[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1517867994856{padding-bottom: 15px !important;}"]Girolamo Romanino: drammatico e vernacolare[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Michele Lasala 06/02/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1518084260534{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Romanino è un pittore composto, misurato, «bonissimo pratico e buon disegnatore», come scrive Vasari; ma anche bizzarro, fantasioso, innovativo. Nato tra il 1484 e il 1487 a Brescia, si forma tra la sua città natale e Venezia, guardando con molta attenzione il più intimo tra i pittori lagunari: Giorgione, rimanendone estasiato. La prima testimonianza della sua aderenza ai modi del maestro di Castelfranco è una vaporosa e poetica Madonna col Bambino (Parigi, Louvre), in cui tutto sembra così evanescente, così onirico: dalle carni alla verzura, dalle vesti al paesaggio che si apre sullo sfondo, un paesaggio che sembra per un momento evocare i paesi sognati da Klee. Ma già nel Compianto di qualche anno dopo, Romanino dimostra di aver appreso anche la lezione di Tiziano, e quell’intimismo di matrice giorgionesca si smorza quasi del tutto.
[caption id="attachment_9846" align="aligncenter" width="1012"] Girolamo Romani, detto il Romanino (Brescia, 1484 – 1562), è stato un pittore italiano.[/caption]
Dopo una breve sosta nell’Eremo di Sant’Onofrio a Bovezzo, dove esegue alcuni affreschi a contatto diretto con Altobello Melone, Romanino giunge a Padova nel 1513 e vi realizza la Pala di santa Giustina, un’opera che presenta delle affinità con la più nota Pala Martinengo di Lorenzo Lotto, realizzata a Bergamo tra i 1513 e il 1516. Una grande tavola, questa del Lotto, con cui il pittore introduce un linguaggio del tutto nuovo, mai visto prima, mai pensato in terra orobica: quello caldo e suadente della serenissima pittura veneziana, con l’aggiunta però di qualche elemento ironico e scherzoso, cifra inequivocabile della sua mano. E Romanino deve averla certamente osservata.
La Pala di Santa Giustina ha infatti uno schema simile a quello della pala lottesca. Due opere simili, somiglianti, ma quanto lontane l’una dall’altra! Tanto dinamica e giocosa quella del Lotto, quanto composta e concentrata quella del Romanino. Tanto libera nella sintassi la prima, quanto rigorosa la seconda. Lotto si permette di riscrivere la grammatica dell’iconografia tradizionale della sacra conversazione e risistema nello spazio della pittura, a proprio piacimento, tutti gli elementi. Gli angeli che sorreggono la corona non stanno semplicemente a mezz’aria, ma galleggiano attraversati da un fresco vento che muove le loro vesti leggere così come i loro capelli; la Madonna si scompone un po’ e con un gesto della mano cerca di tenere calma la folla di santi lì in basso; il Bambino si contorce e dà la benedizione quasi distrattamente a quei signori incappucciati e in maschera sotto di sé; san Sebastiano si distrae e languido ci guarda perché accortosi della nostra presenza; i puttini ai piedi del trono si divertono perché non riescono a sistemare il lenzuolo sul basamento di marmo bianco. Tutto questo manca nella pala del Romanino: la Madonna sta in alto pensosa sul suo trono; i santi sono concentrati, silenziosi, immobili, soli; gli angeli, ai lati della Vergine, sorreggono la corona e sembrano stanchi per le troppe ore di posa, senza poter batter ciglio né poter sgranchire le gambe; ai piedi del trono non ci sono puttini schiamazzanti, ma un angelo musico, dalle belle forme paffute, con in mano un tamburello che forse non ha mai suonato. Anche l’architettura, nella pala del Romanino, entro cui fanno la loro comparsa le figure, sembra troppo rigida, classica: memoria del Bramante milanese. In Lotto, invece, le forme architettoniche sono più morbide, e i pennacchi ben visibili in alto accompagnano con l’eleganza delle loro geometrie la lirica danza degli angeli.
[caption id="attachment_9847" align="aligncenter" width="1000"] Pala di Santa Giustina - Padova, Musei civici agli Eremitani.[/caption]
Romanino qui attinge a piene mani agli schemi della tradizione lombarda, e a un’aria colma di umori, tipicamente lagunare, preferisce così un’atmosfera più solenne, più aulica, più formale, dove il sacro rimane sacro e il profano resta profano. Senza possibilità di confondersi e di fondersi l’uno nell’altro. Romanino guarda sì Tiziano e Giorgione, oltre che al Lotto, ma in verità la sua pittura non sarai mai puramente tonale. L’accordo e l’equilibrio che Romanino cercherà di realizzare tra maniera lombarda e colorismo veneto avrà però esiti sorprendenti e inaspettati. La luce resterà per il pittore un elemento superficiale, capace di far risaltare la brillantezza delle stoffe e il metallo delle armature; e le scene saranno affollate da uomini analfabeti che parlano il dialetto; un variopinto repertorio di visi e di profili preso direttamente dalla strada. Così, se il Romanino nelle prime opere è composto e sobrio, quasi marmoreo, e dove le figure sono statiche quasi quanto le architetture, in quelle della maturità è popolare, vernacolare, al limite del caricaturale. E ciò lo vediamo chiaramente nei maturi affreschi realizzati nella chiesa della Madonna della Neve a Pisogne nella prima metà del quarto decennio, dove, nella scena della Crocifissione, una Maddalena dalle forme tozze e per nulla eleganti, e dal viso imbambolato, vacante e incantato, si aggrappa come fosse un koala alla croce, e pare fatta non di carne ma di gommapiuma; una marionetta. Si noti anche il gruppetto di quei balordi, all’estrema destra della composizione, che giocano ai dadi perché hanno scommesso qualcosa e sono stoltamente indifferenti al dramma che si sta compiendo.
Ma già negli affreschi del duomo di Cremona del 1519, il pittore acquisisce una certa libertà nell’esecuzione. Nel duomo cremonese, il carattere di Romanino si può rapportare a quello del manierista ed esplosivo Pordenone, che lavorerà nel medesimo luogo. Le sue storie della Passione di Cristo sono la perfetta antitesi di quelle del de Sacchis. Se Pordenone riempirà tutto lo spazio a disposizione con figure robuste e non lascerà respirare, colto da una sorta di horror vacui, Romanino preferisce spazi scanditi da classiche architetture, e fa uso di una luce chiara e cristallina per descrive meticolosamente le superfici degli archi e dei colonnati eburnei, così come per descrivere quelle dei corpi di ogni singola figura agghindata o seminuda. C’è molta verità in queste drammatiche scene del Romanino, e da buon lombardo quale è, egli si esprime senza alcuna reticenza; indugia, piuttosto, alla Dürer, sul più piccolo difetto riscontrabile nelle cose reali e lo accentua, ce lo fa vedere, non lo nasconde. Comprese le smorfie e le più meschine abitudini della gente rozza e popolana. Ed ecco allora il muschio, ora qua e ora là, deturpare romanticamente gli edifici; occhi curiosi affacciati ai parapetti per vedere fin dove la cattiveria dell’uomo arrivi; abiti alla moda e dalle pregiate stoffe occupare quegli spazi freddi che parlano solo di decadenza e di morte, e che sembrano abbandonati anche da Dio. E questo realismo, così schietto e così evidente, arriva a concentrarsi nello sguardo obliquo del Cristo alla colonna mentre viene flagellato. Solo Romanino poteva dare al Redentore un’espressione così umana. Veloce corre il pennello del bresciano in queste storie, come a voler rincorrere un pensiero subitaneo, un’idea improvvisamente spuntata nella sua testa accesa di immaginazione. Una rapidità che egli non perderà mai. In alcuni momenti della sua lunga e prolifica attività pare addirittura anticipare la pittura impressionista, ossessionato com’è nel catturare ogni attimo, ogni aspetto, ogni particolare, ogni variazioni di tono e ogni ombra della natura.
