per cui il Club andava famoso. Il principe di Galles, Edward, visitò il Kenya nel 1928, e l’atmosfera del Muthaiga gli risultò immediatamente congeniale.
[caption id="attachment_12651" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Josslyn Victor Hay, 22° conte di Erroll (1901 - 1941), Alice de Janzé (nata Silverthorne 1899 - 1941) e Diana Caldwell Cholmondeley (1919 - 87).[/caption]
Sempre nel 1928, un anno prima del grande crollo, che assottigliò drasticamente la popolazione dei residenti. morì anche il padre di Josslyn Hay, e Josslyn (1901 – 41) divenne Conte di Erroll e Alto Conestabile di Scozia. Viveva in Kenya già da quattro anni – con sua moglie di otto anni più grande di lui e con due divorzi alle spalle, Lady Idina Sackville (1893 - 1955) –, nel cuore di Happy Valley. Bello com’era, era inevitabile che fosse consapevole del suo fascino e aveva anche un fare arrogante e una grande eleganza nel vestire. I suoi capelli lisci biondi come l’oro formavano due onde ai lati delle tempie. I due coniugi organizzarono le feste più oltraggiose, con i migliori cocktail e le migliori droghe, nudità e scambi di coppie. I due divorziarono nel 1930. Idina si sposò altre quattro volte.
In questo stile di vita edonistico della Happy Valley trovò anche spazio Alice de Janzé (nata Silverthorne 1899 - 1941) residente alla Wanjohi Farm circondata dai suoi amati animali. Ricca ereditiera di Chicago, divenne contessa sposandosi con un aristocratico francese, il colto conte di Janzé, discendente da antichissima famiglia bretone. Alice e il marito divorziarono dopo una lunga serie di tradimenti da parte di lei, con un matrimonio consumato tra la nascita delle due figlie (presto lasciate al marito) ed una serie di safari in Kenya. In seguito ebbe una turbolenta relazione con Raymund de Trafford, che culminò in una violenta scenata alla Gare du Nord, a Parigi. Alice scoprì che lui non l’avrebbe mai sposata e allora gli sparò e poi rivolse l’arma contro se stessa. Sopravvisero tutti e due e nel 1928 convolarono a nozze, per divorziare poco dopo.
Dopo il divorzio con Idina, Lord Erroll ebbe numerose relazioni con diverse signore dell’Happy Valley, Alice de Janzè compresa. Il breve matrimonio con una ereditiera inglese gli permise di abitare nella magnifica dimora della moglie sul lago Naivasha.
Nel 1940 una nuova coppia arrivò a Nairobi: Lord Jock Delves Broughton (1883 - 1942) e Diana Caldwell Cholmondeley (1919 - 87), la giovanissima ed elegante moglie. Poco dopo Lord Erroll e Diana ebbero una tresca che non si preoccuparono di tenere nascosta. Il 23 gennaio del 1941 i due ammisero la loro relazione davanti a Jock che concesse il divorzio a Diana e brindò alla loro salute di fronte a tutti i commensali del Muthaiga Club. La mattina dopo Lord Erroll fu trovato morto nella sua auto, ucciso da un colpo di pistola alla testa. Jock fu incriminato dell’omicidio, e anche se fu dichiarato innocente, il caso non fu mai risolto. Da questo episodio il regista britannico Michael Radford (1946) produsse il film capolavoro di Misfatto bianco (White Mischief - 1987), che rese celebre la bellissima attrice italiana Greta Scacchi.
E così la follia continuava, l’ultima “Montagna incantata” per dirla alla Thomas Mann, stava per segnare la fine dell’ultimissima Belle Époque europea su suolo africano, prima che in Kenya la rivolta dei Mau Mau nel 1952, aprì quella strada per l’indipendenza dall’impero britannico che sancì la distruzione delle bellissime opere architettoniche, piante, parchi e strutture che l’uomo bianco – in così pochi anni – era riuscito ad edificare.
 
Per approfondimenti
1 Fox J., Misfatto bianco, Mondadori, Milano, 1986,pp. 29.30.
2 J. H. Patterson, I mangiatori di uomini di Tsavo, Libri caccia e pesca, Firenze, pp. 20-21.
3 Il famoso amante della più celebre baronessa Karen Blixen, la quale narrò di Hatton nel suo celebre Out of Africa (La Mia Africa del 1937).
_Blixen K., La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 1986.
 
