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di Giuseppe Baiocchi del 02-08-2022

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«Vorrei provare ancora una volta, dietro le mie persiane socchiuse, la vertigine del sole sulle aiuole fiorite, sugli scalini della gradinata. Al mattino, al risveglio, riconoscevo dal suono il cielo, il suo colore, il suo umore che, per tutta la giornata, sarebbe stato anche il mio. Ascoltavo il sole. Era già alto e caldo. Vi si mescolava un rumore che sento ancora scrivendo queste righe, fatto di silenzio, di acqua che scorre lontano sui fiori e sull'erba, di rastrelli e di api. Chiudevo gli occhi. Era la felicità. […] Sapevo che bisognava soltanto conservare il presente. Le mura, gli alberi, le abitudini, la natura. Non era neppure il caso di pensare a costruire o ad abbattere, a modificare, a cambiare. Bisognava solo conservare, salvare, preservare»1.
Presentiamo una vista panoramica del Logis de La Chabotterie sito presso Saint Sulpice le Verdon, 85260 Montréverd, Francia.
Se nel “Memorial” di Les Lucus-sur-Boulogne riposa l’anima della Vandea, è nelle architetture vernacolari dei Logis vandeani che soffia il vero spirito della controrivoluzione. Questi sono infatti i luoghi più importanti della memoria dell’intero dipartimento francese quando si parla delle Guerre di Vandea.
Ma che cos’è un Logis? Testimone privilegiato di una storia tumultuosa, lo schema del Logis vandeano viene ripetuto in tutta la regione, dalla pianura al bocage, dalla gâtine alle zone acquitrinose. Fondamentalmente si traduce in una dimora signorile tra il castello e la cascina di campagna, architettura che si diffuse nell’aristocrazia vandeana di provincia, nella hobereaux, tra il XV e il XVIII secolo. In architettura, appunto, un corps de logis è il blocco principale, classico o vernacolare, di una grande magione. Contiene le stanze principali, gli appartamenti e un’entrata ingentilita con il classico arco francese di derivazione tardo gotica in accolade, ovvero un arco carenato o in flesso composto da due ogive curve note anche come linee sigmoidali, che si specchiano l’una nell’altra .
Le stanze più grandiose e belle si trovano spesso al primo piano sopra il livello del suolo: questa quota viene appunto definita “nobile”. Il corps de logis è solitamente affiancato da ali secondarie inferiori, come le barchesse delle ville venete. Tali prolungamenti laterali formano un cortile su tre lati, detto cour d’honneur, ovvero un piazzale antistante un grande edificio signorile.
Attorno al cortile rettangolare, i fabbricati delle ali laterali sono riservati alle attività agricole, mentre la dépandance e la dimora signorile si affaccia centralmente sul giardino.
 
[caption id="attachment_12813" align="alignnone" width="1000"] Due esempi di arco in accolade: il primo a sinistra è posizionato su di un ingresso dei ruderi dello Château de la Durbelière, mentre il secondo si trova in Bretagna, nel Logis di Guyomarais a pochi passi dalla tomba del marchese di La Rouërie. Tale decoro architettonico, viene definito in ambito accademico “riconoscimento”: ovvero si tratta di una modanatura decorativa posta sopra un’apertura.[/caption]
La planimetria che si forma su quattro ali – evocante la villa gallo-romana – raggiunge il suo apogeo nella seconda metà del XVI secolo e perdura quasi immutata fino alla vigilia della Rivoluzione.
Facente parte del corpo centrale sono quasi sempre una torre ed una cappella, spesso medievale e ingentilita da elementi barocchi nel XVII secolo. Le Cappelle sono chiaramente tutte antecedenti la riforma novecentesca e non presentano stravolgimenti nel classico assetto dell’Altare previlegiatum Ad Deum. Tali altari domestico-privati fungevano non solo per la Santa Messa domenicale della famiglia, tramite il santo sacerdote che officiava la funzione, ma servivano – essendo di privilegio ad un determinato defunto (che spesso aveva i resti all’interno del paliotto stesso) – per scalare gli anni di purgatorio secondo l’uso dell’indulgenza: ogni celebrazione effettuata in un altare poteva sottrarre anni di purgatorio al defunto ed una volta che questo raggiungeva il paradiso, poteva intercedere sulla terra per i propri parenti. Spesso questi altari sono visibili nelle nicchie laterali di molte chiese.
Classico altare Ad Deum per una Cappella Signorile.
Elementi interni predominanti del Logis erano i vari spazi, secondo la distribuzione settecentesca. La cucina era sempre situata al piano terra del padiglione d’angolo: con il suo pavimento in pietra, le sue pareti imbiancate a calce e il soffitto con correnti a vista anneriti dal fuoco, aveva il forno a legna non lontano dal camino monumentale e dal girarrosto a contrappeso. Oltre all’indispensabile sedia a baule portasale, posta sempre vicino al camino, insieme ai numerosi oggetti comuni in rame e in terracotta, poteva essere presente anche un macinacaffè. Infine al centro della stanza vi era un lungo tavolo centrale, spesso con gambali vernacolari, tipici bretoni, a pera con due panche ai lati.
L’ambiente del salotto di compagnia, spesso illuminato da finestre con struttura lamellare sul vetro, e riquadri all’inglesine poteva possedere i tipici sedili del cinquecento italiano. Non poteva mai mancare il camino monumentale, spesso in pietra, con alari dove gli ospiti superato il vestibolo potevano spogliarsi e depositare gli effetti personali e accessori da viaggio: indumenti, armi, baule da carrozza, scrittoio portatile di pelle, scaldapiedi da carrozza. Questo spazio dedicato all’accoglienza, poteva fungere anche come luogo di svago. Il mobilio certamente alla moda borbonica di Luigi XV o XVI presentava un tricoteuse con elemento pivotante in mogano, un guéridon con piano ribaltabile e spesso per il cambio degli abiti era presente, al gusto orientale, un paravento.
Successivamente si arriva tramite un corridore – elemento di collegamento ripreso dalla tradizione italiana rinascimentale – alla Sala cosidetta del Camino, la quale poteva possedere la classica pavimentazione di lastre di pietra e ardesia con tecnica “à bouchons”, ed una preziosa policromia delle pareti a tinta chiara delle assi del soffitto, la quale arricchiva la già elegante boiserie lignea con specchi (riquadri). Anche qui non può mancare il camino, questa volta ingentilito ulteriormente da bracci porta candela laterali e coronato da un orologio da parete laccato Vernis Martin Luigi XV. L’arredamento spaziava dai quadri, al mobilio sempre stile Luigi XV agli accessori: sedie cannè firmate Lefèvre, rinfrescatoio per bottiglie Luigi XVI, tavolino da vassoio dove poteva essere posato un rinfrescatoio per bicchieri; così come un termometrobarometro di Réaumur e una fontana monumentale in maiolica risalente agli inizi del XVIII secolo, posta sopra una console.
[caption id="attachment_12815" align="alignnone" width="1000"] Alcuni scatti del Logis de La Chabotterie: il camino monumentale nel Salotto di compagnia, ed una sedia in stile borbonico nella Sala del Camino.[/caption]
Sempre al primo piano troviamo le camere da letto per la signoria, mentre solo al secondo piano vi sono gli alloggi per la servitù, con altezze più modeste e finestrature rimpiccolite di 1/3 rispetto a quelle del piano nobile, secondo l’estetica rinascimentale di Brunelleschi dei piani sovrapposti, in cui la luce del piano terra doveva essere 3/3, quella del piano nobile 2/3 e infine l’ultimo piano avere 1/3. Tale tecnica ottica, per un osservatore che ammirava l’edificio dal basso, conferiva uno slancio verso l’alto molto d’impatto, snellendo l’edificio ed “edificandolo” verso Dio. Nelle camere da letto non poteva mancare l’inginocchiatoio per le preghiere mattutine e i vespri, così come il mobilio in stile Reggenza ed il letto a colonne con pendoni di seta, tipico delle magioni signorili. Ed ancora cassettoni, sedia con leggio e la poltrona “per malato” con la classica spallina reclinabile dotata di due cremagliere, completano il quadro d’insieme di un ambiente standard dove riposare. Vicino la finestra, per avere a disposizione più luce possibile, spesso era presente la toeletta con i vari consoni oggetti, quali palla porta-spugna, ventaglio, scatola per nei finti e necessaire per profumi.
Durante le Guerre di Vandea alcuni Logis sono anche stati usati come quartieri generali provvisori ed è per questo che alcuni di loro hanno ancora alcune stanze adibite a sale di comando. Proprio tale predisposizione ha portato, durante tutto l’arco della guerra civile, la distruzione di molti di essi.
[caption id="attachment_12816" align="alignnone" width="1000"] Alcuni scorci del giardino posto dietro Logis La Chabotterie. Da notare la foto sulla destra che raffigura un padiglione di chiusura con sul dorso della copertura in ardesia "a mansarda" il terminale gotico "a lancia".[/caption]
Addossato al Logis, spesso sul retro può essere situato un giardino, a volte riorganizzato secondo le mode floreali dei secoli. Tale spazio verde, che riprende la tematica teologica del giardino medievale, è racchiuso tra i muri laterali e termina alle volte con un coronamento dato da due padiglioni quadragolari seicenteschi con il tetto di ardesia a punta d’ape. Elemento di rara bellezza poteva essere la presenza di un fossato, perimetrazione “in negativo”, il quale impediva dal retro l’accesso alla proprietà, liberando parallelamente una prospettiva monumentale sul lungo viale cavalcabile antistante la struttura, spesso costeggiato da alberi secolari e maestosi.
Lungo i pergolati di rose antiche, si sovrappongono nel giardino due universi separati da un pozzo centrale. Vicino al Logis, il giardino ornamentale con i suoi tappeti di fiori e siepi di bosso racchiude piante aromatiche e medicinali. Più in là l’orto poteva essere diviso in quadrati piantati con verdure e fiori da taglio per la decorazione dello stesso Logis. L’utile e il bello si coniugavano in questo esempio vivente di giardino alla francese, come era solito vedere nei Logis del Basso Poitou nel XVII e XVIII secolo.
La copertura lignea, sebbene poteva risultare per le ali laterali a falda con coppi in laterizio, vedeva nella porzione centrale la copertura alla francese detta “a mansarda” in ardesia con diversità di tecnica costruttiva: francese con ganci, doppio ligure, triplo ligure o a scala piatta. Il blu dell’ardesia, contrastava sul territorio con le abitazioni popolari di paglia o di semplici coppi, donando al Logis l’importanza sociale che meritava. Sul dorso della copertura sono sempre presente dei terminali di derivazione gotica (a lancia) o barocca (bracieri).
Un tetto a mansarda (chiamato anche tetto alla francese o tetto a cordolo) è un tetto a padiglione a quattro lati caratterizzato da due pendii su ciascuno dei suoi lati con la pendenza inferiore, perforata da abbaini, ad un angolo più ripido rispetto al superiore. Il tetto spiovente con finestre crea un ulteriore piano di spazio abitabile, un sottotetto mansardato, appunto. Il primo esempio conosciuto di tetto a mansarda è attribuito a Pierre Lescot su una parte del Louvre costruito intorno al 1550. Questo progetto del tetto fu reso popolare all'inizio del XVII secolo da François Mansart (1598 - 1666), un affermato architetto del periodo barocco francese. Divenne particolarmente di moda durante il Secondo Impero francese (1852 - 70) di Napoleone III. Mansarda in Europa (Francia, Germania e altrove) significa anche lo spazio della soffitta o della soffitta stessa, non solo la forma del tetto ed è spesso usato in Europa per indicare un tetto a spiovente.
Tra i Logis più famosi della Vandea, ricordiamo certamente Logis de la Chabotterie, dove fu catturato l’ultimo generale vandeano Charette , oggi museo sulle guerre di Vandea e luogo pedagogico per bambini e il Logis della Baronnière, il quale mantiene ancora intatte le mura del cortile quadrato dove il marchese Bonchamps fu chiamato a guidare la rivolta dai suoi villici. Infine, come non citare, lo Château de la Durbelière, luogo di nascita del conte La Rochejaquelein ed oggi ridotto a rovina, perché bruciato dai repubblicani nel 1794: proprio dalla preesistenza, si denota ancora la struttura del Logis, dove le antiche ali laterali sono diversamente rimaste in piedi e fungono dopo un saggio riuso urbano ad abitazioni per alcuni cittadini ed – a Dio piacendo – la vita continuerà a scorrere a lungo in questi luoghi magici, poiché la tradizione è custodire il fuoco, non adorarne le ceneri.
 
Per approfondimenti:1 Jean d’Ormesson, A Dio piacendo, Beat, Trebaseleghe, 2016, p.63; _Richard Levesque, Guida gratuita a cura del Dipartimento Conservazione del Patrimonio del Consiglio Generale della Vandea, Consiglio Generale della Vandea, 2010; _Olivier de la Rivière, Malouinières - Demeures d'exception, Ouest-France, Rennes, 2017.
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Jean Mallard de La Varende Agis de Saint-Denis (1887 - 1956) nacque nella Malouinières Bonneville presso il comune di Chamblac del dipartimento dell’Eure. Vi abitava costantemente e qui scriveva e coltivava le sue terre. I La Varende – gente leale, energica, di alta, antichissima nobiltà – furono, per secoli, marinai, soldati, prelati. Regionalisti soprattutto – come tutti i loro pari normanni – ma sempre partecipi alla complessa storia di Francia: cattolici e monarchici se pur non sempre docili sudditi, anch’essi, forse, si mescolarono nelle fazioni variegate: ora condottieri, ora seguaci di bande armate. In ultimo, durante e dopo la rivoluzione, versarono il loro sangue scioano (degli Chouan in lingua bretone) per il folle sogno di rimettere in trono un re fantasma. Insomma gentiluomini campagnoli – hobereaux –, fieri dei loro avi, continuatori delle loro gesta, attaccati con fede incrollabile (fin sotto Luigi Filippo che disprezzarono) alla tradizione ed alla terra. Jean de La Verande, l’ultimo discendente di questa razza, è l’animatore prodigioso d’un mondo scomparso o che va scomparendo.
[caption id="attachment_12797" align="aligncenter" width="1000"] Jean Mallard de La Varende è figlio di Gaston Mallard de La Varende (1849 - 87), ufficiale di marina, e di sua moglie di origine bretone, Laure Fleuriot de Langle (1853 - 1940). Nacque il 24 maggio 1887 a Chamblac (Eure), presso il castello di Bonneville, proprietà di famiglia. Non conoscerà suo padre, che muore lo stesso anno, il 27 luglio.[/caption] La vita d’una volta e di ieri, rurale e guerriera – e ciò che resta, insopprimibile, dell’autentico temperamento normanno – riappaiono, potentemente evocati, nelle sue novelle e nei suoi romanzi. Jean de La Verande, dal cui fondo par che riemergano, sobbollendo, antichi fermenti atavici, è scrittore realistico e magico, rude e delicato, austero e passionale, acuto indagatore di stati d’animo, a volte mistico. Da tutto ciò una prosa saporosa, pittoresca, singolare, inimitabile. Quanto alla sua biografia disse allo scrittore cattolico Domenico Giuliotti (1877 - 1956): «Fin dall’infanzia scrivo, dipingo, costruisco modellini di navi. A 10 anni, nei giorni piovosi, mi è stata affidata la classe per raccontare storie: ho solo ampliato il mio pubblico. Per le navi sono figlio di un marinaio, nipote di un ammiraglio, e quando mio padre morì, mio nonno si è preso cura di me: è stato sotto la sua guida divertita che ho iniziato questa collezione che è uscita dalle mie mani e che oggi ingombra cinque stanze di casa mia, diorami e modellini navali in 160 vetrine, le cui varie mostre avevano cominciato a farmi conoscere. Scrivevo romanzi, racconti, per me stesso, per non far morire tutto ciò che sapevo e conoscevo. Presto arrivai a pubblicare i miei scritti e qualcuno si innamorò di queste storie modeste facendo arrivare gli editori. La mia prima collezione, Pays d’Ouche, ricevette l’elogio per l'opera "I Vichinghi" e, curiosamente, la leggenda narra che noi stessi siamo discendenti dei Vichinghi: ma, rimane forse una leggenda. Il mio secondo libro, Nez-De-Cuir, fu molto vicino a vincere premio Goncourt1; certo contava il valore di Plisnier, ma forse c’erano intorno a questo premio, quell’anno, influenze non del tutto letterarie. Il terzo, “Il Centauro di Dio” ha vinto il Grand Prix de l’Académie Francaise2. Da allora, sembra che il favore del pubblico sia arrivato a me. I miei libri sono ricevuti con molta indulgenza. Infastidisco alcuni critici; mi attaccano duramente, ma forse sono più alfabetizzati che umani, e anche politici. Il Centauro di Dio giunge alla 6a edizione, il mio ultimo libro, pubblicato 5 mesi fa, dove cerco di mettere in evidenza i manutentori della terra e della tradizione che tanto hanno fatto, in tutto il nostro paese, per la bellezza e la forza della nazione, e che il movimento democratico ha voluto far sparire mentre cercava di deriderli, riducendo la loro azione»3. Il 12 dicembre 1919, sposò Jeanne Kullmann, e a coppia vive presso la magione di Bonneville. Da questa unione nacque un figlio, Éric de La Varende (1922 - 79). Dal 1920 al 1932 fu docente presso l’École des Roches, a Verneuil-sur-Avre, in Eure. In casa mantiene il suo dominio, i suoi giardini, scrive il suo primo libro, da lui pubblicato nel 1927, L’Initiation artistique, testo di una sua conferenza. Scrive anche alcuni racconti e realizza, nel tempo libero, un centinaio di modelli di navi di tutte le epoche. Gli inizi di La Varende in letteratura furono difficili. Ha subito molti rifiuti da parte degli editori parigini, per i suoi contenuti “politicamente scorretti”, ma ha pubblicato alcuni racconti al Mercure de France, l’antico giornale che ebbe direttore un certo François-Auguste-René, visconte di Chateaubriand. È l’edititrice Henriette Maugard, di Rouen, che garantirà la sua notorietà pubblicando una serie di racconti, Pays d'Ouche (1934), preceduti dal duca di Broglie. Lo stesso editore pubblicò nel 1936 il suo Nez-de-Cuir, gentilhomme d’amore. È il frutto di una lunga ricerca iniziata negli archivi di famiglia, quando scopre le lettere del prozio Achille Périer, conte di La Genevraye (1787 - 1853), gravemente ferito nel 1814 nella battaglia di Reims, il quale indossava una maschera che gli varrà il soprannome di “Naso di cuoio”. La Varende interrogò gli anziani e iniziò a scrivere il suo romanzo nel 1930 per farlo pubblicare nel 1936. Le edizioni Plon ripubblicarono questo primo romanzo l’anno successivo: fu un successo. Quell’anno ha ottenuto tre voti al Prix Goncourt. Le pubblicazioni si susseguiranno quindi, al Plon o al Grasset. I suoi successi letterari hanno un unico scopo, ovvero quello di rinsaldare l’antica magione di famiglia, il castello di Bonneville, a Chamblac : l’edificio è costruito in mattoni rosso-arancio, su un vecchio basamento in pietra calcarea. La residenza si presenta come una facciata composta da un piano terra, un primo piano ed un sottotetto; accostata agli angoli nord e sud da torrette quadrate con copertura a sesto acuto, e aperta da grandi finestre settecentesche con piccoli vetri all’inglesine. Su questa facciata, un balcone unico decora il piano nobile. Sul retro, due ali senza carattere gli conferiscono una pianta a U, impreziosita, nel cortile, da una torretta con tetto a mansarda, e da una solida veranda in mattoni. Tutto è ricoperto di ardesie blu, che hanno portato lo scrittore a scrivere le seguenti righe: “Le Chamblac è rosa e blu, con ferri neri. Non si può fare altro per lui. Vedendolo, penso a una signora che esce dal salone di bellezza: «Niente più speranze, signora, abbiamo tutto, ed è tutto completo»5.
[caption id="attachment_12798" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Bonneville si trova nella città di Chamblac, nel dipartimento dell'Eure. Fu la residenza dello scrittore Jean de La Varende dal 1919 al 1959. È classificato come monumento storico dal 9 maggio 1978.[/caption]
I suoi libri sono acclamati dalla critica, specialmente nei circoli di destra, come Samuel William Théodore Monod (Maximilien Vox 1894 - 1974), e dai circoli di estrema destra come Thierry Maulnier (1909 - 88) e Robert Brasillach (1909 - 45). Nel 1936 entra a far parte della Société des gens de lettres e vince il premio Vikings per la sua raccolta Pays d’Ouche pubblicata due anni prima. In pochi anni i romanzi si susseguono, dove colloca, sotto falsi nomi, i suoi personaggi spesso tratti da storie di famiglia ma che si ritrovano in molti dei suoi scritti. La famiglia di La Bare e quella di Tainchebraye, la famiglia di Anville e quella di Galart; tanti nomi che il lettore conosce vivendo accanto a loro, in terra normanna, o in soggiorno, come li concepiva La Varende. Lo scoppio della guerra vede la sua unica grande tragedia della sua vita: la morte della moglie, vittima di un bombardamento della Lutwaffe tedesca durante la guerra lampo. Durante l’occupazione nazista si concentra sulla scrittura e pubblica i suoi racconti sulle riviste dell’epoca: sfortunatamente per il suo lavoro, la maggior parte di queste riviste è conquistata da tesi collaborazioniste. È quindi erroneamente associato a questa tendenza, perché fu sempre molto critico nei confronti della democrazia, essendo egli di fede istituzionale monarchica. I suoi scritti sono solo racconti letterari, con intrighi fuori dal suo tempo. Fedele alle sue convinzioni, ha rifiutato di mettere la sua penna al servizio del regime di Vichy o dell’ideologia dei giornali collaborazionisti. Una delle sue opere maggiori possiamo inquadrarla nel Centauro di Dio. Questo romanzo appartiene al primo ciclo de La Varende, “Tainchebraye-La Bare”, che comprende i tre romanzi: Nez-de-Cuir, gentilhomme d’amore (1937), Man’ d’Arc (1939) e Le Centaure de Dieu (1938). Questo romanzo quando si legge, crea nel lettore un duplice ideale: quello del nobile campagnolo e quello del Santo Sacerdote, dell’apostolo. Il primo, preoccupato sopra ogni altra cosa di durare e di restar fedele a se stesso; il secondo, avido di darsi e di perdersi per salvare gli altri. L’uno, volto alla terra, uomo del tempo e della storia, forte della sicurezza delle tradizioni avite; l’altro, sdegnoso dei beni misurabili, non offuscato dagli innovamenti, sicuro com’è dell’eternità che nulla altera. Personaggi che seducono, affascinano – simbolo da parte dell’autore della più profonda ammirazione. Nel romanzo è instillato quel culto del passato, che traspare in tutti gli altri libri del Varande, il quale non scrive per rivendicare una certa forza e ragione nella nobiltà, occultata oggi dal silenzio più profondo e quindi assordante, ma per una sua personale inquietudine verso i suoi personaggi tristi e magnifici, come narrato nel suo Nez-de-Cuir (Naso di cuoio, celebrato nella cinematografia da Yves Allégret nel 1952).
Così il Centauro di Dio resterà ai posteri con la sua duplice testimonianza verso la gloria degli avi scomparsi e della parallela angoscia della coscienza dei figli. L’ideale dell’aristocrazia di campagna e quella dell’apostolo, inteso come sacrificio e liberazione: il sacrificio di Gastone, che la decaduta grandezza della famiglia protagonista dei La Bare fa finta di non avvertire, si accosta alla stima verso Manfredo, cadetto fuori dal comune in cui – per riprendere Gustav Mahler – la tradizione è trasmettere il fuoco e non adorare le ceneri. Una cosa è certa: il passato si dimostra sempre solidissimo poiché il presente non è adatto a sostituire i solidi valori d’un tempo. Aspirazioni divergenti che rendono questa fatica letteraria un riflesso storico con il presente di difficile comprensione. Del resto, il suo rispetto per l’arte gli interdiceva forse di assumere una posizione troppo netta fra gli opposti, col rischio di consegnarci un libro a mo di tesi. Nei fatti che ci narra, come nelle umili realtà quotidiane in cui penetriamo, dissimulate, all’interno dell’azione e della lotta naturale e salvifica, troviamo la luce sufficiente per rischiarare e abbastanza ombra per accecare quelli che vorranno non vedere lo scoglio del problema non di una generazione, ma di un’intera società. La stessa che con l’idealismo cartesiano e successive rivoluzioni politiche – come quella francese – hanno rovesciato il thelos (il fine) di una esistenza valoriale basata sull’organicità del mondo e sull’esistenza del Dio cristiano, messo da parte o addirittura ucciso nell’epoca del relativismo e della velocità del capitale. Per questo l’abate di La Bare diventerà – come l’autore stesso àncora di salvezza per alcuni e pietra di scandalo per altri. E come avvenne nel paese normanno quando giunse la notizia della sua morte, egli non avrà l’unanimità dei suffragi nel mondo dei lettori: “un santo” penseranno gli uni; “un rinnegato”, diranno gli altri. Il lettore verrà giudicato dalla sua stessa “sentenza”. Il Centauro di Dio esige dal lettore questo esame di coscienza, li costringe a questa libera scelta. Ecco, senza dubbio alcuno, una ragione, fra molte altre, di stimarlo con un grande libro. Questo tradizionalista cattolico dalla fede tormentata – accettò di assistere alle funzioni nella chiesa di Notre-Dame de Chamblac, dopo 29 anni di assenza (causatogli dal Novus Ordo Missae del Concilio Vaticano II), grazie alla nomina di un sacerdote tradizionalista, Quintin Montgomery Wright (1914 – 96) il quale celebrava solo secondo il Messale di San Pio V – era un devoto simpatizzante dell’Action française di Charles Maurras (1868 - 52) e negli anni Cinquanta è stato redattore della rivista monarchica Aspects de France, continuazione di Action française. Questa posizione politica molto tradizionalista lo avvicina ad altri autori che furono rapidamente dimenticati dopo la loro morte, come Henry Bordeaux (1870 - 1963), Paul Charles Joseph Bourget (1852 - 1935) o Michel de Grosourdy de Saint-Pierre (1916 - 87), ma letti durante la loro vita. Tuttavia, le sue opere, ristampate in parte grazie all’associazione Présence de La Varende, hanno avuto una certa eco in un certo ambiente cattolico e monarchico.
[caption id="attachment_12800" align="aligncenter" width="1000"] Una delle prime pubblicazioni del romanzo sulle chouannerie: Man'd'Arc - Rombaldi Editore del 1944.[/caption]
Dal 1961 si sono succedute due associazioni legate a La Varende: dal 1961 al 1989: “Amici di La Varende” e dal 1992: “Presence de La Varende” che, come il suo predecessore, pubblica ogni anno materiale inedito, oltre ad articoli dedicati all’uomo e al suo lavoro. Tra i duecento racconti pubblicati, la regione normanna (in particolare il paese di Ouche ) e il mare, costituiscono le strutture principali dei suoi intrighi. A questi, naturalmente, si aggiungono racconti e romanzi, le cui edizioni numerate sono oggi ricercate. L’attrazione del mare, la sua passione per la navigazione, ma anche, per la Bretagna e per la Spagna, la messa in scena di preti di campagna, di contadini o anche aristocratici e la nostalgia per l’Ancien Régime, costituiscono l’essenziale filo conduttore del suo lavoro. La sua opera, sia sentimentale che romantica, è molto legata alla terra, nel senso di patria. Cerca di magnificare la purezza pur sapendo come descrivere l’uomo con le sue ansie, mancanze ed errori. Le storie sono spesso basate su una sorta di trasmissione ideale delle tradizioni rurali del passato, sia nei casolari vernacolari che nei castelli: per lui tutto è legato da un doppio filo. I signori e i loro discendenti sono “contadini del re”, mentre i contadini e gli uomini del villaggio sono parte della famiglia dei castellani. In tutto ciò il castello è una residenza utile, “un organismo necessario alla ruralità, anzi, alla società”. Il suo lavoro è da mettere in linea con quelli dei suoi maestri letterari, in particolare jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808 - 89) e Gustave Flaubert (1821 - 80), anch’essi Normanni. A loro dedicò saggi (uno per Barbey, due per Flaubert). La ricerca della parola giusta, compresi i “normandismi”, la frase appropriata, giri di parole a volte piacevolmente arcaici, l’immagine utile: tutto, nel linguaggio di La Varende, è fatto, si direbbe, in modo che il lettore prenda piacere nella narrazione più che nello stile del testo. L’opera di questo autore appartiene a una corrente del XIX secolo, dove si incontravano gli amanti della Francia e delle sue ex province. Il periodo tra le due guerre, nelle sue crisi sociali e politiche, ha messo in luce le correnti regionaliste risvegliate da Frédéric Mistral (1830 - 1914) e dal già citato d’Aurevilly.
Scrittori come La Varende, Alphonse Van Bredenbeck de Châteaubriant (1877 - 1951), Joseph de Pesquidoux (1869 - 1946) hanno sentito arrivare la fine di un mondo rurale che si sono affrettati a descrivere. Questi scritti nascondono poi una parte di romanticismo misto a un naturalismo da scudiero. La Varende sottolinea il dramma vissuto dai suoi personaggi, afflitti dall’onore che hanno ereditato dai loro antenati, l’onore del castello che deve essere mantenuto, l’onore della terra, che deve essere amata. Tra i demoni di La Varende c’è la Rivoluzione francese. Non a caso, non ne parla quasi mai, anche se è presente ovunque, nel senso che, con lui come nella storia di Francia, c'è un “prima” e un “dopo”. Lo scrittore salta questo periodo che detesta: «Il 13 luglio conta per me perché è l’atto di Charlotte [Corday], come il 15 luglio perché è la nascita di Rembrandt. Riesco a ingoiare il 14 tra questi due giorni»6. In alternativa racconta i grandi personaggi del 17°secolo: Anna d’Austria, Suffren, Saint Vincent de Paul, e molti altri, o trabocca nel secolo successivo, ma con parsimonia, o soprattutto fa rivivere un XIX secolo dove i suoi personaggi sono nobili al servizio del re, o alla sua causa. In Man’d’Arc la giovane Manon – una “Giovanna d’Arco” degli Chouan al servizio della causa della coraggiosa duchessa di Berry (1798 – 1870)7 –, accompagna i suoi due nobili padroni che sono “veri uomini” ma è lei, la contadina, che ha più affinità con la principessa. Questo romanzo già citato e precedente al Centauro di Dio rivela ancora una volta l’affinità tra il contadino e il nobile e la lontananza verso l’altro ceto sociale, quello di estrazione borghese, fautore – appunto – della rivoluzione. Sul tema vandeano, oltre questo romanzo sulle Chouannerie normanne, ha scritto due monografie, una sul generale bretone Georges Cadoudal (1952) e Mes contes de Chouannerie pubblicato postumo nel 2018.
[caption id="attachment_12802" align="aligncenter" width="1000"] Jean de La Varende con i suoi modellini navali.[/caption] Pertanto, la scrittura di La Varende serve ideali chiari che sono: il re, la vera nobiltà, il mondo contadino, la religione cattolica. Fa sì che i suoi personaggi cerchino onore, coraggio, avventura, rispetto. Il suo mondo è allo stesso tempo rinchiuso nelle sue tradizioni ancestrali, una certa etichetta “hobereaute”, eppure alcune figure sono ritratte con un personaggio che vuole rompere con le abitudini delle cronache delle castellane, sprofondando nel dramma oltre che nell’umorismo di leggera derivazione britannica. La Varende è, per questo, uno di quegli autori francesi che l’epoca contemporanea ha volutamente lasciato da parte facendolo cadere nell’oblio. Sebbene regolarmente ripubblicato, in particolare dalle edizioni Grasset e Flammarion, il suo lavoro è assente dalle antologie letterarie. L’attaccamento di La Varende alla sua provincia ancestrale, la Normandia, lo colloca tra gli scrittori regionalisti. Certamente è vero che i normanni dell’Ottocento, dall’archeologo Arcisse de Caumont (1801 - 73) e dal suo amico studioso Auguste Le Prévost (1787 - 1859), hanno fatto della Normandia una terra regionalista, dal punto di vista letterario, e infatti nel regionalismo, che considera l’ex provincia un’entità sopravvissuta agli sconvolgimenti rivoluzionari, c’è un innegabile attaccamento alla storia regionale, ma l’oblio dell’autore ha carattere ideologico poiché va contro il nuovo sistema di vedere il mondo che “non è il migliore possibile, ma l’unico possibile. Appassionato di mare, non avendo mai potuto imbarcarsi a causa delle fragili condizioni di salute, Jean de La Varende ha prodotto un’impressionante collezione di modellini di barche e navi, composta da oltre 2.000 modelli. Parte di questa collezione è tuttora conservata al castello di Chamblac. Era anche un membro corrispondente dell’Académie de Marine e nel dicembre 1933, Jean de La Varende fu nominato Cavaliere al Merito Marittimo come pittore e archeologo navale. La Varende ci ricorda la bellezza e la nobiltà di quel piccolo mondo antico, ed oggi dovremo mostrarci un po’ più messianici e ricordare da dove veniamo e soprattutto chi siamo, poiché altrimenti un popolo che non conosce se stesso non sa più ri-conoscersi e tutto questo patrimonio patriarcale sarà presto dissolto, fuso in una sorta di massa “culturale” informe che ci servirà vagamente da “guida storica” in cui riposeranno le nostre coscienze infantilizzate, stupefatte e, ahimè, sempre più ignoranti.
1Il Prix Goncourt è un premio per la letteratura francese, assegnato dall’Académie Goncourt all’autore della “migliore e più fantasiosa opera in prosa dell’anno”. Il premio prevede una ricompensa simbolica di soli 10 euro, ma si traduce in un notevole riconoscimento e vendita di libri per l'autore vincitore;
2Il Grand Prix du Roman è un premio letterario francese, creato nel 1914, e assegnato ogni anno dall’Académie française. Insieme al Prix Goncourt, il premio è uno dei più antichi e prestigiosi premi letterari in Francia;
3Jean de La Varende, Il Centauro di Dio, Istituto di Propaganda Libraria, 1945, post-fazione di Domenico Giuliotti;
4Alla morte di La Varende nel 1959, il castello passò al figlio Éric Mallard de La Varende (1922 - 79), poi ad una delle sue figlie che sposò una Broglie. Il castello ora appartiene al principe Charles-Edouard de Broglie, sindaco di Chamblac, e a sua moglie, la principessa Laure (nata Laure Mallard de La Varende);
5 Jean de La Varende , Castelli della Normandia. Itinerario sentimentale, Plon, Paris, 1958, p. 53.
6Jean de la Varende, Maison Vierge, 1942, p.6;
7Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Borbone fu principessa delle Due Sicilie per nascita e duchessa di Berry per matrimonio.
 
