[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1519600252728{padding-bottom: 15px !important;}"]La guerra di Vandea e il pensiero reazionario[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 26/02/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1519601498604{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La cultura europea del Settecento giunse a dare compiuta organicità verso le ideologie della ragione, dell’esperienza e della libertà: cardini principali per una possibile, nuova, emancipazione del genere umano. L’aspirazione a un programma di riforme in sintonia con queste istanze borghesi-massoniche - la nuova classe dirigente che ambiva ad acquisire un potere maggiore nei confronti del clero e dell’aristocrazia -, fu talmente intensa da dar vita a un movimento culturale e d’opinione che divenne simbolo della contrapposizione tra un sistema definito “vecchio” ed un altro citato come “nuovo”. Dunque la tradizione si scontrava intellettualmente con l’innovazione progressista. L’illuminismo (lumières in francese) ebbe il suo polo d’attrazione nella Francia Ancien Régime, vedendo protagonisti alcuni pensatori, che pochi anni più tardi entreranno nell’orbita dei “giacobini”, quali François-Marie Arouet (Voltaire 1694-1778), Denis Diderot (1713-1784), Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), Paul Heinrich Dietrich (Paul Henri Thiry d'Holbach 1723-1789) e Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat (1743-1794).
Il motivo principale di questa iniziale rivolta intellettuale fu dovuta principalmente per alcune gravi mancanze di metodo, da parte della classe aristocratica francese. Difatti l’assolutismo nell’aristocrazia è nemico del concetto di aristocrazia feudale, poiché si tende a centralizzare, disossando e disarticolando lo Stato, sostituendo ad una superstruttura burocratico-statale, una forma virile e diretta di autorità, di responsabilità e di parziale, personale sovranità. Luigi XVI creò il vuoto intorno a sé, perché la vana aristocrazia cortigiana di palazzo nulla più poteva significare e quella militare – la famosa Maison du Roy - era ormai priva di rapporti diretti con il paese. Distrutta la struttura differenziata che faceva da collante fra la nazione e il sovrano, restò appunto la nazione disossata, cioè la nazione come massa, staccata dal sovrano e dalla sua sovranità. Con un sol colpo, la rivoluzione spazzò facilmente quella superstruttura e mise il potere fra le mani della pura massa. L'assolutismo aristocratico prepara dunque le vie alla demagogia e al collettivismo. Lungi dall'avere carattere di vero dominio, esso trova il suo equivalente solo nelle antiche tirannidi popolari e nel tribunato della plebe, forme parimenti collettivistiche.
I philosophes erano convinti assertori della presenza , in tutte le persone, di un “lume naturale” – da cui il nome del movimento -, d’una comune capacità di conoscere e ragionare che andava eletta a principio guida delle azioni umane: in questa modalità, si aveva esatta convinzione, che la storia si sarebbe incanalata verso un’età di pace e progresso, allontanandosi dal tempo dei conflitti politici e del fanatismo religioso. Oggi sappiamo con certezza che, seppur le nostre società abbiano adottato tale sistema politico-filosofico, tale pensiero non ha prodotto un nuovo regno di “pace”, ma ha creato nuove e più atroci conflitti, all’insegna dei diritti e della democrazia.
Basti osservare il periodo del “terrore” post-rivoluzionario, fino agli interventi “umanitari” degli Stati Uniti nel Medio-Oriente.
A partire dall’elogio della ragione e dell’esperienza, i filosofi elaborarono infatti una critica radicale della tradizione – intesa nel senso politico, religioso e filosofico – e di ogni genere di assunto dogmatico: secondo loro la fondatezza d’una teoria non poteva riposare sul valore dell’autorità, ma solo sull’analisi razionale dei fatti. In tal modo, l’attività filosofica diventava sinonimo per eccellenza di spirito critico, cioè di un metodo di ricerca che aveva quali suoi cardini basilari l’osservazione empirica, l’indagine scientifica, le esperienze verificabili e le dimostrazioni razionali. Per gli illuministi, inoltre, la conoscenza non era contemplazione della verità, ma strumento di intervento sulla realtà al servizio della felicità dell’intero genere umano. Anche qui si denotano pienamente le nuove caratteristiche borghesi: la felicità non era difatti una caratteristica dell’aristocrazia, così come non esisteva nemmeno il concetto di vacanza.
La felicità, difatti, era un’idea nuova per l'Europa. L’aristocrazia non pensava come elemento cardine alla felicità, ma ragionava in termini di grandezza, di potenza, di fede, di giustizia all'interno di un dato ordine. Forse conoscevano il piacere: brutale, rapido, senza prospettive d'avvenire, che poteva costituire un'avventura all'interno di vite dominate dai doveri di carica.
Le comodità, i piaceri della vita, la sorpresa delle novità, il gusto del tempo libero e dei viaggi, tutto ciò che dà fascino a questo mondo, erano elementi completamente estranei: vi era unicamente la volontà di Dio e questa veniva rispettata da generazioni.
Le prime reazioni alla Rivoluzione avvennero in Vandea, oggi uno dei 96 dipartimenti francesi, che fu teatro della più sanguinosa guerra civile che abbia opposto la rivoluzione e l’Ancien Régime. Per tutto l’Ottocento e oltre, i termini “Vandea” e “vandeano”, a torto o a ragione, hanno indicato una visione ideologica di impronta reazionaria, cattolica, monarchica e legittimista.
La causa scatenante della rivolta fu la ribellione contro la leva obbligatoria proclamata dalla Convenzione del febbraio 1793. L’arrivo dei reclutatori, non troppo diversi da quelli regi del passato, suscitò proteste e malcontento in molte zone della Francia, ma a Sud del Corso della Loira e nei suoi dintorni accese subito le polveri delle prime spontanee sommosse popolari.
A Cholet, ai primi di Marzo, venne ucciso il comandante della guardia nazionale; pochi giorni dopo, a Machecoul, furono massacrati alcune centinaia di “patrioti”. A capo della rivolta erano Jacques Cathelineau (1759 – 1793) soprannominato "le saint de l'Anjou" e Jean Nicolas Stofflet (1753 –1796). Quasi subito si unirono agli insorti gli alti prelati e gran parte dei parroci, ancora scottati dagli effetti della costituzione civile del clero e dalle confische dei beni ecclesiastici. Ben presto le sommosse si trasformarono in un’insurrezione generalizzata, a cui la Convenzione diede la patente di “complotto aristocratico”. In realtà, la partecipazione dei nobili fu episodica e quasi mai nelle posizioni di comando.
[caption id="attachment_9975" align="aligncenter" width="1000"] Pierre-Narcisse Guérin, "Henri de La Rochejaquelein" (particolare) - 1817.[/caption]
Come ha scritto lo storico François Furet (1927-1997) si trattava di una: «massa di qualche decina di migliaia di uomini, contadini, tessitori, piccoli notabili di campagna, riuniti al suono della campana a martello nel villaggio (…) e poco inclini, dopo il combattimento, ad allontanarsi dalle loro case». Era un’armata eterogenea, male equipaggiata, con armamenti improvvisati, che però nei primi mesi travolse e umiliò le sparse truppe repubblicane in virtù della sua preponderanza numerica.
A Ottobre, sotto la guida di un generale di ventun anni, Henri du Vergier, conte de La Rochejaquelein (1772 – 1794), 80.000 vandeani di ogni strato sociale, protetti da 30.000 soldati, varcarono la Loira diretti a Nord, forse per congiungersi con le navi inglesi che pattugliavano la costa bretone. Famosa rimase la frase del giovane du Vergier poco prima di un suo importante successo strategico: «Se mio padre fosse fra noi, vi ispirerebbe più fiducia, poiché mi conoscete appena. Io del resto ho contro di me la mia giovinezza e la mia inesperienza; ma ardo già di rendermi degno di comandarvi. Andiamo a cercare il nemico: se avanzo, seguitemi; se indietreggio, uccidetemi; se mi uccidono, vendicatemi!».