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«Ed ecco il perché dell’importanza di quel primo, piccolo regno di ogni uomo, quel lembo di terra, di valle, quell’orizzonte ridotto, ma così pieno di vita, ciò appunto che in tedesco si riesce ad esprimere meglio con il nome di Heimat, per noi piccola patria fra i nostri monti dove trovi racchiusa tutta la tua storia personale, dove hai visto la prima luce, i tuoi primi momenti di vita, dove hai visto le prime montagne, hai sentito la voce di tuo padre e di tua madre, il primo canto degli uccelli, il tuo essere insomma. Ed è questa piccola patria, che racchiude in sé tutto ciò che ti forma, ti appartiene, tutta la tua storia, luogo dove riposano tutti i tuoi morti, questa terra che è ciò che resta dei tuoi avi, del loro vissuto dove un giorno troverai anche tu compimento del tuo percorso. Questa piccola patria appunto la senti in te, come tu stesso sei parte di essa, in un abbraccio senza fine. E per grandi ed ampi possano essere gli orizzonti da te desiderati, ricordati sempre che il tutto parte da lì, da quel minuscolo puntino che sei Tu e la tua Heimat»1.
Tra i tanti smembramenti imperiali avvenuti dopo il 1918, quello del Tirolo, appare uno dei più significativi. Questo unico territorio oggi è stato letteralmente diviso in tre macro aree: Tirol (Tirolo), Südtirol (Alto Adige) e Welschtirol (Trentino); la prima porzione è appartenente alla Repubblica austriaca e le ultime due alla Repubblica italiana2.
Prima di avviarci lungo il viale della discussione, dobbiamo necessariamente operare un chiarimento: tutti gli Stati nazionali formatosi nel secolo dell’Ottocento, si sono plasmati attraverso aggressioni militari e l’unità d’Italia non fa eccezioni. Se da una parte la creazione del Regno d’Italia ha portato forza a tutti i popoli italici, diversamente la convivenza di culture, di lingua italiana, diverse crea ancora qualche scompenso. Sicuramente la Casa Reale dei Savoia ha avuto il merito di aver pensato, per la prima volta, ad un’unità non solo più culturale (Petrarca, Dante, Boccaccio), ma anche politica. Quando si crea uno Stato, la morale e l’etica non è mai presente, anche se in seguito la fazione che si afferma, cerca di legittimare il consenso attraverso un’ideologia quantomeno discutibile.
Questo è accaduto in Tirolo: un territorio parzialemente di lingua italiana, veniva inglobato – dopo una guerra mondiale in cui i tirolesi sono stati invasi –, al nuovo Stato sabaudo. Contrariamente alla retorica risorgimentale, le porzioni del Südtirol e Welschtirol non erano mai appartenute al Regno d’Italia, ma appartenevano ad un Impero inter-nazionale, plurilinguistico, smembrato unicamente per scopi politici, come già affermato.
Ovviamente in tali territori era presente una piccola fiamma di irredenti (ovvero i corrispettivi nazionalismi di altri territori imperiali), ma rappresentarono unicamente una piccola percentuale della popolazione, anche in Trentino. Il Regno d’Italia prima, il fascismo e successivamente la Repubblica italiana, ha operato in forma sistematica una pulizia etnica tedescofila, affinché il debole primato degli italiani si affermasse, ed in larga parte oggi in Südtirol e Trentino ci sono riusciti pienamente.
Uno Stato veramente autorevole dovrebbe – soprattutto nei tempi moderni, dove oramai gli Stati nazionali sembrano essersi consolidati –, riaprire oggi un dialogo con i veri abitanti del trentino sulla storia che è stata per tanti anni negata.
Difatti, soprattutto nel dopoguerra, grandi immigrazioni provenienti dal sud Italia – soprattutto nell’istruzione e pubblica amministrazione – sono giunte in Trentino e Südtirol per “italianizzare” queste popolazioni, con la conseguente chiusura ermetica e odio da parte di coloro, che la prima guerra mondiale l’avevano combattuta dalla parte imperiale ed erano felici di rimanerci .
Quando parlo di dialogo affermo certamente atti concreti: ovvero la rimozione di targhe storicamente non veritiere e filo-risorgimentali, installazioni scultoree di antichi patrioti della Grande Guerra austroungarici, magari accanto a quelli italiani, per cercare un piccolo, timido passo verso una maggiore accettazione tra gli antichi abitanti e i nuovi. Ma, temo, i tempi ancora non sono maturi, poiché la causa risorgimentale viene ancora mostrata con forza dalla Repubblica Italiana che non ascolta.
Molte strade italiane oggi, da Palermo fino a Milano, sono dedicate al personaggio storico Cesare Luigi Giuseppe Battisti (1875 - 1916), noto come Cesare Battisti. Abitante del Trentino, tutti gli italiani lo conoscono come un patriota ed eroe, poiché diede la sua vita per il “quarto Risorgimento” verso il nemico atavico austriaco.
[caption id="attachment_12635" align="aligncenter" width="1000"] Fatto prigioniero dagli Austriaci, insieme a Fabio Filzi, sul monte Corno il 10 luglio 1916 fu riconosciuto, processato e in quanto cittadino austriaco condannato all'impiccagione, per tradimento, come disertore. L' esecuzione ebbe luogo il 12 luglio 1916 nel castello del Buon Consiglio a Trento.[/caption]
In realtà, quello che ancora viene chiamato con boria il “quarto risorgimento” altro non è che una guerra coloniale – come il Regno d’Italia ne fece molte (insieme alla stragrande maggioranza dei Paesi Europei) – in nome del “sacro egoismo” del Primo Ministro Antonio Salandra (1853 - 1931). Una appropriazione di territori altrui che nell’epoca di fine Ottocento e inizio Novecento era all’ordine del giorno.
Cesare Battisti fu un socialista irredento, autore di quella propaganda a favore del conflitto mondiale, informatore del Regno d’Italia dal 1902, parlamentare a Vienna presso il Abgeordnetenhaus dal 1911, membro della Dieta di Innsbruck dal 1914 e infine combattente in divisa italiana dal 1915.
Ora se l’Italia dovesse operare un’analisi egoistica e nazionale dovrebbe sinceramente riconoscere a Battisti la grandezza che in Italia già possiede, ma se opera un’analisi – non tirolese – ma imparziale, ci si renderebbe conto che tale personaggio storico – appartenente ad un territorio mai stato del Regno d’Italia e soprattutto appartenente ad una minoranza –, era contemporaneamente spia italiana e parlamentare a Vienna, il che implicava un giuramento di fedeltà all’Imperatore Franz Joseph I.
Di un elemento possiamo star certi: Battisti fu un uomo coraggioso che perseguì il suo scopo senza indugi fino all’atto estremo, il che ovviamente non ne cancella le sue ambiguità politiche. Dal carattere melanconico e corrucciato per via di un terribile doppio lutto familiare4, si formerà presso l’Università di giurisprudenza a Graz e l’Università di lettere di Firenze; infine sarà influenzato dalle teorie socialiste di Edmondo De Amicis (1846 - 1908) a Torino. Ma com’era sotto il profilo giuridico il Trentino di allora? Lo stesso irredentista Ottone Brentari (1852 - 1921) racconta durante una sua conferenza nel 1920: «Negli anni prima della guerra in Trentino, si era raggiunto un alto grado di agiatezza, con un alto livello ambientale di boschi, pascoli, campi e vigneti, che davano un frutto annuo medio di circa 50.000.000 di corone, mandando i suoi prodotti nelle province interne dell’Austria. Fiorenti e ben organizzati, erano anche i commerci e le industrie, specialmente a Rovereto e le cooperative e le casse rurali largamente diffuse e abilmente amministrate, impedivano le chiusure, gli sfruttamenti e le irragionevoli rincari, ed il paese viveva agiato e quietamente. […] Si deve ricordare che l’Austria, se nel campo politico era tutto quello che di esecrabile si poteva configurare, nel campo amministrativo poteva in moltissimi casi, servire di modello e sotto tale aspetto sarebbe bene non annettere il Trentino all’Italia, ma annettere l’Italia al Trentino, perché se l’Italia politicamente era dentro il Trentino, il Trentino potrebbe sotto molti aspetti redimere l’Italia»5.
Nel Trentino ogni comune, sotto la parte amministrativa, era completamente autonomo, e sottoposto esclusivamente senza ingerenze del Governo, alla Giunta Provinciale – emanazione diretta della Dieta Elettiva. Trento e Rovereto erano città autonome, persino con diverso regolamento elettorale. La giustizia era a buon mercato e rapida, tanto che non si vede mai il caso di una causa con durata pluriannuale, pur passando per tre stanze6. C’è da meravigliarsi se pensiamo che a quel tempo, l’Austria in fatto di leggi – in particolar modo sulle leggi sociali – era certamente all’avanguardia.
L’impiego della manodopera infantile era stata largamente limitata con le leggi scolastiche del 1897, per tutti i bambini dai sei a quattordici anni. Nel 1874 era intervenuto il regolamento industriale sull’impiego della manodopera infantile. Nel 1870, risalivano le leggi sulla Coalizione, che permettevano anche agli operai di unirsi alle associazioni di categoria e ai tribunali arbitrari dell’industria. Nel 1888 fu introdotta la circolazione obbligatoria sulle malattie e nel 1889 quella sull’invalidità.
Cesare Battisti che di contro non aveva interesse in tale rispettabile percezione del mondo di equilibrio, nel 1898 inviava per la sua tesi di laurea, una “Guida del Trentino”, a Carlo Porro (1854 - 1939), allora comandante militare della piazza di Milano, che rispose incoraggiandolo a continuare l’operato; mentre nel 1902 passava informazioni ai servizi segreti italiani. Fu con queste manovre ideologiche, già ben delineate e affinate, che il 17 luglio del 1911, Battisti fu eletto al Parlamento di Vienna, con i voti dei socialisti e dei liberali (contrari all’entrata nel conflitto dell’Austria), compiendo quel giuramento di fedeltà a Sua Maestà l’Imperatore, che creerà il vero dibattito sulla sua figura: «Ella prometterà sotto fede di giuramento di essere fedele ed obbediente a Sua Maestà l’Imperatore, di osservare inviolabilmente le leggi fondamentali dello Stato e tutte le altre leggi, e di adempiere scrupolosamente i suoi doveri»7.
Battisti asserì: «lo prometto»! Come poteva l’irredento giurare fedeltà ad un governo di cui non ne riconosceva nessuna autorevolezza, poiché la sua patria era il Regno d’Italia? Inoltre l’opera svolta dal trentino in favore del Servizio Informazioni Militare italiano fu un atto a danno dell’Impero del quale era sempre stato cittadino non avendo mai disdetto la sua appartenenza. La sua azione, considerando il suo passaggio al Regno d’Italia durante il conflitto, diviene oggettivamente un tradimento verso la sua patria aggravata dalla sua collaborazione con i servizi italiani8. Ancora in una lettera scritta l’otto agosto del 1914 e diretta al Re Vittorio Emanuele III:  «Se al popolo nostro nel cui nome, sappiamo di poter con tranquilla coscienza parlare, sarà chiesto qualsiasi sacrificio, esso saprà mostrarsi degno della sua storia e nessuna cosa gli parrà grave, pur di poter salutare in Voi il Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali».
Da queste poche righe di chiusura dello scritto, risultano evidenti due gravi affermazioni di Battisti, che fanno capire la mancanza di verità e di coerenza, in quanto egli non poteva – nella maniera più assoluta – parlare a nome del popolo trentino, in quanto la percentuale sulla quale poteva contare appariva, in termini di consenso politico, estremamente minoritaria. Il voler poi salutare il “Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali”, stava a significare un fatto allarmante: l’abbandono della guerra chiamata di redenzione, per la liberazione del trentino, ponevano l’uomo politico pienamente compiacente verso un’annessione che ambiva a possedere caratteri coloniali e imperialistici.
[caption id="attachment_12633" align="aligncenter" width="1000"] A destra: una foto storica di uno Schutzen risalente ai primi del 900 del fotografo A. Stockhammer all'interno del suo atelier fotografico di Hall.[/caption]
La sua notoria voglia di guerra, contrariamente al suo partito militante, si evince da una lettera del 22 agosto del 1914, due settimane dopo la sua fuga in Italia, dove presentava domanda di arruolamento volontario nel Regio esercito italiano: «Per il caso di guerra con l’Austria mi metto a completa disposizione del Ministero della Guerra, chiedendo d’essere arruolato nell’esercito regolare o in quei corpi volontari che si organizzassero d’intesa col Governo. Ho 39 anni. Ma sono forte, abituato ai disagi della montagna. Da vent’anni mi dedico allo studio della geografia fisica del Trentino, sul quale ho pubblicato molte memorie scientifiche e molte guide turistiche. Nutro fiducia che la mia domanda sia bene accolta e sarò mandato fra le prime file alla frontiera»9.
Sarà così che un anno più tardi, il 10 luglio del 1916, il Battaglione Vicenza, formato dalle Compagnie 59ª, 60ª, 61ª e da una Compagnia di marcia comandata dal tenente Cesare Battisti, di cui è subalterno anche il sottotenente Fabio Filzi, riceve l’ordine di conquistare il Monte Corno di Vallarsa (1.765 m) sulla destra del Leno in Vallarsa, occupato dalle forze dell’Austria-Ungheria.
Nell’operazione, i Landesschützen austriaci catturarono e riconobbero Battisti e Filzi, che furono tradotti e incarcerati a Trento. L’ironia del destino, ha voluto che a riconoscere i due cittadini imperiali, sia stato proprio un italiano d’Austria, Bruno Franceschini (1894 - 1970) da Tres in Val di Non, formatosi nella scuola media a Rovereto, quindi studente di ingegneria al Politecnico di Vienna e ora alfiere del III battaglione, undicesima compagnia del primo reggimento Landesschützen. A differenza del coraggioso Battisti, Filzi diede generalità false, ma fu smascherato dallo stesso Franceschini.
Occorre spendere due parole per l’alfiere imperiale che nel 1933, dallo scrittore Andrea Busetto, nel saggio L’Italia e la sua guerra, bollava come traditore il serio soldato Imperiale e regio. Ancora Franceschini viene appellato come «rinnegato» nel novembre del 1965 dalla penna dello storico Piero Pieri (1893 - 1979) nel libro Cesare Battisti nella Storia d’Italia, consegnato al Quirinale al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (1898 - 1988). Tutto questo fango, solo per aver fatto il suo dovere di soldato10.
Come già affermato il Trentino era terra d’Austria da sempre. Bruno Franceschini era cittadino austriaco di lingua italiana, ufficiale al fronte dell’esercito Imperiale e regio. Non era un «soldataccio» come si legge in alcuni libri che parlano di Battisti, ma un militare austriaco, quindi non un traditore e men che meno un rinnegato. Si era trovato di fronte, dopo uno scontro violento, a due compatrioti che avevano vestito le insegne del nemico e impugnato le armi contro i conterranei.
Così il 12 luglio 1916, insieme a Fabio Filzi, fu condotto davanti al tribunale militare, che aveva sede al Castello del Buonconsiglio, adibito a caserma. Durante il processo non si abbassò mai alle scuse, né rinnegò il suo operato e ribadì invece la sua piena fede verso l’Italia. Respinse l’accusa di tradimento a lui rivolta, basata sul fatto d’essere suddito asburgico passato alle file nemiche e deputato del Reichsrat. Egli si considerò invece soltanto un soldato catturato in azione di guerra: «ammetto inoltre di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l’Italia, in tutti i modi – a voce, in iscritto, con stampati – la più intensa propaganda per la causa d’Italia e per l’annessione a quest’ultima dei territori italiani dell’Austria; ammetto d’essermi arruolato come volontario nell’esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l’Austria e d’essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. In particolare ammetto di avere scritto e dato alle stampe tutti gli articoli di giornale e gli opuscoli inseriti negli atti di questo tribunale al N. 13 ed esibitimi, come pure di aver tenuto i discorsi di propaganda ivi menzionati. Rilievo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva nell’indipendenza delle province italiane dell’Austria e nella loro unione al Regno d'Italia»11.
L’esecuzione avvenuta presso Fossa Cervara fu penosa, ma quella era la sorte per chi veniva tacciato di tradimento: difatti Battisti non fu fucilato come un militare, ma dopo essersi vestito con abiti civili (l’Austria non lo riconosceva come un soldato, ma come un parlamentare disertore) la morte gli pervenne tramite capestro. Battisti, di animo sereno durante il processo, fin dall’inizio conosceva i rischi. Dunque nell’esprimere un difficile giudizio storico, Cesare Battisti è stato coraggioso durante la guerra, ma sul lato politico, morale e umano – per via della sua voluta nomina a Parlamentare imperiale, già collaboratore con il Regno d’Italia –, non possiamo affermare la stessa cosa: questa è la macchia dell’irredento.
Dopo il primo conflitto mondiale con l’annessione al Regno d’Italia, l’opera della quale Battisti si è reso partecipe, il Trentino non è migliorato socialmente o economicamente, ma ha vissuto anni terribili sotto la dominazione italiana, in particolar modo sotto il periodo fascista. Importanti furono le distruzioni materiali dei monumenti riguardanti il passato: targhe, sculture e lapidi furono divelte. Il monumento all vittoria di Bolzano sorge nel luogo dove si stava edificando un monumento ai Kaiserjäger12 caduti durante la guerra.
Nel regio decreto del 21 gennaio 1923 N. 93, la circolare per i prefetti “Nomi regionali e toponomastica” N. 12637, dell’otto agosto dello stesso anno, si evince come: «Oltre la denominazione ufficiale di «Provincia di Trento» e la denominazione regionale «Venezia Tridentina» nessun’altra denominazione è per questa provincia consentita. Come denominazioni sub-regionali sono ammesse soltanto quelle di Alto Adige per la parte settentrionale della provincia di Trento e di Trentino propriamente detto per la parte meridionale. In via provvisoria e di tolleranza è ammesso l’uso delle voci di Oberetsch e Etschländer come corrispondenti a quelle di Alto Adige e di Atesino. Ogni diversa denominazione è vietata e segnatamente quella di Süd-Tirol, Deutschsüdtirol, Tirol, Tiroler o altre equivalenti e simili».
[caption id="attachment_12631" align="aligncenter" width="1000"] I tiratori rappresentano l'autoaffermazione dei tirolesi. A giugno festeggiano i 500 anni di Landlibell. Il Landlibell, conosciuto anche come Libello dell'Undici, è un documento redatto dalla Dieta del Tirolo a Innsbruck il 23 giugno 1511. Foto: ©APA[/caption]
A Trento il 26 settembre del 1922, l’Ufficio Distrettuale Politico emanava l’ordinanza n.5227/1, circa le «Insigne e diciture dell’antica monarchia austriaca»: «Dovranno pertanto essere rimosse tutte le aquile austriache e tirolesi, i ritratti, i simboli, gli emblemi, le tabelle, con o senza motto, che ricordano la dinastia d’Asburgo, l’Austria, e il Tirolo come unità provinciale austriaca dell’anteguerra. Per le aquile austriache vale la distinzione fra l’aquila del Sacro Romano Impero che finiscono col 1814 e quella dell’Impero austriaco posteriore. Se si tratta di stemmi e emblemi anteriori al 1814 che abbiano valore artistico, si dovrà riferire subito al Commissario Generale Civile facendo proposte, che saranno sottoposte all’esame del locale Ufficio di Antichità e Belle Arti. La rimozione di questi residui è da eseguirsi con mezzi efficaci sì da farli definitivamente scomparire. Dovranno pure essere tolti dalla circolazione tutti gli stampati di qualsiasi ufficio pubblico che, per avventura, portassero ancora in capo o nel testo, o dove che sia, un accenno o un simbolo del tramontato regime. Non sono ammesse cancellature o sovrapposizioni delle nuove scritte sopra le antiche. Dovranno essere messi fuori uso i timbri, i sigilli e le buste che eventualmente portassero ancora le accennate diciture».
Negli stessi anni si plasma la Legione Trentina, già nata a Firenze nel 1917, che aveva per scopo la celebrazione dell’italianità del Trentino, riunire a sé tutti i volontari trentini arruolati nel Regio esercito durante la Grande Guerra, raccogliere notizie riguardanti i volontari, offrire appoggio morale con assistenza pratica agli aderenti e onorare i martiri e i caduti per la causa italiana. L’associazione nel dopoguerra potenziò l’attività, in direzione di una strenua difesa dell’idea nazionale, compresa anche la meta del confine di Stato da portare al Brennero, oltre che la realizzazione del Museo del Risorgimento per la celebrazione dell’italianità del Trentino14.
Nel Manifesto dell’organizzazione del 10 aprile 1919, si legge: «I volontari trentini, nell’imminenza della sospirata annessione ufficiale all’Italia […] ritengono di dover riaffermare completo il loro pensiero su una questione che tanto appassiona e preoccupa l’animo dei patrioti. […] Esistono delle persone che […] hanno offeso il sentimento del nostro popolo mostrando ostentatamente il loro attaccamento agli Asburgo. […] Questi individui non possono restare impuniti: ogni generosità, ogni clemenza suonerebbe ingiuria a quanti hanno sofferto per aver amato la patria, sarebbe considerata segno di debolezza della stessa gente indegna. Non rappresaglie chiedono i volontari trentini, sibbene quella giusta sanzione che i colpevoli stessi attendono: per gli austricanti, freddezza da parte del pubblico, esclusione dalle Associazioni, eliminazione dai pubblici uffici o trasferimento in altra regione; per i rinnegati, per i disonesti, per i fiduciari dell’Austria, per le spie, per i vermi della società, il disprezzo della pubblica opinione, il boicottaggio da parte dei cittadini, l’esclusione da qualsiasi impiego pubblico e privato. Compiuta questa giusta e doverosa opera di epurazione e raggiunte in tal modo la tranquillità del paese e la concordia degli animi, il Trentino nostro riprenderà fiducioso e con animo forte il lavoro intenso necessario per il suo risorgere dopo le perdite inestimabili di vite e di beni»15.
Il Tirolo subalpino a poco a poco fu “redento”. Oggi il trentino è a maggioranza italiana, con minoranze tedesche ben presenti, e in minor entità sono presenti le lingue del ladino, del cimbro e del mocheno. In tutti i territori dell’ex Tirolo unificato, esistono numerosissime associazioni degli Schützen che si ispirano agli Standschützen che sino ai primi decenni del XX secolo costituivano una milizia (Landsturm) presente nella Contea del Tirolo e nella quale prestavano volontariamente servizio i cittadini tirolesi.
[caption id="attachment_12634" align="aligncenter" width="1000"] La corona di spine (in foto la sfilata del festival nazionale nel 1959) è un simbolo della divisione del Tirolo[/caption]
Gli Standschützen erano quindi dei civili che la domenica erano tenuti ad esercitarsi presso un poligono di tiro, che costituiva la sede della compagnia. Le antiche finalità erano quelle di disporre di una forza militare per la difesa del territorio, da mobilitare solo in caso di necessità. Questo avvenne per l’ultima volta durante la prima guerra mondiale. Quindi le associazioni degli Schützen intendono far rivivere questa tradizione anche dopo lo scioglimento del corpo, avvenuto con la caduta della Monarchia asburgica16.
Da un punto di vista giuridico gli Schützen sono associazioni di volontariato di carattere privato senza alcun compito di difesa territoriale: le compagnie, spesso provviste di armi modificate (fucili a salve e spade con punta smussata), partecipano a manifestazioni di carattere storico-rievocativo e a cerimonie religiose.
Durante le rinomate processioni, di rilievo è la corona di spine posta su di una portantina portata a mano da molteplici Schützen, a simboleggiare la divisione ingiusta della contea del Tirolo. Le associazioni promuovono attività di recupero di luoghi di importanza storico-culturale e religiosa, con il restauro di postazioni risalenti alla prima guerra mondiale e l’apertura al pubblico di eremi e santuari. Questo antico corpo porta avanti valori conservatori, identificabili con il motto «Dio, patria e famiglia». Si propongono quindi la tutela dei valori cattolici, delle tradizioni e dei costumi tipici del territorio un tempo tirolese.
Un dialogo costruttivo e soprattutto onesto, oggi in Trentino e Südtirol è quanto meno doveroso, per continuare a vivere nella concordia del sogno kantiano dei popoli fratelli.
 