[caption id="attachment_9848" align="aligncenter" width="1000"] Il pannello illustra uno dei più famosi episodi biblici. Il Romanino, che ha affrescato la navata centrale del Duomo di Cremona illustrando le Storie della Passione di Cristo, ha però calato la scena in un contesto rinascimentale: la struttura architettonica che fa da sfondo e i costumi dei personaggi che animano l'affresco sono infatti di gusto cinquecentesco. La coppia di uomini nell'angolo sinistro sfoggia un particolare completo: l'ampio soprabito in damasco nero è forse una schaube, priva però di maniche. Le più miti temperature della penisola italiana permettono abiti smanicati e più leggeri, rispetto a quelli più pesanti visibili nei ritratti fiamminghi. Il taglio smanicato e scampanato della schaube, mette in mostra il saione rosso indossato dall'uomo dai capelli grigi. Le maniche lunghe e dritte, la gonna a pieghe lunga fino al ginocchio e il collo orizzontale e squadrato sono i tratti caratteristici di questo indumento maschile. Il saione è molto più lungo e coprente del tradizionale farsetto, motivo per cui gli uomini abbandonano le attillatissime calzebrache, preferendo ora delle più virili calzette, chiuse all'interno di un paio di scarpe a zampa d'orso. Lo scollo basso del saione permette alla camicia, accollata e sempre finemente lavorata, di essere vista. Il bianco della camicia, dell'orlo della gonna e del collo richiama il colore dei guanti, piuttosto insoliti in questa stagione della storia del costume. Un cappello con tesa rovesciata e legata sulla fronte completa il costume del personaggio.[/caption]
Dopo l’esperienza cremonese, Romanino è al fianco del Moretto per dipingere le tele della cappella del Sacramento in san Giovanni Evangelista a Brescia tra il 1521 e il 1524. E anche qui egli è drammatico e aspro. Poi saranno gli affreschi del castello del Buonconsiglio di Trento, negli anni Trenta, dove Romanino lavora accanto ai fratelli Dossi e al Fogolino, e dove la sua pittura vira finalmente verso una sensualità libera, sprigionata da quei corpi michelangioleschi che morbidi si stagliano sul cielo azzurro. Qui sono rappresentate diverse scene veterotestamentarie, Dalile e Giuditte alle prese con i loro Sansoni e Eoloferni. Figure gonfie d’aria che sembrano avere la stessa consistenza delle nubi.
Nella successiva tela con lo Sposalizio della Vergine, datata tra il 1540 e il 1545, quindi dopo l’esperienza in Valcamonica, Romanino ritorna alla sobrietà dei primordi, ma non rinuncia in alcun modo alla verità del dato naturale. Il momento è solenne, san Giuseppe e la sua sposa si scambiano sguardi profondi e colmi d’amore, eleganti le stoffe coi riflessi sulle pieghe, curiosi gli astanti. Sul margine sinistro della tela un ragazzo spezza sul ginocchio una verga, perché la sua non è fiorita come quella di Giuseppe e quindi non può sposare Maria. E tutte le teste, virili e muliebri, sono di una commovente bellezza.
Seguiranno, dopo questo Sposalizio, altri interessanti lavori tra Verona, Brescia e Modena. Sino agli ultimi anni Romanino esprimerà la sua poetica visionaria, instancabilmente. E l’ultima impresa sarà un affresco con la Predica di Gesù alle turbe in San Pietro a Modena nel 1557. Cinque anni più tardi Romanino si spegnerà, a Brescia, la città da cui tutto è partito e da cui ha avuto inizio la sua lunga e sorprendente avventura.
 
Per approfondimenti:
_Alessandro Ballarin, La salomè del Romanino - Bartoncello Arti grafiche;
_Giovanni Reale, Romanino e la sistina dei poveri a Pisogne;
_Piazzoli Angelo e Larovere Fabio, Romanino. Il testimone inquieto - edizioni 2016.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1517743341224{padding-bottom: 15px !important;}"]35°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Crisi e metamorfosi. Danilo Serra[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1517743312595{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nel suggestivo scenario della sala della poesia nel palazzo Bice Piacentini a San Benedetto del Tronto si è tenuto il primo evento del Circolo Culturale Sambenedettese dell’Associazione Das Andere, il terzo incontro della Rassegna culturale "Crisi e Metamorfosi".
Ospite del circolo è stato il giovanissimo filosofo siciliano Danilo Serra, classe 1991, dottorando presso l’Università degli Studi di Bergamo, il quale ha presentato la sua ultima relazione dal titolo "Addio alla verità. Il limite come cifra".
Il coordinatore ing.Giovanni Amadio, insieme al moderatore Alfredo Calcagni, hanno introdotto il programma associativo davanti ad un nutritissimo pubblico che ha visto la presenza di vari esponenti politici locali. Serra si è soffermato sul fenomeno del nichilismo, fenomeno di forte interesse contemporaneo. Nietzsche lo definisce come «il più̀ inquietante» (unheimlich) tra tutti gli ospiti, il più̀ allarmante, quello più̀ pre-occupante.
L’emergere del nichilismo (dal latino nihil, “niente”) ha condotto storicamente alla crisi della ragione e della metafisica, all’idea cioè che vi possa essere una verità unica afferrabile come principio di tutto.
L'impossibilità di rispondere alla domanda posta da Leibniz «perché [esiste] Qualcosa anziché Niente?» caratterizza l’epoca nichilista. Di forte interesse è stato infine il dibattito con il pubblico, al quale è susseguito l'aperitivo di benvenuto ai nuovi soci in collaborazione con il Partner Antico Caffè Soriano.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1516890954974{padding-bottom: 15px !important;}"]Antropologia lavorativa[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci 25/01/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1517869513140{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953).
Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali - «ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi - esso diventa un valore intrinseco.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.
Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.
Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asseriva come «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà», se l'attività si presentava manuale.
Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”. Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).
Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.
Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese Alain Caillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non è esclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnografiche concordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte del tempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti». Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto di accumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi (nota 1).
Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.
L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.
Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.
Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti i principali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono stati partiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hanno sacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuovere l’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizione sopra l’ingresso del lager di Auschwitz.
[caption id="attachment_9808" align="aligncenter" width="1000"] Wall Street è un film del 1987 diretto da Oliver Stone e prodotto negli Stati Uniti dalla 20th Century Fox. Nel fotogramma l'attore statunitense Michael Douglas veste i panni di Gekko[/caption]
Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista - così come i regimi comunisti - ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo - elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe - dell'ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.
[caption id="attachment_9809" align="aligncenter" width="1000"] Aleksej Grigor'evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (allora appartenente all'Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroe del lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (1936).[/caption]
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare - accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
 
Note:
_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 63-64;
_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1516466515047{padding-bottom: 15px !important;}"]34°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Brexit, la sfida. Il ritorno delle nazioni e della questione tedesca. Capezzone - Punzi[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1516467016710{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 20 Gennaio presso la Bottega del Terzo Settore si è svolto il 34°evento dell'associazione onlus Das Andere. Ospiti l'Onorevole Daniele Capezzone e il giornalista Federico Punzi. L'evento introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi ha visto protagonista un pubblico variegato, con i saluti di apertura del presidente del Consiglio comunale Marco Fioravanti.
Nell'ultimo anno la magnitudo britannica Brexit ha avuto effetti devastanti sull'opinione pubblica - di stampo fortemente europeista -, la quale ha drammaticamente demonizzato il fenomeno della libera scelta dei cittadini britannici. Federico Punzi prima, Daniele Capezzone poi, hanno dissertato sul vero significato di un'operazione politica complessa, dove è emerso unicamente il desiderio e il bisogno, da parte britannica, di continuare a perseguire il proprio interesse nazionale.
Rischio dell'Italia, diversamente, quello di accodarsi all'asse franco-tedesco, che propone un sistema economico sempre più centralizzato e sempre meno competitivo. Frizzante e di forte interesse le domande del pubblico che ha dimostrato - ancora una volta - grande preparazione disciplinare: giusto premio verso un saggio - edito da historica edizioni di Francesco Giubilei -, di grande coraggio e spessore.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1515841086523{padding-bottom: 15px !important;}"]33°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Meme. Linguaggio e identità digitale. Di Alessandro Poli[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1515842234859{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Venerdì 12 Gennaio è andato in scena il 1°evento del programma 2018 "Crisi e Metamorfosi" (33°evento) della Associazione culturale onlus Das Andere.
Alla presenza del vicesindaco Dott.Donatella Ferretti, il consigliere Dott.Alessandro Poli ha dissertato sulla tematica "MEME. Linguaggio e identità digitale". L'evento, presentato dal consigliere Dott.Giuseppe Lori, si è sviluppato intorno alla storia di Technoviking - il più longevo meme in circolazione -, attraverso il quale Poli, ha analizzato alcuni aspetti del linguaggio utilizzato dai meme, ed in particolar modo la loro capacità di creare e modificare identità reali e digitali. In aula, folta la presenza di studenti e professori.
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Occidente e Islam: scontro di civiltà?

[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Alessia Filippazzo 11/01/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1515666865092{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Oggi la religione islamica rappresenta una delle più grandi sfide che la parte occidentale del mondo è chiamata a fronteggiare: si assiste, infatti, ad un continuo scontro tra due «Weltaschauungen» che sembrerebbero destinate ad un'eterna incomunicabilità.
Il tema del rinnovamento dell'islam è presente negli scritti degli intellettuali musulmani fin dai primi decenni del Novecento: Bennabi, al-Jabri, Hanafi, Ramadan, Abu Zayd sono solo alcuni dei pensatori impegnati in quest'opera di ripensamento della religione islamica, che offrono spunti e riflessioni interessanti e assolutamente attuali. Mohammed Arkoun (nota 1), pensatore di origine algerina che ha trascorso gran parte della sua vita in Francia, riveste un ruolo particolarmente importante nella costruzione di un dialogo tra religione islamica e mondo occidentale: rispetto a molti degli altri pensatori islamici, egli sembra essere meno influenzato dal mito del progresso e della modernità che l'Occidente rappresenta per quelle popolazioni che hanno subìto il colonialismo.