Incalzati dai repubblicani, con l’inverno alle porte, iniziarono la ritirata. Al comando delle truppe rivoluzionarie, il generale Turreau eseguì l’ordine di trasformare la Vandea in un deserto. Da Febbraio a Maggio del 1794 le sue “colonne infernali” fecero letteralmente terra bruciata: incendiarono i villaggi, rasero al suolo le abitazioni e massacrarono le popolazioni. 5.000 persone vennero ghigliottinate o fucilate e altrettante annegate nella Loira.
Le guerre “vandeane” proseguirono fino alla caduta di Napoleone nel 1815, ma diedero sicuramente lo slancio verso le prime teorie conservatrici e reazionarie. Possiamo inquadrare quattro grandi pensatori di tale pensiero: Joseph de Maistre (1753-1821), Edmund Burke (1729-1797), Filippo Anfossi (1748-1825) e il visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754 –1840).
Una delle prime voci a innalzarsi contro la rivoluzione fu quella del diplomatico savoiardo Joseph de Maistre. Nelle sue “Considerazioni sulla Francia” del 1797 tracciò le linee-guida del pensiero reazionario che avrebbe poi improntato la Restaurazione: ripristinare il Trono e l’Altare abbattuti dalla Rivoluzione francese, che aveva provocato la dissacrazione dei valori fondati sulla natura (prodotto di Dio), la religione e la tradizione. Gli orrori del Terrore erano stati una giusta punizione di Dio alla presunzione della ragione individualistica propria dell’Illuminismo ed erano giustificabili solo nell’ottica cristiana del sacrificio, come conseguenza della mancata sottomissione degli uomini alle due autorità che rappresentano l’ordine voluto da Dio: il Papa e il Re.
Nelle sue “Considerazioni sulla Francia” del 1796, egli attribuì alla Rivoluzione un carattere satanico, per sottolineare i mali che a suo dire ne erano derivati. In particolare le sue critiche si appuntarono sulla rottura, provocata dai rivoluzionari, del legame che tradizionalmente univa i sovrani alla Chiesa, anche in qualità di suoi difensori. Questa alleanza infatti è, per de Maistre, la base stessa dell’obbedienza dei popoli e quindi della società: spezzarla significa mettere a repentaglio l’ordine pubblico e sociale, fino all’anarchia, il peggiore dei mali.
[caption id="attachment_9986" align="aligncenter" width="1000"] Il conte Joseph-Marie de Maistre, è stato un filosofo, politico, diplomatico, scrittore, magistrato e giurista italiano di lingua francese. Ambasciatore del re Vittorio Emanuele I presso la corte dello zar Alessandro I dal 1803 al 1817, poi da tale data fino alla morte ministro reggente la Gran Cancelleria del Regno di Sardegna, de Maistre fu tra i portavoce più eminenti del movimento controrivoluzionario che fece seguito alla Rivoluzione francese e ai rivolgimenti politici in atto dopo il 1789; propugnatore dell'immediato ripristino della monarchia ereditaria in Francia, in quanto istituzione ispirata per via divina, e assertore della suprema autorità papale sia nelle questioni religiose che in quelle politiche, de Maistre fu anche tra i teorici più intransigenti della Restaurazione, sebbene non mancò di criticare il Congresso di Vienna, a suo dire autore da un lato di un impossibile tentativo di ripristino integrale dell'Ancien Régime (peraltro ritenuto di sola facciata) e dall'altro di compromessi politici con le forze rivoluzionarie.[/caption]
Padre del conservatorismo, che non mira a restaurare una situazione precedente, ma unicamente a conservare determinati valori immutabili, Edmund Burke costruisce la sua critica alla rivoluzione attorno al valore della tradizione, che è il deposito non solo della storia di un popolo, ma anche della sua identità. Nel suo "Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia", asserirà come: «L'età della cavalleria è finita. Quella dei sofisti, degli economisti e dei contabili è giunta; e la gloria dell'Europa giace estinta per sempre».
Nel loro passato, sostiene, uomini e nazioni trovano il senso di ciò che sono e di quello che possono diventare: ciò esclude brutali strappi rivoluzionari, ma ammette il cambiamento nelle forme di un lento rinnovamento che non recide le radici ma semmai dà loro linfa nuova e le rafforza.
Quello che egli chiama pregiudizio è un’opinione consolidata, perché elaborata nel tempo e dal tempo confermata nella sua validità. E così, lo spirito di cavalleria di cui parla Burke è l’insieme dei valori propri dell’Europa moderna, che la rivoluzione intende distruggere.
Terzo protagonista lo inquadriamo nel Vicario generale dei Domenicani, Filippo Anfossi, il quale diviene celebre per il suo scritto “Contro la sovranità popolare”, attraverso il quale attacca frontalmente il principio dell’origine contrattuale dello Stato e della società. Lo fa, da un lato, asserendo che dietro i proclami di libertà e uguaglianza non si celavano altro che spietate tirannie e, dall’altro, ribadendo che Dio ha voluto le società civili organizzate secondo un principio di naturale disposizione gerarchica delle parti, come avviene nel corpo umano, dove è naturale che il capo comandi e che le membra servano, ma dove il capo e le membra collaborano allo stesso fine della vita e del bene di tutto l’insieme.
Se si attua un ragionamento verso la storiografia europea, il bonapartismo portando in avanti gli ideali della rivoluzione gettò l’intera Europa nel caos per soddisfare la giacobina volontà di potenza di Napoleone. Lo stesso concetto di nazionalismo, nato dalla Rivoluzione, si è evoluto in varie strade tortuose, tra le quali ricordiamo il bolscevismo, il fascismo e il nazismo: ovvero quanto di peggio l’evoluzione umana abbia potuto produrre. Stralci di questo pensiero rimangono ancora oggi nella vita politica dei nostri giorni ed ancora ci giungono notizie di violenza.
A sua volta, in un’opera dal titolo “Saggio analitico sulle leggi naturali dell’ordine sociale” del 1800, il filosofo francese visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald, già deputato all’Assemblea costituente nel 1790 e poi esule, cercò di giustificare sul piano teorico, in contrapposizione al razionalismo illuminista e alle tendenze egualitarie emerse durante la rivoluzione francese, i codici normativi e istituzionali fondati sul principio di autorità e sul diritto divino.
Altre “reazioni” avvennero in Inghilterra e in Germania, nelle temperie culturale degli ultimi tre decenni del Settecento, in ambito artistico e letterario si manifestarono nuove istanze, che nascevano da un ripensamento del ruolo e dei limiti della ragione e che portarono a una riaffermazione del valore delle passioni e dei sentimenti. Al centro di queste rivendicazioni vi era la contestazione di un’idea di ragione quale entità astratta e valida universalmente, sempre uguale a se stessa, per privilegiare un concetto di ragione storicamente determinata, soggetta a limiti di volta in volta variabili e alle convenzioni culturali e linguistiche. La diversità storico-geografica delle lingue era indice di varietà dei modi di pensare e testimoniava la sedimentazione dei valori dei differenti popoli nelle varie epoche, che andavano compresi dall’interno, al di fuori di rigidi schemi razionali o parametri universali. A partire da questa constatazione vi fu un recupero del Medioevo, non più visto come l’epoca buia della decadenza e della superstizione, come era (ed è, in difetto) considerata dagli illuministi, ma come un’era europea unificata dal cristianesimo. Si cominciarono perciò a recuperare le tradizioni folcloristiche che affondavano le loro radici nell’epoca medievale e a vedere in queste tradizioni l’elemento coagulante di un’idea di nazione come comunità di individui legati da una storia e da valori comuni.