Per approfondimenti
1 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.26; 2 Per una correttezza geografica, denomineremo da adesso in avanti l’Alto Adige in Südtirol e Welschtirol sarà denominato Trentino.

3 Oggi le ricorrenze storico-culturali degli Schützen sud-tirolesi, non sono affatto nulla di delittuoso, come tuonano ancora una volta i nazionalisti italiani, ma tali manifestazioni sono il ricordo di un intero popolo che ama ancora la propria identità e tradizione, come in una qualsiasi altra parte della Repubblica italiana. La doppia cultura del Tirolo, italiana e austriaca, ha posto tale terra sempre come un ponte tra due culture: latina e mitteleuropea.

4 Nel 1887 muore suo fratello maggiore e nel 1890 il padre. 5 Brentami O., Le rovine della guerra in Trentino, Antonio Cordani, 1919, p.17. 6 Se conosciamo la giustizia oggi, per fare tre stanze di giudizio, mediamente il tempo trascorso è pari a vent’anni, quando non si incorre nella prescrizione. 7 Piccoli P. e Vadagnini A., De Gasperi un trentino nella storia dell’Europa, Panorama, 1992, p.86.

8 Battisti nella sua veste di Deputato presso il Parlamento di Vienna, ebbe a sua disposizione documenti tecnici riservati, pubblicati dal Dipartimento Imperiale e regio edile della Luogotenenza di Innsbruck (con annesse carte topo-geografiche), i quali fornirono al politico trentino le informazioni dettagliate delle strade principale del territorio.

9 Sardi L., Cesare Battisti… l’altro volto, 21-10-2016 - http://valsuganaww1.altervista.org/28-novembre-borgo-cesare-battisti-laltro-volto/.
10 Nel dizionario della Lingua italiana Fernando Palazzi, anno di edizione 1939 si legge: «Rinnegare vuol dire dichiarare e dimostrare con parole e con atti di non voler più riconoscere ed onorare fede, idee, istituzioni, persone che prima erano, come dovevano essere, sacre, venerate e care; negazione e abbandono che, non poche volte, muovono da viltà o da basso calcolo personale di ambizione, di avidità – abiurare, apostatare (rinnegamento della propria religione) – ripudiare, sconfessare, prevaricare, pervertire».
11 Biguzzi S., Cesare Battisti, UTET, Torino, 2008, p.534-535.

12 La particolare denominazione, che li differenziava dai comuni reparti di Jäger (cacciatori), derivava dalla particolare fedeltà, sempre manifestata dalla popolazione tirolese alla figura dell’Imperatore, per cui erano considerati, in uno stato che non ha mai avuto una guardia del corpo combattente, il vero reparto a difesa della persona del sovrano. Contrariamente a quanto si crede, inizialmente i Kaiserjäger non erano un reparto specializzato nella guerra in montagna, ma erano solo un’unità d’élite della fanteria austro-ungarica, basato su truppe tirolesi. In seguito il Kaiserjäger divenne il simbolo delle truppe austriache sul fronte alpino.

13 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.52. 14 Oggi il Museo del Risorgimento porta il nome di Fondazione Museo Storico del Trentino. 15 Archivio storico del Comune di Arco, Carteggio e Atti annuali 1919, busta 381-598.

16 In Südtirol questo sistema gerachico comprende il Landeskommandant, il Landeskommandant-Stellvertreter, il Landeskurat e il Bezirksmajor - ognuno di questi a capo di uno dei 7 Bezirke (circondari): Bolzano, Bressanone, Burgraviato e val Passiria, val Pusteria, Alta val d’Isarco, Bassa Atesina e val Venosta. In Trentino le ventisei compagnie trentine sono organizzate in modo analogo e dispongono anche di una banda musicale (Musikkapelle Kalisberg) inserita nella compagnia di Civezzano.

© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Sabato 20-11-2021, alle ore 18:00, presso il Palazzo dei Capitani del Popolo nella Sala dei Savi in Ascoli Piceno, si è svolto il 61°evento dell’associazione Das Andere avente come titolo “IL SANFEDISTA GIOVANNI PICCIONI – LE GESTA DEI VOLONTARI PONTIFICI 1848-63”. L’evento presentato dall’architetto Giuseppe Baiocchi, già presidente associativo, ha visto come relatori il dott. Timoteo Galanti e uno degli eredi rimasti, Luigi Piccioni sulla figura del patriota marchigiano ed ascolano Giovanni Piccioni (1798 – 1868).
L’evento ha visto la presenza del sindaco dott. Marco Fioravanti e del Consigliere Regionale Andrea Maria Antonini, visto anche il patrocinato dell’Assemblea Legislativa delle Marche. Una figura storica, quella del Piccioni, che si è battuta per lo Stato Pontificio, perseguendo quella fedeltà richiesta dallo stesso Papa Pio IX dopo l’invasione sabauda, senza una formale dichiarazione di guerra allo Stato della Chiesa. L’incontro ha narrato gli scontri, i rovesci, così come i costumi ed i luoghi degli anni che corrono tra il 1848 e il 1863, anno in cui il Piccioni sarà arrestato dalle autorità piemontesi e rinchiuso in carcere.
Una storia avvincente, che ha visto un pubblico molto nutrito che ha animato il dibattito finale. L’associazione Das Andere, si farà promotrice per la creazione di una via e/o di un busto alla memoria del nostro Patriota locale, poiché egli non fu un “brigante” come la vulgata storica risorgimentale ha voluto etichettargli, ma un soldato irregolare dello Stato Pontificio, che ha combattuto la sua guerra, anche dopo l’annessione delle Marche al nuovo Regno d’Italia: lo dimostrano i gesti, di cui il Piccioni si è ricoperto, poiché non ha mai derubato regnicoli innocenti, ma solamente truppe irregolari piemontesi.
 