[caption id="attachment_9761" align="aligncenter" width="1000"] Mohammed Arkoun (Taourirt-Mimoun, 1º febbraio 1928 – Parigi, 14 settembre 2010) è stato un islamista e filosofo berbero con cittadinanza algerina. È stato uno dei più qualificati studiosi dell'Islam. In oltre 30 anni di carriera di ricerca, è stato un intelligente critico delle tensioni legate ai processi di modernizzazione del mondo islamico, oltre che un coraggioso intellettuale, teso a sostenere e a difendere il riformismo e l'umanesimo islamico. Disegno di Mohamed Taa'eb[/caption]
Molti degli intellettuali islamici, infatti, tendono ad utilizzare gli strumenti concettuali occidentali, senza sottoporli a giudizio critico preventivo. Arkoun è riuscito a nutrirsi di cultura occidentale, pur mantenendo un proprio sguardo critico e attento sia nei confronti dell'Occidente sia nei riguardi della religione islamica, intuendo così la necessità di un duplice ripensamento che, attraverso un «lavoro di autocritica» , chiami le parti in causa a ridefinire il proprio rapporto con l'altro.
I testi di Arkoun abbondano di analisi filosofiche, storiche, sociologiche e antropologiche, ma sono caratterizzati da una forte asistematicità. Egli è stato un pensatore che non ha mai mirato alla sistematica elaborazione scritta delle tematiche che propone e pertanto, a prima vista, si ha l'impressione che nei suoi testi manchi una coerente struttura filosofica di riferimento. Le ragioni di questa asistematicità dipendono dal compito che egli, in quanto intellettuale arabo, assegna a se stesso. Non bisogna dimenticare, infatti, che le tematiche di cui tratta l'autore nascono principalmente non da un'esigenza intellettuale, ma dai problemi concreti vissuti dalle società islamiche da cui egli proviene.
L'autore assegna ai suoi testi una primaria funzione pedagogica, visto che, nell'analizzare le «posizione e funzioni dell'intellettuale», sostiene che il compito specifico del pensatore sia quello di essere un «ricercatore-insegnante-pensatore»: alla funzione interpretativa del ricercatore del pensiero, il quale tiene insieme la «tensione tra ragione religiosa e ragione filosofica», si aggiunge quella pedagogica, che deve fare i conti con la «forte tensione educativa tra i due campi, religioso e intellettuale».
Per queste ragioni, l'asistematicità di Arkoun è da imputare alla sua volontà di suscitare l'interesse sia di un pubblico più vasto, musulmano e non, sia degli studiosi delle numerose discipline occidentali (sociologia, antropologia, storiografia ecc.) che egli continuamente chiama in causa. È riuscito in parte nel suo intento: nei paesi francofoni i suoi testi sono letti e studiati dai sociologi interessati alla presenza islamica in Europa, oggetto di molte e accese discussioni soprattutto in Francia e in Belgio.
Ripensare l'islam, oggi più che mai, è un compito arduo e necessario. Assolvere ad esso significa decostruire – senza distruggere – un insieme di concettualizzazioni che tendono a reiterare una certa visione di tale fenomeno religioso, dentro e fuori lo spazio definito e caratterizzato dalla religione islamica. Tale è l'obiettivo di Arkoun, il cui richiamo alla necessità di un ripensamento dell'islam nasce dal fatto che, a suo dire, non esistono studi adeguati, completi e organici sia a livello contenutistico sia, primariamente, a livello metodologico. Egli, nutritosi di cultura occidentale della quale ha apprezzato gran parte dei presupposti e dei risultati criticamente costruiti, sottolinea però l'incapacità degli studiosi europei di rapportarsi senza pregiudizi con una cultura “altra”. Nei paesi caratterizzati dalla religione islamica, d'altra parte, sono quasi del tutto assenti quelle condizioni sociali, economiche e politiche che possano dare spazio ad un autonomo processo di riattivazione delle feconde componenti interne alla stessa religione islamica.
Il ripensamento dell'islam, dunque, ancor prima di aver compiuto il suo primo passo, si trova a scontrarsi con dei pregiudizi, per superare i quali sarà necessario sviluppare preliminarmente un metodo efficace per non ricadere negli errori di sempre. Arkoun sceglie la storiografia come strumento del ripensamento.
Perché la storia?
Arkoun afferma chiaramente che il suo obiettivo ultimo è quello di studiare «le condizioni di possibilità di una ricomposizione […] dello spazio mediterraneo al di là delle fratture, dei sistemi teologici d'esclusione reciproca delle comunità». Egli, in linea – ma solo in parte – con la teoria del clash of civilizations di S. P. Huntington , oppone le grandi civiltà che si affacciano sulle due rive del Mediterraneo: quella islamico-orientale e quella cristiano-euro-occidentale . La frattura tra i due soggetti culturali, che in passato hanno condiviso lo stesso spazio, può essere risanata solo tramite un «lavoro di autocritica» condotto da ciascuna cultura all'interno della propria tradizione attraverso un'«archeologia decostruttiva». Si tratta, insomma, di un lavoro retrospettivo di sé sul sé, capace di «aprire tutti i documenti sottratti all'investigazione degli storici» , per guardare alla «storia dei sistemi di pensiero e di rappresentazioni».
[caption id="attachment_9762" align="aligncenter" width="1000"] Samuel Phillips Huntington (New York, 18 aprile 1927 – Martha's Vineyard, 24 dicembre 2008) è stato un politologo statunitense. Uno dei massimi esperti di politica estera, consigliere dell'amministrazione americana ai tempi di Jimmy Carter, direttore degli Studi strategici e internazionali di Harvard, fondatore di Foreign Policy e autore di una ventina di saggi che hanno fatto la storia della geopolitica degli ultimi vent'anni. È noto per la sua analisi delle relazioni tra governo civile e potere militare, i suoi studi sui colpi di Stato e le sue tesi sugli attori principali del ventunesimo secolo: le civiltà che tendono a sostituire gli Stati-nazione.[/caption]
Ripensare la religione islamica significa, così, riscriverne la storia, di certo non per alterarne il passato, ma al fine di ricostruire un futuro: «La prospettiva della mia analisi è prospettica» , confessa Arkoun. Il valore del «lavoro storico di sé sul sé tramite il quale ogni gruppo, ogni nazione produce la sua identità» si misura in relazione ai «cambiamenti di fondo significativi riguardanti la rigidità sistemica delle rappresentazioni di sé e dell'altro».
Lo spazio mediterraneo diventa in tal senso il luogo emblematico di quel conflitto di civiltà che vede l'opporsi di Islam e Occidente e, al contempo, il luogo in cui la riconciliazione tra le due polarizzazioni diventa possibile. La condizione di possibilità della ricomposizione, infatti, Arkoun la ritrova nella presenza di un «Racconto di fondazione comune» alle tre religioni monoteiste, radicate nello spazio mediterraneo fin dal Medioevo. Egli sostiene che la modernità occidentale non ha affatto sostituito l'antico racconto di fondazione, ma che si è limitata a camuffarlo, aggiungendo ad esso nuovi strumenti di ricerca scientifica e mantenendo le speranze escatologiche della salvezza eterna travestite sotto il concetto di progresso. L'analisi del «fatto religioso nelle sue realizzazioni antiche e nelle sue manifestazioni attuali» dev'essere, dunque, innalzata al rango di degno oggetto di studio tanto nell'analisi interna ad ogni cultura, quanto nella ricerca di una riconciliazione tra civiltà in lotta.
Il ripensamento della religione islamica deve dunque avvenire attraverso l'analisi del fenomeno religioso di tipo monoteista, all'interno di un ambito in cui la religione venga considerata come «dimensione universale dell'esistenza umana»: il fenomeno religioso dovrà essere analizzato come processo culturale che compone e struttura un gruppo sociale. Si tratta, insomma, di fare una storia del pensiero e delle rappresentazioni religiose.
 
Per approfondimenti:
_M. Arkoun, Penser l'espace méditerranéen aujourd'hui, in Diogene 2004/2 (n. 206);
_M. Arkoun, Humanisme et islam, Vrin, Parigi, 2014, p. 141;
_M. Arkoun, La question éthique et juridique dans la pensée islamique, Vrin, Paris 2010, p. 141;
_S. P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World order, Simon & Schuster, New York 1996;
_M. Arkoun, Rethinking islam today, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 588, Islam: Enduring Myths and Changing Realities, Luglio 2003, p. 19.
 

Nota 1: Mohammed Arkoun, nato nel 1928 a Taourirt-Mimoun, in Algeria, ha condotto i suoi studi universitari tra l'Università di Algeri e la Sorbona di Parigi, dove ha concluso il corso di dottorato nel 1969. Ha insegnato come professore ordinario all'Università della Sorbona e collaborato con le università delle maggiori città europee e statunitensi. È scomparso nel 2010 a Parigi.