Il poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) divenne famoso nel 1774 con la pubblicazione dei romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther”, che rappresentò il manifesto di una poetica anti-illuminista fondata sul primato del sentimento e delle passioni. Il suo capolavoro fu il dramma “Faust”, alla cui composizione Goethe dedicò più di un trentennio della sua vita: nel protagonista si incarna lo Streben, ossia lo sforzo incessante dell’uomo di superare i propri limiti, di non appagarsi mai in nessuna situazione.
Sempre in Germania, a Jena, nel 1796, i fratelli Wilhelm August (1767-1845) e Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel (1772-1829), Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843) e Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Novalis 1772-1801) diedero vita a un cenacolo intellettuale dal quale ebbero origine le idee di un nuovo movimento artistico-letterario, il Romanticismo che modificò radicalmente il modo di considerare l’uomo, la natura, l’arte, la religione, la politica. In primo luogo per i romantici la natura – al pari dell’anima – si fondava si un principio di ordine spirituale ed era un’entità organica, vivente e in divenire, non riconducibile a schemi oggettivi o meccanici e non conoscibile per via razionale.
[caption id="attachment_9980" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich - Due uomini in contemplazione della luna, Olio su tela 1819.[/caption]
Secondo i romantici gli antichi vivevano in una comunione immediata con la natura, irrimediabilmente persa nella modernità, che aveva prodotto una frattura insanabile, fonte di infelicità, tra l’uomo e il suo ambiente naturale e spirituale. A tale comunione ormai perduta l’uomo moderno continuava ad aspirare spinto dalla nostalgia, pur essendo consapevole della sua irraggiungibilità. La vita umana veniva caratterizzata così da una tensione infinita verso ciò che stava al di là della realtà concreta. I romantici tedeschi coniarono il termine “Sehnsucht” – letteralmente desiderio di desiderare – per indicare l’insaziabile inquietudine che portava l’uomo a tendere verso una realtà ulteriore, pur sapendo che essa, nella sua più intima essenza, era impossibile da attingere, poiché i processi di meccanizzazione, poi accellerati dalla rivoluzione industriale, furono la causa della frattura insanabile tra l’uomo e la natura prodotta dalla modernità.
La potenza della téchne, della scienza – ovvero tutte quelle modalità di dominio sull’ente -, che con la filosofia moderna e contemporanea avrebbero fatto dell’uomo il fondamento del reale, hanno sostanzialmente svuotato di contenuto il Dio della tradizione, il Dio cristiano.
L’uomo moderno e contemporaneo – che fonda i suoi cardini intorno al concetto di metafisica, derivante dall’idealismo tedesco -, ha sostituito il divino, con il credo di poter essere proprio “lui” il fondamento ultimo del reale, in quanto soggettività assoluta.
Non a caso Friedrich Wilhelm Nietzsche scrisse che: “Dio è morto”, annunciandolo nelle piazze.
Tuttavia il grande filosofo tedesco, era consapevole che non si trattasse di una chiacchiera da pazzo, di un folle. Di contro, la presa di coscienza drammatica di un avvenimento che ha completamente ribaltato la comprensione di tutta la nostra epoca.
 
Per approfondimenti:
_Jean-Jacques Rousseau, "Il contratto sociale" - Einaudi, 2005;
_Voltaire, "Trattato sulla tolleranza" - Feltrinelli, 1995;
_Francesco Giubilei, "Storia del pensiero conservatore" - Giubile-Regnani editore;
_Joseph de Maistre, "Considerazioni sulla Francia" - Contro-rivoluzione, 2010;
_Edmund Burke, "Riflessioni sulla rivoluzione in Francia" - Ideazione;
_Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald, "Saggio analitico sulle leggi naturali dell’ordine sociale" - versione digitale;
_Johann Wolfgang Goethe, "Faust", BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2013;
_Johann Wolfgang Goethe, "I dolori del giovane Werther", Feltrinelli, 2014;
_Friedrich Wilhelm Nietzsche, "La Gaia scienza" - Adelphi, 1977.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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17 Febbraio 2018 – Libreria Rinascita (Piazza Roma n.7 - 63100 Ascoli Piceno)
Introduce: Valentina Galati
Modera: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Federico Bottigliengo
 

Sabato 17-02-2018 si è svolto il 36°evento dell'associazione Das Andere. L'ospite - presentato dalla nuova vice-presidente dott.Valentina Galati e moderato dall'arch.Giuseppe Baiocchi -, è stato l'egittologo Federico Bottigliengo, già consulente scientifico per la società torinese Bolaffi e per il Museo Egizio di Torino. Il fenomeno dell’egittomania europea affonda le sue origini in epoche remote: basti pensare ai viaggi-studio dei sapienti greci a Menfi e a Eliopoli, e alla diffusione del culto di Iside, Serapide e Arpocrate nell’impero romano. L’immagine misterica e suggestiva dell’Egitto, quale patria della conoscenza divina e della magia, è riuscita a superare indenne il naufragio della civiltà antica per riemergere, sotto la lente a volte sfalsata dei testi classici, nella tradizione ermetica e alchemica rinascimentale di una élite composta da pochi sapienti e iniziati. Fu solo a fine Settecento, grazie alla campagna di Napoleone in Egitto e alla pubblicazione della monumentale Description de l’Égypte, che la terra dei faraoni entrò prepotentemente e diffusamente nella cultura europea, influenzandone, a tutti i livelli, diversi ambiti, quali la pittura, la scultura, l’architettura, gli arredi e la moda, fino ad arrivare, in età più recente, alla pubblicità e al cinema.

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Italia 8 Dicembre 1970, alle ore 07:59, la nazione avrebbe dovuto ascoltare questo comunicato: «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia verso lo sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione, sono con noi, mentre possiamo assicurarvi, che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano servire la Patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Nel riconsegnare nelle vostre mani, il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d’amore: Italia! Italia! Viva l’Italia!».
Il proclama appena scritto, è un documento autentico: il proclama alla nazione che l’otto Dicembre del 1970 avrebbe dovuto annunciare al Paese il colpo di Stato realizzato dal principe Julio Valerio Borghese (1906 - 1974), un golpe che avrebbe dovuto rovesciare la democrazia e instaurare in Italia un regime militare. Una storia oscura, piena di misteri, di colpi di scena, ma anche di tanti interrogativi, a cominciare da quello che accadde davvero a Roma la notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970.
Sotto l’incessante pioggia di quella sera, strane manovre avvennero dentro la capitale, operazioni che puntano a colpire al cuore lo Stato italiano, i suoi nervi strategici, le sue istituzioni e i suoi uomini.
Gruppi di cospiratori si riuniscono in punti diversi della città: a Montesacro in un cantiere di proprietà dell’ex repubblichino Remo Orlandini; in via Eleniana, vicino alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, nella palestra dei paracadutisti di Sandro Saccucci; in via arco della Ciambella – nel cuore di Roma -, nella sede dei militanti di Avanguardia nazionale, la formazione neo-fascista di Stefano delle Chiaie (1936).
Intanto una colonna di duecento guardie forestali, guidate dal colonnello Luciano Berti è pronta a muoversi da Città Ducale – vicino Rieti – in direzione della capitale.
L’operazione denominata in codice Tora Tora, coinvolge altri luoghi della penisola: squadre di estremisti della destra extra-parlamentare sono pronti a muoversi anche dal Veneto, dalla Liguria, dall’Umbria, dal resto del Lazio, dalla Campania. Il colonnello Amos Spiazzi (1933 - 2012) con i suoi uomini è pronto ad occupare Sesto San Giovanni a Nord di Milano. Il comando politico dell’operazione è a Roma in Via Sant’Angela Merici negli uffici del maggiore Mario Rosa che alle 22:15 fa partire l’azione: la macchina del golpe è in moto, è l’ora X.