Per approfondimenti:
_Pierre Coulomb, La Varende, éditions Dominique Wapler, Paris, 1951. _ Anne Brassié, La Varende. Pour Dieu et le roi, Paris, Librairie académique Perrin, 1993; _Michel Herbert, Bibliographie de l’œuvre de La Varende, Paris, aux dépens d’un amateur, 1964-1971, 3 vol.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 02-04-2022

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Il treno di periferia che, partito da Bruxelles, vi sbarca a Louvain-la-Neuve contiene già tutti gli elementi di un’immagine di Tintin. Né arcaico, né futurista, è semplicemente senza età: consumato dall’uso, modesto, mantenuto in buono stato e insolitamente pittoresco rispetto alla timida estetica belga. Ci si aspetta di veder spuntare un capostazione alla Hergé: grassottello, berretto in testa e fischietto tra i baffi, su sottofondo di una canzone di Charles Trenet. Poi le pareti rosso mattone di una serie di casamenti tutti uguali – residenze studentesche, qualche negozio – intrecciati nel verde, cinque minuti a piedi su un camminamento liscio ed è già ora di imbarcarsi. Ed eccoci giunti sul binario d’imbarco. Louvain-la-Neuve, nuova città universitaria creata nel Brabante Vallone dopo la disputa linguistica del 1967-68 che costrinse gli studenti francofoni ad abbandonare l’antica università di Louvain-Leuwen (ad una trentina di km dalle Fiandre), è stata edificata sull’ampia piattaforma che copre un parcheggio e alcune vie di scorrimento.
[caption id="attachment_15015" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Ritorno dal Congo.. Hergé e "Tintin" sul balcone dell'edificio de "Le Vingtième Siècle" Bruxelles, 9 luglio 1931; Hergé indica a Jacques Martin, stretto collaboratore degli "Studios Hergé" una correzione da apportare a una tavola de L'Affare Girasole, 1956[/caption]
Qui sorge il museo di Hergé dedicato a Georges Prosper Remi (1907 - 83) il fumettista creatore di uno dei più grandi fumetti europei: Tintin. Ma come ha fatto un semplice ketje , nato belga sotto l’imperioso scettro e la non meno imperiosa barba di Leopoldo II detto “il congolese”, a diventare in settantasei anni uno dei fari del XX secolo? Come ha fatto un piccolo boy-scout pasticcione, il cui solo merito era di avere una certa mano nel disegno, a imporsi quasi suo malgrado attraverso il fumetto come un genio dell’eterna infanzia e dell’arte moderna, oggi riconosciuto degno di un museo alla sua gloria? Cosa ha trasformato Georges Remi l’oscuro in Hergé il chiaro?
La storia inizia alle 7.30 del 22 maggio 1907 a Etterbeek, comune limitrofo di Bruxelles. In casa di Alexis Remi, 24 anni, che lavorava nelle confezioni sartoriali, e di Elisabeth Dufour, 25 anni, casalinga – lui vallone, lei fiamminga – nasce il primo figlio, battezzato con il nome di Georges-Prosper, detto Georges. Remi Georges: che il lettore non dimentichi queste iniziali.
Niente sorride al bambino. Non i genitori, scialbi e convenzionali piccoli borghesi di un regno industrioso, e meno ancora l’avvenire, chiuso come il cielo basso del loro “plat pays”. Ma Georges si impegna: è un ragazzino obbediente e studioso ma, soprattutto, ha una smodata passione per il disegno, fonte di evasione e di ammirazione da parte dei compagni. I piedi tra le scorie e il naso tra le stelle, non per niente il “surrealismo” è un minerale nativo nel Belgio di Magritte. I quaderni dello scolaro si coprono di schizzo che rappresentano per lo più dei soldati – la Prima Guerra Mondiale è scoppiata quando aveva sette anni.
La seconda, e decisiva, nascita di Georges Remi si colloca nel 1921, quando entra tra i boy-scout della scuola media Saint-Boniface dove è stato ammesso in quinta moderna. Messosi in luce per le sue doti di “bravo ragazzo” elegante, cortese e che sa sbrogliarsela, diventa capopattuglia degli Scoiattoli con il nome di Volpe Curiosa. Nonostante i valori cattolici del suo ambiente, il prode movimento giovanile recentemente fondato da Robert Baden-Powell lo apre al vasto mondo dove il sogno e l’avventura sono finalmente permessi. «Lo scoutismo è la resurrezione in pieno XX secolo dell’antico ideale della cavalleria cristiana» affermava il generale appena dieci anni dopo: il riferimento cattolico è a quel tempo una sorta di marchio di resistenza in una società troppo vicina geograficamente al dramma russo, reduce della rivoluzione bolscevica del 1917.
I campi estivi portano Volpe Curiosa e la sua truppa in Italia, Svizzera, Austria, Spagna. Questi Paesi di un’Europa vista finora solo sui libri di geografia sono già l’estero per il giovane brussellese che fantastica di lontani orizzonti. Per raggiungere di più esotici dovrà ricorrere all’immaginario. Fin dai suoi inizi infantili Georges Remi si è servito del disegno per raccontare delle storie. La sua immaginazione da feuilleton trovava un naturale sfogo nella punta della matita e mentre cominciavano a uscire i primi giornalini illustrati per ragazzi lui si era inventato una casareccia arte del racconto a immagini fisse, ma concatenate, animate dal lettore grazie alla prodigiosa macchina da ellissi costituita dall’intervallo bianco che le separava e insieme le univa. Un’arte già «sonora» grazie alla nuvoletta del fumetto che per il momento serviva solo a esprimere la sorpresa (un punto esclamativo) o la perplessità (un punto interrogativo). Nel 1921 L’Epatant pubblica a disegni le avventure di Charlot, uno degli idoli dell’adolescente affascinato dai primi balbetii del cinema, peraltro ancora muto.
È questo il talento che i boy-scout scoprono in Georges per sfruttarlo ne Le Boyscout belge, rivista mensile del movimento. A partire dal 1924 il giovane disegnatore firma le illustrazioni «Hergé» (dalle iniziali G.R. invertite). Hergé ha diciannove anni quando, nel luglio 1926, compone il suo primo fumetto per il giornale scout: Les Extraordinaires aventures de Totor, C.P. des Hannetons, presentato come un “grande film comico” della presunta compagnia “United Rovers”. Le ventisei tavole, dalle vignette classicamente sottotitolate ma già con, qua e là, qualche fumetto esclamativo, vorrebbero in effetti essere un «film di carta» che rispecchia goffamente la passione di Georges per le comiche e i western americani che va regolarmente a vedere con la madre nei primi cinema aperti a Bruxelles. Totor, l’eroe dal viso rotondo contrassegnato da due punti per gli occhi e da una virgola per il naso, ha sulla fronte una ciocca spiaccicata che sembra aspettare solo un colpo di vento per drizzarsi a ciuffo. L’anno precedente Hergé si è inserito nella vita attiva. Lavora al servizio abbonamenti del quotidiano Le Vingtième Siècle. Un giornale conservatore, «molto conservatore» lo definisce Paul Jamin, amico e scout e in seguito assistente di Georges. «Le inserzioni pubblicitarie – ricorda divertito – esortava il lettore, che spesso le scambiava per informazioni, a preferire la cioccolata “cattolica” alla cioccolata “Victoria”, che invece era liberale» . Per completare il quadro, Jamin descrive il direttore del giornale, l’abate Wallez, come un despota tonante e perentorio: «L’abate, uomo di destra e simpatizzante con il fascismo, conosceva Mussolini»; Nobert Wallez esercita una forte impressione sul giovane impiegato di cui non tarda a intuire il promettente talento e di cui diventa l’onnipotente mentore. Tanto più che il reverendo direttore ha per fedele segretaria una graziosa ragazza, Germaine Kieckens, alla quale Georges è tutt’altro che indifferente.
[caption id="attachment_15008" align="aligncenter" width="1000"] I principali protagonisti del fumetto Tintin: ; il cane Milou; Dupond e Dupont; il capitano Haddock; il professor Tournesol - © Hergé-Moulinsart 2022.[/caption]
La figura tutelare di Wallez fa confluire intorno a sé i vari temi, finora sparpagliati, del destino di Georges Remi: la fondamentale ideologia di un «piccolo Belgio» timorato e tendenzialmente antisemita – come del resto tutta l’Europa. L’ideale cavalleresco dello scoutismo e il suo culto della purezza: le amicizie giovanili «per la vita e per la morte», lo portano alla prima pubblicazione, il 10 gennaio del 1929 nel suo personale Tintin nel Paese dei Soviet su Petit Vingtième, supplemento settimanale per i ragazzi di cui Hergé è stato nominato redattore-capo, segna lo sbocciare di un autore che ancora non crede in se stesso: «Non era una cosa – dichiarerà a Chancel – nata per durare: era un gioco, una specie di scenetta da recitare intorno al fuoco del campo scout». Un gioco, si, ma nel quale, «proprio per gioco, l'ho fatto entrare in politica – precisa Hergé a Numa Sadoul, autore di un’importante serie di interviste con il disegnatore. Non dimentichiamo che Le Vingtième Siecle era un giornale cattolico e che, a quell’epoca, dire “cattolico” equivaleva a dire “anticomunista” e questa era già una consolazione”. I bolscevichi vi venivano letteralmente mangiati vivi! Fui senza dubbio influenzato dall’atmosfera del giornale, ma anche da un libro intitolato Moscou sans voiles (Mosca senza veli) di Joseph Douillet, console del Belgio a Rostov sul Don, che denunciava con violenza i vizi e le turpitudini del regime. Vista la fonte a cui attingevo, ero sinceramente convinto di trovarmi sulla strada giusta. E poi, avevo la benedizione del mio direttore».
Il successo di quest’avventura in bianco e nero, tutta dialogata a fumetti e senza sottotitoli, in cui Totor si trasforma in un Tintin con il ciuffo rialzato sulla fronte dalla corsa dell’automobile, è tale che l’abate Wallez decide di mettere in scena un «autentico» rientro a Bruxelles del piccolo reporter. L’8 maggio 1930 una comparsa (scout) travestita da Tintin-mugik sbarca alla Gare du Nord con in braccio un fox-terrier tinto di bianco per l’occasione, tra gli evviva di centinaia di ragazzini già divenuti suoi fan. Ovviamente Germaine Kieckens si vede un’ulteriore prova del genio del suo direttore («Era un essere eccezionale»!) il quale si affretterà a pubblicare sotto forma di album quelle prime tavole di Tintin (5.000 esemplari andati a ruba) in edizione limitata, numerata e recante la dedica di Tintin e Milou in persona. «Georges firmava “Tintin” e io “Milou” con un piccolo scarabocchio canino» racconta a Benoit Peeters la compiacente segreteria che Hergé, su insistenza di Norbert Wallez, sposerà nel 1932.
Nel 1931 la stessa trovata pubblicitaria saluta il complemento, su “Le Petit Vingtième”, di Tintin in Congo, dedicato alla gloria paternalista – “razzista” sarà il severo giudizio di alcuni commentatori contemporanei, contraddetti nel dicembre 2012 da un giusto arbitraggio della corte d’appello di Bruxelles – della colonia africana concessa da Leopoldo II ai sudditi belgi. Stavolta Tintin sbarca con in testa il casco coloniale e Germaine precisa che per l’occasione sono state ordinate «delle carrozze a cavalli con a bordo uomini neri» per scortare i nostri eroi dalla Gare du Nord fino alla sede del giornale. L’album, già disponibile, viene venduto insieme a un omaggio: «un oggetto artistico congolese di grande valore» .
Nel frattempo Hergé ha cominciato a pubblicare sul suo giornale delle gag di una o due pagine su Quick et Flupke, gamins de Bruxelles (Quick e Flupke, monelli di Bruxelles) che manda avanti di pari passo con le avventure di Tintin e Milou. Già travolto dal successo, sgobba della mattina alla sera malgrado il fattivo aiuto della moglie.
Dal 1930 il giornale “Coeurs vaillants” di Parigi pubblica le storie di Tintin con grande soddisfazione di Hergé che vede così allargarsi il numero dei suoi lettori. Ben presto però scopre con delusione e dispetto che le sue immagini a «fumetti» sono state sottolineate alla vecchia maniera dall’editore francese, che teme l’incomprensione delle sue pecorelle. Certamente alla fine Hergé finirà per imporre la propria concezione «moderna», ma dovrà battersi contro le riserve nutrite dall’abate Courtois, direttore del settimanale giovanile francese, nei confronti di un eroe «senza famiglia»: reticenze vinte nel 1935 con la creazione ad hoc, da parte di Hergé, della serie «familiare» Jo, Zette et Jocko in cinque episodi, con le avventure che continuarono ad uscire regolarmente fino al 1944.
Sempre negli anni Trenta, in Belgio, nasceva il rexismo (1935 - 45), un partito nazionalista belga guidato dal cattolico Léon Joseph Marie Ignace Degrelle (1906 - 94). Degrelle conosceva Hergé dall’infanzia degli scout ed i due erano molto amici. Fu così che il Maestro illustrò a Degrelle la copertina di uno dei suoi libri. Solo più tardi il rexismo, vicino al fascismo clericale spagnolo, divenne il simbolo, in Belgio, della collaborazione con gli occupanti tedeschi.
Questa breve collaborazione con il partito, costò ad Hergé alcune problematiche nel dopoguerra. Non solo, ma Degrelle pubblicò successivamente (scritto nel 1990, ma pubblicato nel 2000) Tintin mon copain (Tintin amico mio), dove attraverso delle relazioni autobiografiche Léon Degrelle, sosteneva di essere stato l’ispirazione fisica e morale di Hergé per la creazione di Tintin, conducendo una vita avventurosa parallela a quella dell’eroe dei fumetti. Il libro verrà stampato in 1.000 copie, di cui 850 immediatamente sequestrate e distrutte: abbiamo tra le mani un libro controverso. Molto difficile da trovare, per molto tempo, fino a quando alcuni rari siti non lo hanno offerto in pdf in rete.
[caption id="attachment_15009" align="aligncenter" width="1000"] Nella prima foto Adolf Hitler durante la prima guerra mondiale con il cane bianco; nella seconda immagine, Léon Degrelle in esilio in Spagna; la portina del romanzo "Tintin mon copain": partiamo da un antefatto: Degrelle durante la conquista francese dei tedeschi fu catturato dagli Alleati e passerà attraverso 21 prigioni prima di essere finalmente depositato nel campo di concentramento di Vernet. Il 24 luglio verrà rilasciato per ordine del maresciallo Pétain. Conoscendolo vivo, il suo amico Hergé fece un disegno molto eloquente per festeggiarlo: in questa vignetta, vediamo il giornalista Tintin camminare per una strada mentre un terminale indica che sta andando in direzione di Bruxelles e proviene da Tolosa. Non è un caso, poiché il campo di Vernet si trova a 60 chilometri da Tolosa. Attraverso Tintin, sembra essere dunque Degrelle che Hergé rappresenta.[/caption]
Ma allora cos’è davvero questo libro sovversivo? Tintin mon Copain, infatti, è soprattutto simile a un’autobiografia di Léon Degrelle in cui condivide la sua amicizia con Georges Rémi alias Hergé, e la sua influenza sul personaggio di Tintin.
In realtà, Degrelle è nato in una famiglia cattolica con valori radicati. Frequenterà la facoltà di giurisprudenza a Lovanio dove appare già come un uomo dalla forte personalità e pieno di carisma. Incontrerà poi, un po’ per caso, l’abate Norbert Wallez che – come detto – dirige il piccolo quotidiano “Le Vingtième siècle”. Fu lì che conobbe un giovane designer di nome Georges Rémi. I due uomini, poco più che ventenni, hanno in comune di essere stati scout e di aver avuto la stessa educazione cattolica. Ben presto, simpatizzano nonostante le loro notevoli differenze. Hergé è piuttosto timido, discreto, un “raschietto di carta” tranquillo e poco abile con il gentil sesso. Degrelle, al contrario, è uno spaccone, un chiacchierone pacato che non usa mezzi termini, un avventuriero ad alta energia e un donnaiolo molto seducente. Nonostante le loro differenze, i due uomini furono legati da un’amicizia incrollabile. A quel tempo Degrelle stava già scrivendo alcuni articoli per Le Vingtième Siècle mentre Georges Rémi si occupava della realizzazione delle illustrazioni. Curiosità vuole che – forse come sostiene lo stesso Degrelle –, l’idea del fumetto così come lo conosciamo oggi, si crea nella testa di Hergé dopo aver ricevuto un regalo messicano dallo stesso Degrelle, che in quel periodo si trovava in Messico come corrispondente per il giornale Le Vingtième Siècle circa lo sterminio in Messico dei cristeros. Il presente del vallone fu proprio un fumetto, un formato che già circolava negli Stati Uniti, ma che era sconosciuto in Europa. Degrelle continua sempre a sostenere nella sua biografia, che per sdebitarsi Hergé inserì i pantaloni da golf al suo personaggio proprio per rendere omaggio alla trovata del suo amico Degrelle. Ed ancora il rexista prosegue nella sua notizia più rivelante: il suo fedele cane Snowy che lo segue ovunque, fu ispirato osservando una foto nella trincea tedesca che mostrava un cagnolino bianco dal muso indagatore, sguardo accattivante e sornione che era ai piedi di un soldato tedesco. E chi era questo soldato? Nel suo libro Degrelle ammette anche di avere «quasi paura di rivelarlo»: questo soldato era un certo Adolf Hitler.
Al di là delle indiscrezioni, si è anche detto a volte che l’autore di Tintin avesse negato la sua relazione con il “Beau Léon” come veniva chiamato Degrelle: fu una bugia. Difatti l’11 gennaio del 1973 Hergé, che era al culmine della sua popolarità, dichiarò: «Degrelle era un uomo rispettabile, era lui stesso sul fronte orientale e non vi mandò certo solo qualche povero diavolo. E militarmente, si è comportato lì come un eroe». L’amicizia era un sentimento sacro per Hergé e non avrebbe mai negato quello che aveva mantenuto per anni con Degrelle. Certamente la verità, sulle indiscrezioni di Degrelle, è sicuramente morta con i due uomini.
Tornando al suo fumetto per eccellenza, eccoci appena rientrati dal Congo, dove Tintin et Milou si imbarcano per l’America dei gangster di Chicago e dei pellerossa espropriati dai petrolieri. Ormai Hergé è libero di viaggiare a suo piacimento fin nei paesi più lontani, ma sempre senza muoversi dalla sua mansarda e sempre sulle ali fittizie del suo inviato speciale, più raddrizzatore di torti che giornalista. Tintin e Milou sono appena rientrati in Bruxelles che già ripartono in senso inverso, stavolta diretti in Oriente. Inizialmente nel Medio con l’avventura egizio-indiana de I Sigari del Faraone, nel 1932; poi nell’Estremo, con Il loto blu, che conferirà al fumetto una inaspettata connotazione politico-sociale. Difatti Hergé si schiera a favore del popolo cinese aggredito nel 1931 dal Giappone – la poco conosciuta invasione della Manciuria, primo atto della Seconda Guerra Mondiale. Questa presa di posizione umanista in un conflitto in atto è una scelta personale fondata, per la prima volta, su una realtà scrupolosamente documentata.
A questo riguardo, nel 1934 Hergé viene assistito e consigliato da un giovane studente cinese delle Belle Arti di Bruxelles, Chang Chong-jen, il quale calligrafa addirittura gli ideogrammi contestatari sulle bandiere presenti nelle vignette «Abbasso l’imperialismo» o «Aboliamo i trattati ineguali». I due resteranno legati da un’intensa amicizia fino al ritorno in patria – e anche dopo – di Chang nel 1935. Tale è l’impatto de Il loto blu che nel 1939 la moglie del maresciallo nazionalista Chang Kai-shek (1887 - 1975) invita Hergé in Cina, ma l’imminente guerra in Europa impedirà all’artista di recarvisi.
[caption id="attachment_12705" align="aligncenter" width="1000"] Tintin nel Congo belga: una vignetta dove il nostro protagonista è in compagnia di un missionario cattolico che insegna ai bimbi neri a leggere e scrivere e li evangelizza.[/caption]
A partire da I sigari del Faraone, Casterman, erede dell’antica casa editrice di Tournai, è diventato il felice editore degli albi di Tintin, pubblicati in anteprima da Le Petit Vingtième. Nel 1937 il primo ad uscire per i tipi di Casterman è L’orecchio spezzato: la trama del nuovo episodio riporta il nostro eroe all’Ovest, in un’immaginaria repubblica – ovviamente delle banane – dell’America centrale: il San Theodoros. Hergé si diverte a mettere in scena un caricaturale armamentario a base di piraña, cerbottane, teste mummificate, caudillos (Alcazar), rivoluzioni e bombe a miccia.. Ma l’oggetto-chiave dell’intreccio, il feticcio Arumbaya, è ispirato a un’autentica statuetta precolombiana esposta nel museo brussellese del Cinquantenario dove il disegnatore è andato a documentarsi, allo stesso modo che l’Aniota, il terribile uomo-leopardo del Congo, era stato ripreso da una celebre statua esposta al Museo reale dell’Africa Centrale, a Tervuren. Come dire che per Hergé le storie, anche se semplici pochades, erano credibili solo se ancorate a una realtà verificabile.