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Quando pronunciamo la parola “crisi”, oggi, primariamente pensiamo all’aspetto economico che tale concetto abbraccia. Ci soffermiamo, quasi inconsciamente, solo sull’idea che la crisi, intesa a livello globale, sia un fenomeno solamente economico e che intacchi solo e soltanto la vita occupazionale e lavorativa dell’individuo. Certamente la crisi economica mondiale che il mondo sta affrontando, da più di dieci anni, è un qualcosa la cui concretezza risulta ineluttabile, ma dietro di essa vi è un immenso scenario che comporta anche una crisi a livello morale che mina lo spirito del tempo, plagiando la mente dell’uomo.
La crisi morale del nostro tempo, più post-moderna che mai, risulta essere la ragione che manteneva in auge il pensiero illuministico (1). Il postmodernismo, che risulta essere il prodotto finale di un cambiamento di rotta del modernismo, è strutturato su concetti come l’effimero, il fugace, l’incerto, il frammentato e discontinuo, tutte idee che fanno capo alla rappresentazione universale di un individuo che da un punto di vista esistenziale viene definito come “nomade”.
Lo stato di nomadismo è identificativo del postmoderno, il non essere mai fermi, stanziati e strutturati in un’unica posizione, questo prevede la condizione postmoderna. Tale condizione però bisogna circoscriverla all’interno di un immaginario concettuale che prevede una condizione esistenziale incerta. L’uomo, vivendo la condizione di nomade, all’interno di una società che in questa sede definiamo come post-moderna, ma che allo stesso tempo, in virtù delle tesi di Zygmunt Bauman, definiamo anche come “liquida” (2), vive una condizione di un’incertezza assoluta.
Tale entità è generata dalla consapevolezza di un continuo cambiamento, di una realtà in divenire in cui si è immersi e di un’impossibilità da parte dell’individuo nel cercare di mantenere intatta una propria forma esistenziale statica.
C’è una certa affinità tra la liquidità della società di Bauman, che vede un uomo gettato in un mondo che tende a rendere obsoleto ogni risultato raggiunto, e la condizione esistenziale del postmoderno che tende sempre a distruggere tutto ciò che siamo, abbiamo e conosciamo in virtù di una società caratterizzata da un’implicita tendenza alla continua trasformazione. Le due posizioni sono due facce della stessa medaglia che si implicano perché condividono una matrice comune che è identificata da una condizione esistenziale che non poggia su basi sicure. Ma tale incertezza, di cui dipaniamo l’ontologia, da cosa sembrerebbe radicata?
Vi è un autore di matrice neo-marxista, Fredric Jameson, che riporta tutta la condizione postmoderna a un’evoluzione ideologica del tardo capitalismo globalizzato: “Tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo". (3)
Non è una posizione errata quella del pensare di poter accomunare la condizione incerta che vive l’uomo postmoderno a un eccessivo e pervasivo capitalismo che si muove verso il mondo, plagiando l’uomo nel processo di legittimazione (e dunque, normalizzazione) dei campi di sapere che costituiscono l’identità delle società.
Su questa scia si innesta la morte di uno sfondo ideologico che aveva caratterizzato la condizione moderna, la quale prevedeva l’egemonia di una razionalità illuministica volta al progresso. Il post-modernismo si identifica con tutta una fenomenologia della sovversione di quegli ideali che avevano caratterizzato la modernità e che nel loro dileguarsi hanno portato con sé il dileguarsi di quel periodo storico. La condizione postmoderna, avendo disgregato una precedente razionalità che muoveva la coscienza dell’uomo, ha gettato gli individui nell’assoluta mancanza di punti di riferimento, causata da una società totalmente decentralizzata da un punto di vista politico, dunque, identitaria e morale.
[caption id="attachment_9742" align="aligncenter" width="1000"] Fredric Jameson (Cleveland, 14 aprile 1934) è un critico letterario e teorico politico statunitense.[/caption]
Il capitalismo incalzato più che mai da uno sviluppo tecnologico della società, che necessita di un immenso processo economico che la sorregga, ha portato lo stato sociale ad essere come un fiume senza argine che nel suo continuo divenire del flusso dell’acqua è come se variasse in ogni punto e in ogni momento. L’uomo non ha la possibilità di alimentare la propria soggettività, dunque, per stare al passo il continuo cambiamento dell’assetto sociale sopprime il proprio sé.
Jean-François Lyotard, autore de “La condizione postmoderna” (1983), spiega come la nascita del postmoderno sia identificata con l’avvento delle società industriali, a capitalismo avanzato ed eccessivamente informatizzate. Questa tesi identificativa viene collaudata da qualsiasi processo analitico nei confronti della costituzione di questo periodo storico, poiché le condizioni economiche e tecnologiche in continuo sviluppo quantitativo hanno plasmato la società in cui la comunicazione è dominata dal potere dei media. Lyotard, nel momento in cui sviscera le componenti costitutive del postmodernismo prende una posizione critica nei confronti di ciò che precedentemente erano stati i grandi racconti filosofici: illuminismo, idealismo e in fine marxismo. Racconti filosofici che l’autore chiama “metanarrazioni”. Queste, che si sono identificate come vie di salvezza per l’uomo, al fine di trovare un’emancipazione e un progresso per quest’ultimo, in realtà agli occhi di Lyotard hanno rappresentato un colossale fallimento, poiché l’uomo alla fine non si è ritrovato in una condizione emancipata e libera da quei problemi socio-politici, ma anche esistenziali, che quei racconti filosofici cercavano di combattere. Roberto Mordacci, autore de “la condizione neo-moderna” (2017), sostiene che il postmoderno sia morto e che la diagnosi dei post-modernisti sia fallita, ma vi sono varie posizioni che potrebbero contestare una tale tesi. Della razionalità, intesa in maniera illuministica come risveglio dal sonno della mente, vi è una traccia sbiadita, nel senso che se vi è una ratio che muove l’uomo verso le cose e le azioni è il prodotto di un qualcosa che da sovrastruttura è diventato struttura, ovvero, l’economia. La razionalità economica è l’unica razionalità che oggi identifica la logica esistenziale dell’uomo, a discapito di una razionalità di fondo che in altra maniera dovrebbe stimolare il sé. Dunque, se attraverso Lyotard notiamo come il postmoderno nasce nel momento in cui vi è quell’enorme sviluppo delle società industrializzate e a capitalismo avanzato, si potrebbe pensare, in maniera legittima, che sia impossibile che il postmoderno sia deceduto come riporta Mordacci nella sua tesi. Quest’oggi, con un capitalismo che ha trasceso la materia fino ad arrivare allo spirito di ogni singolo, il postmoderno è più vivo che mai.
Che una condizione tale sia viva e vegeta non è certamente un bene per l’uomo, poiché la pervasione di questa unica dimensione economica in virtù di questo violento capitalismo non può che finire per influenzare e veicolare la direzione delle forme di sapere che identificano una società. Se il capitalismo si manifesta come un potere che ha la possibilità di influenzare il sapere, allora, in virtù di questi tratti antropologici dettati da tale società, il linguaggio diventa una forma di legittimazione e normalizzazione di quel sapere, diventando funzionale al potere che manipola i soggetti stimolandoli unicamente verso quelle forme di sapere legittimate. Con il termine sapere si intende una vasta gamma di significati, in cui notiamo come si alluda al “…saper fare, saper vivere, saper ascoltare…” (4); dunque il linguaggio diventa la forma di legittimazione di una modalità d’essere determinata da questo sapere che viene normalizzato.
“La comunicazione funzionale è soltanto lo strato esterno dell’universo ad una sola dimensione in cui l’uomo è addestrato a dimenticare, a tradurre il negativo nel positivo in modo da poter continuare a funzionare, ridotto nelle sue facoltà ma atto alla bisogna e ragionevolmente efficiente.” (5)
Queste parole che Marcuse utilizza nel suo capolavoro “l’uomo a una dimensione” (1967), si ricollegano al discorso precedentemente affrontato riguardo al fallimento illuministico in una società postmoderna. La ragione non viene gestita dal soggetto, ma è un qualcosa che dall’esterno riduce le facoltà soggettive dell’uomo. La comunicazione, che nel sistema postmoderno viene gestita dalla potenza dei media, diventa il veicolo attraverso cui si istituisce l’ineluttabile doppia implicazione tra potere e sapere. Oggi, riattualizzare Marcuse sarebbe indicativo al fine di fare una diagnosi della realtà tangibile che viviamo. Gianni Vattimo, filosofo torinese, studioso del postmoderno, attua una vera e propria ripresa del pensatore francofortese, ritenendo funzionale riapplicare tutto il concetto di unicità della dimensione esistenziale dell’uomo che immerso in questa tecnologia - portata all’eccesso -, caratterizza il postmodernismo, il quale non possiede vie di fuga.