Gli obiettivi dei congiurati sono quelli dell’occupazione degli uffici RAI di Via Teuladia, il Ministero degli interni e della Difesa, uccidere il Capo della polizia Angelo Vicari (1908 - 1991), rapire il Capo dello Stato Giuseppe Saragat (1898 - 1988).
Alle ore 23:00, alcuni obiettivi strategici come il Viminale sono già raggiunti, dall’Armeria vengono prelevati duecento mitra, centinaia di uomini sono già in azione. All’1:40 improvvisamente dalla centrale politica arriva un contrordine: smobilitare, tutti a casa.
Per i tribunali italiani tutto questo non è mai successo: anzi molto probabilmente nessuno ha mai seriamente pensato a un golpe. Davvero allora non è successo nulla? Forse no.
Un medico di Rieti, dopo aver partecipato al golpe e dopo aver fatto dieci anni di latitanza, di nome Adriano Monti ha scelto recentemente di confessare, gettando nel caos i verdetti della Magistratura.
Così racconta: «Avevo questo amico, questo alto funzionario della Corte dei Conti, che faceva parte del gruppo ristretto del comandante Borghese ed era il delegato regionale del Fronte Nazionale, per la Regione Lazio. Fu lui che praticamente mi fece incontrare a casa sua, in via Flaminia, il comandante e parlando venni coinvolto in questa fase di preparazione del progetto: ricreare in Italia un nuovo tipo di democrazia, per poter fronteggiare questa tendenza di sinistra, che allora faceva molto paura». La paura del comunismo fu il principio, secondo Monti, per cui Borghese avrebbe progettato e ideato il colpo di Stato. Un progetto da attuarsi con l’aiuto delle forze armate coinvolgendo civili e militari.
Per capire questa storia, dobbiamo sforzarci di compiere un leggero passo in avanti, arrivando al momento in cui gli italiani scoprono, per la prima volta, di essere stati sul punto di diventare cittadini di una dittatura militare. Dalla notte di quel fantomatico golpe sono passati più di tre mesi: il 17 Marzo 1971, alle ore 15:00, il quotidiano romano Paese sera titola di essere stato “scoperto un complotto di estrema destra” per un “piano eversivo contro la Repubblica”.
La notizia corre brevemente su tutti i notiziari nazionali e il Parlamento sospende tutte le sedute, richiamando il Ministro degli interni Franco Restivo a dare conto delle indagini della polizia e della Magistratura. In realtà, secondo il Ministro, non è accaduto nulla, ma dal Palazzo di Giustizia partono i primi arresti.
Claudio Vitalone (1936 - 2008), allora Pubblico Ministero del processo Borghese, racconta come: «Noi pubblicammo come Procura della Repubblica di Roma, una gravissima ipotesi di reato, che era un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato (…) chiunque promuove un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, è punito con l’ergastolo».
I telegiornali narrano: «Vi diamo subito i nomi dei responsabili con le ipotesi di reato. Gli accusati sono l’ex Maggiore dell’esercito Mario Rosa, segretario organizzativo del Fronte Nazionale – capeggiato da Borghese; l’ex tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci, segretario della sezione romana dell’associazione Paracadutisti e il costruttore edile Remo Orlandini». Il giorno dopo è la volta di Julio Valerio Borghese, ma il “principe nero” è irreperibile, diventato ormai una primula rossa.
La polizia lo indica come il leader di questa cospirazione. Il capo delle formazioni del Fronte Nazionale è a tutti gli effetti un latitante, ma chi è in verità Julio Borghese? Quali sono i progetti del Fronte Nazionale? Ha spiegarlo sarà proprio lui, durante un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa, sabato 5 Dicembre del 1970, a meno di 48 ore dalla notte del presunto golpe.
[caption id="attachment_9954" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto il leader Giorgio Almirante, accanto al presidente onorario del Movimento Sociale italiano: Junio Valerio Borghese.[/caption]
Questa intervista comparirà su “La Stampa” il 9 Dicembre del 1970 e prenderà il titolo di “Deliri del principe nero”: «quello che stiamo tentando di fare, è creare un centro di potere su scala nazionale, basato sulle strutture di quel tipo di nazione, che noi vorremmo vedere attuato. (…) Forse servirà un golpetto, ma credo che non occorrerà (…) noi ci avvarremo di inserire, senza colpo ferire, quel vuoto che esiste fin da ora. Oggi la classe politica, si è arresa totalmente ai comunisti. Il dilemma è: Roma o Mosca. Voi preferite essere dominati da Mosca? E allora scegliete il PC».
Al centro della visione politica di Borghese c’è un anti-comunismo viscerale, ma vi sono anche toni cupi e violenti e quegli stessi toni si ritrovano nell’ultima intervista televisiva rilasciata da Borghese durante la sua latitanza alla televisione svizzera: «Oggi parlo contro gli italiani, quando le dico per esempio che uno dei nemici più grandi che abbiamo nel nostro Paese sono i comunisti e questi sono appunto italiani e non mi imbarazza affatto dire che sono nemici e che se potessimo sterminarli io sarei molto contento, perché questo libererebbe il nostro Paese da nemici che ci vivono e che sono una minaccia continua».
Parole dure, violente, minacciose: ma l’anti-comunismo di Borghese del resto viene da lontano.
Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese nasce a Roma il 6 Giugno del 1906. La sua è una delle più importanti famiglia della storia italiana: i Borghese hanno dato alla chiesa un Papa, si sono imparentati con i Bonaparte, hanno espresso uomini di governo e diplomatici nell’Italia liberale. Junio entra in marina nel 1922, a 16 anni, proprio quando il fascismo prendeva il potere e la sua carriera sarà folgorante: durante la seconda guerra mondiale, Borghese è al comando del sommergibile Scirè con il quale si distingue in imprese memorabili che ne faranno un mito non solo nella nostra marina militare. Il 19 Dicembre 1941, Borghese affonda due Corazzate inglesi e un incrociatore: sarà uno dei pochi successi italiani, nel corso del conflitto.
Ma il giorno che segnerà per sempre la vita di Borghese è l’otto Settembre del 1943: nell’Italia della resa e della disfatta fascista, Borghese sceglie di rimanere alleato della Germania hitleriana, contro il “traditore” Badoglio. Con i volontari della Decima Mass, di cui assume il comando, Borghese continua a combattere contro gli anglo-americani che avanzano da Sud. Le formazioni di Borghese sono coinvolte nella guerra civile e la decima verrà accusata di efferatezze per le quali – a liberazione avvenuta – il suo comandante sarà chiamato a rispondere in tribunale. Documenti americani, desecretati solo nel 2000, provano la collaborazione di Borghese e di uomini della Decima con gli americani, già prima del 25 Aprile 1945. Dopo la liberazione, sarà proprio l’intervento personale di James Jesus Angleton (1917 - 1987), responsabile del contro-spionaggio dell’OSS, da cui poi nascerà la CIA, a salvare la vita al “principe nero”.
Processato tra il 1947 e il 1949 per collaborazionismo e guerra partigiana, grazie alle pressioni americane – oggi note – sulla procura militare italiana, Borghese viene condannato, ma ottiene le attenuanti. Dopo pochi anni di prigione è rimesso in libertà, ma è nell’Italia Repubblicana e anti-fascista Borghese resta un esule a disagio.
La via della politica di partito, con il Movimento Sociale, di cui diventa presidente onorario, si rivela ben presto un fallimento. Il principe non condivideva tutte le scelte a suo dire “politicanti” del movimento politico, poiché egli si definiva – ed era – uomo militare.
Un personaggio in difficoltà di fronte alla nascente Repubblica italiana, nata già con più ombre che luci dopo il Referendum, decide di giocare in solitaria e fonda nel 1968 il Fronte Nazionale.