A questo punto il papà di Tintin ricapitola i punti fermi di un’opera già vista ma tutt’altro che premeditata. Ne sono prova le seguenti osservazioni personali: «Si parte sempre da un’idea semplice, che permette di coinvolgere Tintin in importanti eventi di portata internazionale evitando il più possibile l’uso del testo e dando la massima importanza al movimento. Ed ecco che ritroviamo – sempre in 124 pagine in bianco e nero, arricchite nell’album da quattro tavole fuori testo a colori, il nostro piccolo reporter in Scozia, in kilt e berretto con pompon, alle prese con dei falsari e un buon vecchio gorilla tipo King Kong. Ma la guerra incombe e di fronte alla minaccia tedesca l’amore per l'ordine e i pregiudizi conservatori di Hergé vacillano. Nel 1938 applica alla lettera i precetti artistici enunciati, rivelando le proprie preoccupazioni politiche. Tintin viene coinvolto nel turbine di un drammatico complotto in atto tra pseudo immaginari Stati centro-europei: la Sildavia del buon re Muskar (un Belgio travestito da paese slavo) e la Borduria, armata dall’infame Musstler (contrazione dei nomi di Mussolini e Hitler). Sarà in questo episodio delle avventure di Tintin, intitolato Lo scettro di Ottokar, che la diva Castafiore emetterà i suoi primi gorgheggi..
Pieno di buona volontà e patriota, Hergé si presentò durante la mobilitazione (a metà settembre 1939), tranne per il fatto che il 12 aprile 1940 fu ritenuto inabile per motivi di salute e rimandato a casa in congedo non retribuito. Così emigra in Francia, soggiornando nella regione parigina poi al Puy de Dôme con lo stilista Marijac, ma con la capitolazione, il re Leopoldo III chiede ai suoi sudditi di riprendere le loro attività. Hergé torna in Belgio ma il Petit Vingtième non esiste più!
Durante i mesi di maggio e giugno 1940, l’esercito tedesco schiacciò in due Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio e Francia.
L’acuta consapevolezza della tragedia in atto, il 10 maggio 1940 che vide il Belgio soccombere davanti allo strapotere della Wehrmacht, non impedisce a Hergé, fautore della «neutralità» raccomandata da Leopoldo III e desideroso di conservare il lavoro di cui vive, di fare una scelta tutt’altro che illogica dal punto di vista del suo ambiente di formazione, ma gravida di conseguenze nei confronti della storia.
Visto che Le Vingtième Siècle e Le Petit Vingtième hanno chiuso i battenti lasciando in sospeso la pubblicazione di Tintin nel paese dell’oro nero, il giovane e ormai celebre disegnatore accetta il posto di capo-redattore di Soir-Jeunesse, supplemento del grande quotidiano brussellese. Piccolo problema, da metà giugno il ribattezzato Le Soir è nelle mani dei nazisti. Sarà soprannominato “La sera rubata”.
Censura permettendo, Hergé vi pubblica Il granchio d’oro in cui il capitano Haddock fa la sua prima apparizione tra due bicchieri di scotch. Poi, nel 1941, La stella misteriosa e, nel 1942, Il segreto del Liocorno. Questo sarà poi seguito da Il tesoro di Rackam il Rosso in cui entra per la prima volta in scena il professor Girasole e alla fine del quale Tintin, Milou, Haddock traslocheranno al castello di Moulinsart. La famiglia Tintin, quasi al completo, con la sola assenza di Lampion. A partire dal 1942 Hergé ha accettato le nuove condizioni di Casterman imposte dalle restrizioni riguardanti la carta da stampa: sessantaquattro pagine per album, ma a colori.
Al momento della liberazione, il 2 settembre del 1944, i giornalisti rimasti al Le Soir furono quindi processati per collaborazionismo. La maggior parte viene condannata a morte, con una pena poi trasformata in pochi anni di carcere. Anche Hergé ha problemi: il 7 settembre 1944, tre giorni dopo la liberazione, la polizia giudiziaria effettua una perquisizione nella sua abitazione. Le Soir viene chiuso e tra i collaboratori di Hergé che avranno problemi vediamo il pittoresco Jacques Van Melkebeke, grande appassionato di letteratura popolare, pittore e fecondo fornitore di trame per Tintin, raccomandato da Edgard Jacobs che a quel tempo aiutava Hergé a rifare a colori i precedenti albi in bianco e nero.
Dopo questo episodio, ancora una volta Hergé spiazza tutti con Tintin nella terra dei nazisti, pubblicato sul secondo numero di La Patrie che però non sfuggi alla censura nel settembre del 1944, nonostante il contenuto del fumetto.
Solo il 22 dicembre 1945, il dossier di Hergé fu archiviato, ma l’accusa propriamente dei partigiani verso Hergé quale fu? Quella di aver continuato a disegnare album sotto l’occupazione? Quindi aver contribuito a risollevare il morale di tante persone in questi tempi difficili e aver permesso a molte di loro di scappare per un momento e dimenticare la guerra? È per questo che quest’uomo è stato quasi condannato a morte? È per questo che il suo nome compare ancora nella “galleria dei traditori” del Museo della Resistenza di Bruxelles?
Ma in fondo, ciò che ha animato i persecutori di questo grande maestro è la gelosia: la gelosia del talento poiché queste persone non collaboravano minimamente, ma la gelosia del mediocre che si vendica su personaggi di grande valore.
Egli è profondamente rattristato per la malattia nervosa della madre – che nell’aprile del 1946 si spegnerà in un asilo per malati di mente – Georges ha perso il sacro fuoco, soffre di depressione e a un certo punto pensa addirittura di emigrare in Argentina. Si limita a lavoretti pubblicitari, ai produttori derivati e a rifare a colori per Casterman i primi album in bianco e nero.
[caption id="attachment_15010" align="aligncenter" width="1000"] Hergé, “Aviation nel 1939-1945”.[/caption]
La sua immagine è stata molto offuscata fino al giorno in cui Raymond Leblanc (1915 - 2008), un ex doganiere e combattente della resistenza, decise di chiamare Hergé per creare il giornale “Tintin” ed il primo numero del settimanale esce il 26 settembre 1946. Hergé assume la direzione artistica del nuovo giornale e con immutata fedeltà agli amici dei giorni bui, impone come capo redattore Jacques Van Melkebeke, rilasciato a piede libero. Il numero di settembre Il tempio del sole, continuazione de Le sette sfere di Cristallo.
Dopo qualche tempo, Hergé allestisce un vero e proprio studio per stare al passo con i ritmi di pubblicazione e gli ordini derivati legati a Tintin.
Nel 1946 ricicla un’idea che aveva avuto con Jacobs nel 1944: produrre una serie di cartoline che costituissero un’enciclopedia su temi specifici. Ogni carta sarà accompagnata dal personaggio Tintin vestito con un costume appropriato. Saranno quelli che chiamiamo i chromos che animeranno finalmente la sezione documentari del quotidiano Tintin.
Tra il 1946 e il 1950 apparvero i Discorsi del capitano Haddock sulla storia della marina. Dal 1950 le edizioni lombarde pubblicano color chromos indipendentemente dal giornale, offerte in cambio dell’acquisto di “Francobolli Tintin”. Un modo per avere un bel disegno e un po’ di contesto storico. Tintin ha quindi assunto la posa e il costume legati al contesto presentato. Un po’ come se Tintin avesse conosciuto diverse vite.
Vengono lanciate sette collezioni, tra cui “Aviation nel 1939-1945”. Troviamo così Tintin come un ufficiale inglese, americano, francese o… tedesco: è l’humor di Hergé, senza filtro, accademico, non politicizzato; un artista libero, non un prezzolato a pagamento – un comportamento che Hergé ha mantenuto anche sotto il dominio nazista, dove diverse opere furono censurate.
Dopo un ritorno al Paese dell’oro nero dove Hergé riprende non senza umorismo il filo della storia petrolifera interrotto della guerra, Tintin farà compiere al fumetto un grande passo in avanti. L’obiettivo è niente meno che la Luna – vent’anni prima che l’uomo vi pose realmente piede. Abbordando il campo della fantascienza, Hergé si assicura la consulenza di uno specialista, conosciuto anche lui a Le Soir: Bernard Heuvelmans (1916 - 2001). Il progetto si rivela talmente vasto che viene deciso di dedicargli due episodi, Obiettivo Luna e Uomini sulla Luna, la cui pubblicazione durerà ben quattro anni, dal 1950 al 1954 – subendo, nel 1951, una lunga interruzione sul giornale “Tintin”: decide così di allargare i propri orizzonti, circondandosi di collaboratori (una segretaria, coloristi, grafici) e di fondare sull’elegantissima avenue Louise gli “Studios Hergé” di cui il gioviale e devoto disegnatore fiammingo Robert Frans Marie De Moor (1925 - 92), principale responsabile dell’arredamento, diventerà ben presto il pilastro. Grazie a questa équipe, il razzo a scacchi bianchi e rossi può riprendere la crociera e finalmente “allunare”. Il 18 novembre 2012, a Parigi, un album di Obiettivo Luna con le dediche congiunte di Hergé e dei tre astronauti di Apollo XI (1969), verrà venduto a 35.525 euro. La gloria di Hergé è al culmine. La stampa si contende l’elegante disegnatore, che per giunta è anche uno squisito conversatore. I suoi albi si vendono a milioni di copie e ben presto verranno pubblicati in un centinaio di lingue e dialetti. I suoi personaggi vengono portati sullo schermo, come Le Mystère de la Toison d’Or, Les Oranges bleues, con Jean-Pierre Talbot nella parte di Tintin. La sua produzione assume caratteristiche sempre più personali. A L’affare Girasole (1954), in cui spunta Serafino Lamion, succedono nel 1956 Coke in stock e, soprattutto, Tintin in Tibet nel 1958. In questa traslucida, mistica e introspettiva vicenda in cui Tintin, partito alla ricerca del suo Chang perduto, incontra un adorabile uomo delle nevi: lo yeti. Hergé sembra davvero ritrovarsi uccidendo dentro di sé ciò che uno psicanalista junghiano, brevemente consultato in Svizzera, ha definito “il demone della purezza”.
[caption id="attachment_12704" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Il sergente Remi (a sinistra) nel 1926; Hergé, la moglie Germaine e il suo amico cinese Tchang a Bruxelles nel 1934; Edgar Pierre Jacobs (a sinistra), Jacques Van Melkebeke (al centro) ed Hergé (a destra); Hergé agli studi Boulogne-Billancourt con Jean-Pierre Talbot, durante la promozione del film Tintin e il mistero del vello d'oro, nel 1961.[/caption]
Nel 1960 esce I gioielli della Castafiore: stavolta si tratta di un’avventura priva di viaggi e dove, per ammissione dell’autore, “non succede niente”, ma la sua trama è una godibile commedia umana in cui si dispiega la sottile tavolozza di quello straordinario mago del racconto e delle immagini che è Hergé.
Gli “Studios Hergé lavorano a pieno ritmo, ma il capo vagola nelle nebbie della malinconia. I suoi rapporti con la Germaine sono tesi, a volte insopportabili, ma la coppia insiste per salvare le apparenze. Finché un bel giorno Hergé decide di introdurre nella sua squadra alcuni nuovi collaboratori. Tra di essi c’è una giovane, modesta e incantevole colorista di nome Fanny Vlamynck alla quale, molto tempo dopo, Hergé finirà per dichiararsi. Separatosi con la moglie, con la quale tuttavia rimane in corrispondenza, ne divorzierà solo nel 1977 per sposare Fanny. Accanto a lei la sua vita diviene serena e lieve, con la nuova moglie viaggia spesso e lontano dal vecchio continente; lui si appassiona alla pittura, ci si brucia le ali e alla fine diventa un collezionista illuminato: da Alechinsky e Fontana fino alla pop-art americana; tra gli amici della coppia ci sono i grandi intellettuali come il filosofo Michel Serres.
Ebbene nella concezione di vita di Hergé qualcosa dopo la guerra si è rotto, qualcosa cambia ed abbraccia il calore dell’età moderna, liberale. Nel maggio del 1977, alcuni giorni dopo il matrimonio con Fanny, Hergé acquista un triplice ritratto di se stesso fatto da Andy Warhol, che viene personalmente a Bruxelles per trovare e omaggiare il padre di Tintin. Nel 1981 riceve Chang Chong-jen, l’amico cinese finalmente rintracciato a Shanghai. Steven Spielberg gli spalanca le porte di Hollywood.. Purtroppo questa fase serena di tardivi riconoscimenti e onori coincidono anche con un esaurimento di vena creativa. Quando si accetta il mondo e non lo si “combatte” più tramite il talento, in questo caso fumettistico, ci si sente svuotati, non si hanno più energie vitali, ideologiche.
Tintin non è più il suo alter ego: «Odio Tintin, sapesse quanto lo odio» - arrivò a dichiarare al suo disegnatore Jacques Martin. Il suo genio si disperde nei lavoretti degli Studios Hergé con una produzione imbarazzante: sette anni per due numeri Volo 714 destinazione Sydney e Tintin e i Picaros; quanto all’ultimo episodio, provvisoriamente intitolato Tintin e l’Alph-art, in cui l’autore sembra voler distruggere tutti i feticci, compresa l’arte contemporanea, uscirà sotto forma di un album di schizzi nel 1986: forse l’ultimo guizzo del genio. 1986: molto dopo la morte di Georges Prosper Remi, avvenuta il 3 marzo 1983 a Bruxelles per i postumi di una leucemia.
[caption id="attachment_15011" align="aligncenter" width="1000"] L'équipe al completo nel 1958: da sinistra a destra ci sono Bob De Moor, Joseph Loeckx, Jacques Martin, Michel Desmarets (di spalle), Baudouin van den Branden, Josette Baujot, Hergé, France Ferrari, Fanny Vlamynck e Alexis Remi, il padre di Hergé.[/caption]
 
Per approfondimenti:
_I 24 album de Le Avventure di Tintin, pubblicati in oltre 80 lingue e dialetti da Caterman e da numerosi editori internazionali;
_Museé Hergé (catalogo), Bruxelles, Edizioni Moulinsart, 2011;
_Philippe Goddin, Hergé chronologie d'une oeuvre, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2000;
_Numa Sadoul, Tintin e moi, entretiens avec Hergé, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2003;
_Michel Serres, Hergé mon ami, Bruxelles, edizioni Moulinsart, 2000;
_Léon Degrelle, Tintin mon copain, edizioni Pelican d'or, 2008;
_Pierre Assouline, Hergé, edizioni Gallimard, Parigi, 1996.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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a cura di Stefano Scalella
19 novembre 2022 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene:  dott. Alberto Crespi
Interviene: dott. Marco Tempera
 
Sabato 11-02-2023 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo – 63100 Ascoli Piceno) il 66°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite l'architetto Stefano Emanuele Fera, il quale ha dissertato sul concetto dell'invenzione degli Ordini Architettonici - Perchè gli ordini greci e romani non esistono. L’evento è stato presentato dall'architetto Marica Rella e moderato dall’arch. e presidente Giuseppe Baiocchi. L’incontro ha visto la presenza del consigliere comunale avv. Micaela Girardi. Sabato 19 novembre 2022 si è svolta la conferenza dal titolo Le “Classiche Stampe” primo tour virtuale tra le opere d’arte d’Europa, 65°evento dell’associazione onlus Das Andere presso Palazzo dei Capitani. Ospite dell’associazione è stato il Prof. Alberto Crespi, storico dell’arte ed esperto di incisione neoclassica di traduzione con importanti testi licenziati sul tema; insieme al Dott. Marco Tempera, collezionista ed appassionato studioso di incisione neoclassica e di iconografia napoleonica. La tematica si è incentrata sull’incisione neoclassica di traduzione e della ricostruzione delle vicende artistiche delle più importanti Scuole d’incisione in Italia e dei loro Maestri, che intrecciarono le loro storie nel panorama artistico internazionale nel periodo ricompreso tra il 1780 e il 1850 ed anche oltre. Il Convegno è stato d’ausilio alla comprensione del contesto storico-culturale in cui furono concepite le “classiche stampe” aventi il loro substrato ideologico nei principi dell’illuminismo applicati alle arti e del neoclassicismo teorizzato da Winckelmann e Mengs per poi orientarsi, progressivamente, non più solamente alla riscoperta delle antichità classiche e alla tradizione pittorica del XVI e del XVII secolo ma ad una concezione del passato “mediata dal presente”, dove il presente era, soprattutto, espressione delle gesta eroiche derivate dall’epopea napoleonica. Le “classiche stampe” furono parte integrante dell’apparato artistico di un periodo storico complesso che precede la Rivoluzione Francese fino ad oltrepassare la Restaurazione passando per l’età napoleonica che vide i protagonisti dello Stile Impero, i ceti nobiliari e i governanti succedutesi al potere, influenzare l’attività degli incisori nell’accesso alle committenze e nella scelta dei modelli da incidere. Partendo dalla disamina del concetto e della funzione della grafica di “traduzione”, delle tecniche d’intaglio su metallo nonché dei meccanismi di funzionamento del mercato delle stampe con mercanti ed editori, spesso senza scrupoli, in grado di condizionare i gusti dei collezionisti e i prezzi di vendita, decretando le fortune di un’incisione piuttosto che un’altra, saranno evidenziate le peculiarità tecniche delle più importanti Scuole d’incisione italiane e dei maestri che le diressero, del rapporto tra gli stessi e le Accademie delle arti che le ospitarono, evidenziando il confine, spesso labile, tra committenza privata e l’attività svolta nelle pubbliche istituzioni. Ciò, non lesinando confronti e spunti di riflessione attraverso la descrizione delle opere dei suoi più illustri rappresentanti: Raffaello Morghen incisore di traduzione a Roma e poi direttore della Scuola d’incisione all’Accademia di Firenze; Giuseppe Longhi, incisore di Napoleone in Italia e titolare per oltre trent’anni della cattedra d’incisione presso l’Accademia di Brera; Paolo Toschi professore d’intaglio alla Scuola di incisione all’Accademia di Parma; Francesco Rosaspina e Mauro Gandolfi rappresentanti del verbo incisorio a Bologna. Senza dimenticare accenni a figure antesignane come Francesco Bartolozzi, Carlo Antonio Porporati; Vincenzo Vangelisti e Giovanni Volpato. I loro allievi, provenienti da ogni parte dell’Europa, trasfusero l’insegnamento ricevuto, tra loro e nelle Accademie italiane e straniere, consentendo al pubblico di conoscere, attraverso le stampe, i capolavori della pittura e della scultura conservati nelle grandi collezioni pubbliche e private. La maggior parte di essi, furono attivi nella celebrazione del Mito di Napoleone e nello sviluppo della sua iconografia, riproducendone l’immagine nelle vesti di Generale dell’Armata d’Italia, Primo console, Imperatore dei Francesi e Re d’Italia, divenendo a loro volta fonte d’ispirazione per una vastissima produzione calcografica, in Francia e in Inghilterra, tale da elevare la “napoleonica” a categoria distinta nel mondo del collezionismo cartaceo. Lo studio bibliografico, unito all’esperienza collezionistica, ha permesso di fornire spunti d’interesse per coloro che volessero avvicinarsi al collezionismo dei capolavori dell’incisione neoclassica di traduzione e dell’iconografia napoleonica e costruire, con cognizione di causa, una collezione “ideale” che sia strumento non solo per il soddisfacimento di un piacere puramente estetico o d’arredo ma, soprattutto, viatico per una presa di coscienza del ruolo potenzialmente rilevante che ognuno di noi può avere a tutela del patrimonio artistico rappresentato, nel caso di specie, da preziose carte che, ancora oggi, reggono all’usura del tempo, ognuna con una propria storia, appartenute a nobili casate, governatori, Re o Marescialli dell’Impero di Francia, patrioti del Risorgimento o magari a Napoleone stesso, giunte sino a noi dopo un lungo e tortuoso viaggio nel tempo costellato da rivoluzioni, conflitti mondiali e calamità, che meritano di “vivere” per molti e molti anni ancora.