[caption id="attachment_9743" align="aligncenter" width="1000"] Gianteresio Vattimo, detto Gianni (Torino, 4 gennaio 1936), è un filosofo e politico italiano.[/caption]
Riesumare Marcuse, che a detta di Vattimo era stato troppo dimenticato negli ultimi tempi, si manifesterebbe come una maniera ideale per comprendere come l’uomo si ritrova a vivere, senza esser portato a pensare e ragionare, quella dimensione estetizzante della realtà che i mass-media profilano come unica e migliore di qualsiasi altra. Questo aspetto che riguarda la potenza della comunicazione è l’elemento caratteristico del sistema post-moderno, in cui la razionalità viene dall’esterno e gestisce le capacità soggettive dell’individuo, il quale viene portato a pensare solo ciò che si può pensare, sulla scia di ciò che i media (intesi come televisione, libri, giornali) propongono alla gente che ascolta.
I grandi racconti filosofici hanno fallito durante la modernità, non hanno emancipato l’uomo liberandolo - come ha sostenuto Lyotard -, ma hanno eliminato progressivamente quella razionalità soggettiva che gli permetterebbe di esser tale. Probabilmente ripensare quelle “metanarrazioni” al fine di un superamento dell’imposizione implicita di questa realtà retta sul giogo comunicativo, non risulterebbe negativo nei confronti del sé, ma al contrario potrebbe ri-stimolare le pulsioni dell’uomo alimentandone la coscienza. Dovrebbe esser vista come priorità l’intenzionalità di un ritorno al soggetto che viene scosso di fronte all’oggettivazione della realtà.
Le contraddizioni del postmoderno potrebbero essere trascese a partire da una presa di coscienza del proprio essere all’interno di una società in quanto tale. I media, le industrie, il capitalismo, la tecnologia, tutti dati identificativi di un profilo sociale, tendono in univoco verso l’omologazione, senza ammettere resistenze. Questa non consiste nel rendere tutti uguali secondo un canonico profilo antropologico che identifica l’essere sociale, ma si tratta di un processo più subdolo e implicito che attraverso i media propone un’idea di realtà come unica e sola. In un contesto così alienante, in cui la potenza dei media si identifica nel costituire l’essere nelle società tecnologiche, attraverso le notizie e le interpretazioni del reale, quei grandi racconti filosofici, che per i postmoderni rappresentano racconti metafisici ormai superati, risulterebbero invece come una maniera per mettere in gioco il proprio Io attraverso l’alimentazione del proprio spirito. In virtù del fatto che il nostro presente è totalmente privo di forze protese verso il nuovo, il ripensare il passato in termini di progresso per il nostro presente potrebbe essere una via d’uscita da questa assenza di propulsione che alberga nella vita dell’uomo. Ripensare il passato, senza però copiarlo per cercare di riattualizzarlo in maniera ortodossa, ripensarlo al fine di reinterpretarlo secondo gli schemi concettuali dell’epoca attuale (6).
Quest’ultima è un periodo storico privo di soggetto, di razionalità, di pensiero e in questo caso il ripensare quel passato, che agli occhi dei post-modernisti è risultato un totale fallimento, serve a trascendere e superare il ristagno e lo stallo esistenziale che ha generato quest’idea continua di progresso senza un effettivo sviluppo umano.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993, pag. 59-60. Harvey sostiene che la ragione, strumento che il pensiero illuministico aveva utilizzato per l’emancipazione dell’uomo, in virtù del fatto che la morale attraversa il crollo di tale impostazione illuminista, nell’epoca postmoderna essa viene utilizzata come strumento per sottomettere gli altri senza alcun fine spirituale o etico;
Nota 2: Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Editori Laterza, Bari, 2008, introduzione, pag. VII. L’autore scrive: «vita liquida» e «modernità liquida» sono profondamente connesse tra loro. «liquida» è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita «liquido-moderna» se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.” Come si può notare dalle parole dell’autore, il concetto di nomadismo esistenziale in cui l’individuo postmoderno si trova immerso è molto affine all’idea che l’uomo che abita la società liquida sia soggetto, in una simile maniera, ad essere nomade di fronte a un’identità statica;
Nota 3: Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, p.15;
Nota 4: Jean Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1985, p.38. L’autore spiega come con il termine “sapere” si intende una ampia gamma di significati, che attraverso il linguaggio vengono normalizzati identificando quasi il modo di essere dell’uomo nella società. Esempio questo di rapporto tra sapere e potere;
Nota 5: si veda Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p.121;
Nota 6: Esempio è il ripensamento di un marxismo trascendendo la lotta di classe che Marx presupponeva alla base di una società. Oggi si potrebbe ripensare Marx in termini critici nei confronti della condizione alienante dei lavoratori in conseguenza di questa crisi che abbraccia il mondo da più di dieci anni. Non vi è più l’esistenza di classi all’interno della società ma vi è una società addirittura ultra-capitalista, dunque un pensiero come quello marxista potrebbe risultare funzionale al risveglio dal sonno della ragione che l’uomo vive in una condizione esistenziale come quella di oggi.
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Jean d'Ormesson (1925 – 2017) è recentemente scomparso esaudendo anche un suo ultimo desiderio «Non ho paura di morire. Mi dispiacerebbe solo che a pronunciare la mia orazione funebre fosse François Hollande». Lo scrittore francese entrato a soli 48 anni presso la prestigiosa Académie française il 18 ottobre 1973, è stato un personaggio amato anche dallo stesso premier Macron che durante i funerali di Stato ha espresso il suo pensiero sul grande lascito di d’Ormesson: «una chiarezza che ci mancherà […] antidoto ai giorni grigi».

[caption id="attachment_9728" align="aligncenter" width="1000"] 08-12-2017, si sono celebrati i funerali di Stato presso la Cour d'honneur des Invalides a Parigi dello scrittore francese Jean d'Ormesson.[/caption]
Le parole di Macron sono di sincerità, oltre il ruolo istituzionale ricoperto, poiché nonostante la diversità politica, lo scrittore aveva oltrepassato la divisione ideologica, aprendo dialoghi con molti amici di sinistra tra i quali Jean-Luc Mélenchon. In Italia l’evento è passato in sordina, quasi la letteratura francese e quindi europea, non fosse fatto rilevante di interesse pubblico.
Così la mattina di venerdì otto dicembre 2017, presso la Cour d'honneur des Invalides, la pioggia si ferma improvvisamente: le nuvole si dissipano e il cielo è nuovamente di quel blu brillante, come se non potrebbe essere altrimenti, per onorare l'ex direttore generale del «Figaro», uno dei più grandi scrittori popolari francesi, di stampo conservatore.
Accanto alla famiglia si trovano una trentina di deputati, quarantacinque accademici dell'Istituto di Francia, il segretario perpetuo del Quai Conti, Hélène Carrère d'Encausse, diversi membri del governo, due ex Presidenti della Repubblica (Nicolas Sarkozy e François Hollande), un ex primo ministro (Francois Fillon) e il Cancelliere dell'Institut de France Gabriel de Broglie.
Dietro di loro, quasi centocinquanta persone sono venute a salutare lo scrittore, con la cerimonia aperta al pubblico così come lo era, in luglio, quella in onore di Simone Veil. Quasi tutti avranno letto il suo capolavoro letterario: Au plaisir de Dieu (A Dio piacendo). La sua ascendenza verso l’elemento aristocratico gli proviene dall’essere figlio di un diplomatico discendente dalla nobiltà di toga - quella al servizio del re, nei ranghi dell’amministrazione. Tale situazione famigliare gli aveva fatto vivere la sua infanzia in Baviera, proprio mentre montava la marea nazionalsocialista. Ricordava di aver ricevuto il primo e ultimo schiaffo da suo padre quando da bambino, trascinato dall’entusiasmo della folla, aveva applaudito un drappello di giovani tedeschi in divisa paramilitare che marciavano cantando sotto una bandiera con la svastica. Il romanzo che lo lancerà verso la grande letteratura è la storia di una famiglia dell’alta aristocrazia francese, dal XIX secolo alla stagione del terrorismo, che alterna, sapientemente, sacro e profano, dramma e pochade, danza e passo marziale.
La prosa di D’Ormesson è signorile e cristallina: la traduzione le rende giustizia, come raramente accade in questo genere di operazioni. I principi di Plessis-Lez-Vaudreuil sono dei Buddenbrook luminosi e solari, che vestono organza e tulle, eppure la storia che filtra dalle pagine del romanzo secondo una scelta tangenziale che sa di verismo, è quella drammatica di due guerre mondiali: di morti, di vittime, di carnefici.
Ciò nonostante, in una sorta di immutabilità genetica, in cui tutto pare cambiare tranne che il carattere di famiglia, il racconto rimane come sospeso in un’Arcadia campagnola ed elegante, tra tazze di tea e conversazioni all’ombra di piante secolari. Perfino quando sembra che tutto sia rovinato, con la vendita del castello e il definitivo ingresso della famiglia principesca nella modernità borghese, rimane viva nel lettore la sensazione che nulla sia finito: che i principi rimangano tali a tempo indeterminato, fino ad un loro ciclico e prevedibile ritorno alle antiche glorie, iniziate con le crociate.