 
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Sono le 7,45 del 20 Marzo del 1868, quando le freddi carceri del Forte Malatesta di Ascoli Piceno, vedono uscire la salma di Giovanni Piccioni (1798 - 1868), un personaggio odiato dalla classe politica massonica ascolana, quindi italiana, poiché da lì a due anni la “Roma eterna” papalina sarà costretta a soccombere all’aggressione sabauda e l’Unità italiana sarà completata con più di un plebiscito accomodante.
Ma chi fu il Piccioni, etichettato dalla vulgata post-unitaria come “Brigante”? Fu sicuramente un patriota papalino, per la precisione comandante degli Ausiliari pontifici. Così lo descriveva il comandante della colonna mobile degli Abruzzi e dell’Ascolano Maggiore Generale Ferdinando Pinelli (1810 - 65) lo 03-02-1861: «progenie di ladrone – che – s’annida sui monti (…) vile e genuflesso (…) indifferente ad ogni principio politico, avido solo di preda e di rapina, egli è prezzolato scherano del Vicario, non di Cristo, ma di Satana; pronto a vendere ad altri il loro pugnale, quando l’oro carpito alla stupida credulità dei fedeli non basterà più a sbramar la sua voglia. (…) sacerdotal vampiro, che colle zozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra».
[caption id="attachment_12573" align="aligncenter" width="1000"] Bartolomeo Pinelli, Due 'Briganti' riposati nella 'Campagna', studio per la tavola IV della Nuova raccolta di cinquanta costumi de 'Contorni di Roma' (1823), firmato e datato 1818, acquerello e grafite su carta (Collezione privata ).[/caption]
Giovanni Piccioni nasce nella parrocchia di Farno, precisamente nella frazione di San Gregorio di Monte Calvo il 17 maggio del 1798, lo stesso anno in cui il capoluogo Ascoli Piceno vedeva abbattuta presso la Piazza del Popolo – agorà principale dell’urbe – della Statua di Gregorio XIII (innalzata nel 1577) ad opera dei giacobini francesi occupanti. I genitori, appartenenti alla società di campagna, Giovan Battista Piccioni e Antonia della villa S. Gregorio, lo portano a battesimo da don Filippo de Rubeis nella Chiesa di San Pietro in Fleno. L’educazione, durante l’infanzia, cattolica secondo i precetti di Santa Romana Chiesa, furono per lui la roccia su cui basare tutta la sua esistenza e la sua rettitudine, senza scadere nel bigottismo. Particolarmente un altro prete don Marco, fratello del padre, gli fece da precettore: fu chiaramente messo in guardia dalle idee liberali, massoniche (carbonare) e rivoluzionarie che correvano in quegli anni in tutta la penisola.
Questa sfumatura diviene fondamentale se si vuole comprendere l’evoluzione storica dell’Unità d’Italia e la caduta del Trono e dell’Altare, ovvero di quelle Monarchie Assolute che costituivano la conformazione politica dell’Italia pre-unitaria. Ebbene il nuovo potere borghese, nato dalle ceneri della rivoluzione francese (1789) si afferma in quasi tutta Europa. In Italia il tentativo di impadronirsi del potere è più rallentato, grazie anche alla presenza del Papa, nonostante le scorribande napoleoniche. La borghesia per auto-affermarsi crea – appunto – l’entità della Massoneria che a sua volta ha una sua spiritualità dettata da un altro “Creatore” il grande architetto dell’universo o la Dea Ragione (a seconda dei distretti): chiaramente si riprende a piene mani l’idealismo cartesiano, ovvero “l’uomo fondamento del reale”; l’uomo sarà al centro di questo progetto, non più il Dio cristiano. Un concetto filosofico che sarà ripreso dai più grandi filosofi tedeschi come Kant, Hegel ed infine Marx.
A queste dottrine seguiranno le più sanguinose guerre che la storia umana ricordi.  In tempi non sospetti Mons. Henri Delassus (1836 - 1921) nel suo capolavoro “Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà” esponeva con lucidità estrema quello che doveva divenire realtà qualche secolo dopo. Riferendosi alla Carboneria italiana, divisa in Vendite (a differenza della Massoneria, che si divideva in Loggie), in specificato modo alla Carboneria dell’Alta Vendita guidata dall’uomo senza volto “Nubius” (1824 - 48), Delassus ci riporta un documento risalente al 1817: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicesimo e perfino dell’idea cristiana, la quale, se rimanesse in piedi sopra le rovine di Roma, né sarebbe più tardi la perpetuazione. Ma per giungere più certamente al nostro scopo e non prepararci da noi stessi dei disinganni che prolunghino indefinitivamente o compromettano il buon successo della causa, non bisogna dar retta a questi vantatori francesi, a questi nebulosi tedeschi, a questi inglesi malinconici che credono di poter uccidere il cattolicesimo ora con una canzone oscena, ora con un sofisma, ora con un triviale sarcasmo arrivato di contrabbando come i cotoni inglesi. [...] Con questo passaporto (dell’ipocrisia), noi possiamo cospirare con tutto il nostro comodo e giungere, a poco a poco, al nostro scopo. [...] Il Papa, chiunque sia, non verrà mai alle Società segrete; tocca alle Società segrete di fare il primo passo verso la Chiesa e verso il Papa, collo scopo di vincerli tutti e due. Il lavoro al quale noi ci accingiamo non è l’opera d’un giorno, né di un mese, né di un anno. Può durare molti anni, forse un secolo: ma nelle nostre fila il soldato muore e la guerra continua. [...] Quello che noi dobbiamo cercare di aspettare, come gli ebrei aspettano il Messia, è un Papa secondo i nostri bisogni. [...] Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra. E volete sapere il perché? Perché con questo solo, per stritolare lo scoglio sopra cui Dio ha fabbricato la sua Chiesa, noi non abbiamo più bisogno dell’aceto di Annibale, né della polvere da cannone e nemmeno delle nostre braccia. Noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto, e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i S.Bernardi della Cristianità. Questa convinzione che la sovversione dell’ordine sarebbe avvenuto soltanto dall'infiltrazione nelle gerarchie ecclesiastiche era una pietra miliare nell’azione dettata dall’Alta Vendita ».
Fatta questa precisazione doverosa sui princìpi di una invasione militare storica, senza una dichiarazione di guerra formale, l’adolescenza di Giovanni Piccioni passò anche per la sua abitazione presso la Rocca di Monte Calvo, sopra il lago di Talvacchia, ed ancora oggi una targa sopra l’architrave del portale d’ingresso così recita: «Ad Dei gloriam; haec domus diruta et arsa ob insano furore MDCCCIV; inde Joacchinus ed Joanne Piccioni instauraverunt MDCCCXLVII» (In gloria di Dio; questa casa fu distrutta e bruciata dall’insano furore nel 1804; finché Gioacchino e Giovanni Piccioni non la restaurarono nel 1847). Qui conoscerà Angela Capponi, sua futura moglie alla fine degli anni Cinquata dell’800 da cui ebbe ben nove figli: Leopoldina Piccioni (1822-23), Leopoldo Piccioni (1823 - 98), Gioacchino Piccioni (1831 - 1907), Giorgio Piccioni (1836 - 63), Giovan Battista Piccioni (1842 - 1908), ed ancora le figlie Rosalia, Michelina, Giacinta.
Le prime gesta militari lo vedono impegnato nei moti rivoluzionari fallimentari del 1830-31, all’elezione di Papa Gregorio XVI (1765 - 1846), capitanato da Giuseppe Sercognani (1780 - 1844) del “Regime Unitario” ex colonnello della Repubblica cisalpina.
Il Piccioni a San Gregorio di Acquasanta e a Rocca di Monte Calvo respinse le truppe repubblicane e divenne a 33 anni una figura dominante della reazione al colpo di Stato avvenuto ad Ascoli il 22 febbraio del 1831 che vedeva nelle figure dei conti Giuseppe Rosati-Sacconi, Orazio Piccolomini-Centini, Serafino Panichi, dell’avvocato Francesco Talianini e dal dott.Francesco Merli, il Comitato Provinciale di Governo. Attaccatissimo alla Santa Sede, alle sue direttive, sanfedista dal 1817, dedicò la sua vita alla causa papalina.
Ancora le cronache storiche lo vedono impegnato, nel 1849, come capitano dei Volontari Pontifici, sotto l’energica guida del montegallese Don Domenico Taliani Comandante Superiore dello stesso corpo nominato dal Segretario di Stato dello Stato Pontificio Sua Eminenza Card. Giacomo Antonelli (1806 - 76) per conto del beato Pio IX (1792 - 1878).
La situazione dello Stato Pontificio alla metà dell’Ottocento - Regno che comprende le attuali regioni italiane del Lazio, Marche, Umbria e Romagna -, era delicatissima e piena di insidie. I moti unitari, spinti da quasi cinquant’anni di illuminismo, laicismo, relativismo avevano minato lo spirito dello Stato Pre-Unitario: lo stesso Pontefice Pio IX, Mastai-Ferretti da Senigallia, dopo un primo pontificato vicino al movimento unitario – che ricordo per il Papa significava unicamente una confederazione di Regni, sotto la religione cattolica, uniti da un’economia comune -, dopo la Repubblica Romana macchiatasi dei sanguinosi reati del triunvirato mazziniano, aveva finalmente compreso il piano di assogettazione massonica dell’Unità della penisola italiana, che iniziava ad intravedere nel Regno di Piemonte e Sardegna della dinastia Savoia, la testa di ponte per un cambio radicale nella cultura, nell’identità, nella lingua di tutte le popolazioni italiche. Gli “Stati Canaglia”, come venivano denominati i pacifici Regni Pre-Unitari, dovevano cadere.
[caption id="attachment_12575" align="aligncenter" width="1000"] Sul muro della casa di Rocca di Montecalvo, una lapide ricorda la lotta di Giovanni Piccioni. Rocca di Montecalvo è frazione del comune di Acquasanta Terme, la quale è composta da due nuclei di case: Rocca di Sotto (m. 658) e Rocca di Sopra (m. 700). Si trova lungo le pendici montuose che scendono nella valle del torrente Castellano, da cui dista qualche centinaia di metri, all'altezza dell'inizio del lago di Talvacchia. Il suo territorio confina anche con quello di Cervara che si trova a nord-ovest, a circa due chilometri in linea d'aria, ed è collegata da un sentiero, praticabile, che attraversa valli e boschi. Da Ascoli Piceno è raggiungibile con la machina tramite la strada che da Porta Cartara conduce a Valle Castellana. Il bivio per Rocca di Montecalvo si trova, a destra, un chilometro circa dopo lo sbarramento della diga di Talvacchia.[/caption]
Fu così che, quando il 24 novembre del 1848, dopo l’omicidio brutale del primo ministro papalino il conte Pellegrino Rossi (1787 - 1848), Pio IX fu costretto alla fuga da Roma, caduta in mano alla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, la storia tocca il nostro Capitano Piccioni.
Di gran concerto, da Gaeta, il Pontefice pensò bene di attuare una controffensiva immediata partendo dalla provincia conservatrice dell’ascolano, già capace precedentemente di dare ripetute sconfitte alle truppe regolari napoleoniche che occupavano il territorio dello Stato Pontificio sotto Pio VII.
Il territorio della Marca Pontificia, possedeva uomini da sempre, storicamente, molto legati allo Stato Pontificio, forti nella tenacia dei propositi e nel ricordo delle gesta dei padri, formati da una natura aspra, un clima rigido, una povertà contadina e guidati dai curati del luogo che ricordavano come l’idea liberale sabauda provenisse dal tentativo demoniaco del secolo di distruggere l’uomo e la fede. Geograficamente l’ascolano, molto vicino al confine con il Regno delle Due Sicilie - nel 1848 ancora libero ed indipendente - era luogo perfetto per dare supporto alle truppe irregolari papaline, le quali per sfuggire ai soldati di linea repubblicani potevano sconfinare e ricevere supporto. L’habitat favoriva l’imboscata: ineguale, accidentato, montuoso, intersecato da fossi e burroni, privo di articolazioni stradali e cosparso a macchia di radure.
Don Taliani, aveva alle dipendenze il Maggiore Palomba (reclutatore della truppa e rifornitore di armi e munizioni), il Maggiore Francesco De Angelis e il Maresciallo dei Carabinieri papalini Scipione Alboni. Nei 1.500 uomini reclutati, divisi per bande che setacciavano il territorio alla ricerca delle truppe regolari, Giovanni e Leopoldo Piccioni controllavano insieme tutto il territorio che corre da Rosara a San Gregorio di Monte Calvo; altri territori controllati erano l’acquasantano, Mozzano e dintorni, Castel Trosino, Spelonga e Montegallo.
Una prima descrizione dell’uomo lo ritrae di altezza medio-bassa (1,69 m.), dagli occhi chiari, naso aquilino, mento oblungo, fronte spaziosa, barba misto-lunga, colorito diafano con una corporatura media. I volontari indossavano principalmente un cappellino pretino, degli scarponi da montagna, dei calzoni corti spesso neri, l’uniforme comunemente chiamata “federiga” sulla quale veniva appesa un’effige in rame raffigurante l’angelo costode o la madonna del Santissimo pianto come coccarda; mentre le armi comuni potevano essere due pistole o uno scavezzo a spadino. Le truppe irregolari, con il sacerdote in testa, spesso marciavano intonando inni Sacri.
Chiaramente questa sorta di guerra clandestina è atroce, da ambo le parti: le truppe del Taliani sono anch’esse spietate e non danno quartiere con coloro che avevano tradito il Regno. Spesso chi veniva catturato era decapitato e la sua testa appesa come “monito” dai suoi antichi commilitoni su una picca: questa era la punizione per chi tradiva Cristo e il Papa. La durezza degli scontri è talmente alta che lo stesso don Taliani verrà sospeso a divinis dal Vescovo Zelli nel 1849, ma il montegallese continuò incurante a celebrare la Santa Messa prima e dopo gli scontri, definiti “stimata e religiosissima opera”.
Gli scontri, “la reazione all’azione” repubblicana, iniziarono per paradosso un Giovedì Santo del 5 aprile del 1849, quando le truppe dell’ascolano Matteo Costantini (1786 - 1849), colui che veniva denominato “Sciabolone” – ex Brigante, ora passato alla paga della Giovine Italia –, che manteneva in mano alla Carboneria il borgo di Arquata, lasciò la città in direzione Acquasanta per un pattugliamento di routine, lasciando unicamente 25 uomini in difesa.
Fu così che scattò l’attacco dei Volontari Pontifici, tutti spelongani, che entrarono ad Arquata passando per la porta Sant’Agata, capitanati da Fabriziani. Armati con utensili di fortuna, ma anche con diversi fucili, conquistarono presto il centro del Paese al grido di «Viva il Papa Re!», costringendo il contingente – capitanati da un tenente svizzero – a retrocedere dentro la Rocca di Arquata. I papalini non ricevendo gli aiuti promessi da don Taliani (provenienti da Montegallo), si ritirarono in serata a Spelonga, mentre parallelamente Giovanni Piccioni si trovava con 700 uomini ad Acquasanta. Anche Balzo ed Uscerno – i paesini che oggi formano “Montegallo” (che non esiste realmente, ma contraddistingue solo un territorio) erano pronti a fornire uomini alla causa di Pio IX.
Il giorno dopo 200 uomini di don Domenico Taliani avevano già divelto le insegne repubblicane e posto nuovamente quelle dello Stato Pontificio, quando gli uomini di Fabriziani tornarono ad Arquata.
[caption id="attachment_12577" align="aligncenter" width="1000"] La Santa Messa in rito antico era la liturgia usata dai sacerdoti cattolici del tempo. Nella liturgia cattolica, la messa tridentina è quella forma della celebrazione eucaristica del rito romano che segue il Messale Romano promulgato da papa Pio V nel 1570 a richiesta del Concilio di Trento, che trasmette la liturgia in uso a Roma, il cui nucleo risale al III-IV secolo. Fu mantenuta, con modifiche minori, nelle edizioni successive del Messale Romano fino a quella promulgata da papa Giovanni XXIII nel 1962, precedente alla revisione ordinata dal Concilio Vaticano II. Per quattro secoli fu la forma della liturgia eucaristica della maggior parte della Chiesa latina fino alla pubblicazione dell'edizione del Messale promulgata da papa Paolo VI nel 1969 a seguito del Concilio Vaticano II, che rivoluzionò la liturgia in cui il sacerdote non aveva più le spalle all'assemblea, ma - de facto - a Cristo. Il pagliativo della riprogettazione dell'Altare Maggiore, provocò ulteriori aggravamenti di carattere architettonico-cultura con l'abbattimento di numerosissimi beni culturali negli anni Settanta del 900. Considerata forma extraordinaria del rito romano dal motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI del 2007, l'usus antiquior del rito romano ha avuto una nuova diffusione fino al 2021, quando il motu proprio Traditionis custodes di papa Francesco ha reso l'uso del Messale del 1962 soggetto alla supervisione del vescovo diocesano e ha sancito che il Messale riformato dopo il Concilio Vaticano II è «l'unica espressione della lex orandi del Rito romano». Il rito antico è oggi ancora celebrato quasi in tutte le diocesi del mondo,[/caption]
Ascoli Piceno rimane scossa per la presa pontificia della Rocca di Arquata e inviò un corpo di spedizione per sedare “la rivolta”. Ma altre negative notizie dovevano giungere per i repubblicani: l’11 aprile, infatti, alcune Guardie Nazionali e dei Carabinieri in una perlustrazione sul Monte Rosa, furono attaccati dalle bande del Piccioni e subirono perdite ingenti.
Il compito di stanare i volontari del prete, è affidato al Colonnello Rosselli il quale guida la IV Compagnia della Legione del Tronto e un distaccamento di Carabinieri. Arrivati nel paesino di Coperso mettono in fuga alcuni papalini che inseguiti dagli infaticabili uomini riescono a trovare scampo solo nelle selve del Monte Teglia e del Ceppo. Altri scontri proseguono fino a notte a San Gregorio, dove si rifugiava Piccioni con i suoi uomini: anche il capitano deve ritirarsi dai duri attacchi del Colonnello. Il giorno seguente comunque gli uomini di Rosselli sono costretti a loro volta al ripiegamento, non solo per essere stati tagliati alle spalle da altri ribelli che avevano assediato Acquasanta, ma per i ripetuti attacchi che i soldati ricevevano durante gli spostamenti.