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di Giuseppe Baiocchi del 09-01-2022

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«Non riuscirò mai a descrivere o a dimenticare la bellezza della nostra ultima mattina all’accampamento. Il sole sorse verso le sei. Io mi svegliai poco dopo e rimasi sdraiata a guardare quella mutevole meraviglia dal mio letto. Era tutto perfettamente immobile, una spessa rugiada brillava sull’erba e in lontananza una foschia dorata, come un chiaro mattino di settembre a casa, il nostro fuoco era ancora acceso e di quando in quando un delizioso sbuffo di fumo veniva sospinto nella nostra tenda. Uccelli che cantano dappertutto. I colori delle farfalle e degli uccelli sono incredibili – verde, azzurro e violetto intenso. Il profumo dei boccioli sui biancospini è divino e nell’aria c’è un profumo perenne di mimosa»1.

Correva l’anno del 1º luglio 1895, quando fu ufficialmente proclamato il protettorato dell’Africa Orientale Britannica, da cui nacque pochi anni dopo (1902) la prima Costituzione. Il tutto era servito principalmente per contrastare l’espansionismo alemanno-tedesco guglielmino in quella stessa porzione di Africa Orientale. I tedeschi stavano costruendo una ferrovia verso l’interno a partire dal porto di Tonga: i britannici si lanciarono nell’impresa e costruirono la propria linea, lunga 950 chilometri, da Mombasa, sulla costa, al lago Victoria. L’operazione portò via ben cinque anni e mezzo con la sua ultimazione nel 1901. Prima di allora, gli unici viaggi all’interno erano le spedizioni arabe alla ricerca di schiavi o un’avventura da cavalieri solitari, alla Joseph Thomson (1858 - 95) che coniò il celebre motto “chi va piano, va sano e va lontano”: avventure intraprese con un esercito di portatori pronti a disertare e sotto continua minaccia di un attacco da parte delle tribù nomadi dei Masai. Gli operai indiani della ferrovia, importati dagli inglesi, morirono in gran numero, non a causa delle lance dei Moran (giovani guerrieri) Masai, che sembravano accettare la ferrovia e la superiorità della “magia” bianca con le loro armi belliche, ma per la dissenteria, la malaria, il tifo, le punture di mosca tse-tse, o semplicemente per il caldo. Molti altri caddero preda dei leoni mangiauomini di Tsavo, come ci ha raccontato minuziosamente dal Tenente Colonnello John Henry Patterson (1867 - 1947) nel suo celebre The Man-Eaters of Tsavo (1907). Sui due leoni, oggi si è scritto molto, addirittura che uccidevano perché erano resi nervosi per alcuni problemi ai denti.. in realtà il territorio selvaggio del Kenya, lasciava poco alla fantasia e molto alla realtà come ci ricorda in questo stralcio lo stesso Patterson: «Pozze di sangue contrassegnavano i luoghi ove la belva si era fermata per indugiare nella tipica abitudine dei leoni mangiatori di uomini, ovverossia leccar via con la ruvida lingua la pelle della vittima e arrivare così al sangue fresco. Fui portato a ritenere come questo fosse un loro tipico marchio di fabbrica a causa di un mio successivo ritrovamento di due corpi umani semi divorati: la pelle delle vittime era stata asportata, fatta a brandelli e sparsa tutto attorno al corpo; la carne appariva secca, come se fosse stata succhiata. Nel luogo ove il corpo della vittima era stato divorato mi trovai di fronte ad una scena raccapricciante. Il terreno tutto attorno era pieno di sangue e di pezzi di carne e ossa, ma la testa della jemadar era stata lasciata intatta, fatta eccezione per i fori dei denti canini utilizzati dal leone per afferrare e uccidere la povera vittima; la testa si trovava a poca distanza dai resti del corpo, con gli occhi ancora sbarrati nell’ultima espressione di orrore e di terrore impressa nel suo volto»2.

[caption id="attachment_12657" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto i Leoni di Tsavo imbalsamati. Dopo 25 anni, le pelli furono vendute al Chicago Field Museum per 5.000 dollari, e oggi sono in esposizione, insieme ai loro crani, in una teca dedicata. Dal libro nacque il celebre film "Spiriti nelle tenebre" (The Ghost and the Darkness), film del 1996 diretto da Stephen Hopkins. A destra il Tenente Colonnello John Henry Patterson.[/caption]
La ferrovia fu uno splendido e ambizioso esempio di ingegneria, intrapreso in condizioni sconcertanti e con una sicumera tutta vittoriana. I binari attraversavano i deserti, serpeggiavano su per le montagne; si calavano nei burroni, e fendevano foreste e paludi. Dal livello del mare la strada ferrata saliva a quasi tremila metri d’altezza, correndo attraverso i pascoli dei Masai e la terra della tribù dei Kikuyu, che erano meno disponibili a questa invasione. La locomotiva certamente non appariva pronta al compito, apparendo più un giocattolo a molla con le sue quattro carrozze e la sua locomotiva tracagnotta, su un binario che sembrava flessibile come fil di ferro. Ma il viaggio appariva stupendo, se si eliminasse la prima parte dell’intensa calura del deserto del Taru, senza scampo dalla polvere rossa appiccicosa che si incrostava, increspandosi sul fondo dello scompartimento. Successivamente nel fresco della pianura c’era lo spettacolo indimenticabile dei grandi branchi di zebre, giraffe, kongoni, gnu, gazzelle di Grant e di Thompson, che pascolavano nella savana o correvano affiancate in gruppi di otto o nove.
Nairobi, oggi definita da Lord Monson come: «il paese più pericoloso al mondo per l’aristocratico britannico maschio», quando fu fondata – nel 1899 – non era affatto così pericolosa. Posta sulla frontiera tra i Masai e i Kikuyu, appariva come l’ultima stazione ferroviaria possibile prima che le rotaie si inerpicassero di novecento metri su per la scarpata kikuyu, la parete orientale della Great Rift Valley. Chiunque abbassasse gli occhi sullo sconfinato fondovalle per la prima volta trovava insopportabile la prospettiva perpendicolare del paesaggio – una cosa del tutto nuova per i sensi europei.
Il tè lo si prendeva alla stazione di Naivasha, all’inizio della zona montana e a partire da allora, su a Gilgil e poi a Nakuru, pian piano veniva rivelata la terra promessa, in tutta la sua immensa varietà e bellezza. Dopo qualche chilometro tra rovi e rocce si sbucava su migliaia di ettari di morbidi parchi inglesi, una nube di prati azzurrognoli in saliscendi fino all’orizzonte, mai toccati dall’aratro e apparentemente disabitati. In parte ricordavano il paesaggio della Scozia occidentale, con le stesse spettacolari formazioni rocciose, gli stessi pascoli e le foschie cariche di rugiada. I ruscelli gorgogliavano nelle vallate, il fico selvatico (sacro ai Kikuyu) e l’ulivo crescevano nelle foreste: l’aria era deliziosamente avvolgente, induceva un’estasi di benessere e la qualità della luce era sbalorditiva. In più c’erano i profumi, l’indefinibile aroma pungente della polvere rossa e l’acre fumo di legna che non mancava mai di suscitare la più profonda nostalgia.
Dopo la colonizzazione kenyana, il governo britannico offrì appezzamenti di terra fertile della Wanjohi Valley, vicino alla catena montuosa di Aberdare, a ricchi aristocratici inglesi. Il primo fra questi fu Hugh Cholmondeley, 3° Barone Delamere (1870 - 1931) che divenne amico dei capi Masai e apprese da loro come coltivare il suolo kenyano. Personaggio eccentrico, con le sue feste e le sue battute di caccia stravaganti divenne il capostipite di un modo di vivere sontuoso, adottato poi dai coloni successivi, che fruttò a quel luogo l’appellativo di “Happy Valley”.
Già prima di lui la moglie di Robert Gurdon, primo barone Cranworth (1829 - 1902), Lady Cranworth (Laura Rolfe nata Carr, 1807-68), aveva steso un intero capitolo nella guida che il marito aveva scritto per i nuovi coloni arrivati in Kenya, paese descritto come un vero e proprio paradiso in terra dell’uomo bianco. Il saggio si intitolava “Profitti e sport nell’Africa orientale” e la sua seconda edizione prendeva il nome di “Una Colonia in formazione”. Definì straordinariamente piacevole l’esperienza di colonizzatore, descrisse l’intensa nobiltà del paesaggio che il gentiluomo inglese e scozzese avrebbe trovato immediatamente familiare, campo d’azione sconfinato per le battute di caccia, la ricchezza del suolo e i milioni di ettari di terra da pascolo vergini che aspettavano solo di essere assegnate a qualcuno. Benché i ragazzi della buona società in altre parti dell’Impero si fossero conquistati una cattiva fama come colonizzatori, in Kenya, egli affermava, era diverso. Qui erano particolarmente adatti alle condizioni locali. L’alta opinione che avevano di sé, qui era condivisa dagli indigeni, in particolare dai Masai: la loro ignoranza, “spesso colossale”, in fatto di agricoltura avrebbe dato loro il vantaggio di affrontare senza pregiudizi gli ostacoli che i tropici avrebbero messo sulla loro strada e, quando al loro amore per lo sport, non c’era più niente che i nativi amassero di più che mangiare carne in gran quantità.
Eppure, a meno che la terra non fosse produttiva e remunerativa, questo “espresso lunatico”, come lo chiamavano gli Inglesi d’Albione non aveva alcun senso: era stato costruito per prestigio e competizione da superpotenze, e il suo unico risultato era quello di prosciugare il bilancio della colonia.
[caption id="attachment_12646" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra la stazione di Railway presso Nairobi. A destra Hugh Cholmondeley, 3° Barone Delamere (1870 - 1931).[/caption]
Così il Commissioner per l’Africa Orientale, Sir Charles Norton Edgcumbe Eliot (1862 - 1931), insigne studioso di Oxford ed eccellente diplomatico, nel 1901, dopo poco il suo arrivo, presentò un progetto di reclutamento di coloniali nell’Impero per coltivare la terra. L’idea era semplicemente quella di far sì che la ferrovia si pagasse da sé, trasportando merci dagli altipiani alla costa. Lo sviluppo della colonia era una considerazione secondaria, quasi accidentale invero. Fu lanciata una campagna di reclutamento a Londra, e la prima ondata di coloniali, arrivati nel 1903 dall’Inghilterra, dal Canada, dall’Australia e dal Sud Africa, sembravano dei cercatori d’oro dello Yokon. Cionondimeno, tra questi primi arrivati, c’erano molti Pari: Lord Hindlip,Lord Cardross, Lord Cranworth ed alcune vittime del sistema della primogenitura, quali Berkeley e Galbraith Cole, figli cadetti del conte di Enniskillen. Non mancarono i milionari, come l’americano Northrop MacMillan (1872 - 1925), amico intimo di Theodore Roosevelt. C’era il leggendario Ewart Scott Grogan (1874 - 1967), un accanito sciovinista inglese che era venuto a piedi dal Capo di Buona Speranza al Cairo. C’erano fuggiaschi, dissipatori, speculatori. E soprattutto c’era un uomo che sarebbe divenuto il leader incontrastato dei coloni inglesi: il già citato Delamere, che aveva già messo gli occhi sugli altipiani del Kenya al misericordioso termine di una scammellata di oltre 3.000 chilometri dalla Somalia. Era poi tornato in Inghilterra per sei felici anni, a occuparsi delle sue proprietà, ma il bacillo del Kenya aveva colpito anche lui, e vi tornò nel 1901 a comprare terreni. Lord Delamere era un leader molto naturale per i coloni. Aveva ereditato un’enorme proprietà nel Cheshire oltre a un grande patrimonio, subito dopo aver lasciato Eton – dove si era distinto come ragazzo irruente e indisciplinato, del tutto insensibile all’influenza civilizzatrice dei classici. Era arrogante e sprecone con un temperamento iracondo e violento: i suoi istinti politici erano austeramente feudali: fisicamente era piccolo e muscoloso, e niente affatto attraente. Ma aveva il dono di una suprema sicurezza di sé e della sua visione del futuro della colonia, che era ispirata a un antiquato senso del dovere verso l’Impero – laddove il dovere, molto semplicemente, era quello di annettere altro territorio a beneficio di se stesso.
Due provvedimenti del 1898 e 1902 regolarono il regime delle terre: la quasi totalità di queste fu dichiarata di proprietà della Corona, all’infuori di alcune aree riservate agli indigeni. Le zone migliori degli altipiani furono assegnate agli Europei. Nel primo progetto per i coloni, vennero assegnati quattrocentomila ettari in affitto per 999 anni. Il contratto voleva che venisse investito un certo capitale nei primi cinque anni e pagato un affitto annuo al Governo. L’inadempienza implicava la confisca. Delemere si assicurò il primo lotto, a Njoro, lungo la linea ferroviaria a nord-ovest di Nakuru. Fu a Njoro che egli iniziò l’esperimento che per poco non lo condusse alla rovina, ma che quasi da solo, gettò le basi dell’economia agricola in Kenya.
La distribuzione della terra era un processo caotico che aveva il suo centro nel Land Office di Nairobi. Nel 1904, l’anno in cui fu costruito il Norfolk Hotel – ben presto soprannominato “La Casa dei Lord”, per la sua lista degli ospiti, cacciatori inglesi di trofei – la città ancora assomigliava a un desolato accampamento, con le sue fila di capanne identiche e le sue strade di fortuna che, o erano coperte di fango in cui si affondava fino al ginocchio, o erano tappezzate di polvere rossa che gravava come una nube sopra la città. I futuri residenti piantavano le loro tende vicino al Land Office e aspettavano, spesso per mesi, che le loro domande venissero prese in considerazione dagli affaccendati burocrati. Il progetto governativo divenne un tafferuglio di frontiera in piena regola: i pascoli dei Masai nella Rift Valley, per esempio, furono considerati territorio libero, e fasce di territorio Kikuyu furono annesse a fattorie lungo la riserva – un costoso errore politico. Se a questo si aggiunge che il colono inglese medio sapeva poco o nulla della storia africana, delle distinzioni tribali, degli animali selvatici (che si pensava attaccassero a prima vista e per principio), il quadro poteva apparire assai complicato. Rimanevano sconcertati dalla virulenza delle malattie che colpivano le messi e il bestiame – alcuni si installarono su un territorio che i Masai da generazioni sapevano essere pessimo per il bestiame – e si infuriavano per le difficoltà che inevitabilmente sorgevano quando le concezioni edoardiane si scontravano con la visione più cosmica dei Kikuyu o dei Masai.
[caption id="attachment_12652" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra Denys George Finch Hatton (24 aprile 1887-14 maggio 1931), aristocratico inglese cacciatore di selvaggina grossa e amante della baronessa Karen Blixen (conosciuta anche con il suo pseudonimo, Isak Dinesen - nella foto di sinistra), una nobildonna danese che scrisse di lui nel suo autobiografico libro Out of Africa , pubblicato per la prima volta nel 1937. Nel libro, il suo nome è sillabato: "Finch-Hatton".[/caption]
I disegni inglesi, che miravano a introdurre graduali misure di autogoverno nell’ambito del mantenimento delle strutture coloniali, andarono presto deluse per l’irriducibile opposizione di alcune tribù, e in particolare di quella dei Kikuyu; questi ultimi, in seguito alle concessioni di terre agli Europei, erano stati esclusi dalle fertili zone degli altipiani e respinti in zone di riserva di scarsa fertilità.
I timori più acuti degli europei, in ogni caso, erano riservati al sole equatoriale, i cui raggi secondo loro non solo danneggiavano la spina dorsale, ma attaccavano anche il fegato e la milza: da qui nacque il successo degli indumenti londinesi peri tropici, con imbottiture protettive per la spina dorsale: una spessa striscia di garza che scendeva dal collo alle natiche, da indossare con estremo disagio. Lord Lugard consigliava di indossare una pesante fascia di flanella in vita. Winston Churchill, che fece una visita non ufficiale in Kenya come Sottosegretario di Stato per le Colonie, temeva gli effetti del sole sul sistema nervoso, il cervello e il cuore. Se era strettamente necessario togliersi il cappello, anche momentaneamente, era “meglio farlo all’ombra di un folto albero”, ebbe a scrivere. Altri consigliavano di non togliere mai il cappello, per nessun motivo, nemmeno dentro casa, dato che la lamiera ondulata, pur essendo una brillante invenzione inglese e un contributo memorabile all’architettura coloniale britannica, non era considerata adeguata contro i raggi del sole. Da questo venne la moda di indossare il doppio terai, due cappelli flosci a larga tesa, portati uno sopra l’altro. L’operazione di togliersi questa protezione eccessiva veniva compiuta stando in piedi sul letto, ben lontani dalle siafu, le formiche giganti che cacciavano la loro preda – qualsiasi cosa grossa quanto un’antilope – con arditi colpi di pinze, viaggiando in colonne spesso lunghe più di un chilometro. Il sistema nervoso dei bianchi non trasse alcun giovamento dalla consuetudine di indossare uniformi pesanti nelle elevate temperature dell’Africa. Tuttavia, gli eccessi a cui si spinsero i coloni per propiziarsi il sole, suggeriscono una paura più irrazionale di quella di un colpo di sole. Contro il sole, elemento da non poter condividere alla pari con i negri, si eressero dei veri e propri tabù, come quello che le donne dovevano bordare vestiti e cappelli non con la flanella, ma con un panno rosso vivo.
La coltivazione di questa terra era immensamente difficile, un processo esasperante di tentativi e verifiche che metteva a dura prova anche il più solido temperamento da pioniere. A dispetto delle loro origini previlegiate, i primi coloni si rivelarono del giusto calibro. Eppure erano cronicamente in passivo, come ci narra la storia avvincente di Delamare, il quale nel 1906 stava ormai coltivando 65.000 ettari dell’Equator Ranch – tutti recintati da milleseicento chilometri, o poco meno, di filo spinato. Ma nel 1909 era senza un soldo. Le proprietà nello Cheshire erano state spolpate ed egli fu costretto a svendere e a chiedere prestiti per cui garantì con quel che rimaneva dei fondi vincolati della famiglia. La sua difficile situazione era tipica, anche se più drammatica di molte altre. Aveva fatto esperimenti con le pecore, incrociando femmine locali con montoni inglesi, montoni locali con pecore della Nuova Zelanda, coi bovini, incrociando Hereford e Shorthorn con il Boran locale. Le bestie erano state variamente colpite: da peste bovina, che fa marcire la carne di un animale vivo, da pleuro-polmonite e da febbre del texas, che decimò gli Hereford; dalla peste ovina, dalla scabbia, dalla febbre della costa orientale, il virus più mortale di tutti, diffuso tra gli animali dalle zecche.
Delamere imbracciava il fucile e abbatteva un intero branco di zebre per impedire il diffondersi dei virus. Immergeva ogni giorno tutti i suoi capi di animali in una sola soluzione disinfestante, ma con scarsi risultati. Poi scoprì che il suolo era povero di minerali, per cui passò alla coltivazione di orzo e di grano che furono ripetutamente spazzati via dalla ruggine. Dopo il fungo vennero le locuste, e poi la siccità che imperversò per tre anni a partire dal 1907. Allora Delamere trasferì bovini e pecore a Soysambu, Elmenteita, l’attuale quartier generale della tenuta di Delamere, sul fondovalle della Rift Valley vicino al lago Naivasha e qui incominciò a prosperare.
Ai vecchi tempi, i somali erano i servitori alla moda, i “boys” più importanti in qualsiasi casa. Erano immensamente fieri ed eleganti, l’essenza stessa della nobiltà nomade, coi loro panciotti e le loro catene da orologio d’oro, le loro basse voci gutturali e i loro costumi rigorosamente maomettani. Molti di loro, come i Masai, erano ricchi di bestiame nel proprio paese, al di là della frontiera settentrionale del kenya. Le loro sorti erano legate a quelle del padrone, e a questo venivano associati per nome: Delamere con Hassan, Berkeley Cole con Jama, Denis Finch Hatton con Bilea, la danese Karen Blixen con Farah. Quest’ultima scrisse come una casa senza un somalo era come una casa senza un lume: «Ovunque andassimo, eravamo seguiti a distanza di un metro da queste nobili, misteriose e vigilanti ombre».
I Kikuyu, il cui territorio si estendeva da Nairobi fino alle pendici del monte Kenya, e che in seguito avrebbero superato in ambizione politica tutte le altre tribù, venivano impiegati come uomini di fatica o servitori domestici. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-18) furono arruolati, con le altre tribù, come portatori nei Fucilieri d’Africa e nel Carrier Corps, e morirono a migliaia in una delle più vergognose campagne mai condotte dall’esercito inglese, in cui, all’inizio delle ostilità, 300.000 soldati dell’Impero Britannico furono respinti da 14.000 tedeschi (3.000 tedeschi e 11.000 africani), sotto il comando del conte Paul Emil von Lettow-Vorbeck (1870 - 1964) che dovette ricorrere anche al saccheggio per procurarsi le provviste per tutta la durata della guerra. Quando si concluse, le forze britanniche erano state ridotte a 35.000 uomini, e le tedesche a soli 1.300. [caption id="attachment_12648" align="aligncenter" width="1000"] Africa orientale tedesca, truppe davanti davanti le case degli ufficiali. A destra: Paul Emil von Lettow-Vorbeck, chiamato anche il Leone d'Africa, era un generale dell'esercito imperiale tedesco e comandante delle sue forze nella campagna tedesca dell'Africa orientale.[/caption] Nel 1920 il protettorato fu diviso in due parti: protettorato del Kenya, costituito dalla fascia costiera di dieci miglia, sottoposto alla sovranità del sultano di Zanzibar; colonia del Kenya, sottoposta alla sovranità britannica e costituita da tutti gli altri territori del retroterra. Le zone di produzione erano le seguenti: Gilgil e Nakaru erano i centri della compravendita di bestiame, Thika era il caffè, Njoro era il grano, Naivasha era ovini e bovini, e Londiani, nell’ovest, era il lino. Tutte le leggi sulla terra avevano chiaramente favorito gli europei a discapito della popolazione africana. Gli altipiani sarebbero rimasti esclusivamente bianchi in eterno. Fu una politica miope e i Kikuyu fecero la loro prima protesta organizzata nel 1922 solo due anni dopo il Kenya divenne una colonia ufficiale della Corona. Ma gli anni Venti segnarono l’inizio di un’era più stravagante ed euforica. I coloni iniziarono a rimpiazzare le loro case di fango e canniccio con un’architettura più fastosa. Costruirono residenze a un piano in stile “Surrey Tudor” – un’architettura tipica del Kenya e dei suoi costruttori indiani, che cercarono di imitare Edwin Lutyens – con tetti di tegole invece che di lamiera ondulata, con focolari di pietra e grandi, comodi soggiorni, e con spaziose verande sostenute da pilastri di mattoni. Un Ealing Equatoriale provocato dagli infissi universalmente in acciaio, dall’angustia delle finestre stesse, volutamente piccole per tenere alla larga il temutissimo sole, e dalla cupezza delle pietre giallo-grigiastra, che gli artigiani indiani scalpellavano dalla roccia per fare pareti solide come casermoni. Anche i giardini vennero tracciati splendidamente: prima venivano seminati e spianati i prati, poi venivano scavati i margini, su una scala degna dei castelli di Sissinghurst o di Cranborne. Il suolo era ricco, non c’era stagione morta, e il giardino era sempre al massimo del suo splendore, con canna scarlatta, frangipani, bougainvillea alternata a tenere rose inglesi, gigli dal lungo stelo, fucsie e, come tocco finale, i viali di jacaranda, di Nandi flame e di eucaliptus. L’aria profumava di gelsomino e mimosa. I numerosi boys addetti ai giardini annaffiano e potavano tutto il giorno, facendo oscillare i pangas sui fitti fili d’erba kikuyu che formava la superficie del prato, dei campi da tennis e di croquet. I coloniali avevano riesumato le insegne della loro civiltà – l’argenteria, i ritratti e le stampe di famiglia, pezzi pregiati di mobilia, porcellane e tutte le chincaglierie che potevano essere sottratte alle vecchie soffitte delle case di famiglia che avevano lasciato per sempre. Molti commissionarono ad artigiani indigeni passabili imitazioni di mobili stile Seicento inglese. Con la loro abbondanza di servitù – a cui gli ordini andavano impartiti quotidianamente – gli aristocratici e gli ufficiali del ceto medio finirono col diventare schiavi degli immancabili riti della vita col maggiordomo. La tavola veniva imbandita – più volte – con le stuoiette segnaposto con scene di caccia, la coppa di petali di bougainvillea, la bottiglia di piri-piri (una innovazione presa in prestito dalla colonia indiana) e lo sherry, che si beveva con la minestra. Lo strabiliante talento africano per la preparazione dei cibi europei, in particolare dei pudding inglesi, fu fonte di insperato piacere. Dal canto loro gli africani erano strabiliati dal numero di pasti che gli europei reclamavano ogni giorno, e dalla quantità del cibo consumato. Sembrava che gli europei non facessero altro che mangiare. Questi vecchi coloniali fecero di tutto per conservare lo stile di vita delle nobili famiglie inglesi del contado, sostituendo la volpe da una coda di volpe portata dall’Inghilterra che veniva tenuta da un indigeno, il quale doveva fuggire dagli inglesi a cavallo.
[caption id="attachment_12650" align="aligncenter" width="1000"] Dal giorno della sua apertura, la vigilia di Capodanno del 1913, il Muthaiga Country Club ha occupato un posto speciale negli affetti dell'Africa. Con la sua miscela distintiva di comfort, cultura e fascino, si è affermato come uno dei club dei membri più illustri e popolari del continente. Ancora oggi, le sue tipiche pareti rosa ospitano alcuni dei grandi ricordi e delle pietre miliari della ricca storia dell'Africa orientale. Non è solo la storia a rendere il Muthaiga Club così speciale. Oggi, alcuni dei suoi momenti più belli sono contemporanei: le sue accoglienti camere da letto con bagno privato e i cottage con i loro comfort moderni, le sue strutture ricreative e per il fitness all'avanguardia, la sua biblioteca recentemente ampliata con oltre 15.000 libri. E, naturalmente, c'è il cibo, di cui il Club è giustamente orgoglioso: sontuosi banchetti di arrosti freschi e specialità del giorno seguiti dai nostri chef di formazione classica.[/caption]
I loro piaceri venivano organizzati con gusto per la forma e goduti con leggendaria passione. Avevano i loro campi di polo, i loro ippodromi, i loro country club, le loro gimcane e i loro pranzi, e, sempre, una riserva illimitata di champagne. Si ricorda un pranzo di Lord Delamere del 1926 con 250 invitati che finirono ben 600 bottiglie di champagne. Per far visita agli amici si coprivano spesso grandi distanze.
Un prominente “soldato colono”, che si sarebbe occupato del programma post-bellico, era Lord Francis Scott, figlio secondogenito del Duca di Buccleuch. Scott sarebbe divenuto il successore di Lord Delamere come leader dei coloniali dopo la morte di quest’ultimo, nel 1931.
Lord Francis aveva fondato un club di Polo e acquistato una scuderia di pony somali mentre faceva ancora i rilevamenti topografici delle sue terre e viveva in una tenda e le stoviglie di porcellana della moglie erano imballate in casse ammonticchiate in un angolo.
Successivamente grazie soprattutto ai Safari, di cui Denys George Finch Hatton (1887 - 1931) ne fu brillante precursore3, il Kenya divenne una romantica avventura per uomini ricchi e benestanti. Fu così che la già citata Happy Valley agli inizi del 1920 iniziò a prendere forma. Più o meno tutta la zona era compresa tra le Aberdares e la città di Gigil in pianura. Ma il suo vero centro era al di là del fiume Wanjohi che scende dal Kipipiri – la montagna che si erge alla sua fonte – e che è unita alla scarpata dell’Aberdare da una sella formata da una foresta di cedri. Era un paesaggio di suprema bellezza – la vallata, una grande pianura erbosa, la scarpata boscosa e verdeggiante con macchie di ginestra selvatica. Dalla Valle del Wanjohi si poteva vedere, oltre la vicina montagna del Kinagopo, dalla forma di un lungo e stretto promontorio, la Rift Valley. I grandi avvenimenti mondani erano le settimane delle corse dei cavalli a Natale e a mezza estete, quando gli agricoltori venivano a Nairobi e mettevano a soqquadro la città, inscenando corse coi rickshaw, spegnendo le luci stradali a colpi di fucile, azzuffandosi ubriachi nei bar – guidati dallo stesso Dalemere, che sparava alle bottiglie sugli scaffali – e buttandosi a capofitto in qualsiasi avventura sessuale avesse covato nei mesi precedenti. Delamere era ormai un personaggio dall’aspetto eccentrico, con i capelli sciolti sulle spalle, a mo’ di protezione dal sole, circondato dai capi Masai dipinti d’ocra, che si adunavano quotidianamente intorno al suo tavolo all’ora della prima colazione per assistere al suo rituale mattutino che consisteva nell’ascoltare il suo unico disco “All Aboard for Margate” sul fonografo a manovella. Egli viveva ormai come un membro della loro tribù, li ammirava appassionatamente e aveva imparato la loro lingua. Tuttavia non lo si poté mai accusare di “fare l’indigeno”: era decisamente troppo fiero per una cosa simile.
[caption id="attachment_12654" align="aligncenter" width="1000"] Nella riserva naturale Hippo point, una tipica casa di campagna inglese d’Africa e una torre eccentrica vivono circondate dalla natura selvaggia. Hippo Point è una riserva naturale privata, a circa settanta chilometri a nord di Nairobi su un istmo tra il lago Naivasha e il lago Oloiden, a un’altitudine di 2.000 metri. Grazie al suo microclima quasi perfetto, vi risiedono oltre 350 specie di uccelli e circa 1.200 animali. La proprietaria, Dodo, è un’interior designer di origine tedesca sposata con Michael Cunningham-Reid, figliastro di uno dei più illustri rappresentanti del Kenya coloniale, Lord Delamere. Figura chiave dell’era post-coloniale, nipote di Lord Mountbatten di Burma, Delamere fu uno dei pochi inglesi dell’epoca a stringere stretti rapporti con la nuova élite africana, e fu il primo straniero a ottenere il passaporto della neonata Repubblica del Kenya. Ph. Maganga Mwagogo.[/caption]
I coloniali si radunavano nelle poche roccaforti del lusso che esistevano sul finire degli anni Venti. Quella di più vecchia data era il Norfolk Hotel, vi era anche il Torr’s Hotel, soprannominato Tart’s Hotel – l’albergo delle sgualdrine – costruito da Grogan nel 1928, dove ogni pomeriggio si tenevano tè danzanti nel salone circolare chiamato Palm Court. La più esclusiva di queste roccheforti era il Muthaiga Country Club. Un giovane visitatore francese, il conte Frédéric de Janzé (1896 - 1933), descrisse il Muthaiga Club in Vertical Land, un libro di “ritratti a penna e bozzetti di viaggio”. Il Muthaiga, col suo campo da golf, i suoi campi di squash, i prati per il croquet e il salone da ballo, era un club esclusivo per agricoltori dell’interno, perfettamente in linea con lo stile di St James’s Street. Benché le donne vi fossero ammesse per necessità, gli ebrei non lo erano. Il Muthaiga era costruito in stile keniota, ad opera di artigiani indiani, con grandi blocchi di pietra, rivestiti di ghiaietto rosato, le solite finestre degli infissi di acciaio e piccole colonne doriche per dargli un tocco di grandiosità. Le pareti erano color crema e verde, come in una casa di cura ben tappezzata, i pavimenti erano di lucido parquet. Con le sue comode poltrone foderate di cinz rievocava l’atmosfera delle case aristocratiche della Valle del Tamigi, di Betjemania – di Ranelagh o Hurlingham. Gli scapoli dormivano in una spartana “ala militare” in stanzette simili a celle. Le camere doppie, con letti gemelli, erano spaziose e austere, secondo lo stile coloniale, i bagni lussuosi. Tutti i pagamenti venivano effettuati tramite “buoni” di vari colori – i contanti non cambiavano mai di mano. Si poteva avere un drink a ogni ora del giorno, ma tra le sei e le otto di sera il bar era riservato ai soli uomini, o ai duri, come Waugh descrisse i membri che incontrò al Club. Il Club rimaneva vuoto per giorni, poi, all’improvviso, era impossibile trovare un tavolo, a meno di non essere nelle grazie di un potente somalo di nome Alì – che dirigeva la sala da pranzo ed era considerato un “genio” nell’arte di scovare un tavolo. Le serate erano occupate dal bridge, dal backgammon e dai molti ricevimenti privati, incluso l’annuale Ballo di Eton.
Durante le settimane delle corse il Club diventava veramente vivace. Le bevute incominciavano subito dopo mezzogiorno, con gin rosa prima di pranzo, seguito da gin fizz all’ombra dell’ora del tè, dai cocktail (Bronx, White Lady, Trinity) prima di cena e infine da whisky e champagne fino al momento di spegnere le luci. Ai balli serali, gli ospiti sembravano agghindati per comparire a corte, e le donne erano tenute a indossare un abito diverso ogni sera. Più tardi, mentre si scatenavano partite di ragby improvvisate, tutti i mobili della sala da ballo venivano fatti a pezzi come segno di proterva superiorità di classe. Una delle attrazioni più popolari era un gentiluomo di nome Miles, Arthur Tremayne ('Tich' 1889 - 1934), che si arrampicava fin sul soffitto e si appendeva alle travi come uno scimmione. Al culmine della stagione, le danze si concludevano di solito verso le sei del mattino, per quattro o cinque notti di seguito. Immediatamente dopo, entravano in scena il golf e lo squash. Nessuno aveva voglia di andare a dormire. Entro l’ora di pranzo del giorno dopo, era di nuovo tutto in ordine, erano state presentate ammende da pagare con i buoni colorati, e i trasgressori più scatenati venivano convocati nell’ufficio della Segreteria. Interessante appare in tutte le descrizioni dei testimoni oculari, come il tempo dedicato al sonno risulti così poco, soprattutto tenendo conto delle scappatelle sessuali per cui il Club andava famoso. Il principe di Galles, Edward, visitò il Kenya nel 1928, e l’atmosfera del Muthaiga gli risultò immediatamente congeniale.
[caption id="attachment_12651" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Josslyn Victor Hay, 22° conte di Erroll (1901 - 1941), Alice de Janzé (nata Silverthorne 1899 - 1941) e Diana Caldwell Cholmondeley (1919 - 87).[/caption]
Sempre nel 1928, un anno prima del grande crollo, che assottigliò drasticamente la popolazione dei residenti. morì anche il padre di Josslyn Hay, e Josslyn (1901 – 41) divenne Conte di Erroll e Alto Conestabile di Scozia. Viveva in Kenya già da quattro anni – con sua moglie di otto anni più grande di lui e con due divorzi alle spalle, Lady Idina Sackville (1893 - 1955) –, nel cuore di Happy Valley. Bello com’era, era inevitabile che fosse consapevole del suo fascino e aveva anche un fare arrogante e una grande eleganza nel vestire. I suoi capelli lisci biondi come l’oro formavano due onde ai lati delle tempie. I due coniugi organizzarono le feste più oltraggiose, con i migliori cocktail e le migliori droghe, nudità e scambi di coppie. I due divorziarono nel 1930. Idina si sposò altre quattro volte.
In questo stile di vita edonistico della Happy Valley trovò anche spazio Alice de Janzé (nata Silverthorne 1899 - 1941) residente alla Wanjohi Farm circondata dai suoi amati animali. Ricca ereditiera di Chicago, divenne contessa sposandosi con un aristocratico francese, il colto conte di Janzé, discendente da antichissima famiglia bretone. Alice e il marito divorziarono dopo una lunga serie di tradimenti da parte di lei, con un matrimonio consumato tra la nascita delle due figlie (presto lasciate al marito) ed una serie di safari in Kenya. In seguito ebbe una turbolenta relazione con Raymund de Trafford, che culminò in una violenta scenata alla Gare du Nord, a Parigi. Alice scoprì che lui non l’avrebbe mai sposata e allora gli sparò e poi rivolse l’arma contro se stessa. Sopravvisero tutti e due e nel 1928 convolarono a nozze, per divorziare poco dopo.
Dopo il divorzio con Idina, Lord Erroll ebbe numerose relazioni con diverse signore dell’Happy Valley, Alice de Janzè compresa. Il breve matrimonio con una ereditiera inglese gli permise di abitare nella magnifica dimora della moglie sul lago Naivasha.
Nel 1940 una nuova coppia arrivò a Nairobi: Lord Jock Delves Broughton (1883 - 1942) e Diana Caldwell Cholmondeley (1919 - 87), la giovanissima ed elegante moglie. Poco dopo Lord Erroll e Diana ebbero una tresca che non si preoccuparono di tenere nascosta. Il 23 gennaio del 1941 i due ammisero la loro relazione davanti a Jock che concesse il divorzio a Diana e brindò alla loro salute di fronte a tutti i commensali del Muthaiga Club. La mattina dopo Lord Erroll fu trovato morto nella sua auto, ucciso da un colpo di pistola alla testa. Jock fu incriminato dell’omicidio, e anche se fu dichiarato innocente, il caso non fu mai risolto. Da questo episodio il regista britannico Michael Radford (1946) produsse il film capolavoro di Misfatto bianco (White Mischief - 1987), che rese celebre la bellissima attrice italiana Greta Scacchi.
E così la follia continuava, l’ultima “Montagna incantata” per dirla alla Thomas Mann, stava per segnare la fine dell’ultimissima Belle Époque europea su suolo africano, prima che in Kenya la rivolta dei Mau Mau nel 1952, aprì quella strada per l’indipendenza dall’impero britannico che sancì la distruzione delle bellissime opere architettoniche, piante, parchi e strutture che l’uomo bianco – in così pochi anni – era riuscito ad edificare.
 