Un movimento – quello di Borghese - che si incasellava in un Paese scosso dalla rivolta studentesca e dai movimenti sovversivi degli operai. Con il Fronte Nazionale, il “principe nero” puntava a divenire collante e riferimento dei movimenti della destra radicale, che non si riconoscono nei movimenti della politica del Movimento Sociale, che giudicano troppo moderato.
Borghese ambiva ad un’azione rivoluzionaria, ovvero ad un mutamento radicale, che doveva essere accompagnato da un’ipotesi tecnica – golpista – che potesse incarnarsi come il “momento 0”, della “rivoluzione”. Falliti i contatti con Ordine Nuovo di Pino Rauti (1926 - 2012), rientrante nei ranghi del Movimento Sociale, l’alleato principale di Borghese diviene unicamente Avanguardia Nazionale.
Ma che realtà era in verità Avanguardia Nazionale? Un movimento composto da militanti ed aderenti, i quali ambivano anch’essi ad instaurare “strutture parallele” alla Repubblica. Note al SID (Servizio informazioni difesa), le strutture clandestine del movimento avanguardista erano costantemente monitorate con accuratezza. Il leader del movimento, Stefano Delle Chiaie, dichiarava su Borghese: «ho ritenuto che Borghese rappresentasse una speranza politica importante e Avanguardia fu messa a sua disposizione, nel senso della militanza. Abbiamo avuto l’onore di essere stati considerati in maniera particolare dal comandante e noi l’abbiamo considerato senz’altro in un modo particolarissimo».
[caption id="attachment_9955" align="aligncenter" width="1000"] Avanguardia Nazionale (AN) è stata un'organizzazione politica di estrema destra nazional-rivoluzionaria italiana, fondata il 25 aprile 1960 da Stefano Delle Chiaie. Con una struttura molto gerarchizzata e impermeabile all'esterno, nel 1964 entra in correlazione con ufficiali dell’Arma dei Carabinieri e del SIFAR, con cui avrebbe dovuto «operare parallelamente» in funzione golpista. Nel 1965 AN si scioglie nella sua struttura di facciata per riemergere all’interno del fenomeno del movimento studentesco. Si ricostituisce ufficialmente nel febbraio del 1970, partecipando al Golpe Borghese. Si discioglierà formalmente nel 1976.[/caption]
Ma un’operazione così ambiziosa, da chi è stata finanziata? Anche di questo parlano le informative del SID: è la data dell’undici Maggio 1969 - «il comandante Borghese nel corso di una riunione di esponenti del mondo imprenditoriale genovese, ha deciso la costituzione di gruppi di Salute Pubblica, per contrastare anche con l’uso delle armi, l’ascesa al potere del PC (Partito Comunista)».
La base di questa nota del SID è in un rapporto dei Carabinieri: «Il 12 Aprile, ultimo scorso, a Genova in una villa appartata a picco sul mare, sita in via Capo Santa Chiara 39, il noto comandante Valerio Borghese si è incontrato con l’armatore Cameli Alberto, con l’avvocato Meneghini Gianni, con il presidente Lagorio Serra Gianluigi e con il proprietario della villa, l’industriale Canale Guido».
Così racconta il giornalista Camillo Arcuri: «Lui venne qui a Genova nel 1969, fece queste sue proposte e alla fine chiese anche questi finanziamenti, preannunciando il colpo di Stato per il periodo di Luglio-Agosto del 1969. Da qui aderì e fece giungere fondi, ai piani di Borghese, - uomini paragonati al potere degli Agnelli – Piaggio, l’avvocato De Marti, il re del caffè Tubino, la crema economica ligure».
Trame, dunque, con i Movimenti dell’estrema destra, con i militari, con il mondo imprenditoriale – ricordo come tutti gli imprenditori citati sono stati assolti -, ma tornando alle indagini del 1971 subito dopo i primi arresti, la Magistratura chiede al SID cosa sappia sul Fronte Nazionale e del tentativo di Colpo di Stato. Il 13 Agosto del 1971, con il documento 13-03 il capo del servizio segreto militare italiano – il generale Vito Miceli – scrive: «quale capo del servizio informazioni della difesa, riferisco che dai controlli disposti, non emerse alcuna conferma della notizia riferita. Ogni ricerca informativa in merito svolta dal servizio ha portato all’esclusione di collusioni, connivenze e partecipazioni di ambienti o persone militari in attività di servizio».
Ma né Miceli, né altri al SID, trasmettono alla Magistratura tutte le informazioni, le quali sono di contro chiare prove d’accusa verso Borghese e verso i suoi contatti. Il 25 Febbraio del 1972, Remo Orlandini, Sandro Saccucci e tutti gli altri imputati vengono scarcerati. Il primo Dicembre del 1973, viene revocato il mandato di arresto di Borghese. La notte dell’otto Dicembre del 1970, insomma, non sarebbe successo assolutamente niente.
Quando tutto sembrava concluso, il 15 Settembre del 1974, un clamoroso colpo di scena, riapre d’improvviso il caso: l’autorità giudiziaria riceve un voluminoso dossier, inviato dal responsabile politico del SID, il Ministro della Difesa Giulio Andreotti (1919 - 2013). Tale plico voluminoso è diviso in tre parti e in specificato modo la prima, studia nei dettagli il golpe Borghese vero e proprio, descrivendo le fasi di preparazione del piano eversivo e gli obiettivi dei cospiratori.
A fornire a Giulio Andreotti il Dossier fu il numero due del Servizio Segreto Militare, il generale Gianadelio Maletti (1921), Capo del contro-spionaggio militare. L’inchiesta è delicatissima, poiché indaga su un gruppo di personaggi che sta cospirando ai danni delle Istituzioni Repubblicane: Maletti ne tiene all’oscuro lo stesso leader del SID, il generale Vito Miceli.
Antonio Labruna, capitano dei Carabinieri, fungerà da supporto tecnico a Maletti, registrando e ottenendo tutte le informazioni sugli aspiranti golpisti, fingendosi un loro complice, legato all’Arma. Il 17 Giugno del 1974, l’agente Labruna registra alcune informazioni determinanti legate ai cospiratori. Ne evince che Remo Orlandini era l’individuo più preparato sotto il punto di vista militare, ma secondo la testimonianza era coinvolto nel tentativo golpista anche Vito Miceli, il Capo del SID. Secondo le registrazioni degli infiltrati di Maletti, a casa di Remo Orlandini avvenne l’incontro tra Julio Valerio Borghese e Vito Miceli.
Davanti a queste fonti autentiche Gianadelio Maletti, si rivolge direttamente al Ministro della Difesa Giulio Andreotti, che racconta in uno spaccato Rai: «Maletti viene da me e mi dice “guardi dalle indagini che ho fatto c’è un colloquio che ha avuto personalmente, il generale Miceli con il principe Borghese”. Nel fare questa inchiesta si ritrova il suo superiore, in combutta con Borghese – dunque non poteva dirlo al suo superiore, ma doveva dirlo a me (…) e sentimmo questa registrazione e il tecnico di questa, era il capitano Labruna».
Miceli una volta sentito da Andreotti si difende, con l’affermazione che egli doveva prendere informazioni, ma come Andreotti affermò «non è il Capo del Servizio, che va a prendere le informazioni».
Vito Miceli, in breve, viene scaricato dalle altre autorità militari. Ancora Andreotti ricorda come: «l’errore fu di chi l’aveva messo a capo dei Servizi, perché non aveva né la professionalità di questo, né forse quel tanto di malizia, che forse può darsi sia necessaria pure per dirigere i Servizi». Il giorno successivo il Ministro della Difesa Giulio Andreotti destituisce Vito Miceli e una ventina tra generali e ammiragli, sostituendoli senza una particolare spiegazione.