[caption id="attachment_9732" align="aligncenter" width="1000"] "Au Plaisir de Dieu" è una scritta che si trova anche presso la Cappella di San Giovanni Eolo a Roma in Porta Latina (Appia Antica). Qui, i pagani tentarono di uccidere San Giovanni Apostolo, ma il Santo uscì indenne dalla prova. Su questa cappella, appare l'incisione "Au Plaisir de Dieu" da cui il titolo del libro. Jean d'Ormesson amava Roma, insieme a tutti i suoi misteri.[/caption]
Il giovane rampollo ribelle, che compie attentati in nome della rivoluzione, firmerà i propri volantini di rivendicazione con «Au plaisir du peuple», che altro non è se non un contorto e mimetizzato atto d’amore verso il proprio millenario blasone. Un libro di lieve lettura, che imporrà al lettore considerazioni tutt’altro che superficiali. Dal libro era stato anche tratto uno sceneggiato televisivo in sei puntate, diretto da Robert Mazoyer, che aveva raggiunto astronomici picchi di ascolto, accrescendo ulteriormente la popolarità dell’autore.
Un uomo brillante e malizioso, volutamente seducente dietro i suoi maliziosi occhi azzurri, tutti i suoi libri erano nelle liste dei best-seller: un raro privilegio, dalla casa editrice Gallimard, la quale aveva introdotto lo scrittore nella prestigiosa collezione La Bibliothèque de la Pléiade. Un onore riservato a lui e al ceco Milan Kundera.
 
D’Ormesson sapeva anche essere progressista: altra sua impresa fu la sua personalissima battaglia per accogliere la prima donna, Marguerite Yourcenar, all’Académie française, nel 1980; fu indiscutibilmente un uomo di destra, il quale aveva raccolto le confidenze del presidente socialista François Mitterrand pochi minuti prima che lasciasse l’Eliseo, al successore Jacques Chirac, nel 1995. Anzi addirittura più tardi, nel 2012, aveva impersonato proprio Mitterrand nel film La cuoca del presidente di Christian Vincent.
Soprannominato «Jean d’O», era legato ai suoi romanzi best-seller amati dal pubblico e in genere apprezzati anche dalla critica. Dopo alcuni libri ben riusciti, ma non di grande risonanza, era giunto al successo vero e proprio nel 1971 con La gloria dell’impero (1973), in cui narrava le vicende di un’immaginaria grande potenza dell’antichità, collocata alcuni secoli prima della nascita di Cristo: «il mio editore Julliard era morto, allora ho portato il manoscritto a Grasset, dove mi hanno detto: “I tuoi libri precedenti erano anche divertenti, ma questo è noioso, illeggibile”. Allora ho riprovato da Gallimard, e ho venduto trecentomila copie».
Successivamente conseguì gli studi all’École normale superieure, poi l’approdo all’Unesco: per l’esattezza al Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane (Cipsh la sigla francese), dove d’Ormesson era rimasto per quarant’anni, ricoprendo anche la carica di presidente e coltivando amicizie illustri.
Aveva anche un particolare rapporto con l’Italia, dove aveva abitato per brevissimo tempo. Spesso nei fine settimana aveva l’irresistibile attrazione verso la nostra penisola: partiva da Parigi in auto con qualche amico il venerdì sera, raggiungendo all’alba la Liguria e successivamente arrivava a Roma in tempo per pranzare a piazza Navona, per poi ripartire la domenica pomeriggio per tornare in Francia e assolvere i suoi impegni lavorativi.
[caption id="attachment_9733" align="aligncenter" width="1000"] Jean d'Ormesson in divisa dell'Académie française. Il celebre «abito verde», la marsina con ricami che indossano gli accademici, con il bicorno, il mantello e la spada, nelle occasioni di sedute solenni sotto la Cupola, è stato disegnato sotto il Consolato. È segno distintivo di tutti i membri dell'Istituto di Francia. L'elezione all'Accademia francese è spesso considerata dall'opinione pubblica, come suprema consacrazione del successo. Pertanto il loro rango nel cerimoniale della Repubblica riflette la loro autorità morale che è ben radicata negli usi e nelle loro tradizioni.[/caption]
Oltre allo scrittore il letterato fu anche giornalista dalla penna finissima: «dirigere un giornale mi sembrava il colmo della felicità» asseriva, nonostante aveva avuto contrasti forti con il direttore del Figaro Pierre Brisson. Di quest’ultimo in gioventù scrisse: «c’è comunque una giustizia a questo mondo, non si può essere direttore di ‘le Figaro’ e avere pure del talento”. Il bello è che 15 anni dopo sono diventato direttore di “le Figaro”».
D’Ormesson faticò per via delle troppe incombenze amministrative che un giornalista deve assolvere, ma riconosceva in questo mestiere – oggi sempre più svilito – una piena dignità, pur rimarcandone la distanza da uomo di lettere, dovuta soprattutto al mistero del tempo. Difatti secondo lo scrittore «Il giornalismo è interamente dalla parte del tempo che passa e la letteratura è interamente dalla parte del tempo che dura. La parola d’ordine del giornalismo è l’urgenza. La preoccupazione della letteratura è l’essenziale».
Solo alla fine degli anni settanta, dopo essersi dimesso dal Figaro, scelse la strada definitiva dello scrittore, mantenendo il solo ruolo di editorialista. Ne era scaturita una fitta produzione di libri, tutti premiati dall’interesse del pubblico. Anche in età molto tarda l’autore teneva un’intensa corrispondenza con i lettori. Non è un caso che la sua unica figlia, Heloise, abbia intrapreso l’attività di editrice.
Nel conferirgli la Legion d’Onore, Hollande, il più impopolare presidente francese della Quinta Repubblica, non nascose l’invidia: «Nel corso di tutta la sua vita lei è riuscito a farsi amare. Come ci è riuscito? Forse grazie allo spirito acuto? All’eleganza? Allo sguardo vivo? Al talento di scrittore? I suoi libri suscitano sempre complimenti, anche tra coloro che non li leggono. Lei è popolare tra gli uomini, le donne, celebre in Francia e non sconosciuto all’estero... Mi sono interrogato su questo mistero: perché questo dono divino? Perché a lei? E perché Dio è così selettivo?».
La risposta può venirci dall’ultimo scritto rilasciato al «Corriere della Sera», nel 2014: «Molti hanno la fede. Io ho solo la speranza. Spero che Dio esista, perché sennò la vita sarebbe solo una farsa crudele. Ma ammiro gli atei che fanno del bene al prossimo, senza aspettarsi una ricompensa ultraterrena. A destra di Dio, per me, siederà un ateo che non crede a nulla […]. Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella».
 
Per approfondimenti:
_Jean d'Ormesson, A Dio piacendo, Edizioni Super Beat, 2016;
_Jean d'Ormesson, Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella, Edizioni Neri Pozza, 2016;
_Jean d'Ormesson, Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, Edizioni Clichy, 2014.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1512464021714{padding-bottom: 15px !important;}"]Sul concetto di limen-limes e sull’idea d’Europa[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 05/12/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1512427675089{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Se non arriveremo ad una società civile, nel pieno senso del temine, consapevole e intollerante verso la drammatica percentuale di giovani laureati – la più bassa in Europa -, tale sistema sarà destinato ad una inesorabile decadenza. Il nostro sistema politico nazionale, attualmente inetto nell'apprensione di tali banalità, deve percepire queste nozioni da un grande movimento di opinione pubblica. Senza questa innovazione il nostro destino - della ricerca universitaria, dell’investimento sul diritto allo studio -, in questo paese, è segnato. Già oggi è visibile: chi ha possibilità manda i figli all’estero o li trasferisce in strutture private. Sarà sempre più così se non si stabilisce che lo studio è la priorità di un paese. Si badi bene, non un amore di “sapere”, in termini così vagamente umanistici: il sapere è potere, ed è "potere" soprattutto per noi giovani: se non sappiamo, non possiamo. Potere-sapere è in realtà un unicum, ma in Italia, per riprendere Machiavelli, chi può non sa e chi sa non può.
Oggi il problema del luogo e del confine è la grande tematica europea, che spesso nel Sud Italia ha tonalità tragiche. Oggi la questione del “confine” nel nostro continente appare sempre più tradursi in termine di “barriera”, “muraglia”, “filo spinato”, “muro di ferro”. La paradossalità europea - la quale da tre millenni, abbatte confini, frontiere, al grido del motto “Sempre oltre” caro a Carlo V - consta nell’essere “Leone affamato”, per riprendere Hegel.
[caption id="attachment_9704" align="aligncenter" width="1000"] Frans Francken II, Allegoria dell'abdicazione di Carlo V.[/caption]
Ora questa Europa si muraglia, si imprigiona di fronte a processi di trasformazione epocale e globale. Quella cultura europea - la quale ha viaggiato per tre millenni, spezzando confini, trasgredendo ogni limite, non ci trasmette segnali di decadente pazzia?