Durante la ritirata si assiste ad un omicidio delle truppe repubblicane: il diciottenne Domenico Laudi, un pastorello, viene scambiato per un “brigante” e trucidato sul posto. Parallelamente ad Acquasanta, il capitano Matteo Costantini è assediato dai volontari pontifici, i quali si ritirano dopo aver catturato negli scontri eminenti personaggi dell’Ascoli Repubblicana, tra i quali si ricordano Tito Calandri (figlio del Preside di Ascoli) e Pietro Parracini (Ispettore della Pubblica Sicurezza).
Acquasanta rimane dunque in mano repubblicana ed è da lì, che il 14 aprile del 1849 partono le truppe del Colonnello Rosselli alla volta di Arquata in mano agli uomini di Fabriziani e don Taliani.
Gli uomini della Giovine Italia, occupano Capodirigo: l’azione perfettamente pensata dal colonnello repubblicano, induce i papalini a lasciare la città di Arquata per mettersi alla macchia.
La rocca di Arquata viene trattata come una città ribelle: arresti dei più importanti uomini del paese e soprattutto l’arresto del Priore del Convento dei Riformati, rei non solo di aver nascosto le armi ai “briganti”, ma di aver infiammato i loro spiriti semplici con le loro omelie. La casa di Fabriziani è incendiata a Spelonga dove si pensò bene di prendere in ostaggio il curato del paese e lo stesso padre del capitano Fabriziani.
Anche il paese di Colle doveva subire l’ira del Colonnello Rosselli, ma una burrasca estiva ne ferma gli intenti: nel paese si invoca il miracolo, poiché si pregava da due giorni la Madonna della Salute, molto venerata. Il 19 dello stesso mese è la volta del rogo della casa di don Taliani nel territorio montegallese e di altri importanti arresti.
Alla conclusione della retata, nonostante l’occupazione da parte repubblicana di Arquata, Acquasanta e Montegallo, le forze papaline, rintanate nelle selve circostanti rimasero praticamente intatte.
Nonostante una certa propaganda, per stroncare definitivamente i volontari pontifici, il Triunvirato romano, decise di inviare ad Ascoli altre truppe, capitanate dal Colonnello Marchetti e dal generale Garibaldi, il quale era già passato per Ascoli Piceno il 25 gennaio di quello stesso anno e si rivolse agli ascolani con queste parole: «ricordatevi di non essere più dei sacrestani del Papa [...] se fossero stati altri tempi vi direi: fate una rivoluzione; per oggi vi comando moderazione e calma», ebbene mai parole furono così poco ascoltate. Infatti – curiosità vuole – dirigendosi il giorno dopo per Rieti, “l’eroe per la libertà” si espresse sugli ascolani in questo modo: «Vidi le robuste popolazioni di montagna e fummo bene accolti e festeggiati ovunque e scortati da loro con entusiasmo. Quei dirupi risuonarono degli evviva alla libertà italiana, e da lì a pochi giorni, quel forte ed energico popolo, corrotto e messo su dai preti, sollevavasi contro la Repubblica Romana, ed armavasi con le armi somministrate dai neri traditori, per combatterla» .
Ma Garibaldi era destinato a non tornare più nella città ascolana. Difatti gravissime notizie giungevano da Roma: i francesi comandati dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot (1791 - 1863) avevano occupato Civitavecchia, mentre gli austriaci liberavano la Romagna e scendevano per le Marche e l’Umbria; gli spagnoli erano sbarcati a Fiumicino, mentre i Borbonici avevano varcato i confini a Terracina in direzione Roma. Il Triunvirato romano, intento a difendere la città eterna, rimando ogni piano su scala nazionale di difesa dal cosidetto “bringantaggio” ed addirittura le truppe ad Ascoli furono richiamate a Roma per la sua difesa.
Così il 30 aprile le truppe di Giovanni Piccioni e quelle di don Silvestri avevano liberato Coperso e Acquasanta. Fu così che il 1 maggio tra urla festanti di gioia della popolazione locale – che tanto aveva sofferto per l’occupazione forzata dei repubblicani – anche ad Arquata sventolava nuovamente la bandiera pontificia sulla torre più alta della città. Tutti i paesi della Valle del Tronto erano nuovamente sotto il controllo dei papalini.
Ascoli è pronta a cadere, soprattutto dopo la fuga del carbonaro Calindri in direzione marittima a San Benedetto del Tronto. L’8 maggio cadono Maltignano e Mozzano per mano di truppe borboniche. Piccioni scrive al conte Marco Sgariglia Gonfaloniere della città: «risoluto di occupare la Vostra città.. senonché ripristinarvi il Governo Pontificio. Il mio ingresso sarà più che pacifico.. qualora che ci si faccia opposizione.. assaliremo la città da tutti i lati.. e metteremo a sacco e foco, nulla riguardando».
Il giorno seguente una banda di 300 pontifici attaccano Porta Cappuccina ad Ascoli Piceno, con l’ausilio di diverse famiglie fedeli alla Sacra Pantofola di Pio IX che avevano occupato alcune case attaccando le poche Guardie Civiche rimaste in città. Dopo due ore di scaramucce la difesa repubblicana sembra reggere e passò alla storia – dalla propaganda carbonara – come un’incredibile vittoria insperata. De facto non ci fu nessun ferito da nessuna delle due parti, salvo pochi giorni dopo l’ennesima sconfitta – presso la vicina Rosara – di alcuni Carabinieri e Guardie civiche inseguite fino a Porta Pia dai volontari di Giovanni Piccioni.
Dunque la situazione non poteva essere delle migliori per i liberali, quando Antonio Orsini (1788 - 1870) – appena nominato “Commissario straordinario” da parte del Triunvirato Romano – giunse ad Ascoli Piceno la sera del 16 maggio, con la città che stava cedendo alle pressioni degli insorti, con i borbonici che avevano sconfinato su Maltignano e le truppe francesi si erano oramai portate a poche centinaia di metri dalle mura.
Come ci ricorda lo storico Giorgio Enrico Cavallo «Libri, opuscoli e giornali anticattolici venivano pubblicati senza problemi. Pio IX, nel breve Gravissimus supremi, parlava di “odio acerrimo e del tutto diabolico contro la nostra religione”. [...] Gli indizi di una presenza luciferina nella Rivoluzione europea c’erano tutti, come ormai sappiamo: basti tornare a quel Voltaire che chiamava Frères en Belzebuth i propri migliori amici. [...] Nel 1863, Giosuè Carducci (1835 - 1907) dava alle stampe la prima edizione del celebre inno A Satana: “Salute, o Satana/O ribellione/O forza vindice/De La ragione!/Sacri a te salgono/Gl’incensi e i vòti!/Hai vinto il Geova/Dei sacerdoti”!
L’inno che risente profondamente della cultura massonica (Carducci era appassionato libero muratore), ottenne un vasto eco. [...] L’inno, va detto, non era tutto “farina del sacco” di Carducci. Lo spunto veniva da un noto passo di Proudhon (1809 - 65) che val bene citare per comprendere il quadro europeo [...].
[caption id="attachment_12587" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra Giovanni Piccioni, a destra il farmacista Luigi Piccioni, pronipote di Giovanbattista.[/caption]
Nel 1877, Mario Rapisardi (1844 - 1912) pubblicò a Milano il suo poema Lucifero, che accolse l'applauso anche di Giuseppe Garibaldi, il quale scrisse una lettera di elogi al poeta catanese, firmandosi “vostro correligionario” in Lucifero. [...] Nell'Ottocento il culto di Satana si è esteso a macchia d'olio tra Europa ed Americhe. [...] Come la rivoluzione francese, anche quella italiana ebbe una componente demoniaca, nel senso di elogio del diavolo quale naturale oppositore alla Chiesa. [...] il regno della rivoluzione è il regno del diavolo [...] Perché il diavolo [...] è il primo rivoluzionario».
Ad attendere Orsini accorrono i Malaspina, gli Sgariglia, gli Arpini ed altri cognomi filo repubblicani. Dalle sue parole emerse come: «Io vado per le brevi: uso formale e leggi militari; chi manca viene severissivamente punito; so discernere il reo dall’innocente, l’istigatore dall’ingannato; ma piombo con mano ferrea su tutti coloro che hanno osato prendere le armi a sostegno del delitto, del furto, dell’assassinio [...]. Tutti quelli che, per i loro antecedenti si conoscono indebitamente avversi all’attuale ordine politico ed aderenti al brigantaggio, non possono portare armi di sorta: se rinvenuti con le armi alla mano, o se nelle loro abitazioni trovansi armi e munizioni da guerra, quale che sia la quantità, saranno arrestati e tradotti innanzi alla Giunta Militare: provato il fatto, entro il termine di 24 ore, saranno fucilati. Tutti quelli che presteranno aiuto ai briganti o li ricovereranno saranno punti con la fucilazione. Quei villaggi che, per caso, opponessero resistenza o si opponessero al ristabilimento dell’ordine, saranno trattati secondo il diritto di guerra [...] dovendosi sempre rispettare l’Augusta Religione».
Non solo: il Commissario straordinario ordinava tramite circolare come gli stemmi pontifici abbattuti nei luoghi sacri dovevano essere ripristinati ed ancora ordinava ai parroci ascolani l’imposizione – durante l’omelia dal pulpito – di leggere le disposizioni prese dal nuovo governo per estirpare quello che veniva definito come “brigantaggio”. I sacerdoti refrattari sarebbe stati fucilati senza processo secondo le disposizioni militari.
Al 15 maggio del 1849 le cittadine di Offida, Montalto, Montelparo, Ortezzano, Patrignone, Comunanza, Monterinaldo, Montemonaco, Montefortino erano in mano papalina.
Agatone De Luca Tronchet e Vincenzo Vallorani vengono nominati per la riconquista dei paesi menzionati; guidano rispettivamente le truppe dei volontari fermani e un drappello di finanzieri. I Paesi abbandonati dalle truppe in eterno movimento dei coscritti Trono e Altare, tornano nelle mani dei mazziniani che il 23 maggio bruciano tutte le insegne e i simboli dello Stato Pontificio in un enorme falò a Montalto.
Ripresa gran parte della provincia Orsini puntò ora ad abbattere Giovanni Piccioni in una battaglia risolutiva. Comanda a due colonne di soldati capitanati dal Tenente Gaggiano di stanarlo sulle montagne di Rosara. L’incontro tra le due fazioni è duro, violento e gli uomini di Piccioni hanno infine la meglio con le truppe repubblicane in fuga. Successivamente le truppe dei mazziniani subirono degli arresti anche in diverse località montane come Balzo e Propezzano. Le sconfitte acuiscono gli aguzzini in città: Orsini giudica sommariamente 156 detenuti politici con un processo da farsa hitleriana. Solo alcune operazioni diplomatiche ascolane riuscirono a scongiurare le esecuzioni, commutando, il 27 maggio dello stesso mese, la pena capitale in quella dei lavori forzati a vita. L’azione torna di nuovo in mano agli ex soldati dello Stato Pontificio che il 29 maggio conquistate le colline intorno all’ascolano e comandate da don Taliani e Giovanni Piccioni alle 14:00 iniziarono dai declivi a moschettare i difensori repubblicani, i quali riuscirono solo con un assalto alla baionetta – uscendo da Porta Solestà – a metter in fuga i reazionari. Ma il giorno dopo, il 30 maggio del 1849 – le stesse unità combattenti di don Taliani, Piccioni e Cecchini attaccarono nuovamente le mura cittadine. Obiettivo era per i papalini non la presa della città, ma l’instabilità istituzionale dei repubblicani nei riguardi della popolazione, in attesa dell’arrivo delle truppe alleate austriache. Anche nel teramano Mons. Domenico Savelli organizzava una nuova spedizione per l’ascolano in vista dell’imminente ristabilizzazione dell’Ordine costituito. L’Orsini circondato in città anche da uomini poco fedeli alla causa repubblica, perché costretti (si veda il Segretario Generale al Governo di Ascoli Raffaele Trevisani e il capo delle truppe cittadine Colonnello Cavanna, fervente sostenitore del precedente Papa Gregorio XVI) o da spie al servizio del Papa (come il Colonnello Freddi, il quale fu uno dei primi a disertare dopo la restaurazione successiva), i primi giorni di giugno lascia la città. La motivazione pubblica è una spedizione contro i briganti, ma in realtà si tratta di una vera e propria fuga, nella quale fa in tempo a prendere in ostaggio tre preti sanfedisti don Ferdinando Piccinini, l’ex frate Organtini e Padre Maestro Giuseppe Luciani; in ostaggio anche il marchese papalino Carlo Malaspina. Lasciano Ascoli Piceno 530 fanti e 50 carabinieri a cavallo; al suo seguito si riconosce “Sciabolone”, quel Matteo Costantini a capo dei suoi 56 volontari del “Battaglione ascolano monilizzato”. Arrivato in segretezza ad Offida, saccheggia il denaro papalino di 500 scudi, per pagare i soldati oramai senza paga da mesi: il denaro restante lo trattiene per mantenersi la sua schiera armata per almeno altri tre mesi. Il giorno dopo sarà a Montalto, rendendo chiaro alle truppe papaline l’intento di ritirata verso Roma. Lasciò Montalto per Force con meno di 350 uomini: la metà aveva già disertato abbandonandolo.
[caption id="attachment_12579" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Orsini (Ascoli Piceno, 9 febbraio 1788 – Ascoli Piceno, 18 giugno 1870) è stato un mazziniano e naturalista. Farmacista e scienziato viene ricordato per il suo impegno militare e politico nella Repubblica Romana. Senatore del Regno d'Italia, ricevette il titolo di nomina regia che ricevette nell'anno 1861 insieme all'onorificenza dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Fu anche eletto consigliere provinciale del mandamento di Arquata. Morì ad Ascoli il 18 giugno 1870.[/caption]
Siamo arrivati al 7 giugno del 1849 ed Ascoli torna libera città sotto lo Stato Pontificio: Giovanni Piccioni iniziò l’attacco con i suoi uomini da porta Tornasacco; mentre don Taliani sferravano l’offensiva a Porta Solestà. Dopo numerose perdite la Guardia Civica riesce ancora a respingere l’attacco, ma nei giorni successivi tutta la provincia torna nelle mani del Papa Re Pio IX.
Orsini nell’arrivare a Force dovette anche difendersi dagli attacchi dei volontari pontifici nei pressi di Montedinove, sul torrente Pallone vicino il bosco di Rovetino. Arrivato in città si incontra con un altro repubblicano doc Capitano Serafino Wiser che lo aggiorna sulla caduta di gran parte della Marca fermana, Fermo compresa. Orsini è circondato a Force. Il 15 giugno tenta una sortita a Monte della Torre per forzare il blocco senza riuscirci. Infuriano i combattimenti fin sotto Porta S.Pietro di Force tra i due schieramenti, che vedono ben 2.000 papalini assediare la cittadina. Infine per togliere valore alla conquista della città per mano papalina, Antonio Orsini si dimette dalla carica che il Triunvirato gli ha concesso. Il 18 giugno con l’arrivo delle truppe austriache comandate dal Tenente Tommaso Withedenscky Force capitola. L’Ufficiale austriaco contravvenendo ad ordini superiori che impartivano “il disarmo incondizionato di tutti i repubblicani” concede a tutti gli ufficiali mazziniani dei salvacondotti. Così Orsini, tagliata la barba e qualificandosi come il Sottotenente Francesco Pinelli, riuscì a sgattaiolare fino a Foligno.
Ad Ascoli nel frattempo, caduta San Benedetto del Tronto in mano austriaca, il 21 giugno vengono abbattuti l’Albero della libertà in piazza del popolo e riposizionati gli antichi stemmi del Papa. Il giorno dopo le truppe austriache acquisiscono la città marchigiana. Sono comandate da un viennese Maggiore Karl Streel il quale con un proclama ordinava come venisse ristabilito il Governo Pontificio e decaduto quello repubblicano: la città dopo il Te Deum in Cattedrale, aveva per le strade urla festanti inneggianti Pio IX. Gli austriaci lasciarono l’ascoli papalina il 5 luglio, con il comandante Streel, vero gentiluomo e militare, esprimersi nei confronti degli ascolani con queste parole: “ottimi cittadini per la esemplare condotta tenuta nel ripristino del Governo Pontificio”.
Il ristabilimento dello Stato Pontificio nella città di Ascoli Piceno, sembra anche segnare la fine della carriera avventurosa di Matteo Costantini detto “Sciabolone”, che viene arrestato dai reazionari – suoi antichi compagni d’arme – il 28 luglio con l’accusa di furto, concussione, rapina; trasferito nel carcere di Fermo, dopo processo, fu condannato al carcere a vita. Morirà da cattolico, il 13 novembre nel carcere di Ripatransone alle 12:00 del anno del Signore 1849.
Giovanni Piccioni da alcune lettere ritrovare tra scambi epistolari di alte gerarchie pontificie, emerge in senso positivo: si legge che il Piccioni sia stato «vero eroe che si è rovinato per l’attaccamento al Governo». La Santa Sede rimborsò tutti i montanari sanfedisti che avevano contribuito al ristabilimento del Governo pontificio, pagando un caro prezzo in beni materiali. Così furono concesse alle popolazioni dell’arquatano e del montegallese la somma di 2.000,00 scudi. Contrariamente Giovanni Piccioni non chiese nulla né per sé, né per la sua famiglia: i veri eroi, rovinati dalle orde repubblicane, nonostante fossero stati i leader più rappresentativi e artefici delle vittorie più clamorose degli scontri, evidentemente già aspettavano le prossime battaglie. Purtroppo la loro unica richiesta, non fu esaudita, poiché nella visita di Pio IX ad Ascoli il 17 e 18 maggio del 1857, il Pontefice si rifiutò di incontrare in udienza la sua famiglia, trincerandosi dietro una “ragione di Stato” (nel Palazzo Vescovile di Ascoli Piceno in Piazza Arringo, ancora oggi – al piano nobile – vi è la targa recanti lo stemma del Beato Pio IX per il suo soggiorno nell’ascolano). Al suo processo (nel 1864) che lo vedrà condannato a 16 anni di carcere, egli parlerà della sua esperienza: «nel 1848 erasi stabilita in Roma una cosidetta “Direzione Organica” ad oggetto di sostenere in questa Provincia il Governo Pontificio. La Direzione mi incaricò di organizzare un Battaglione Pontificio di Volontari, di cui fui fatto Maggiore. Restaurato il Governo ne ebbi una medaglia ed una pensione di 3 Scudi Romani al Mese».
 