Un vero e proprio terremoto ai vertici dei Servizi Segreti e delle forze armate, ma quel Dossier riapre anche le indagini della Magistratura il 10 Ottobre del 1974, con la Procura di Roma che spicca 23 mandati di cattura e nell’elenco figurano tutti i nomi dell’inchiesta del 1971, poi scarcerati dopo un anno, ma questa volta tra gli arrestati vi è anche Adriano Monti.
Un anno più tardi, dopo aver negato tutto, Adriano Monti uscito per problemi di salute, fugge all’estero, dove resta latitante per dieci anni. Nel frattempo il processo Borghese costruito proprio a partire da quel Dossier del SID, si apre a Roma nell’aula bunker del Foro italico il 30 Maggio del 1977.
Gli imputati sono ben 78, tra loro anche Vito Miceli – ormai destituito da Capo del SID, che è stato arrestato il 30 Ottobre del 1974. Tra i latitanti, oltre ad Adriano Monti, anche l’imputato chiave Remo Orlandini. E sulla base di quel Dossier l’accusa propone uno scenario sconcertante: un vero e proprio tentativo di golpe, che avrebbe dovuto avere luogo il 7 Dicembre del 1970, quando un commando di uomini legati ad Avanguardia Nazionale e del Fronte Nazionale penetrano dentro il Ministero degli interni e saccheggiarono l’armeria. Così, sotto intercettazione, racconterà Remo Orlandini: «Nel primo pomeriggio, sono entrati nel deposito, nell’armeria insomma, hanno caricato tutti i caricatori, hanno tirato fuori le armi, le hanno ingrassate, hanno messo a posto tutto quanto. Hanno messo in ordine le mitragliatrici pesanti e le hanno portate nei punti per la difesa del Ministero degli Interni. Eh! – sorride – chi c’entrava più lì! (…) arrivati alla sera – era piuttosto tardi – c’è voluto molto tempo perché gli uomini erano pochi, (…) dal Ministero degli Interni dovevano uscire 200 militari – invece di 200, ne uscirono 180 – che dovevano arrivare a me e che io dovevo dare a determinate persone, per un altro obiettivo (…) le armi non le ho avute, perché poi è arrivato l’ordine di rientrare e abbiamo fatto in tempo a riprenderle per strada, abbiamo ripreso l’autocarro per strada, lo abbiamo fatto rientrare e scaricare, poi le armi sono state di nuovo incassate e rimesse a posto (…) mancava una sola pistola e non è stata portata via dagli uomini di Avanguardia Nazionale, ma da uno dei miei a cui piaceva troppo, erano belle quelle armi, veramente belle. Di sei ne sono rientrate cinque, ne mancava una e l’ho fatta arrivare dalla Germania, dopo quindici giorni l’abbiamo rimessa a posto e nessuno si è accorto di niente».
[caption id="attachment_9957" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Giulio Andreotti, Adriano Monti, Claudio Vitalone.[/caption]
Come racconta Claudio Vitalone – Pubblico Ministero al processo Borghese -, «in un colpo di Stato, il Viminale ha dei centri di comunicazione, con tutta l’autorità periferica, che può essere disinformata, attraverso una gestione della linea superiore di comando, occasionalmente finita nelle mani di chi vuole destabilizzare la vita del Paese (…). Rinvenimmo accanto a dei MAV (Moschetti automatici Beretta), un’arma visivamente contraffatta e l’arma che fu periziata, era un’arma assemblata con parti diverse e quindi non era l’arma originale».
Quella pistola contraffatta sembrerebbe la conferma definitiva alle parole di Orlandini sul furto d’armi al Viminale, ma sempre – secondo l’accusa – quelle prelevate al Ministero degli Interno non sono le sole armi a disposizione dei golpisti: quasi 200 uomini – 197 per l’esattezza – partirono nella tarda serata del 17 Dicembre dalla caserma di Città Ducale al comando di Luciano Berti, apostrofato dal Monti come «un uomo tutto d’un pezzo, d’intelligenza superiore, di una fedeltà assoluta e di una lealtà assoluta».
Fu accertato infatti, dalla requisitoria del Pubblico Ministero - Claudio Vitalone, che l’auto colonna lungi dal dirigersi lungo i Colli Albani, punta dritta su Roma, arrestandosi sulla via Olimpica a poca centinaia di metri dagli impianti della televisione. Il segnale d’arresto è impartito dal Berti, il quale fermatosi dietro un autoveicolo in sosta, dal quale discendono due individui e con i quali intrattiene una discussione, fa riprendere la via del ritorno verso la caserma di Città Ducale. Non ci fu nessuna spiegazione agli ufficiali, sulle motivazioni della “mancata esercitazione”.
Secondo l’accusa, accanto agli uomini di Borghese e di Avanguardia Nazionale, c’era un gruppo di guardie forestali proveniente da Rieti, che a pochi metri dalle sedi Rai di Via Teuladia, avrebbe misteriosamente ricevuto un contrordine. Ma davvero poche centinaia di uomini, avrebbero potuto creare un regime militare in Italia? Qual era allora il vero obiettivo di quella azione? Ancora secondo Claudio Vitalone, l’ipotesi più plausibile è in una ricostruzione della strategia golpista. Creare le premesse per un intervento di tipo autoritario: una volta che si fossero accesi vari focolari di infezione nella Capitale, probabilmente sarebbe stato legittimo l’intervento degli apparati dello Stato e se mai uno di questi “apparati” fosse stato coinvolto nella strategia golpista, avrebbe avuto un titolo di apparente legittimazione dell’intervento. Rimuovere la condizione eccezionale, nella quale ci si era venuti a trovare, per effetto della “provocazione” e della reazione “legittima”, dipendeva soltanto da chi gestiva il progetto eversivo.
L’ipotesi più plausibile, chiama in causa le presunte complicità di apparati dello Stato, eppure nella notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970, queste complicità non ci sono o forse – per così dire – non scattano.
Ancora dalle intercettazioni a Remo Orlandini capiamo come l’ordine di rientro arriva all’01:00 di notte. Orlandini era al comando del “reparto B”, mentre al “comando A” vi era il comandante Borghese, che comunica al suo amico l’ordine perentorio di “far rientrare tutti”.
Inquietante e irrisolto l’interrogativo di chi impartì a Borghese l’ordine di cessare l’attività golpista: nemmeno nella ricostruzione accusatoria il quesito trova una risposta sensata. Secondo Orlandini la mancata presa del Ministero della Difesa nei termini previsti, avrebbe fatto “saltare” le operazioni.
Il principe Borghese, riparato nella Spagna franchista, non rientrerà mai in Italia, poiché morì all’età di 68 anni a Cadice in circostante mai veramente chiarite nell’Agosto del 1974. Adriano Monti, anche lui assente al processo, ha testimoniato nel 2012 il suo ruolo all’interno dei cospiratori: doveva fungere da “ambasciatore” in Europa – attraverso le sue personali conoscenze internazionali – per capire se il cambio “presidenziale” fosse gradito in determinati ambienti europei, poiché l’Italia aveva degli accordi internazionali con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti d’America.
Il 19 Dicembre del 2004, grazie al Freedom of Information Act (FOIA), il quotidiano La Repubblica, acquisisce documenti esplosivi: 5 informative che l’ambasciata americana a Roma, spedisce a Washington tra l’Agosto e il Settembre 1970: oggetto di queste informative – fino ad oggi segretate – è proprio il progetto di Borghese. Gli americani, dunque, sapevano del colpo di Stato. Tra le informative si fa riferimento ai cospiratori e ad una personalità americana in attività a Roma che di questi contatti riferisce all’ambasciatore a Roma Graham Martin.
Da ciò uscirà, come detto, il nome di Adriano Monti: una figura di spessore e rilievo nell’inchiesta, poiché avrebbe fatto da tramite tra il gruppo dei golpisti e l’ambasciata americana. Da parte statunitense avrebbe mediato, con Monti, Ugo Fenwich riferito nelle informative genericamente come un importante uomo d’affari americano, rappresentante in Italia per il Partito Repubblicano statunitense, in stretto contatto con Henry Kissinger e Richard Nixon. Fenwich era apparentemente un ingegnere che si occupava di questioni imprenditoriali e commerciali, ma in realtà era indicato come uno dei fornitori di danaro ai congiurati.