Per approfondimenti
1 Fox J., Misfatto bianco, Mondadori, Milano, 1986,pp. 29.30.
2 J. H. Patterson, I mangiatori di uomini di Tsavo, Libri caccia e pesca, Firenze, pp. 20-21.
3 Il famoso amante della più celebre baronessa Karen Blixen, la quale narrò di Hatton nel suo celebre Out of Africa (La Mia Africa del 1937).
_Blixen K., La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 1986.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 06-01-2022

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«Ed ecco il perché dell’importanza di quel primo, piccolo regno di ogni uomo, quel lembo di terra, di valle, quell’orizzonte ridotto, ma così pieno di vita, ciò appunto che in tedesco si riesce ad esprimere meglio con il nome di Heimat, per noi piccola patria fra i nostri monti dove trovi racchiusa tutta la tua storia personale, dove hai visto la prima luce, i tuoi primi momenti di vita, dove hai visto le prime montagne, hai sentito la voce di tuo padre e di tua madre, il primo canto degli uccelli, il tuo essere insomma. Ed è questa piccola patria, che racchiude in sé tutto ciò che ti forma, ti appartiene, tutta la tua storia, luogo dove riposano tutti i tuoi morti, questa terra che è ciò che resta dei tuoi avi, del loro vissuto dove un giorno troverai anche tu compimento del tuo percorso. Questa piccola patria appunto la senti in te, come tu stesso sei parte di essa, in un abbraccio senza fine. E per grandi ed ampi possano essere gli orizzonti da te desiderati, ricordati sempre che il tutto parte da lì, da quel minuscolo puntino che sei Tu e la tua Heimat»1.
Tra i tanti smembramenti imperiali avvenuti dopo il 1918, quello del Tirolo, appare uno dei più significativi. Questo unico territorio oggi è stato letteralmente diviso in tre macro aree: Tirol (Tirolo), Südtirol (Alto Adige) e Welschtirol (Trentino); la prima porzione è appartenente alla Repubblica austriaca e le ultime due alla Repubblica italiana2.
Prima di avviarci lungo il viale della discussione, dobbiamo necessariamente operare un chiarimento: tutti gli Stati nazionali formatosi nel secolo dell’Ottocento, si sono plasmati attraverso aggressioni militari e l’unità d’Italia non fa eccezioni. Se da una parte la creazione del Regno d’Italia ha portato forza a tutti i popoli italici, diversamente la convivenza di culture, di lingua italiana, diverse crea ancora qualche scompenso. Sicuramente la Casa Reale dei Savoia ha avuto il merito di aver pensato, per la prima volta, ad un’unità non solo più culturale (Petrarca, Dante, Boccaccio), ma anche politica. Quando si crea uno Stato, la morale e l’etica non è mai presente, anche se in seguito la fazione che si afferma, cerca di legittimare il consenso attraverso un’ideologia quantomeno discutibile.
Questo è accaduto in Tirolo: un territorio parzialemente di lingua italiana, veniva inglobato – dopo una guerra mondiale in cui i tirolesi sono stati invasi –, al nuovo Stato sabaudo. Contrariamente alla retorica risorgimentale, le porzioni del Südtirol e Welschtirol non erano mai appartenute al Regno d’Italia, ma appartenevano ad un Impero inter-nazionale, plurilinguistico, smembrato unicamente per scopi politici, come già affermato.
Ovviamente in tali territori era presente una piccola fiamma di irredenti (ovvero i corrispettivi nazionalismi di altri territori imperiali), ma rappresentarono unicamente una piccola percentuale della popolazione, anche in Trentino. Il Regno d’Italia prima, il fascismo e successivamente la Repubblica italiana, ha operato in forma sistematica una pulizia etnica tedescofila, affinché il debole primato degli italiani si affermasse, ed in larga parte oggi in Südtirol e Trentino ci sono riusciti pienamente.
Uno Stato veramente autorevole dovrebbe – soprattutto nei tempi moderni, dove oramai gli Stati nazionali sembrano essersi consolidati –, riaprire oggi un dialogo con i veri abitanti del trentino sulla storia che è stata per tanti anni negata.
Difatti, soprattutto nel dopoguerra, grandi immigrazioni provenienti dal sud Italia – soprattutto nell’istruzione e pubblica amministrazione – sono giunte in Trentino e Südtirol per “italianizzare” queste popolazioni, con la conseguente chiusura ermetica e odio da parte di coloro, che la prima guerra mondiale l’avevano combattuta dalla parte imperiale ed erano felici di rimanerci .
Quando parlo di dialogo affermo certamente atti concreti: ovvero la rimozione di targhe storicamente non veritiere e filo-risorgimentali, installazioni scultoree di antichi patrioti della Grande Guerra austroungarici, magari accanto a quelli italiani, per cercare un piccolo, timido passo verso una maggiore accettazione tra gli antichi abitanti e i nuovi. Ma, temo, i tempi ancora non sono maturi, poiché la causa risorgimentale viene ancora mostrata con forza dalla Repubblica Italiana che non ascolta.
Molte strade italiane oggi, da Palermo fino a Milano, sono dedicate al personaggio storico Cesare Luigi Giuseppe Battisti (1875 - 1916), noto come Cesare Battisti. Abitante del Trentino, tutti gli italiani lo conoscono come un patriota ed eroe, poiché diede la sua vita per il “quarto Risorgimento” verso il nemico atavico austriaco.
[caption id="attachment_12635" align="aligncenter" width="1000"] Fatto prigioniero dagli Austriaci, insieme a Fabio Filzi, sul monte Corno il 10 luglio 1916 fu riconosciuto, processato e in quanto cittadino austriaco condannato all'impiccagione, per tradimento, come disertore. L' esecuzione ebbe luogo il 12 luglio 1916 nel castello del Buon Consiglio a Trento. [/caption]
In realtà, quello che ancora viene chiamato con boria il “quarto risorgimento” altro non è che una guerra coloniale – come il Regno d’Italia ne fece molte (insieme alla stragrande maggioranza dei Paesi Europei) – in nome del “sacro egoismo” del Primo Ministro Antonio Salandra (1853 - 1931). Una appropriazione di territori altrui che nell’epoca di fine Ottocento e inizio Novecento era all’ordine del giorno.
Cesare Battisti fu un socialista irredento, autore di quella propaganda a favore del conflitto mondiale, informatore del Regno d’Italia dal 1902, parlamentare a Vienna presso il Abgeordnetenhaus dal 1911, membro della Dieta di Innsbruck dal 1914 e infine combattente in divisa italiana dal 1915.
Ora se l’Italia dovesse operare un’analisi egoistica e nazionale dovrebbe sinceramente riconoscere a Battisti la grandezza che in Italia già possiede, ma se opera un’analisi – non tirolese – ma imparziale, ci si renderebbe conto che tale personaggio storico – appartenente ad un territorio mai stato del Regno d’Italia e soprattutto appartenente ad una minoranza –, era contemporaneamente spia italiana e parlamentare a Vienna, il che implicava un giuramento di fedeltà all’Imperatore Franz Joseph I.
Di un elemento possiamo star certi: Battisti fu un uomo coraggioso che perseguì il suo scopo senza indugi fino all’atto estremo, il che ovviamente non ne cancella le sue ambiguità politiche. Dal carattere melanconico e corrucciato per via di un terribile doppio lutto familiare4, si formerà presso l’Università di giurisprudenza a Graz e l’Università di lettere di Firenze; infine sarà influenzato dalle teorie socialiste di Edmondo De Amicis (1846 - 1908) a Torino. Ma com’era sotto il profilo giuridico il Trentino di allora? Lo stesso irredentista Ottone Brentari (1852 - 1921) racconta durante una sua conferenza nel 1920: «Negli anni prima della guerra in Trentino, si era raggiunto un alto grado di agiatezza, con un alto livello ambientale di boschi, pascoli, campi e vigneti, che davano un frutto annuo medio di circa 50.000.000 di corone, mandando i suoi prodotti nelle province interne dell’Austria. Fiorenti e ben organizzati, erano anche i commerci e le industrie, specialmente a Rovereto e le cooperative e le casse rurali largamente diffuse e abilmente amministrate, impedivano le chiusure, gli sfruttamenti e le irragionevoli rincari, ed il paese viveva agiato e quietamente. […] Si deve ricordare che l’Austria, se nel campo politico era tutto quello che di esecrabile si poteva configurare, nel campo amministrativo poteva in moltissimi casi, servire di modello e sotto tale aspetto sarebbe bene non annettere il Trentino all’Italia, ma annettere l’Italia al Trentino, perché se l’Italia politicamente era dentro il Trentino, il Trentino potrebbe sotto molti aspetti redimere l’Italia»5.
Nel Trentino ogni comune, sotto la parte amministrativa, era completamente autonomo, e sottoposto esclusivamente senza ingerenze del Governo, alla Giunta Provinciale – emanazione diretta della Dieta Elettiva. Trento e Rovereto erano città autonome, persino con diverso regolamento elettorale. La giustizia era a buon mercato e rapida, tanto che non si vede mai il caso di una causa con durata pluriannuale, pur passando per tre stanze6. C’è da meravigliarsi se pensiamo che a quel tempo, l’Austria in fatto di leggi – in particolar modo sulle leggi sociali – era certamente all’avanguardia.
L’impiego della manodopera infantile era stata largamente limitata con le leggi scolastiche del 1897, per tutti i bambini dai sei a quattordici anni. Nel 1874 era intervenuto il regolamento industriale sull’impiego della manodopera infantile. Nel 1870, risalivano le leggi sulla Coalizione, che permettevano anche agli operai di unirsi alle associazioni di categoria e ai tribunali arbitrari dell’industria. Nel 1888 fu introdotta la circolazione obbligatoria sulle malattie e nel 1889 quella sull’invalidità.
Cesare Battisti che di contro non aveva interesse in tale rispettabile percezione del mondo di equilibrio, nel 1898 inviava per la sua tesi di laurea, una “Guida del Trentino”, a Carlo Porro (1854 - 1939), allora comandante militare della piazza di Milano, che rispose incoraggiandolo a continuare l’operato; mentre nel 1902 passava informazioni ai servizi segreti italiani. Fu con queste manovre ideologiche, già ben delineate e affinate, che il 17 luglio del 1911, Battisti fu eletto al Parlamento di Vienna, con i voti dei socialisti e dei liberali (contrari all’entrata nel conflitto dell’Austria), compiendo quel giuramento di fedeltà a Sua Maestà l’Imperatore, che creerà il vero dibattito sulla sua figura: «Ella prometterà sotto fede di giuramento di essere fedele ed obbediente a Sua Maestà l’Imperatore, di osservare inviolabilmente le leggi fondamentali dello Stato e tutte le altre leggi, e di adempiere scrupolosamente i suoi doveri»7.
Battisti asserì: «lo prometto»! Come poteva l’irredento giurare fedeltà ad un governo di cui non ne riconosceva nessuna autorevolezza, poiché la sua patria era il Regno d’Italia? Inoltre l’opera svolta dal trentino in favore del Servizio Informazioni Militare italiano fu un atto a danno dell’Impero del quale era sempre stato cittadino non avendo mai disdetto la sua appartenenza. La sua azione, considerando il suo passaggio al Regno d’Italia durante il conflitto, diviene oggettivamente un tradimento verso la sua patria aggravata dalla sua collaborazione con i servizi italiani8. Ancora in una lettera scritta l’otto agosto del 1914 e diretta al Re Vittorio Emanuele III:  «Se al popolo nostro nel cui nome, sappiamo di poter con tranquilla coscienza parlare, sarà chiesto qualsiasi sacrificio, esso saprà mostrarsi degno della sua storia e nessuna cosa gli parrà grave, pur di poter salutare in Voi il Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali».
Da queste poche righe di chiusura dello scritto, risultano evidenti due gravi affermazioni di Battisti, che fanno capire la mancanza di verità e di coerenza, in quanto egli non poteva – nella maniera più assoluta – parlare a nome del popolo trentino, in quanto la percentuale sulla quale poteva contare appariva, in termini di consenso politico, estremamente minoritaria. Il voler poi salutare il “Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali”, stava a significare un fatto allarmante: l’abbandono della guerra chiamata di redenzione, per la liberazione del trentino, ponevano l’uomo politico pienamente compiacente verso un’annessione che ambiva a possedere caratteri coloniali e imperialistici.
[caption id="attachment_12633" align="aligncenter" width="1000"] A destra: una foto storica di uno Schutzen risalente ai primi del 900 del fotografo A. Stockhammer all'interno del suo atelier fotografico di Hall.[/caption]
La sua notoria voglia di guerra, contrariamente al suo partito militante, si evince da una lettera del 22 agosto del 1914, due settimane dopo la sua fuga in Italia, dove presentava domanda di arruolamento volontario nel Regio esercito italiano: «Per il caso di guerra con l’Austria mi metto a completa disposizione del Ministero della Guerra, chiedendo d’essere arruolato nell’esercito regolare o in quei corpi volontari che si organizzassero d’intesa col Governo. Ho 39 anni. Ma sono forte, abituato ai disagi della montagna. Da vent’anni mi dedico allo studio della geografia fisica del Trentino, sul quale ho pubblicato molte memorie scientifiche e molte guide turistiche. Nutro fiducia che la mia domanda sia bene accolta e sarò mandato fra le prime file alla frontiera»9.
Sarà così che un anno più tardi, il 10 luglio del 1916, il Battaglione Vicenza, formato dalle Compagnie 59ª, 60ª, 61ª e da una Compagnia di marcia comandata dal tenente Cesare Battisti, di cui è subalterno anche il sottotenente Fabio Filzi, riceve l’ordine di conquistare il Monte Corno di Vallarsa (1.765 m) sulla destra del Leno in Vallarsa, occupato dalle forze dell’Austria-Ungheria.
Nell’operazione, i Landesschützen austriaci catturarono e riconobbero Battisti e Filzi, che furono tradotti e incarcerati a Trento. L’ironia del destino, ha voluto che a riconoscere i due cittadini imperiali, sia stato proprio un italiano d’Austria, Bruno Franceschini (1894 - 1970) da Tres in Val di Non, formatosi nella scuola media a Rovereto, quindi studente di ingegneria al Politecnico di Vienna e ora alfiere del III battaglione, undicesima compagnia del primo reggimento Landesschützen. A differenza del coraggioso Battisti, Filzi diede generalità false, ma fu smascherato dallo stesso Franceschini.
Occorre spendere due parole per l’alfiere imperiale che nel 1933, dallo scrittore Andrea Busetto, nel saggio L’Italia e la sua guerra, bollava come traditore il serio soldato Imperiale e regio. Ancora Franceschini viene appellato come «rinnegato» nel novembre del 1965 dalla penna dello storico Piero Pieri (1893 - 1979) nel libro Cesare Battisti nella Storia d’Italia, consegnato al Quirinale al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (1898 - 1988). Tutto questo fango, solo per aver fatto il suo dovere di soldato10.
Come già affermato il Trentino era terra d’Austria da sempre. Bruno Franceschini era cittadino austriaco di lingua italiana, ufficiale al fronte dell’esercito Imperiale e regio. Non era un «soldataccio» come si legge in alcuni libri che parlano di Battisti, ma un militare austriaco, quindi non un traditore e men che meno un rinnegato. Si era trovato di fronte, dopo uno scontro violento, a due compatrioti che avevano vestito le insegne del nemico e impugnato le armi contro i conterranei.
Così il 12 luglio 1916, insieme a Fabio Filzi, fu condotto davanti al tribunale militare, che aveva sede al Castello del Buonconsiglio, adibito a caserma. Durante il processo non si abbassò mai alle scuse, né rinnegò il suo operato e ribadì invece la sua piena fede verso l’Italia. Respinse l’accusa di tradimento a lui rivolta, basata sul fatto d’essere suddito asburgico passato alle file nemiche e deputato del Reichsrat. Egli si considerò invece soltanto un soldato catturato in azione di guerra: «ammetto inoltre di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l’Italia, in tutti i modi – a voce, in iscritto, con stampati – la più intensa propaganda per la causa d’Italia e per l’annessione a quest’ultima dei territori italiani dell’Austria; ammetto d’essermi arruolato come volontario nell’esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l’Austria e d’essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. In particolare ammetto di avere scritto e dato alle stampe tutti gli articoli di giornale e gli opuscoli inseriti negli atti di questo tribunale al N. 13 ed esibitimi, come pure di aver tenuto i discorsi di propaganda ivi menzionati. Rilievo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva nell’indipendenza delle province italiane dell’Austria e nella loro unione al Regno d'Italia»11.
L’esecuzione avvenuta presso Fossa Cervara fu penosa, ma quella era la sorte per chi veniva tacciato di tradimento: difatti Battisti non fu fucilato come un militare, ma dopo essersi vestito con abiti civili (l’Austria non lo riconosceva come un soldato, ma come un parlamentare disertore) la morte gli pervenne tramite capestro. Battisti, di animo sereno durante il processo, fin dall’inizio conosceva i rischi. Dunque nell’esprimere un difficile giudizio storico, Cesare Battisti è stato coraggioso durante la guerra, ma sul lato politico, morale e umano – per via della sua voluta nomina a Parlamentare imperiale, già collaboratore con il Regno d’Italia –, non possiamo affermare la stessa cosa: questa è la macchia dell’irredento.
Dopo il primo conflitto mondiale con l’annessione al Regno d’Italia, l’opera della quale Battisti si è reso partecipe, il Trentino non è migliorato socialmente o economicamente, ma ha vissuto anni terribili sotto la dominazione italiana, in particolar modo sotto il periodo fascista. Importanti furono le distruzioni materiali dei monumenti riguardanti il passato: targhe, sculture e lapidi furono divelte. Il monumento all vittoria di Bolzano sorge nel luogo dove si stava edificando un monumento ai Kaiserjäger12 caduti durante la guerra.
Nel regio decreto del 21 gennaio 1923 N. 93, la circolare per i prefetti “Nomi regionali e toponomastica” N. 12637, dell’otto agosto dello stesso anno, si evince come: «Oltre la denominazione ufficiale di «Provincia di Trento» e la denominazione regionale «Venezia Tridentina» nessun’altra denominazione è per questa provincia consentita. Come denominazioni sub-regionali sono ammesse soltanto quelle di Alto Adige per la parte settentrionale della provincia di Trento e di Trentino propriamente detto per la parte meridionale. In via provvisoria e di tolleranza è ammesso l’uso delle voci di Oberetsch e Etschländer come corrispondenti a quelle di Alto Adige e di Atesino. Ogni diversa denominazione è vietata e segnatamente quella di Süd-Tirol, Deutschsüdtirol, Tirol, Tiroler o altre equivalenti e simili».
[caption id="attachment_12631" align="aligncenter" width="1000"] I tiratori rappresentano l'autoaffermazione dei tirolesi. A giugno festeggiano i 500 anni di Landlibell. Il Landlibell, conosciuto anche come Libello dell'Undici, è un documento redatto dalla Dieta del Tirolo a Innsbruck il 23 giugno 1511. Foto: ©APA[/caption]
A Trento il 26 settembre del 1922, l’Ufficio Distrettuale Politico emanava l’ordinanza n.5227/1, circa le «Insigne e diciture dell’antica monarchia austriaca»: «Dovranno pertanto essere rimosse tutte le aquile austriache e tirolesi, i ritratti, i simboli, gli emblemi, le tabelle, con o senza motto, che ricordano la dinastia d’Asburgo, l’Austria, e il Tirolo come unità provinciale austriaca dell’anteguerra. Per le aquile austriache vale la distinzione fra l’aquila del Sacro Romano Impero che finiscono col 1814 e quella dell’Impero austriaco posteriore. Se si tratta di stemmi e emblemi anteriori al 1814 che abbiano valore artistico, si dovrà riferire subito al Commissario Generale Civile facendo proposte, che saranno sottoposte all’esame del locale Ufficio di Antichità e Belle Arti. La rimozione di questi residui è da eseguirsi con mezzi efficaci sì da farli definitivamente scomparire. Dovranno pure essere tolti dalla circolazione tutti gli stampati di qualsiasi ufficio pubblico che, per avventura, portassero ancora in capo o nel testo, o dove che sia, un accenno o un simbolo del tramontato regime. Non sono ammesse cancellature o sovrapposizioni delle nuove scritte sopra le antiche. Dovranno essere messi fuori uso i timbri, i sigilli e le buste che eventualmente portassero ancora le accennate diciture».
Negli stessi anni si plasma la Legione Trentina, già nata a Firenze nel 1917, che aveva per scopo la celebrazione dell’italianità del Trentino, riunire a sé tutti i volontari trentini arruolati nel Regio esercito durante la Grande Guerra, raccogliere notizie riguardanti i volontari, offrire appoggio morale con assistenza pratica agli aderenti e onorare i martiri e i caduti per la causa italiana. L’associazione nel dopoguerra potenziò l’attività, in direzione di una strenua difesa dell’idea nazionale, compresa anche la meta del confine di Stato da portare al Brennero, oltre che la realizzazione del Museo del Risorgimento per la celebrazione dell’italianità del Trentino14.
Nel Manifesto dell’organizzazione del 10 aprile 1919, si legge: «I volontari trentini, nell’imminenza della sospirata annessione ufficiale all’Italia […] ritengono di dover riaffermare completo il loro pensiero su una questione che tanto appassiona e preoccupa l’animo dei patrioti. […] Esistono delle persone che […] hanno offeso il sentimento del nostro popolo mostrando ostentatamente il loro attaccamento agli Asburgo. […] Questi individui non possono restare impuniti: ogni generosità, ogni clemenza suonerebbe ingiuria a quanti hanno sofferto per aver amato la patria, sarebbe considerata segno di debolezza della stessa gente indegna. Non rappresaglie chiedono i volontari trentini, sibbene quella giusta sanzione che i colpevoli stessi attendono: per gli austricanti, freddezza da parte del pubblico, esclusione dalle Associazioni, eliminazione dai pubblici uffici o trasferimento in altra regione; per i rinnegati, per i disonesti, per i fiduciari dell’Austria, per le spie, per i vermi della società, il disprezzo della pubblica opinione, il boicottaggio da parte dei cittadini, l’esclusione da qualsiasi impiego pubblico e privato. Compiuta questa giusta e doverosa opera di epurazione e raggiunte in tal modo la tranquillità del paese e la concordia degli animi, il Trentino nostro riprenderà fiducioso e con animo forte il lavoro intenso necessario per il suo risorgere dopo le perdite inestimabili di vite e di beni»15.
Il Tirolo subalpino a poco a poco fu “redento”. Oggi il trentino è a maggioranza italiana, con minoranze tedesche ben presenti, e in minor entità sono presenti le lingue del ladino, del cimbro e del mocheno. In tutti i territori dell’ex Tirolo unificato, esistono numerosissime associazioni degli Schützen che si ispirano agli Standschützen che sino ai primi decenni del XX secolo costituivano una milizia (Landsturm) presente nella Contea del Tirolo e nella quale prestavano volontariamente servizio i cittadini tirolesi.
[caption id="attachment_12634" align="aligncenter" width="1000"] La corona di spine (in foto la sfilata del festival nazionale nel 1959) è un simbolo della divisione del Tirolo.[/caption]
Gli Standschützen erano quindi dei civili che la domenica erano tenuti ad esercitarsi presso un poligono di tiro, che costituiva la sede della compagnia. Le antiche finalità erano quelle di disporre di una forza militare per la difesa del territorio, da mobilitare solo in caso di necessità. Questo avvenne per l’ultima volta durante la prima guerra mondiale. Quindi le associazioni degli Schützen intendono far rivivere questa tradizione anche dopo lo scioglimento del corpo, avvenuto con la caduta della Monarchia asburgica16.
Da un punto di vista giuridico gli Schützen sono associazioni di volontariato di carattere privato senza alcun compito di difesa territoriale: le compagnie, spesso provviste di armi modificate (fucili a salve e spade con punta smussata), partecipano a manifestazioni di carattere storico-rievocativo e a cerimonie religiose.
Durante le rinomate processioni, di rilievo è la corona di spine posta su di una portantina portata a mano da molteplici Schützen, a simboleggiare la divisione ingiusta della contea del Tirolo. Le associazioni promuovono attività di recupero di luoghi di importanza storico-culturale e religiosa, con il restauro di postazioni risalenti alla prima guerra mondiale e l’apertura al pubblico di eremi e santuari. Questo antico corpo porta avanti valori conservatori, identificabili con il motto «Dio, patria e famiglia». Si propongono quindi la tutela dei valori cattolici, delle tradizioni e dei costumi tipici del territorio un tempo tirolese.
Un dialogo costruttivo e soprattutto onesto, oggi in Trentino e Südtirol è quanto meno doveroso, per continuare a vivere nella concordia del sogno kantiano dei popoli fratelli.
 