Per approfondimenti
_Galanti Timoteo, Dagli Sciaboloni ai Piccioni - Il "brigantaggio" politico nella Marca pontificia ascolana dal 1798 al 1865 - Edigrafital, Roma, 1990; _Giorgio Enrico Cavallo, Risorgimento: guerra alla Chiesa, Edizioni Radio Spada, Carmenate, 2020; _Don Luigi Pastori, Ascoli sotto l'albero della libertà. Manoscritto n°40, Biblioteca AP, Montalto, 1940; _Giovanni Spadoni, L'insorgenza marchigiana durante il Regno italico; _Archivio di Stato di Ascoli Piceno Governo Pontificio - Delegazione Apostilica, Fasc- 1-7 e 1-12, 1831; _Archivio Segreto Vaticano, Segreteria, Nunziature, 1833, busta 99-100; _Archivi parrocchiali esistenti nelle Chiese di: Arquata, Acquasanta Terme, Castel Trosino, Chiesa del Carmine (AP), Ceraso, Farno, Fleno, Lisciano (AP), Montegallo, Mozzano, Piedicava di Acquasanta, Pascellata, Rocca Monte Calvo, San Gregorio, Santa Maria a Corte, Valle Castellana, Venarotta, 1750 - 1870; _Enrico Liburdi, La rivoluzione del 1831 nelle Provincie di Fermo e Ascoli, Macerata, 1935; _Domenico Spadoni, Il Governo pontificio ed i primi processi carbonici marchigiani. Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le Marche, 1916.  
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a cura di Stefano Scalella
09 ottobre 2021 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Arch. Giuseppe Baiocchi
Modera: Diego Della Valle
Interviene: Dott. Orazio Maria Gnerre
 