Il giorno degli arresti Ugo Fenwich e la sua famiglia lasciano Roma d’urgenza, richiamati negli States: dunque la Casa Binaca di Nixon era a conoscenza di tutto il piano golpista di stampo militare, ma solo una parte della Cia, ha spinto in tale direzione, poiché parte dell’intelligence americana, sognava una cintura italiana militare anti-sovietica, riprendendo i modelli dell’America Latina, che gli Stati Uniti proteggevano.
Monti non si limitò solo ad intrattenere rapporti con gli americani, ma compì diversi viaggi in Spagna, a Madrid, per incontrarsi più volte con Otto Skorzeny (1908 – 1975), ex ufficiale delle Waffen-SS, uomo artefice della liberazione di Benito Mussolini dalla reclusione sul Gran Sasso, nel Settembre del 1943 e grande amico del principe Borghese. Ma che ruolo ricopre Skorzeny in questa storia? Otto Skorzeny era uno dei fiduciari dell’Organizzazione Gehlen – una organizzazione di intelligence tedesca, che aveva operato molto bene negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale e che fu praticamente cooptata dagli americani e fu inserita come una delle forze di intelligence fiancheggiatrici della Cia.
[caption id="attachment_9958" align="aligncenter" width="1000"] Otto Skorzeny (Vienna, 12 giugno 1908 – Madrid, 5 luglio 1975) è stato un militare austriaco. Soldato della Germania nazista, acquistò grande notorietà durante la seconda guerra mondiale per aver partecipato alla liberazione di Mussolini dalla sua prigionia del Gran Sasso d'Italia del 1943, l'operazione Quercia.[/caption]
Adriano Monti, dunque, vuole accertarsi se l’ex ufficiale nazista poteva dare al principe Borghese la conferma, da parte di certi ambienti dell’intelligence americana, di una ipotetica approvazione statunitense verso questo tipo di iniziativa.
La risposta di Skorzeny fu positiva, ma la condizione era pesante: la presenza di Giulio Andreotti, come presidente del nuovo Governo militare, un personaggio che avrebbe potuto garantire un passaggio indolore per il cambio istituzionale. L’ex Senatore Andreotti recentemente scomparso, nella vicenda Borghese, ha sempre negato la conoscenza di queste trame, e siamo sicuri che queste, come altri suoi segreti, rimarranno in sospeso nella storia della Repubblica italiana.
Difatti Adriano Monti, non è a conoscenza di un coinvolgimento di Giulio Andreotti e tutte queste trame furono svelate solo nel 2012 ed erano sconosciute agli atti del processo.
A Roma il 14 Luglio del 1978, i giudici della corte d’assise che giudicavano i presunti golpisti di Valerio Borghese, con il pubblico Ministero Claudio Vitalone, dichiararono nella requisitoria la condanna di sessanta imputati per complessivi 495 anni di carcere. La corte d’assise in realtà deciderà per pene molto più miti, poiché cadde l’accusa più grave: quella di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.
Rimane in piedi solo la cospirazione politica: Adriano Monti viene assolto per insufficienza di prove, così come l’ex Capo del SID Vito Miceli. Remo Orlandini viene condannato a dieci anni, Stefano Delle Chiaie e Amos Spiazzi a cinque anni, Sandro Saccucci a quattro anni. Assolto anche Luciano Berti: la marcia del Corpo Forestale su Roma, è considerata infatti soltanto una “coincidenza”.
La corte di Primo Grado, ritiene anche che non sussista l’invasione del Ministero degli Interni. Quanto al progetto golpista, la corte scrive: «Per quanto in astratto non peregrina, l’allegazione di una congiura ad alto livello non avrebbe però ricevuto ulteriori conferme e rimane nella sua essenza frutto di una analisi generica non ancorata a sintomi tangibili».
Per i giudici di primo grado non c’è stata nessuna macchinazione, nessuna congiura. Ad alto livello insomma, nessun tentativo di golpe e con i successivi processi, cadrà anche l’accusa di cospirazione politica. Il 27 Novembre del 1984, la corte d’assise d’appello di Roma, ribalta il giudizio di primo grado e manda tutti assolti. Nel 1985 la Cassazione conferma quella assoluzione: «la corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati nel conciliabolo di quattro o cinque sessantenni».
In questa storia senza fine, vi è ancora un ultimo colpo di scena e ne sono protagonisti il giudice istruttore Guido Salvini e di nuovo il capitano Antonio Labruna: siamo a Milano il 7 Novembre del 1991. Durante un’indagine sulle stragi degli anni sessanta e settanta, soprattutto la strage di Piazza Fontana e gli altri episodi eversivi di quella stagione, attribuiti a gruppi di estrema destra come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, ne verrà fuori che Labruna aveva in suo possesso tutti i nastri originali delle intercettazioni sul golpe Borghese e che queste registrazioni – copiate dal Carabiniere prima di consegnarle al suo superiore – risultassero difformi da quelle ascoltate dalla Magistratura, la quale riceveva nelle registrazioni i nomi di ufficiali militari in fase di pensionamento, mentre altri – pienamente in carriera – furono tacitamente cancellati e omessi, rimanendo in servizio con ruoli fortemente centrali nello Stato Maggiore.
L’Ammiraglio Giovanni Torrisi (1917 – 1992) – rivela Guido Salvini -, che divenne un importante ufficiale nello Stato Maggiore della Marina e poi diventerà Difesa: un uomo che sicuramente aveva peso nel panorama militare-politico italiano e non era l’unico.
Torrisi, infatti, non sarà l’unico nome a scomparire dai nastri del carabiniere Labruna, consegnati alla Magistratura. Da quei nastri, nel 1974, è scomparso proprio il nome di colui che si sarebbe dovuto occupare del rapimento del Capo dello Stato Giuseppe Saragat. Questa parte del rapimento fu affidata a uomini della Massoneria, appartenenti alla P2 – personalità riscontrate successivamente nelle vicende, anche giudiziarie degli anni successivi -, il che fa comprendere la motivazione di non rendere nota pubblicamente il coinvolgimento di alcune personalità.
Ad occuparsi del rapimento del presidente Saragat, secondo le intercettazioni di Labruna, doveva essere il massone Licio Gelli (1919 – 2015), insieme ad altri affiliati alla Loggia P2. Ma dal Dossier del 1974, sono scomparsi anche altri particolari fondamentali, ad esempio chi avrebbe dovuto assassinare il Capo della Polizia dell’epoca: Angelo Vicari. In questo caso si trattava di uomini, provenienti da Palermo, appartenenti alla Mafia siciliana e sempre dai nastri si è recentemente appreso come i killer fossero già presenti a Roma, pronti ad agire.
Dell’adesione della Mafia al progetto Borghese, parlano oltre a Tommaso Buscetta (1928 – 2000) anche altri pentiti e tra loro, sono emersi i nomi di Luciano Liggio (1925 – 1993) e Antonino Calderone (1935 – 2013) che dalle loro confessioni, hanno fatto emergere come il governo post-golpista, in cambio di questo appoggio, avrebbe concesso un’amnistia e alleggerito le situazioni processuali di alcuni importanti Boss mafiosi.