Tuttavia bisogna riconoscere la problematicità della questione, non possiamo semplicemente contrapporre a chi vuole innalzare impotenti barriere, il discorso buonista dell’accoglienza che genera unicamente una sarabanda: non è con la “confusione” che ci si oppone alle muraglie. Bisogna tornare a ragionare, partendo nel rimettere ordine nelle parole che usiamo. La base e fondamento di un pensiero filosofico consiste prima di tutto nel comprendere che cosa significhino le parole. Oggi la politica afferma molti concetti, ma a vanvera, senza capire ciò che dice.
Partiamo da “limite” e “confine”: non è barriera. Il limen, in latino, è la soglia: quell’elemento della casa che si tra-duce dall’interno e dall’esterno. Il limes possiede un altro significato che crea una prima problematica al rapporto, ma sia esso soglia o limes, contiene un luogo: il confine termina con un luogo. Ma che cos’è un luogo? Aristotele nella “Fisica”, suo grande libro filosofico del IV secolo, afferma come “nessun concetto è più difficile di quello di luogo”, topos (dal greco τόπος). Questa parola che sempre crediamo di conoscere, finché non ci interroghiamo su di essa; come il “Tempo” nelle confessioni di Agostino.
Il luogo è quello spazio che noi costruiamo con il nostro movimento, l’individuo non è un primate in gabbia. Dove si trova il luogo? Dove si volge l’uomo con il proprio movimento e sguardo, questo definisce il luogo: lo spazio dove giunge il nostro sguardo; l’orizzonte mutevole è determinato dal moto umano. Il luogo non ha nulla di immobile, non può essere concepito come qualcosa di fermo, a meno di non concepirlo come una scimmia all’interno di una gabbia.
L’uomo si è evoluto dalla scimmia, poiché dove giunge il nostro sguardo, il nostro movimento, possiamo capire l’essenza di luogo. Ancora nel riprendere Aristotele, questo affermava che il concetto di luogo ha relazione con eschaton, dell’ultimo: il nostro luogo è situato dove “all’ultimo” giunge il nostro sguardo, la punta. Difatti il termine tedesco per luogo è ort, ricorda esattamente questo concetto a livello toponimo, “il paese ultimo”, “il paese che sta in punta”: lì è il luogo!
[caption id="attachment_9705" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Perrin interpreta il St.Te. Giovanni Drogo nel film "Il deserto dei Tartari" del 1976 di Valerio Zurlini.[/caption]
Il luogo lo costruiamo con il nostro movimento, non è un dato, è un fatto! La riflessione che dobbiamo porci, ci riconduce al quesito: che luogo vogliamo creare? Non il luogo in cui siamo stati collocati, come i primati nella gabbia di uno zoo. Fin dove vuole giungere il nostro sguardo? Fin dove possiamo muoverci? Questo è il luogo e questa deve essere l’Europa: deve affermare con chiarezza, dove vuole andare.
Vogliamo recarci sul Mediterraneo? Oppure vogliamo chiuderci? Dove vogliamo andare? Il nostro sguardo fin dove giunge? Qual è il suo ultimo? Sono due generazioni che l’Europa non comprende questo “essere luogo” ed è per questo che ha perso ogni politica mediterranea, per questo compie figure indecenti all’Est e al Sud del suo limen, ed è per tale motivazione che quando si sposta in altri continenti viaggia al seguito di altri.
Questa è la tragedia che stiamo vivendo: l’Europa non possiede uno sguardo che delinea il proprio luogo. Così se il nostro luogo non viene generato muovendo verso di esso, necessariamente alla fine vogliamo imprigionarci, rendendo il luogo mero contenitore. Se non sentiamo il movimento che opera il nostro luogo, automaticamente ci inscatoliamo: Tertium non datur!
Questo è il discorso che l’Europa deve iniziare a comprendere, partendo dal suo linguaggio. Quando affermiamo topos, esprimiamo questo dato pensiero: questo volgersi in questo movimento, dove l’individuo definisce le proprie soglie. Quando l’uomo giunge al suo ultimo diviene cum finis, confinante, tocca l’altro. Quell’orizzonte, è il limen, la soglia, ed allora si entra in relazione con l’altro da te. Questo significa distruggere il luogo? No. Questo significa non avere case? Non avere identità? Nient’affatto: significa – di contro – avere un’identità così forte, così sapiente da riuscire a svolgersi fino a quel “limite”, fino alla sua soglia, dove si entra in relazione con l’altro.
Luogo diventa nomen relationis (nome delle relazione), se svolto in questi termini. Platone amava affermare, nel Simposio, che il ruolo della filosofia è oikos, non ha casa, si muove come l’eros, ma tale affermazione non deve essere letta in chiave nomadica - anche il nomade ha la sua abitazione: il tappeto, il quale è orientato come un’abitazione e possiede disegni che ricordano il focolare domestico. Il nomade non è senza casa, si porta dietro la casa. L’uomo occidentale non può vivere senza la sua abitazione. Non opero un discorso sullo sbaraccamento della casa (la demolizione delle baracche, quelle sì), ma intendo questa proprio “sulla soglia”.
Infatti Platone parlava di “oikos sulla soglia”, ma se vi è quest’ultima deve essere presente sempre anche un’abitazione. Il luogo è proprio la casa con la sua soglia, con le sue porte e le sue finestre: lo spazio aperto per definizione è la piazza. “Open space” tanto caro agli anglofili, non può essere che “open”, lo spazio. Dunque sì alla casa, ma dove questa sarà tanto più costruita così stabilmente, da farla giungere al suo ultimo e lì entrerà in rapporto e in relazione. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare, che deve fare l’Europa e questa idea di luogo deve nascere da quei “luoghi” che noi chiamiamo Università.
Oggi difendiamo pateticamente le nostre eredità, senza investirle nella ricerca e nella giusta ridefinizione del nostro essere europei. Siamo drammaticamente colpiti dalla mancanza di una cultura politica, che indirettamente condanna l’Europa a sopravvivere di sola moneta. E’ impossibile che il realismo politico viva di sola moneta, assolutamente impossibile, anche se fosse gestita dai migliori banchieri del mondo. Un organismo politico può vivere solamente in quella idea di luogo che ho appena descritto. Quale dramma ci aspetta se questa prospettiva non si apre? L’Europa, che dell’Occidente rimane cuore e cultura, rischia di concepirsi come una casa in cui si esclude il suo essere confine e il suo essere in relazione.
Una casa che non affronta come problema strategico la relazione con l’altro, cade nella tragedia. Si è già profilata un’Europa chiusa, che non si concepisce come casa in relazione, casa soglia, spazio-confine e “fuori” di questo spazio chiuso: l’inferno. L’Occidente è accerchiato da popolazioni assolutamente proletarizzate. O affrontiamo il problema dell’altra sponda o ci arrendiamo all’assedio verso masse di proletari non occidentali, ma di individui di altra cultura, di altra civiltà: un soverchiante doppio assedio. Tali paesi denominati “del terzo mondo” vivono una situazione storica di epocale sconfitta. Nel rapporto con questa storicità, diventata tragico-drammatica, noi facciamo finta di dimenticare la storia. Dobbiamo riconoscere questa situazione psicologico-culturale.
[caption id="attachment_9714" align="aligncenter" width="1000"] Pietro Canonica, L'abisso - 1907-1909 (particolare).[/caption]
Le nostre democrazie, uscite dalla seconda guerra civile europea, promisero a queste masse un certo sviluppo economico, un diverso sviluppo sociale, una determinata scuola politica, che – in una decisa prospettiva – sarebbe stata da noi europei favorita, promossa: si era promesso questo! Abbiamo tragicamente disatteso tutti questi progetti e ciò aggrava la situazione.
Per citare il britannico Arnold Joseph Toynbee “è il fallimento degli erodiani”, ovvero di coloro che cercarono una mediazione tra civiltà romana e l’altra. Gli erodiani, all’interno delle diverse culture dell’altra sponda, sono stati sconfitti e massacrati: l’Europa assisteva cieca.
Dobbiamo fare metànoia, altrimenti l’Europa - senza un contraccolpo netto, una conversione netta (laica o religiosa), un cambiamento di mente rispetto a quello che è stata nei confronti del Mediterraneo, nei confronti dell’altra sponda e nei confronti di se stessa (poiché ha tradito il suo concetto di luogo) –, non ha futuro.
Senza tutto ciò, oggi non possiamo trovare una soluzione, poiché la situazione si è molto aggravata sul nostro territorio nazionale in chiave migranti. Il conflitto è divenuto ancor più tragico: l’Europa ha nella sua cultura, nel suo sapere e nella sua scienza, nelle sue Università, la soluzione. Tale discorso deve partire dall’Aula Magna di ogni centro Universitario europeo: l’Europa, nel medioevo, è nata in tali luoghi.