Sabato 09 ottobre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 60°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L’evento ha visto la presenza del filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su “Konservative Rivolution – La rivoluzione-conservatrice tedesca”. La tematica introdotta dal presidente Giuseppe Baiocchi e moderata dal consigliere Diego Della Valle ha visto la presenza del sindaco di Ascoli Piceno dott.Marco Fioravanti. La Rivoluzione conservatrice tedesca - (Konservative Revolution) è stato quel movimento di pensiero, alquanto variegato, che si è sviluppato in Germania dalla conclusione della prima guerra mondiale, fino all'avvento del nazionalsocialismo. La prima riflessione che Gnerre ha posto al nutrito pubblico si è incentrata sul quesito di cosa rimane oggi di tali pensatori e se questa ideologia ha superato il secolo scorso. Il saggio, di Gnerre “Materiali. Reinterpretare la rivoluzione conservatrice”, è stato il tentativo di donare una nuova luce a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”. I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx. Autori come Spengler, Jünger, Freyer, Schmitt, Sombart e Heidegger saranno raccontati attraverso i concetti base del periodo: _l’opposizione alla modernità (intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-francese); _una nuova heimat unita; _nuovo corso all'idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca. A questi concetti Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio - tanto controverso nei termini - di "rivoluzione" e "conservazione", ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall'eternità della storia occidentale: _la natura fondamentale dell'uomo; _la preservazione del senso, propriamente inteso umano; _analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma. Questi pochi concetti elencati sono stati espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre ha definito come “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».