Per approfondimenti
1 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.26; 2 Per una correttezza geografica, denomineremo da adesso in avanti l’Alto Adige in Südtirol e Welschtirol sarà denominato Trentino.

3 Oggi le ricorrenze storico-culturali degli Schützen sud-tirolesi, non sono affatto nulla di delittuoso, come tuonano ancora una volta i nazionalisti italiani, ma tali manifestazioni sono il ricordo di un intero popolo che ama ancora la propria identità e tradizione, come in una qualsiasi altra parte della Repubblica italiana. La doppia cultura del Tirolo, italiana e austriaca, ha posto tale terra sempre come un ponte tra due culture: latina e mitteleuropea.

4 Nel 1887 muore suo fratello maggiore e nel 1890 il padre. 5 Brentami O., Le rovine della guerra in Trentino, Antonio Cordani, 1919, p.17. 6 Se conosciamo la giustizia oggi, per fare tre stanze di giudizio, mediamente il tempo trascorso è pari a vent’anni, quando non si incorre nella prescrizione. 7 Piccoli P. e Vadagnini A., De Gasperi un trentino nella storia dell’Europa, Panorama, 1992, p.86.

8 Battisti nella sua veste di Deputato presso il Parlamento di Vienna, ebbe a sua disposizione documenti tecnici riservati, pubblicati dal Dipartimento Imperiale e regio edile della Luogotenenza di Innsbruck (con annesse carte topo-geografiche), i quali fornirono al politico trentino le informazioni dettagliate delle strade principale del territorio.

9 Sardi L., Cesare Battisti… l’altro volto, 21-10-2016 - http://valsuganaww1.altervista.org/28-novembre-borgo-cesare-battisti-laltro-volto/.
10 Nel dizionario della Lingua italiana Fernando Palazzi, anno di edizione 1939 si legge: «Rinnegare vuol dire dichiarare e dimostrare con parole e con atti di non voler più riconoscere ed onorare fede, idee, istituzioni, persone che prima erano, come dovevano essere, sacre, venerate e care; negazione e abbandono che, non poche volte, muovono da viltà o da basso calcolo personale di ambizione, di avidità – abiurare, apostatare (rinnegamento della propria religione) – ripudiare, sconfessare, prevaricare, pervertire».
11 Biguzzi S., Cesare Battisti, UTET, Torino, 2008, p.534-535.

12 La particolare denominazione, che li differenziava dai comuni reparti di Jäger (cacciatori), derivava dalla particolare fedeltà, sempre manifestata dalla popolazione tirolese alla figura dell’Imperatore, per cui erano considerati, in uno stato che non ha mai avuto una guardia del corpo combattente, il vero reparto a difesa della persona del sovrano. Contrariamente a quanto si crede, inizialmente i Kaiserjäger non erano un reparto specializzato nella guerra in montagna, ma erano solo un’unità d’élite della fanteria austro-ungarica, basato su truppe tirolesi. In seguito il Kaiserjäger divenne il simbolo delle truppe austriache sul fronte alpino.

13 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.52. 14 Oggi il Museo del Risorgimento porta il nome di Fondazione Museo Storico del Trentino. 15 Archivio storico del Comune di Arco, Carteggio e Atti annuali 1919, busta 381-598.

16 In Südtirol questo sistema gerachico comprende il Landeskommandant, il Landeskommandant-Stellvertreter, il Landeskurat e il Bezirksmajor - ognuno di questi a capo di uno dei 7 Bezirke (circondari): Bolzano, Bressanone, Burgraviato e val Passiria, val Pusteria, Alta val d’Isarco, Bassa Atesina e val Venosta. In Trentino le ventisei compagnie trentine sono organizzate in modo analogo e dispongono anche di una banda musicale (Musikkapelle Kalisberg) inserita nella compagnia di Civezzano.

© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 31-10-2021

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Sono le 7,45 del 20 Marzo del 1868, quando le freddi carceri del Forte Malatesta di Ascoli Piceno, vedono uscire la salma di Giovanni Piccioni (1798 - 1868), un personaggio odiato dalla classe politica massonica ascolana, quindi italiana, poiché da lì a due anni la “Roma eterna” papalina sarà costretta a soccombere all’aggressione sabauda e l’Unità italiana sarà completata con più di un plebiscito accomodante.
Ma chi fu il Piccioni, etichettato dalla vulgata post-unitaria come “Brigante”? Fu sicuramente un patriota papalino, per la precisione comandante degli Ausiliari pontifici. Così lo descriveva il comandante della colonna mobile degli Abruzzi e dell’Ascolano Maggiore Generale Ferdinando Pinelli (1810 - 65) lo 03-02-1861: «progenie di ladrone – che – s’annida sui monti (…) vile e genuflesso (…) indifferente ad ogni principio politico, avido solo di preda e di rapina, egli è prezzolato scherano del Vicario, non di Cristo, ma di Satana; pronto a vendere ad altri il loro pugnale, quando l’oro carpito alla stupida credulità dei fedeli non basterà più a sbramar la sua voglia. (…) sacerdotal vampiro, che colle zozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra».
[caption id="attachment_12573" align="aligncenter" width="1000"] Bartolomeo Pinelli, Due 'Briganti' riposati nella 'Campagna', studio per la tavola IV della Nuova raccolta di cinquanta costumi de 'Contorni di Roma' (1823), firmato e datato 1818, acquerello e grafite su carta (Collezione privata ).[/caption]
Giovanni Piccioni nasce nella parrocchia di Farno, precisamente nella frazione di San Gregorio di Monte Calvo il 17 maggio del 1798, lo stesso anno in cui il capoluogo Ascoli Piceno vedeva abbattuta presso la Piazza del Popolo – agorà principale dell’urbe – della Statua di Gregorio XIII (innalzata nel 1577) ad opera dei giacobini francesi occupanti. I genitori, appartenenti alla società di campagna, Giovan Battista Piccioni e Antonia della villa S. Gregorio, lo portano a battesimo da don Filippo de Rubeis nella Chiesa di San Pietro in Fleno. L’educazione, durante l’infanzia, cattolica secondo i precetti di Santa Romana Chiesa, furono per lui la roccia su cui basare tutta la sua esistenza e la sua rettitudine, senza scadere nel bigottismo. Particolarmente un altro prete don Marco, fratello del padre, gli fece da precettore: fu chiaramente messo in guardia dalle idee liberali, massoniche (carbonare) e rivoluzionarie che correvano in quegli anni in tutta la penisola.
Questa sfumatura diviene fondamentale se si vuole comprendere l’evoluzione storica dell’Unità d’Italia e la caduta del Trono e dell’Altare, ovvero di quelle Monarchie Assolute che costituivano la conformazione politica dell’Italia pre-unitaria. Ebbene il nuovo potere borghese, nato dalle ceneri della rivoluzione francese (1789) si afferma in quasi tutta Europa. In Italia il tentativo di impadronirsi del potere è più rallentato, grazie anche alla presenza del Papa, nonostante le scorribande napoleoniche. La borghesia per auto-affermarsi crea – appunto – l’entità della Massoneria che a sua volta ha una sua spiritualità dettata da un altro “Creatore” il grande architetto dell’universo o la Dea Ragione (a seconda dei distretti): chiaramente si riprende a piene mani l’idealismo cartesiano, ovvero “l’uomo fondamento del reale”; l’uomo sarà al centro di questo progetto, non più il Dio cristiano. Un concetto filosofico che sarà ripreso dai più grandi filosofi tedeschi come Kant, Hegel ed infine Marx.
A queste dottrine seguiranno le più sanguinose guerre che la storia umana ricordi.  In tempi non sospetti Mons. Henri Delassus (1836 - 1921) nel suo capolavoro “Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà” esponeva con lucidità estrema quello che doveva divenire realtà qualche secolo dopo. Riferendosi alla Carboneria italiana, divisa in Vendite (a differenza della Massoneria, che si divideva in Loggie), in specificato modo alla Carboneria dell’Alta Vendita guidata dall’uomo senza volto “Nubius” (1824 - 48), Delassus ci riporta un documento risalente al 1817: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicesimo e perfino dell’idea cristiana, la quale, se rimanesse in piedi sopra le rovine di Roma, né sarebbe più tardi la perpetuazione. Ma per giungere più certamente al nostro scopo e non prepararci da noi stessi dei disinganni che prolunghino indefinitivamente o compromettano il buon successo della causa, non bisogna dar retta a questi vantatori francesi, a questi nebulosi tedeschi, a questi inglesi malinconici che credono di poter uccidere il cattolicesimo ora con una canzone oscena, ora con un sofisma, ora con un triviale sarcasmo arrivato di contrabbando come i cotoni inglesi. [...] Con questo passaporto (dell’ipocrisia), noi possiamo cospirare con tutto il nostro comodo e giungere, a poco a poco, al nostro scopo. [...] Il Papa, chiunque sia, non verrà mai alle Società segrete; tocca alle Società segrete di fare il primo passo verso la Chiesa e verso il Papa, collo scopo di vincerli tutti e due. Il lavoro al quale noi ci accingiamo non è l’opera d’un giorno, né di un mese, né di un anno. Può durare molti anni, forse un secolo: ma nelle nostre fila il soldato muore e la guerra continua. [...] Quello che noi dobbiamo cercare di aspettare, come gli ebrei aspettano il Messia, è un Papa secondo i nostri bisogni. [...] Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra. E volete sapere il perché? Perché con questo solo, per stritolare lo scoglio sopra cui Dio ha fabbricato la sua Chiesa, noi non abbiamo più bisogno dell’aceto di Annibale, né della polvere da cannone e nemmeno delle nostre braccia. Noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto, e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i S.Bernardi della Cristianità. Questa convinzione che la sovversione dell’ordine sarebbe avvenuto soltanto dall'infiltrazione nelle gerarchie ecclesiastiche era una pietra miliare nell’azione dettata dall’Alta Vendita ».
Fatta questa precisazione doverosa sui princìpi di una invasione militare storica, senza una dichiarazione di guerra formale, l’adolescenza di Giovanni Piccioni passò anche per la sua abitazione presso la Rocca di Monte Calvo, sopra il lago di Talvacchia, ed ancora oggi una targa sopra l’architrave del portale d’ingresso così recita: «Ad Dei gloriam; haec domus diruta et arsa ob insano furore MDCCCIV; inde Joacchinus ed Joanne Piccioni instauraverunt MDCCCXLVII» (In gloria di Dio; questa casa fu distrutta e bruciata dall’insano furore nel 1804; finché Gioacchino e Giovanni Piccioni non la restaurarono nel 1847). Qui conoscerà Angela Capponi, sua futura moglie alla fine degli anni Cinquata dell’800 da cui ebbe ben nove figli: Leopoldina Piccioni (1822-23), Leopoldo Piccioni (1823 - 98), Gioacchino Piccioni (1831 - 1907), Giorgio Piccioni (1836 - 63), Giovan Battista Piccioni (1842 - 1908), ed ancora le figlie Rosalia, Michelina, Giacinta.
Le prime gesta militari lo vedono impegnato nei moti rivoluzionari fallimentari del 1830-31, all’elezione di Papa Gregorio XVI (1765 - 1846), capitanato da Giuseppe Sercognani (1780 - 1844) del “Regime Unitario” ex colonnello della Repubblica cisalpina.
Il Piccioni a San Gregorio di Acquasanta e a Rocca di Monte Calvo respinse le truppe repubblicane e divenne a 33 anni una figura dominante della reazione al colpo di Stato avvenuto ad Ascoli il 22 febbraio del 1831 che vedeva nelle figure dei conti Giuseppe Rosati-Sacconi, Orazio Piccolomini-Centini, Serafino Panichi, dell’avvocato Francesco Talianini e dal dott.Francesco Merli, il Comitato Provinciale di Governo. Attaccatissimo alla Santa Sede, alle sue direttive, sanfedista dal 1817, dedicò la sua vita alla causa papalina.
Ancora le cronache storiche lo vedono impegnato, nel 1849, come capitano dei Volontari Pontifici, sotto l’energica guida del montegallese Don Domenico Taliani Comandante Superiore dello stesso corpo nominato dal Segretario di Stato dello Stato Pontificio Sua Eminenza Card. Giacomo Antonelli (1806 - 76) per conto del beato Pio IX (1792 - 1878).
La situazione dello Stato Pontificio alla metà dell’Ottocento - Regno che comprende le attuali regioni italiane del Lazio, Marche, Umbria e Romagna -, era delicatissima e piena di insidie. I moti unitari, spinti da quasi cinquant’anni di illuminismo, laicismo, relativismo avevano minato lo spirito dello Stato Pre-Unitario: lo stesso Pontefice Pio IX, Mastai-Ferretti da Senigallia, dopo un primo pontificato vicino al movimento unitario – che ricordo per il Papa significava unicamente una confederazione di Regni, sotto la religione cattolica, uniti da un’economia comune -, dopo la Repubblica Romana macchiatasi dei sanguinosi reati del triunvirato mazziniano, aveva finalmente compreso il piano di assogettazione massonica dell’Unità della penisola italiana, che iniziava ad intravedere nel Regno di Piemonte e Sardegna della dinastia Savoia, la testa di ponte per un cambio radicale nella cultura, nell’identità, nella lingua di tutte le popolazioni italiche. Gli “Stati Canaglia”, come venivano denominati i pacifici Regni Pre-Unitari, dovevano cadere.
[caption id="attachment_12575" align="aligncenter" width="1000"] Sul muro della casa di Rocca di Montecalvo, una lapide ricorda la lotta di Giovanni Piccioni. Rocca di Montecalvo è frazione del comune di Acquasanta Terme, la quale è composta da due nuclei di case: Rocca di Sotto (m. 658) e Rocca di Sopra (m. 700). Si trova lungo le pendici montuose che scendono nella valle del torrente Castellano, da cui dista qualche centinaia di metri, all'altezza dell'inizio del lago di Talvacchia. Il suo territorio confina anche con quello di Cervara che si trova a nord-ovest, a circa due chilometri in linea d'aria, ed è collegata da un sentiero, praticabile, che attraversa valli e boschi. Da Ascoli Piceno è raggiungibile con la machina tramite la strada che da Porta Cartara conduce a Valle Castellana. Il bivio per Rocca di Montecalvo si trova, a destra, un chilometro circa dopo lo sbarramento della diga di Talvacchia.[/caption]
Fu così che, quando il 24 novembre del 1848, dopo l’omicidio brutale del primo ministro papalino il conte Pellegrino Rossi (1787 - 1848), Pio IX fu costretto alla fuga da Roma, caduta in mano alla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, la storia tocca il nostro Capitano Piccioni.
Di gran concerto, da Gaeta, il Pontefice pensò bene di attuare una controffensiva immediata partendo dalla provincia conservatrice dell’ascolano, già capace precedentemente di dare ripetute sconfitte alle truppe regolari napoleoniche che occupavano il territorio dello Stato Pontificio sotto Pio VII.
Il territorio della Marca Pontificia, possedeva uomini da sempre, storicamente, molto legati allo Stato Pontificio, forti nella tenacia dei propositi e nel ricordo delle gesta dei padri, formati da una natura aspra, un clima rigido, una povertà contadina e guidati dai curati del luogo che ricordavano come l’idea liberale sabauda provenisse dal tentativo demoniaco del secolo di distruggere l’uomo e la fede. Geograficamente l’ascolano, molto vicino al confine con il Regno delle Due Sicilie - nel 1848 ancora libero ed indipendente - era luogo perfetto per dare supporto alle truppe irregolari papaline, le quali per sfuggire ai soldati di linea repubblicani potevano sconfinare e ricevere supporto. L’habitat favoriva l’imboscata: ineguale, accidentato, montuoso, intersecato da fossi e burroni, privo di articolazioni stradali e cosparso a macchia di radure.
Don Taliani, aveva alle dipendenze il Maggiore Palomba (reclutatore della truppa e rifornitore di armi e munizioni), il Maggiore Francesco De Angelis e il Maresciallo dei Carabinieri papalini Scipione Alboni. Nei 1.500 uomini reclutati, divisi per bande che setacciavano il territorio alla ricerca delle truppe regolari, Giovanni e Leopoldo Piccioni controllavano insieme tutto il territorio che corre da Rosara a San Gregorio di Monte Calvo; altri territori controllati erano l’acquasantano, Mozzano e dintorni, Castel Trosino, Spelonga e Montegallo.
Una prima descrizione dell’uomo lo ritrae di altezza medio-bassa (1,69 m.), dagli occhi chiari, naso aquilino, mento oblungo, fronte spaziosa, barba misto-lunga, colorito diafano con una corporatura media. I volontari indossavano principalmente un cappellino pretino, degli scarponi da montagna, dei calzoni corti spesso neri, l’uniforme comunemente chiamata “federiga” sulla quale veniva appesa un’effige in rame raffigurante l’angelo costode o la madonna del Santissimo pianto come coccarda; mentre le armi comuni potevano essere due pistole o uno scavezzo a spadino. Le truppe irregolari, con il sacerdote in testa, spesso marciavano intonando inni Sacri.
Chiaramente questa sorta di guerra clandestina è atroce, da ambo le parti: le truppe del Taliani sono anch’esse spietate e non danno quartiere con coloro che avevano tradito il Regno. Spesso chi veniva catturato era decapitato e la sua testa appesa come “monito” dai suoi antichi commilitoni su una picca: questa era la punizione per chi tradiva Cristo e il Papa. La durezza degli scontri è talmente alta che lo stesso don Taliani verrà sospeso a divinis dal Vescovo Zelli nel 1849, ma il montegallese continuò incurante a celebrare la Santa Messa prima e dopo gli scontri, definiti “stimata e religiosissima opera”.
Gli scontri, “la reazione all’azione” repubblicana, iniziarono per paradosso un Giovedì Santo del 5 aprile del 1849, quando le truppe dell’ascolano Matteo Costantini (1786 - 1849), colui che veniva denominato “Sciabolone” – ex Brigante, ora passato alla paga della Giovine Italia –, che manteneva in mano alla Carboneria il borgo di Arquata, lasciò la città in direzione Acquasanta per un pattugliamento di routine, lasciando unicamente 25 uomini in difesa.
Fu così che scattò l’attacco dei Volontari Pontifici, tutti spelongani, che entrarono ad Arquata passando per la porta Sant’Agata, capitanati da Fabriziani. Armati con utensili di fortuna, ma anche con diversi fucili, conquistarono presto il centro del Paese al grido di «Viva il Papa Re!», costringendo il contingente – capitanati da un tenente svizzero – a retrocedere dentro la Rocca di Arquata. I papalini non ricevendo gli aiuti promessi da don Taliani (provenienti da Montegallo), si ritirarono in serata a Spelonga, mentre parallelamente Giovanni Piccioni si trovava con 700 uomini ad Acquasanta. Anche Balzo ed Uscerno – i paesini che oggi formano “Montegallo” (che non esiste realmente, ma contraddistingue solo un territorio) erano pronti a fornire uomini alla causa di Pio IX.
Il giorno dopo 200 uomini di don Domenico Taliani avevano già divelto le insegne repubblicane e posto nuovamente quelle dello Stato Pontificio, quando gli uomini di Fabriziani tornarono ad Arquata.
[caption id="attachment_12577" align="aligncenter" width="1000"] La Santa Messa in rito antico era la liturgia usata dai sacerdoti cattolici del tempo. Nella liturgia cattolica, la messa tridentina è quella forma della celebrazione eucaristica del rito romano che segue il Messale Romano promulgato da papa Pio V nel 1570 a richiesta del Concilio di Trento, che trasmette la liturgia in uso a Roma, il cui nucleo risale al III-IV secolo. Fu mantenuta, con modifiche minori, nelle edizioni successive del Messale Romano fino a quella promulgata da papa Giovanni XXIII nel 1962, precedente alla revisione ordinata dal Concilio Vaticano II. Per quattro secoli fu la forma della liturgia eucaristica della maggior parte della Chiesa latina fino alla pubblicazione dell'edizione del Messale promulgata da papa Paolo VI nel 1969 a seguito del Concilio Vaticano II, che rivoluzionò la liturgia in cui il sacerdote non aveva più le spalle all'assemblea, ma - de facto - a Cristo. Il pagliativo della riprogettazione dell'Altare Maggiore, provocò ulteriori aggravamenti di carattere architettonico-cultura con l'abbattimento di numerosissimi beni culturali negli anni Settanta del 900. Considerata forma extraordinaria del rito romano dal motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI del 2007, l'usus antiquior del rito romano ha avuto una nuova diffusione fino al 2021, quando il motu proprio Traditionis custodes di papa Francesco ha reso l'uso del Messale del 1962 soggetto alla supervisione del vescovo diocesano e ha sancito che il Messale riformato dopo il Concilio Vaticano II è «l'unica espressione della lex orandi del Rito romano». Il rito antico è oggi ancora celebrato quasi in tutte le diocesi del mondo.[/caption]
Ascoli Piceno rimane scossa per la presa pontificia della Rocca di Arquata e inviò un corpo di spedizione per sedare “la rivolta”. Ma altre negative notizie dovevano giungere per i repubblicani: l’11 aprile, infatti, alcune Guardie Nazionali e dei Carabinieri in una perlustrazione sul Monte Rosa, furono attaccati dalle bande del Piccioni e subirono perdite ingenti.
Il compito di stanare i volontari del prete, è affidato al Colonnello Rosselli il quale guida la IV Compagnia della Legione del Tronto e un distaccamento di Carabinieri. Arrivati nel paesino di Coperso mettono in fuga alcuni papalini che inseguiti dagli infaticabili uomini riescono a trovare scampo solo nelle selve del Monte Teglia e del Ceppo. Altri scontri proseguono fino a notte a San Gregorio, dove si rifugiava Piccioni con i suoi uomini: anche il capitano deve ritirarsi dai duri attacchi del Colonnello. Il giorno seguente comunque gli uomini di Rosselli sono costretti a loro volta al ripiegamento, non solo per essere stati tagliati alle spalle da altri ribelli che avevano assediato Acquasanta, ma per i ripetuti attacchi che i soldati ricevevano durante gli spostamenti.
Durante la ritirata si assiste ad un omicidio delle truppe repubblicane: il diciottenne Domenico Laudi, un pastorello, viene scambiato per un “brigante” e trucidato sul posto. Parallelamente ad Acquasanta, il capitano Matteo Costantini è assediato dai volontari pontifici, i quali si ritirano dopo aver catturato negli scontri eminenti personaggi dell’Ascoli Repubblicana, tra i quali si ricordano Tito Calandri (figlio del Preside di Ascoli) e Pietro Parracini (Ispettore della Pubblica Sicurezza).
Acquasanta rimane dunque in mano repubblicana ed è da lì, che il 14 aprile del 1849 partono le truppe del Colonnello Rosselli alla volta di Arquata in mano agli uomini di Fabriziani e don Taliani.
Gli uomini della Giovine Italia, occupano Capodirigo: l’azione perfettamente pensata dal colonnello repubblicano, induce i papalini a lasciare la città di Arquata per mettersi alla macchia.
La rocca di Arquata viene trattata come una città ribelle: arresti dei più importanti uomini del paese e soprattutto l’arresto del Priore del Convento dei Riformati, rei non solo di aver nascosto le armi ai “briganti”, ma di aver infiammato i loro spiriti semplici con le loro omelie. La casa di Fabriziani è incendiata a Spelonga dove si pensò bene di prendere in ostaggio il curato del paese e lo stesso padre del capitano Fabriziani.
Anche il paese di Colle doveva subire l’ira del Colonnello Rosselli, ma una burrasca estiva ne ferma gli intenti: nel paese si invoca il miracolo, poiché si pregava da due giorni la Madonna della Salute, molto venerata. Il 19 dello stesso mese è la volta del rogo della casa di don Taliani nel territorio montegallese e di altri importanti arresti.
Alla conclusione della retata, nonostante l’occupazione da parte repubblicana di Arquata, Acquasanta e Montegallo, le forze papaline, rintanate nelle selve circostanti rimasero praticamente intatte.
Nonostante una certa propaganda, per stroncare definitivamente i volontari pontifici, il Triunvirato romano, decise di inviare ad Ascoli altre truppe, capitanate dal Colonnello Marchetti e dal generale Garibaldi, il quale era già passato per Ascoli Piceno il 25 gennaio di quello stesso anno e si rivolse agli ascolani con queste parole: «ricordatevi di non essere più dei sacrestani del Papa [...] se fossero stati altri tempi vi direi: fate una rivoluzione; per oggi vi comando moderazione e calma», ebbene mai parole furono così poco ascoltate. Infatti – curiosità vuole – dirigendosi il giorno dopo per Rieti, “l’eroe per la libertà” si espresse sugli ascolani in questo modo: «Vidi le robuste popolazioni di montagna e fummo bene accolti e festeggiati ovunque e scortati da loro con entusiasmo. Quei dirupi risuonarono degli evviva alla libertà italiana, e da lì a pochi giorni, quel forte ed energico popolo, corrotto e messo su dai preti, sollevavasi contro la Repubblica Romana, ed armavasi con le armi somministrate dai neri traditori, per combatterla» .
Ma Garibaldi era destinato a non tornare più nella città ascolana. Difatti gravissime notizie giungevano da Roma: i francesi comandati dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot (1791 - 1863) avevano occupato Civitavecchia, mentre gli austriaci liberavano la Romagna e scendevano per le Marche e l’Umbria; gli spagnoli erano sbarcati a Fiumicino, mentre i Borbonici avevano varcato i confini a Terracina in direzione Roma. Il Triunvirato romano, intento a difendere la città eterna, rimando ogni piano su scala nazionale di difesa dal cosidetto “bringantaggio” ed addirittura le truppe ad Ascoli furono richiamate a Roma per la sua difesa.
Così il 30 aprile le truppe di Giovanni Piccioni e quelle di don Silvestri avevano liberato Coperso e Acquasanta. Fu così che il 1 maggio tra urla festanti di gioia della popolazione locale – che tanto aveva sofferto per l’occupazione forzata dei repubblicani – anche ad Arquata sventolava nuovamente la bandiera pontificia sulla torre più alta della città. Tutti i paesi della Valle del Tronto erano nuovamente sotto il controllo dei papalini.
Ascoli è pronta a cadere, soprattutto dopo la fuga del carbonaro Calindri in direzione marittima a San Benedetto del Tronto. L’8 maggio cadono Maltignano e Mozzano per mano di truppe borboniche. Piccioni scrive al conte Marco Sgariglia Gonfaloniere della città: «risoluto di occupare la Vostra città.. senonché ripristinarvi il Governo Pontificio. Il mio ingresso sarà più che pacifico.. qualora che ci si faccia opposizione.. assaliremo la città da tutti i lati.. e metteremo a sacco e foco, nulla riguardando».
Il giorno seguente una banda di 300 pontifici attaccano Porta Cappuccina ad Ascoli Piceno, con l’ausilio di diverse famiglie fedeli alla Sacra Pantofola di Pio IX che avevano occupato alcune case attaccando le poche Guardie Civiche rimaste in città. Dopo due ore di scaramucce la difesa repubblicana sembra reggere e passò alla storia – dalla propaganda carbonara – come un’incredibile vittoria insperata. De facto non ci fu nessun ferito da nessuna delle due parti, salvo pochi giorni dopo l’ennesima sconfitta – presso la vicina Rosara – di alcuni Carabinieri e Guardie civiche inseguite fino a Porta Pia dai volontari di Giovanni Piccioni.
Dunque la situazione non poteva essere delle migliori per i liberali, quando Antonio Orsini (1788 - 1870) – appena nominato “Commissario straordinario” da parte del Triunvirato Romano – giunse ad Ascoli Piceno la sera del 16 maggio, con la città che stava cedendo alle pressioni degli insorti, con i borbonici che avevano sconfinato su Maltignano e le truppe francesi si erano oramai portate a poche centinaia di metri dalle mura.
Come ci ricorda lo storico Giorgio Enrico Cavallo «Libri, opuscoli e giornali anticattolici venivano pubblicati senza problemi. Pio IX, nel breve Gravissimus supremi, parlava di “odio acerrimo e del tutto diabolico contro la nostra religione”. [...] Gli indizi di una presenza luciferina nella Rivoluzione europea c’erano tutti, come ormai sappiamo: basti tornare a quel Voltaire che chiamava Frères en Belzebuth i propri migliori amici. [...] Nel 1863, Giosuè Carducci (1835 - 1907) dava alle stampe la prima edizione del celebre inno A Satana: “Salute, o Satana/O ribellione/O forza vindice/De La ragione!/Sacri a te salgono/Gl’incensi e i vòti!/Hai vinto il Geova/Dei sacerdoti”!
L’inno che risente profondamente della cultura massonica (Carducci era appassionato libero muratore), ottenne un vasto eco. [...] L’inno, va detto, non era tutto “farina del sacco” di Carducci. Lo spunto veniva da un noto passo di Proudhon (1809 - 65) che val bene citare per comprendere il quadro europeo [...].
[caption id="attachment_12587" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra Giovanni Piccioni, a destra il farmacista Luigi Piccioni, pronipote di Giovanbattista.[/caption]
Nel 1877, Mario Rapisardi (1844 - 1912) pubblicò a Milano il suo poema Lucifero, che accolse l'applauso anche di Giuseppe Garibaldi, il quale scrisse una lettera di elogi al poeta catanese, firmandosi “vostro correligionario” in Lucifero. [...] Nell'Ottocento il culto di Satana si è esteso a macchia d'olio tra Europa ed Americhe. [...] Come la rivoluzione francese, anche quella italiana ebbe una componente demoniaca, nel senso di elogio del diavolo quale naturale oppositore alla Chiesa. [...] il regno della rivoluzione è il regno del diavolo [...] Perché il diavolo [...] è il primo rivoluzionario».
Ad attendere Orsini accorrono i Malaspina, gli Sgariglia, gli Arpini ed altri cognomi filo repubblicani. Dalle sue parole emerse come: «Io vado per le brevi: uso formale e leggi militari; chi manca viene severissivamente punito; so discernere il reo dall’innocente, l’istigatore dall’ingannato; ma piombo con mano ferrea su tutti coloro che hanno osato prendere le armi a sostegno del delitto, del furto, dell’assassinio [...]. Tutti quelli che, per i loro antecedenti si conoscono indebitamente avversi all’attuale ordine politico ed aderenti al brigantaggio, non possono portare armi di sorta: se rinvenuti con le armi alla mano, o se nelle loro abitazioni trovansi armi e munizioni da guerra, quale che sia la quantità, saranno arrestati e tradotti innanzi alla Giunta Militare: provato il fatto, entro il termine di 24 ore, saranno fucilati. Tutti quelli che presteranno aiuto ai briganti o li ricovereranno saranno punti con la fucilazione. Quei villaggi che, per caso, opponessero resistenza o si opponessero al ristabilimento dell’ordine, saranno trattati secondo il diritto di guerra [...] dovendosi sempre rispettare l’Augusta Religione».
Non solo: il Commissario straordinario ordinava tramite circolare come gli stemmi pontifici abbattuti nei luoghi sacri dovevano essere ripristinati ed ancora ordinava ai parroci ascolani l’imposizione – durante l’omelia dal pulpito – di leggere le disposizioni prese dal nuovo governo per estirpare quello che veniva definito come “brigantaggio”. I sacerdoti refrattari sarebbe stati fucilati senza processo secondo le disposizioni militari.
Al 15 maggio del 1849 le cittadine di Offida, Montalto, Montelparo, Ortezzano, Patrignone, Comunanza, Monterinaldo, Montemonaco, Montefortino erano in mano papalina.
Agatone De Luca Tronchet e Vincenzo Vallorani vengono nominati per la riconquista dei paesi menzionati; guidano rispettivamente le truppe dei volontari fermani e un drappello di finanzieri. I Paesi abbandonati dalle truppe in eterno movimento dei coscritti Trono e Altare, tornano nelle mani dei mazziniani che il 23 maggio bruciano tutte le insegne e i simboli dello Stato Pontificio in un enorme falò a Montalto.
Ripresa gran parte della provincia Orsini puntò ora ad abbattere Giovanni Piccioni in una battaglia risolutiva. Comanda a due colonne di soldati capitanati dal Tenente Gaggiano di stanarlo sulle montagne di Rosara. L’incontro tra le due fazioni è duro, violento e gli uomini di Piccioni hanno infine la meglio con le truppe repubblicane in fuga. Successivamente le truppe dei mazziniani subirono degli arresti anche in diverse località montane come Balzo e Propezzano. Le sconfitte acuiscono gli aguzzini in città: Orsini giudica sommariamente 156 detenuti politici con un processo da farsa hitleriana. Solo alcune operazioni diplomatiche ascolane riuscirono a scongiurare le esecuzioni, commutando, il 27 maggio dello stesso mese, la pena capitale in quella dei lavori forzati a vita. L’azione torna di nuovo in mano agli ex soldati dello Stato Pontificio che il 29 maggio conquistate le colline intorno all’ascolano e comandate da don Taliani e Giovanni Piccioni alle 14:00 iniziarono dai declivi a moschettare i difensori repubblicani, i quali riuscirono solo con un assalto alla baionetta – uscendo da Porta Solestà – a metter in fuga i reazionari. Ma il giorno dopo, il 30 maggio del 1849 – le stesse unità combattenti di don Taliani, Piccioni e Cecchini attaccarono nuovamente le mura cittadine. Obiettivo era per i papalini non la presa della città, ma l’instabilità istituzionale dei repubblicani nei riguardi della popolazione, in attesa dell’arrivo delle truppe alleate austriache. Anche nel teramano Mons. Domenico Savelli organizzava una nuova spedizione per l’ascolano in vista dell’imminente ristabilizzazione dell’Ordine costituito. L’Orsini circondato in città anche da uomini poco fedeli alla causa repubblica, perché costretti (si veda il Segretario Generale al Governo di Ascoli Raffaele Trevisani e il capo delle truppe cittadine Colonnello Cavanna, fervente sostenitore del precedente Papa Gregorio XVI) o da spie al servizio del Papa (come il Colonnello Freddi, il quale fu uno dei primi a disertare dopo la restaurazione successiva), i primi giorni di giugno lascia la città. La motivazione pubblica è una spedizione contro i briganti, ma in realtà si tratta di una vera e propria fuga, nella quale fa in tempo a prendere in ostaggio tre preti sanfedisti don Ferdinando Piccinini, l’ex frate Organtini e Padre Maestro Giuseppe Luciani; in ostaggio anche il marchese papalino Carlo Malaspina. Lasciano Ascoli Piceno 530 fanti e 50 carabinieri a cavallo; al suo seguito si riconosce “Sciabolone”, quel Matteo Costantini a capo dei suoi 56 volontari del “Battaglione ascolano monilizzato”. Arrivato in segretezza ad Offida, saccheggia il denaro papalino di 500 scudi, per pagare i soldati oramai senza paga da mesi: il denaro restante lo trattiene per mantenersi la sua schiera armata per almeno altri tre mesi. Il giorno dopo sarà a Montalto, rendendo chiaro alle truppe papaline l’intento di ritirata verso Roma. Lasciò Montalto per Force con meno di 350 uomini: la metà aveva già disertato abbandonandolo.
[caption id="attachment_12579" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Orsini (Ascoli Piceno, 9 febbraio 1788 – Ascoli Piceno, 18 giugno 1870) è stato un mazziniano e naturalista. Farmacista e scienziato viene ricordato per il suo impegno militare e politico nella Repubblica Romana. Senatore del Regno d'Italia, ricevette il titolo di nomina regia che ricevette nell'anno 1861 insieme all'onorificenza dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Fu anche eletto consigliere provinciale del mandamento di Arquata. Morì ad Ascoli il 18 giugno 1870.[/caption]
Siamo arrivati al 7 giugno del 1849 ed Ascoli torna libera città sotto lo Stato Pontificio: Giovanni Piccioni iniziò l’attacco con i suoi uomini da porta Tornasacco; mentre don Taliani sferravano l’offensiva a Porta Solestà. Dopo numerose perdite la Guardia Civica riesce ancora a respingere l’attacco, ma nei giorni successivi tutta la provincia torna nelle mani del Papa Re Pio IX.
Orsini nell’arrivare a Force dovette anche difendersi dagli attacchi dei volontari pontifici nei pressi di Montedinove, sul torrente Pallone vicino il bosco di Rovetino. Arrivato in città si incontra con un altro repubblicano doc Capitano Serafino Wiser che lo aggiorna sulla caduta di gran parte della Marca fermana, Fermo compresa. Orsini è circondato a Force. Il 15 giugno tenta una sortita a Monte della Torre per forzare il blocco senza riuscirci. Infuriano i combattimenti fin sotto Porta S.Pietro di Force tra i due schieramenti, che vedono ben 2.000 papalini assediare la cittadina. Infine per togliere valore alla conquista della città per mano papalina, Antonio Orsini si dimette dalla carica che il Triunvirato gli ha concesso. Il 18 giugno con l’arrivo delle truppe austriache comandate dal Tenente Tommaso Withedenscky Force capitola. L’Ufficiale austriaco contravvenendo ad ordini superiori che impartivano “il disarmo incondizionato di tutti i repubblicani” concede a tutti gli ufficiali mazziniani dei salvacondotti. Così Orsini, tagliata la barba e qualificandosi come il Sottotenente Francesco Pinelli, riuscì a sgattaiolare fino a Foligno.
Ad Ascoli nel frattempo, caduta San Benedetto del Tronto in mano austriaca, il 21 giugno vengono abbattuti l’Albero della libertà in piazza del popolo e riposizionati gli antichi stemmi del Papa. Il giorno dopo le truppe austriache acquisiscono la città marchigiana. Sono comandate da un viennese Maggiore Karl Streel il quale con un proclama ordinava come venisse ristabilito il Governo Pontificio e decaduto quello repubblicano: la città dopo il Te Deum in Cattedrale, aveva per le strade urla festanti inneggianti Pio IX. Gli austriaci lasciarono l’ascoli papalina il 5 luglio, con il comandante Streel, vero gentiluomo e militare, esprimersi nei confronti degli ascolani con queste parole: “ottimi cittadini per la esemplare condotta tenuta nel ripristino del Governo Pontificio”.
Il ristabilimento dello Stato Pontificio nella città di Ascoli Piceno, sembra anche segnare la fine della carriera avventurosa di Matteo Costantini detto “Sciabolone”, che viene arrestato dai reazionari – suoi antichi compagni d’arme – il 28 luglio con l’accusa di furto, concussione, rapina; trasferito nel carcere di Fermo, dopo processo, fu condannato al carcere a vita. Morirà da cattolico, il 13 novembre nel carcere di Ripatransone alle 12:00 del anno del Signore 1849.
Giovanni Piccioni da alcune lettere ritrovare tra scambi epistolari di alte gerarchie pontificie, emerge in senso positivo: si legge che il Piccioni sia stato «vero eroe che si è rovinato per l’attaccamento al Governo». La Santa Sede rimborsò tutti i montanari sanfedisti che avevano contribuito al ristabilimento del Governo pontificio, pagando un caro prezzo in beni materiali. Così furono concesse alle popolazioni dell’arquatano e del montegallese la somma di 2.000,00 scudi. Contrariamente Giovanni Piccioni non chiese nulla né per sé, né per la sua famiglia: i veri eroi, rovinati dalle orde repubblicane, nonostante fossero stati i leader più rappresentativi e artefici delle vittorie più clamorose degli scontri, evidentemente già aspettavano le prossime battaglie. Purtroppo la loro unica richiesta, non fu esaudita, poiché nella visita di Pio IX ad Ascoli il 17 e 18 maggio del 1857, il Pontefice si rifiutò di incontrare in udienza la sua famiglia, trincerandosi dietro una “ragione di Stato” (nel Palazzo Vescovile di Ascoli Piceno in Piazza Arringo, ancora oggi – al piano nobile – vi è la targa recanti lo stemma del Beato Pio IX per il suo soggiorno nell’ascolano). Al suo processo (nel 1864) che lo vedrà condannato a 16 anni di carcere, egli parlerà della sua esperienza: «nel 1848 erasi stabilita in Roma una cosidetta “Direzione Organica” ad oggetto di sostenere in questa Provincia il Governo Pontificio. La Direzione mi incaricò di organizzare un Battaglione Pontificio di Volontari, di cui fui fatto Maggiore. Restaurato il Governo ne ebbi una medaglia ed una pensione di 3 Scudi Romani al Mese».
 