La nuova Europa, quella veramente moderna, è ripartita da questa ambizione di “luogo europeo” e “logos europeo” filosofico-scientifico. Questo principio-speranza deve trasmetterci la scintilla per ripartire, altrimenti presto o tardi saremo tutti condannati alla decadenza. I nostri muri sono destinati ad essere spazzati via, proprio perché barriere, proprio perché albergano ragioni materiali, semplicemente demografiche. Ripetiamo la storia! E’ già accaduto: riproporre il modello universitario europeo del 1100 d.C. e il 1.200 d.C.. Da lì è nata l’idea di Europa e dalle nostre Università dovrà rinascere l’Europa del domani.
 
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Il grande atto della storia che è fatta da noi è l’atto della trasformazione radicale della società: il corso della storia umana è l’interazione dei numerosi momenti storici, consci e inconsci, volontari e involontari”.
 
L'epoca odierna vuole la soppressione di ogni pulsione vitale e soggettiva mirando ad omologare le masse verso un’unica via in cui trovare la realizzazione materiale e ideale del sé. L’uomo ha il dovere di rivestire un ruolo in cui è necessario alimentare la coscienza partendo dal proprio Io e non degenerando verso il "fuori di sé". L'individuo vive una crisi inconscia, poiché non è consapevole della sua matrice antropologica, la quale è vitalmente attiva e sfugge al meccanismo contorto della società articolata: questa genera individui assoggettati che diventano monadi di un pensiero unico connaturato.
Probabilmente il problema dell’assoggettamento psicologico degli individui rappresenta una questione che andrebbe decostruita partendo dalla mancanza di punti di riferimento ideologici. Un'assenza, che funge da dato peculiare di una realtà contraddittoria, la quale porta l’uomo al non possesso di una coscienza critica nei confronti di ciò che viene dettato come unica legge per una realizzazione. I media hanno sempre operato il loro corso, rappresentando lo strumento del potere, funzionale alle logiche del sistema odierno, portando difficoltà verso critiche costruttive su una loro funzione fattiva.
In questa sede non parleremo di analisi semiotiche a riguardo, ma ciò che bisogna evidenziare - ai fini di una ricerca scientifica di un fenomeno come il nostro (che vede l’uomo, con tutto il suo vitalismo, ridotto a oggetto passivo di una realtà che lo travolge) -, è rappresentato dal tentativo di recupero di una scelta libera da parte dell’individuo. In sintesi bisogna evidenziare come l’uomo, avendo perso la sua forza spirituale critica e cosciente, si ritrovi a divenire oggetto passivo di fronte alla realtà immutabile. È esattamente questo il punto in cui bisogna, probabilmente, ripensare un approccio alla realtà attraverso alcune linee teoriche che hanno caratterizzato il post-strutturalismo.
Quest’ultimo vede l’avvento di quella che fu la cosiddetta Nietzsche-Renaissance, in cui si ripensava Nietzsche per ricostituire l’importanza della volontà di potenza dell’uomo, con l'obiettivo di riportarlo da "oggetto di una struttura", come lo pensavano gli strutturalisti, a "soggetto agente di fronte alla realtà", che riesce a trascendere quella forma.
Oggi, ripensare Nietzsche con le stesse finalità potrebbe essere fuorviante per la comunità umana, data l’importanza che forzatamente hanno fatto rivestire alle scienze umanistiche, ma al di là degli schemi concettuali che fanno capo solamente a un finanz-capitalismo(2) che alimenta l’ideologia unica del denaro, un ripensamento del post-strutturalismo con una particolare attenzione alle posizioni nietzschane potrebbe risultare come un modo per prendere coscienza, da parte dell’uomo, dall’annientamento pulsionale che vive.
[caption id="attachment_9683" align="aligncenter" width="1000"] Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) è stato un filosofo, poeta, saggista, compositore e filologo tedesco.[/caption]
Un processo che in partenza potrebbe risultare possibile, ma che in atto trova ogni forma di argine a partire dall’uomo stesso. Oggi, il processo hegeliano di autocoscienza che prevede una  alterità rivestita dall’altro, non trova modo di dar vita al particolarismo differenziale, che gli uomini potrebbero vivere se avessero modo di scegliere senza aver esperienza di quell’angoscia della libertà dal sapore sartriano.
L’autocoscienza sembra mediata da un unico pensiero omologante che si serve di una psicologia inversa secondo la quale l’uomo non può scegliere al di fuori di ciò che viene normalizzato come unica via possibile. Si prende coscienza di se stessi unicamente in base ad un personale allontanamento dallo schema imposto: il compromesso viene rappresentato dal fatto che si viene percepiti come diversi nel momento in cui si sceglie diversamente.
Nell'ottica di uno scenario così alienante per la propria identità, il ripensamento di Nietzsche - che vede l’uomo a metà tra un nichilismo passivo (inteso come una presa di coscienza della crisi morale dell’epoca, senza cambiamento di una situazione così degenerante) e un nichilismo attivo (che invece prevede l’azione dell’uomo come esercizio di forza distruttiva) -, diventa funzionale per dar una possibile forma all’ontologia sociale.
Su questa scia si può osservare come il richiamo verso una volontà di potenza - la quale permette all’individuo il suo adattamento, secondo le proprie inclinazioni pulsionali, verso una struttura basata su un sistema funzionale, che riporti in auge la vera antropologia vitalistica -, potrebbe muovere l’uomo secondo la propria coscienza: proprio in tale ambito bisogna ri-pensare un innesto con Nietzsche.
Di fronte a una generale e disarmante crisi del capitale, non solo monetario, ma anche sociale - proveniente da un corroborante avallo da parte di un individuo antropologicamente assoggettato -, bisogna  con educazione rimettersi in gioco senza rivestire le convenzioni sociali subdolamente dettate attraverso gli strumenti mediatici.
Per sovvertire un caos che funge da struttura manipolante, identificata nella materialità delle istituzioni che tendono a omologare più che a differenziare, bisogna prendere coscienza del fatto che l’uomo dovrà essere il soggetto operante di quella trasformazione radicale della società a cui si alludeva in principio del discorso. Se i fondamenti strutturali della società dominate, sono manipolatrici di coscienze, come può l’uomo scegliere e garantire una trasformazione sociale radicale? Nelle relazioni umane, se non si è allineati con il politicamente corretto, si è fuori luogo: come può ritornare in auge l’uomo, a discapito di un sistema che ci vuole come attori sociali del mito globalizzato?
Un ripensamento di Nietzsche, dunque, potrebbe essere funzionale per rispondere in maniera veemente a quesiti del genere. Un ripensamento, tra l’altro, che riprende le redini di quell’atmosfera culturale che aveva caratterizzato l’ambiente post-strutturalista, come precedentemente evidenziato, e che prevedeva una reinterpretazione anche di figure come Freud e Marx, poiché oggi più che mai ci si ritrova a vivere i drammi esistenziali, economici e morali che identificano la struttura di un’epoca immersa totalmente in una crisi di valori, oltre che pragmaticamente economica e politica, che deteriora fino all’essenza le funzioni di un sistema sociale.
[caption id="attachment_9685" align="aligncenter" width="1000"] Nietzsche soggiornò a Torino tra l'aprile del 1888 e i primi giorni del 1889, precisamente in un appartamento all'ultimo piano del palazzo in angolo tra via Carlo Alberto n.6 e la piazza.[/caption]
Dunque, se Nietzsche fosse ripensato e proposto come un nuovo punto di riferimento per riaccendere le pulsioni vitali dell’uomo ai fini di un principio di auto-realizzazione, l’uomo potrebbe prendere coscienza critica di fronte a una realtà che non vede assolutamente nessun punto di riferimento, se non ciò che l’unica dimensione economica globalizzata permette di vedere: un sistema economico che struttura le menti degli individui, professando come unico profilo quello antropologico dell’uomo economico, che come ci spiega Gallino, ormai è diventato un profilo in carne e ossa(3).
Come precisa Freud, quando numerosi individui mettono un unico e medesimo oggetto al posto del proprio ego ideale, dipendono e sono rafforzati dal ripetersi di un atteggiamento simile da parte degli altri membri del gruppo(4). Dunque, ciò detto, una normalizzazione tipologico-mentale su scala globale, come succede nell’oggi ultra-capitalistico, non può che creare uguali soggetti, i quali agiscono nella totale mancanza di quel vitalismo nietzschano che bisogna riesumare.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: Il ruolo della coscienza nella storia è stato analizzato da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista, e in altre opere successive. Citazione riportata L. Krader, nella Storia del marxismo, Einaudi Torino, 1978, pag. 221, I tomo;
Nota 2: Si veda, Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi Torino, 2011-2013;
Nota 3: Ibidem, pag. 139;
Nota 4: Si veda, Antropologia come critica culturale, George E. Marcus e Michael M.J. Fischer, Anabasi Spa Milano, 1994, pag. 194.
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