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a cura di Stefano Scalella
25 settembre 2021 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Francesca Angelini
Modera: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Arch. Pier Carlo Bontempi
 
Sabato 25 settembre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 59°incontro dell’associazione culturale onlus Das Andere. L’evento ha visto la presenza dell’architetto Pier Carlo Bontempi, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su “Architettura e Tradizione. L’architettura come senso di appartenenza”. La tematica introdotta dalla Vice-Presidente Francesca Angelini e moderata dall’arch. Giuseppe Baiocchi ha visto la presenza del consigliere regionale Andrea Maria Antonini e del consigliere comunale Avv. Emidio Premici. L’associazione ringrazia anche la nuova presidente dell’Ordine degli Architetti di Ascoli Piceno Paola Amabili per il patrocinio legato allo stesso ordine che ha visto in rappresentanza il consigliere Arch. Luciano Spinozzi. Pier Carlo Bontempi ha riflettuto sull’architettura contemporanea rivelando le sue criticità odierne legate al completo abbandono dello studio dei luoghi, del decoro architettonico e degli elementi legati a metrica e bellezza. Bontempi riprendendo con grande maestria i trattati classici che hanno dettato le regole della civitas occidentale ha mostrato al nutritissimo pubblico presente il virtuosismo ingiustificato di alcuni manufatti edilizi, sviscerando l’errore di pensiero che si cela dietro opere che nulla hanno a che fare con la funzione e la tipologia che li riguarda. Particolare attenzione è stata data anche ai suoi lavori: edifici vernacolari o classici, ancorché di nuova costruzione, presentati spiegando la loro archè e la loro techne.