Per approfondimenti
_Galanti Timoteo, Dagli Sciaboloni ai Piccioni - Il "brigantaggio" politico nella Marca pontificia ascolana dal 1798 al 1865 - Edigrafital, Roma, 1990; _Giorgio Enrico Cavallo, Risorgimento: guerra alla Chiesa, Edizioni Radio Spada, Carmenate, 2020; _Don Luigi Pastori, Ascoli sotto l'albero della libertà. Manoscritto n°40, Biblioteca AP, Montalto, 1940; _Giovanni Spadoni, L'insorgenza marchigiana durante il Regno italico; _Archivio di Stato di Ascoli Piceno Governo Pontificio - Delegazione Apostilica, Fasc- 1-7 e 1-12, 1831; _Archivio Segreto Vaticano, Segreteria, Nunziature, 1833, busta 99-100; _Archivi parrocchiali esistenti nelle Chiese di: Arquata, Acquasanta Terme, Castel Trosino, Chiesa del Carmine (AP), Ceraso, Farno, Fleno, Lisciano (AP), Montegallo, Mozzano, Piedicava di Acquasanta, Pascellata, Rocca Monte Calvo, San Gregorio, Santa Maria a Corte, Valle Castellana, Venarotta, 1750 - 1870; _Enrico Liburdi, La rivoluzione del 1831 nelle Provincie di Fermo e Ascoli, Macerata, 1935; _Domenico Spadoni, Il Governo pontificio ed i primi processi carbonici marchigiani. Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le Marche, 1916.  
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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a cura di Stefano Scalella
09 ottobre 2021 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Arch. Giuseppe Baiocchi
Modera: Diego Della Valle
Interviene: Dott. Orazio Maria Gnerre
 
Sabato 09 ottobre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 60°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L’evento ha visto la presenza del filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su “Konservative Rivolution – La rivoluzione-conservatrice tedesca”. La tematica introdotta dal presidente Giuseppe Baiocchi e moderata dal consigliere Diego Della Valle ha visto la presenza del sindaco di Ascoli Piceno dott.Marco Fioravanti. La Rivoluzione conservatrice tedesca - (Konservative Revolution) è stato quel movimento di pensiero, alquanto variegato, che si è sviluppato in Germania dalla conclusione della prima guerra mondiale, fino all'avvento del nazionalsocialismo. La prima riflessione che Gnerre ha posto al nutrito pubblico si è incentrata sul quesito di cosa rimane oggi di tali pensatori e se questa ideologia ha superato il secolo scorso. Il saggio, di Gnerre “Materiali. Reinterpretare la rivoluzione conservatrice”, è stato il tentativo di donare una nuova luce a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”. I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx. Autori come Spengler, Jünger, Freyer, Schmitt, Sombart e Heidegger saranno raccontati attraverso i concetti base del periodo: _l’opposizione alla modernità (intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-francese); _una nuova heimat unita; _nuovo corso all'idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca. A questi concetti Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio - tanto controverso nei termini - di "rivoluzione" e "conservazione", ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall'eternità della storia occidentale: _la natura fondamentale dell'uomo; _la preservazione del senso, propriamente inteso umano; _analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma. Questi pochi concetti elencati sono stati espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre ha definito come “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».

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a cura di Stefano Scalella
25 settembre 2021 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Francesca Angelini
Modera: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Arch. Pier Carlo Bontempi
 
Sabato 25 settembre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 59°incontro dell’associazione culturale onlus Das Andere. L’evento ha visto la presenza dell’architetto Pier Carlo Bontempi, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su “Architettura e Tradizione. L’architettura come senso di appartenenza”. La tematica introdotta dalla Vice-Presidente Francesca Angelini e moderata dall’arch. Giuseppe Baiocchi ha visto la presenza del consigliere regionale Andrea Maria Antonini e del consigliere comunale Avv. Emidio Premici. L’associazione ringrazia anche la nuova presidente dell’Ordine degli Architetti di Ascoli Piceno Paola Amabili per il patrocinio legato allo stesso ordine che ha visto in rappresentanza il consigliere Arch. Luciano Spinozzi. Pier Carlo Bontempi ha riflettuto sull’architettura contemporanea rivelando le sue criticità odierne legate al completo abbandono dello studio dei luoghi, del decoro architettonico e degli elementi legati a metrica e bellezza. Bontempi riprendendo con grande maestria i trattati classici che hanno dettato le regole della civitas occidentale ha mostrato al nutritissimo pubblico presente il virtuosismo ingiustificato di alcuni manufatti edilizi, sviscerando l’errore di pensiero che si cela dietro opere che nulla hanno a che fare con la funzione e la tipologia che li riguarda. Particolare attenzione è stata data anche ai suoi lavori: edifici vernacolari o classici, ancorché di nuova costruzione, presentati spiegando la loro archè e la loro techne.

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di Giuseppe Baiocchi del 07-10-2021

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La Rivoluzione conservatrice tedesca (Konservative Revolution) è stato quel movimento politico-filosofico, alquanto variegato, sviluppatosi in Germania dalla conclusione della Grande Guerra (1918) all’avvento del nazionalsocialismo (1933). Siamo negli anni della nota Weimarer Republik (1918-33) di stampo socialista-liberale, che vide inizialmente l’opposizione del mero Mittelstand tedesco: piccoli e medi coltivatori, bottegai, artigiani, industriali, architetti, professori, fino ad arrivare ai Wandervögel e alle confraternite delle Burschenschaft.
Il minimo comun denominatore di questo coacervo intellettuale possiamo esprimerlo con l’opposizione alla modernità, intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-franco-americano (quelle plutocrazie decantate qualche anno dopo dallo stesso Benito Mussolini); si pensava anche ad una nuova Heimat unita e si stavano gettando le basi per un nuovo corso dell’idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca.
Lo stesso scrittore Thomas Mann (1875 - 1955), esponente di spicco dei letterati della rivoluzione conservatrice, si esprimeva su quella società non certo in maniera leggera: «Ma cos’è poi questo sviluppo, questo progresso di cui parlavo? Bisogna ricorrere a una masnada di parole maledettamente odiose e artificiose per dare un’idea di quello che vuol dire. Si tratta della politicizzazione, della letterarizzazione della Germania, della sua intellettualizzazione e radicalizzazione, della sua umanizzazione in senso politico.. si tratta della democratizzazione della Germania, o meglio di sgermanizzare la Germania».
Altri eminenti intellettuali – delle più svariate discipline – completavano uno scacchiere molto particolare: Oswald Arnold Gottfried Spengler (1880 - 1936), Ernst Jünger (1895 - 1998), Hans Freyer (1887 - 1969), Carl Schmitt (1888 - 1985), Werner Sombart (1863 - 1941) e Martin Heidegger (1889 - 1976).
Ciascuno di essi, provò ad unire la l’anima del popolo tedesco con la tecnica: ne furono esempio calzante le autostrade progettate dagli ingegneri tedeschi che si sforzarono di unire l’impianto tecnologico con uno adattamento ambientale sostenibile.
Una peculiarità di questo movimento rimane comunque l’essere molto variegato nell’elemento politico-ideologico. Intellettuali come Arthur Wilhelm Ernst Victor Moeller van den Bruck (1876 - 1925) da sempre contro la tecnologia, poiché vi era il rischio (oggi molto presente) di trasportare il popolo tedesco verso una deriva interiore, nichilista e priva di anima. Difatti la sua Germania che sarebbe succeduta al II Reich guglielmino sarebbe stata il nuovo pilastro contro il capitale anglosassone e il Comunismo russo. Oggi potremo, incappando anche in qualche errore dottrinale, inquadrarlo nel movimento dei “rossi-bruni”. Unito al pensiero di Bruck, vi era anche il giornalista Ernst Niekisch (1889 - 1967), per il quale la techne avrebbe logorato l’uomo tramite la corsa agli armamenti e successivamente questo sarebbe stato distrutto dalle future guerre moderne. Entrembi questi autori etichettavano la tecnica come il nuovo demone dell’umanità.
Questi autori furono certamente una cerchia ristretta, poiché la stragrande maggioranza difendeva la tecnica come utile al piano di sviluppo per una patria forte ed unita.
Ad esempio per Ernst Jünger, eroe della Prima Guerra Mondiale, la guerra diviene per l’uomo non divoratrice, ma «esperienza creatrice» che avrebbe creato nell’individuo temprato una nuova «forma d’acciaio». Il filosofo tedesco, in parte nichilista, amava sovente ripetere il binomio vita-morte, ovvero «vivere significa uccidere»: l’esaltazione dell’esperienza del fronte, di quella Fronterlebnis, servivano come reunion di tutti gli ex combattenti che non riuscivano più – dopo gli sconvolgimenti della Grande Guerra – a riadattarsi ad una vita civile normalizzata. Il suo letterario «realismo magico» del fronte, pieno di descrizioni mozzafiato e splendide metafore evocative e di impatto, lo fecero entrare del ghota della letteratura, con l’appellativo di “letteratura jüngheriana”.
L’esaltazione – e non la dimenticanza (come accadde invece in Italia) – dei “Titani”, ovvero di questo uomo forgiato dalle “tempeste d’acciaio” rendevano per Jünger l’uomo alemanno-tedesco simile ai figli ribelli degli Dèi, chiamato a compiere imprese che avranno (ed hanno avuto) dello straordinario. Per il tedesco la Geistgemainschaft, questa comunità liberale che prendeva vita era insufficiente: occorreva bensì la creazione di una comunità di sangue o Blutgemainschaft: da qui nasce quella figura chiave, tanto cara a Jünger, del soldato-operaio. Quest’ultimo è forte e viene paragonato alla Patria stessa, poiché lo racchiude e per la quale bisogna vivere e morire – sacrificarlo sull’altare della Patria in sostanza.
[caption id="attachment_12523" align="aligncenter" width="1000"] Carl Schmitt - Con Ernst Jünger a Parigi (Rambouillet), 1941. [/caption]
Da qui anche il binomio del soldato-operaio/Grande Guerra, poiché in nome di questa, furono sacrificati migliaia di uomini, rendendola una guerra delle masse. Sempre lucido precursore Jünger aveva anticipato nei suoi scritti la Blitzkrieg hitleriana o guerra lampo: l’innovativa tattica bellica – di potenza di fuoco e velocità – che avrà il suo battesimo di fuoco in Polonia (1939) e si concluderà qualche anno dopo in Russia (1942). Infine il filosofo di Heidelberg concludeva le sue dissertazioni con la speciale missione – tutta tedesca – di salvare il mondo dalla perdita di spiritualità: quella chance storica che fu ripresa dallo stesso Heidegger.
Certamente – di tutto il periodo – il saggio “Il tramonto dell’Occidente” rappresenta il culmine di questo pensiero socio-politico. A scriverlo è Oswald Spengler, storico e filosofo tedesco.
Per il bavarese il male è rappresentato dal denaro, dall’economia e non dalla tecnica in quanto tale. Era proprio il conio artefice di questo mercantilismo, ad essere la principale causa della paralizzazione della “macchina tedesca”. Il mercato non doveva essere regolato dal valore di scambio merce, ma dal valore d’uso d’opposto. Chiaramente qui, la figura dell’ebreo emerge con forza: elemento che praticava da secoli lo strozzinaggio, spesso perché costretto da una società verso la quale non volevano amalgamarsi in quanto “popolo eletto”.
Il nuovo mondo ipotizzato e tanto più sperato della sua massima opera citata pocanzi, egli immagina un mondo “faustiano” abitato da un «uomo nuovo» che sappia coniugare la sfera dell’anima e quella della tecnica in un tutt’uno inscindibile. Importante, quasi vitale, per compiere questo progetto sarebbe stato per Spengler, quello di non far confluire la tecnica all’interno dell’elemento culturale: solo così si potevano raggiungere e successivamente “battere” le culture legate al liberalismo e alla democraticizzazione. Al pacifismo ipocrita, si contrapponeva quello dello slancio vitale della guerra, vista in matrice positiva, in quanto avrebbe creato proprio questo nuovo mondo, distruggendo chiaramente il vecchio: dunque la distruzione non era più inquadrata come matrice negativa.
A differenza di questi “modernisti reazionari” il filosofo Martin Heidegger, era convinto dell’inconciliabilità tra tecnica moderna e anima tedesca. Temeva certamente la potenza Sovietica russa e parallelamente era preoccupatissimo del modello statunitense americano dove vigeva quella che lui definiva la “tecnica demoniaca”. Per questo la sua adesione iniziale al nazionalsocialismo – fu molto vicino alle Camicie brune (Sturmabteilung – S.A.) –, rappresentò quella sua speranza ideologica che vedeva la Germania cogliere quella chance storica di guidare l’occidente, di intravvedere nell’uomo tedesco le caratteristiche elleniche dell’uomo greco, capace di plasmare la storia europea e di guidarla. Il partito di Hitler significava coniugare l’anima dell’uomo tedesco con la tecnica per il giusto fine – sia in chiave morale, che in chiave etica, ma come spesso accade, chi pensa in grande, è destinato a sbagliare in grande. Solo più tardi Heidegger si rese conto che il cuore del nazionalsocialismo era “meccanico”, che la sua volontà si basava unicamente sulla tecnica tanto odiata. Non sono un caso le sue dimissioni dalla Cattedra di Friburgo, dove era rettore (ed al cui posto entrò un certo Alfred Ernst Rosenberg, 1893 - 1946). Heidegger aveva chiaramente compreso quello scivolamento ideologico che stava compiendo il partito nazionalsocialista in Germania, poiché comprese con lucidità come i colori bianco-rosso-neri non erano dalla parte dell’Essere, né da quella del Volk tedesco, ma unicamente da quella volontà di potenza, nemica di Heidegger e correlata invece ad Hitler.
[caption id="attachment_12524" align="aligncenter" width="1000"] Il 21 aprile 1933 Heidegger viene eletto rettore alla Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, prendendo il posto del dimissionario Wilhelm von Möllendorff (1887-1944), il quale, eletto l'anno precedente, aveva tentato senza successo di ritardare l'attuazione della legge del 7 aprile che metteva in congedo tutti i professori di origine ebraica. Heidegger viene proposto da un gruppo di docenti nazionalsocialisti guidati da Wolfgang Aly (1881-1962) e Wolfgang Schadewaldt (1900-1974). Il voto a favore di Heidegger è pressoché unanime: gli unici 13 voti che non lo appoggiano, su 93 disponibili, sono proprio i voti dei professori "ebrei" che in virtù del decreto attuato dal Gauleiter per il Baden, Robert Wagner, non possono essere conteggiati. Va attestato che dei restanti 80, solo 56 presero parte alla votazione. Il 1º maggio dello stesso anno, in quanto condizione prevista per assumere ufficialmente l'incarico, si iscrive al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Il 27 maggio si insedia ufficialmente al rettorato, tenendo il famoso discorso Die Selbstbehauptung der deutschen Universität ("L'autoaffermazione dell'università tedesca"). Si dimetterà un anno dopo, nel 1934. [/caption]
Per quanto concerne l’economista Carl Schmitt il decisionismo politico rappresentò il superamento di un certo romanticismo in chiave politica. Decisionismo che doveva però poi portare verso una stabilizzazione del Paese, che sarebbe rimasto unito e forte. Anche per questo l’avvento di Hitler rappresentò per il teorico di Plettenberg un’occasione che si rivelò presto sbagliata. Difatti il decisionismo e la concretezza nazista iniziale furono ben accolte da Schmitt per far tornare la Germania un Paese non più indebitato e sconfitto con un alto tasso di inflazione, ma unito e forte. Contrariamente a Heidegger, la tecnica rappresentava uno strumento importante per la buona riuscita di questa nuova società, la quale sarebbe dovuta poi essere guidata con una politica di parsimoniosa neutralità, la quale sarebbe poi servita per consolidare l’aspetto unificato di politica, economia e filosofia. Schmitt poneva l’accento sull’autonomia, nonché il predominio della politica su tutte le altre sfere. Chiaramente le ideologie schittiane erano molto diverse da quelle che aveva in testa Hitler, il quale contrariamente – una volta raggiunto il potere (1933) – ambiva sempre nel non dare mai nessun punto di riferimento, sia politico che militare sulle proprie intenzioni venture: eterno mutamento e stato perenne di provvisorietà. Ciò contrastava fortemente con le convinzioni di Schmitt, di quella neutralità e stabilità tanto ambiti che vedranno nell’inizio del Secondo conflitto mondiale il suo tramonto ideologico.
L’importanza di Freyer si deve alla scintilla ideologica di aver voluto fortemente l’unione inscindibile – all’interno del movimento – della tecnica con l’anima. Tale corrente fece superare le antinomie tra romanticismo e positivismo. Per rendere accettabile al popolo tedesco la tecnica, Freyer iniziò una meticolosa ricerca sulle origini di un pre-capitalismo della Germania, così da unire la tecnica stessa al sentimento di repulsione al capitalismo. Nasce la «reificazione» del sociologo di Lipsia, ovvero la capacità interiore di re-introdurre antiche e archetipe convinzioni sotto forma di nuove e stimolanti ideologie. Il Volk (popolo) diviene così il nuovo protagonista principale di questo nuovo spirito creativo. Esso si opponeva con tutte le sue forze ai processi d’industrializzazione della Germania e voleva pertanto riaffermare il predominio della politica sull’economia. Come scrive Marco Apolloni «Se nell’ideologia della sinistra l’emancipazione dal campo economico si concretizzava con la rivoluzione proletaria, nell’ideologia della destra questo superamento si manifestava con l’affermazione di uno Stato autocratico e verticistico – Volk e Stato, perciò, divennero una cosa sola». Freyer divenne così un “modernista reazionario” ostile di certo alla società che governava allora la Germania.
Forse, nell’antisemitismo che vigeva chiaramente in tutta Europa, negli autori della Rivoluzione Conservatrice, possiamo inquadrare in Sombart il più fiero oppositore del popolo ebraico. Si impone tra i pensatori politici per la denuncia al parassitismo degli ebrei, trovando in essi un autentico capro espiatorio. Il “popolo eletto” secondo l’autore di Falkenstein, aveva dato vita ad un regime economico di strozzinaggio, infiltrandosi capillarmente nei diversi strati della società, paralizzarono l’operosa vita del tedesco. Se per Spengler la colpa dei mali della Germania era del denaro e per Heidegger invece delle macchine, per Sombart non c’era alcun dubbio: tutta la colpa era degli ebrei, i quali divengono i fondatori del capitalismo moderno, il cui risultato più evidente è stato lo sviluppo di una civiltà nichilista, senz’anima. La costrizione secolare ad occuparsi solo di finanza e all’interno di ghetti controllati, per la loro difficile assimilazione nella società, fece sì che potessero essere inquadrati, da tale pensiero, come i veri inventori delle banche e il loro giro d’affari arrivò ad essere tale da estendersi anche ai non ebrei, che sempre più si rivolsero loro per chiedere ingenti somme di denaro, che dovevano poi essere rese con gli interessi raddoppiati.
Il popolo ebraico diviene inoltre molto pericoloso per via della loro teologia disincantata in cui l’uomo è costretto a lottare strenuamente contro le potenze ostili della natura e dove viene posto di continuo l’accento sull’eccezionalità del popolo ebraico in quanto «popolo eletto» dal Signore; per un iper-intellettualismo razionalizzante, che li porta ad eccellere nelle professioni in cui viene premiata l’astuzia – la giurisprudenza, il giornalismo, il teatro e per via anche dell’origine «orientale» del popolo ebraico conteneva già in sé, secondo Sombart, il loro destino è il mercantilismo: il loro nomadismo di creature del deserto li portò a raggiungere terre come la Germania, dove invece vi erano creature della foresta. Mentre le prime erano assai pragmatiche, inclini al mercanteggiare e per ciò stesso prediligevano la quantità alla qualità; viceversa le seconde erano naturalmente predisposte alla speculazione astratta, vivevano in una dimensione magico-onirica e pertanto prediligevano altresì la qualità alla quantità. La loro provenienza dal deserto e la loro notevole dimestichezza col denaro davano al lettore un’idea piuttosto chiara degli ebrei: creature fortemente instabili come il deserto e impalpabili come il denaro. Essi, privilegiando gli aspetti astratto-quantitativi, sostituirono al valore d’uso dei tedeschi per la merce il loro ben più effimero valore di scambio. Perciò ecco qua come per Sombart tra ebrei e tedeschi si stendeva un abisso incolmabile e per ciò stesso lui dirottò gli indistinti sentimenti anti-capitalistici in ben più precisi sentimenti di vero e proprio odio contro gli ebrei. Per Sombart dunque: non la tecnica, bensì il bieco capitalismo ebraico doveva essere sconfitto per assicurare un radioso futuro alla Germania. Il suo auspicio trovò fertile terreno d’incontro con l’ideologia nazionalsocialista. Questa, infatti, tra i suoi piani si prefiggeva: quello di assestare un colpo decisivo al capitalismo mondiale, coltivando al contempo il potente strumento della tecnica moderna: la quale avrebbe fatto rimanere la Germania al passo degli altri paesi, portandola cosicché alla vittoria finale.
Quando arrivò la guerra, dunque, questo movimento ideologico confluì all’interno del nazionalsocialismo e quando anche gli ultimi reticenti, capirono che in qualche modo Adolf Hitler aveva ingannato i loro buoni propositi, l’operazione Valchiria (1944) fu in qualche modo l’ultimo tentativo di questo movimento scomparso di imporsi nuovamente nella storia.
[caption id="attachment_12525" align="aligncenter" width="1000"] Due dei principali volumi sull'argomento. Il primo (Herf) traccia una linea storica e antropologica del periodo; il secondo (Gnerre) reinterpreta tale movimento, traslandolo su princìpi contemporanei. [/caption]
La Rivoluzione Conservatrice dunque è stata una corrente di pensiero nata per continuare il risanamento degli errori irrisolti provenienti dalla Rivoluzione francese e parallelamente un tentativo di rinnovare l’ideologia legata all’industria. L’irrazionalismo e la tecnica formavano per l’ideologia nazionalsocialista un unicum, diversamente dal pensiero degli autori. Quindi si era smarrito il confine tra ideologo e tecnocrate, tant’è che non si comprendeva più il confine tra l’uno e l’altro.
Chiaramente la tecnica, usata ampiamente dai loro “avversari ideologici” anglosassoni, era per così dire giustificata – sotto il nazismo – poiché funzionale al cambio del mondo tanto caro al movimento, ma il mero asservimento alla téchne da parte del partito, e la disillusione militare faranno fuoriuscire i membri della Rivoluzione conservatrice dal sistema politico tedesco degli anni Trenta e Quaranta, forse però, troppo tardi.
Oggi, dunque, nella pienezza di quella crisi del soggetto che fa «splendere di sventura» l’uomo occidentale, cosa rimane? Il nuovo saggio Materiali della rivoluzione conservatrice (2021), scritto dal filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, è stato il tentativo di donare una nuova interpretazione a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”.
I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx. Ai concetti già espressi in precedenza sul filone anti-moderno per eccellenza, Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio - tanto controverso nei termini - di “rivoluzione” e “conservazione”, ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall’eternità della storia occidentale, come la natura fondamentale dell’uomo; la preservazione del senso, propriamente inteso umano e l’analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma.
Questi pochi concetti elencati sono espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre definisce “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».
Per approfondimenti
_Herf Jeffrey, Il modernismo reazionario - Tecnologia, cultura, politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Il Mulino, Bologna, 1988;
_Mann Thomas, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997;
_Jünger Ernst , L'operaio - Dominio e forma, Guanda, Parma, 2020;
_Spengler Oswald, Il tramonto dell'occidente - Lineamenti di un morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano, 1957;
_Gnerre Orazio, Materiali - Reinterpretare la rivoluzione conservatrice, Editoriale Librai, Napoli, 2021.
_Benoist Alain de, Quattro figure della Rivoluzione Conservatrice tedesca. W. Sombart, A. M. van den Bruck, E. Niekisch, O. Spengler, Controcorrente, Napoli, 2016;
_Feinmann José Pablo, L'ombra di Heidegger, Neri Pozza, 2007;
_Sombart Werner, Gli ebrei e la vita economica, AR, Avellino, 1989.
 
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