Dunque la mafia, la P2, i più alti vertici militari, i servizi segreti e poi anche imprenditori, politici: uno scenario ben diverso da quei “quattro sessantenni nostalgici” di cui parla la sentenza finale di assoluzione, ma perché allora nel 1974 – prima di consegnarlo alla Magistratura – dal Dossier di Labruna, furono tolte delle parti, così importanti? Andreotti ricorda: «Sono passati molti anni, ma ricordo c’erano alcune cose che non erano essenziali agli effetti di responsabilità di carattere penale, ma la cui pubblicità avrebbe potuto essere nociva, sotto altri aspetti, di conoscenze, di rapporti con altri servizi. Di questo ricordo ci fu, una necessità di questo genere».
Nel 1995, la procura di Roma ha incriminato Licio Gelli per cospirazione politica, insurrezione armata contro i poteri dello Stato, attentando all’incolumità e alla libertà personale del Presidente della Repubblica. Per la manipolazione dei nastri, sono stati incriminati, il generale Maletti, il capitano Labruna e il colonnello Romagnoli: a loro è stato contestato il reato di omissione dell’atto d’ufficio, per sottrazione di documenti relativi alla sicurezza dello Stato.
Il procedimento contro di loro, è stato archiviato, per prescrizione il 30 Ottobre del 1997, dal Giudice Otello Lupacchini. Anche il procedimento contro Licio Gelli è stato archiviato per l’impossibilità di acquisire nuovi elementi d’indagine.
 
Per approfondimenti:
_Jack Greene, Alessandro Massignani, "Il Principe nero" - Oscar Mondadori;
_Solange Manfredi, "Il golpe Borghese";
_Massimo Franco, "Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un'epoca" - Oscar Mondadori.
 
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La storia del principio di sussidiarietà può essere identificata con la trama delle forme assistenziali assunte in Occidente. Anticamente infatti non esisteva un rapporto equilibrato tra l’opera di singoli e formazioni sociali da un lato e istituzioni politiche statali dall’altro. Fino dalla tarda antichità il mondo cristiano da vita ad un sistema assistenziale basato su una risposta di natura associativa, la quale traduce una pratica comunitaria diffusa, che dalla caritas evangelica, per la prima volta fa derivare uno ius hospitalis a tutti riconosciuto.
Fino dal primo Medioevo (ultimo periodo imperiale) si assiste alla realizzazione di un “sistema di carità” formato da istituzioni libere ed autogestite le quali erano sostenute da decisioni personali e volontarie di chi sceglieva di far parte di una “associazione elemosiniera” o di dedicare la propria vita al servizio ospedaliero.
Il rimando è alla antica visione positiva del povero, il quale era incarnazione del pauper Christi e della sua redenzione la quale si perpetua nelle membra sofferenti. L’azione caritativa rappresentava in un certo senso una possibilità concreta e privilegiata in un certo senso di salvare l’anima: gesto utile ai caritatevoli prima che ai beneficiari. Strutture permanenti di accoglienza chiamati xenodochia e poi hospitalia vennero fondate lungo le principali reti viarie e presso conventi, residenze episcopali, monasteri, sedi plebane (l’antica pieve, casa del popolo), in contesti nei quali i centri urbani rivestivano importanza minore. In queste sedi veniva praticato un ricovero largamente indifferenziato che era rivolto a malati cronici, anziani, invalidi e poveri.
La figura giuridica entro la quale si collocava l’intervento caritativo, con la sistemazione del diritto giustinianeo, era quella dell’opera pia. Una realtà che, pur agendo nella sfera civile, conservava in ragione della sua peculiare natura una notevole autonomia e godeva di esenzioni in quanto beni della Chiesa, garanzie e notevole autonomia. Potevano disporre di donazioni, lasciti e usare rendite o patrimoni per i loro interventi assistenziali: forme molteplici di carità familiare e personale venivano istituzionalizzate.
Dopo l’ VIII-IX secolo questo tipo di organizzazioni assistenziali si inserivano in una situazione sociale relativamente stabile: una situazione alimentare che non era insoddisfacente ed assenza di epidemie favorirono una crescita demografica, legata verso un favorevole rapporto tra le risorse e la popolazione. La successiva e straordinaria crescita delle città fu sostenuta da una rete assistenziale che si adeguò a nuove esigenze con la creazione di ospedali urbani da una parte, e un ceto borghese e mercantile che sosteneva numerose confraternite elemosiniere dall’altro. Gli ordini mendicanti protagonisti di tale azione furono i Domenicani, all’origine delle “misericordie” ed in molti borghi e città italiane i Francescani, con i “consorzi elemosinieri”. La povertà urbana trovò in molti casi efficace risposta, al di fuori di un piano complessivo delle magistrature comunali, in una prospettiva di sussidiarietà formatasi in modo spontaneo.
A partire dalla metà del XIV sec., due elementi conducono ad un primo cambiamento del sistema: peggioramento delle condizioni sanitarie e sociali con epidemie ricorrenti di peste, e sviluppo economico causa di ampia marginalità sociale.
La concezione della povertà si fa varia e nella letteratura umanistica (si veda il III capitolo riguardante l’opera di J.L.Vives), volta ad illustrare conseguenze sociali potenzialmente pericolose e caratteristiche ambivalenti della stessa, si sottolinea il bisogno di discernere le elemosine. Il contatto con idee precedenti tuttavia non venne perso, le stesse furono sempre riproposte da movimenti di riforma religiosa e furono fatte proprie nell’epoca dell’umanesimo civile con la creazione di uffici cittadini di assistenza ed in Toscana e Lombardia vennero creati gli “ospedali maggiori”.
Tale ormai indispensabile ed inedito intervento di poteri laici ed ecclesiastici consentì una maggiore specializzazione, sia sociale che medica, pure collocandosi in un processo segnato da un “disciplinamento” religioso e sociale. Una caratteristica di tale legislazione - la quale precedette in numerose città italiane, la successiva norma anglo-elisabettiana -, fu la distinzione tra poveri inabili (buoni) ed abili al lavoro (cattivi), i quali furono obbligati al lavoro in luoghi di internamento. Fu rivolta una attenzione particolare ai poveri “vergognosi”, civili e nobili decaduti.
A queste categorie furono rivolte istituzioni ormai specializzate, che nel XVI secolo si posero l’obiettivo di recludere le stesse a scopo rieducativo: vennero fondati gli “ospedali generali” in Francia, le “workhouse” in Inghilterra e Olanda, gli “alberghi dei poveri” nella penisola italiana. Con questi strumenti la popolazione cittadina marginale trovò asilo e possibilità di lavoro, mentre la “reclusione”, spesso nei suoi effetti sopravvalutata e fraintesa, non esaurì la gamma degli interventi assistenzialistici in Europa e non presentò soluzioni di continuità con le tradizioni caritative delle comunità rurali e delle città. Le riforme cattolica e protestante offrirono un grande impulso attraverso le iniziative promosse da gruppi legati a nuovi fermenti cristiani e all’umanesimo devoto. I cambiamenti attuati nel 500 - dall’Italia settentrionale alle Fiandre, dalla Baviera alla Renania e alla Francia - risposero a fini morali e spirituali più che al controllo sociale.
Accanto alla rete di ospedali urbani, consorzi elemosinieri e monti di pietà, sorsero molteplici iniziative laiche e, negli Stati cattolici sorsero nuove organizzazioni religiose e nuove confraternite rivolte all’assistenza degli orfani. In Europa si fondarono numerosi ospizi e ritiri per anziani, minori abbandonati, giovani donne, inabili, vedove, in un quadro di una sempre più viva sensibilità per i temi della famiglia e dell’infanzia. Le stesse prerogative ecclesiastiche riguardanti gli enti ospedalieri e assistenziali, affermate dal Concilio di Trento in una continuità con la tradizione del medioevo, restarono interne ad un sistema il quale riflesse posizioni largamente condivise, mentre furono sempre vive le autonomie legate alle corporazioni di mestiere, ai ceti, alle libertà locali. La prima affermazione di statualità moderna si inserì in una trama di poteri articolati e diffusi, unici in grado di occuparsi dei problemi territoriali e delle sue componenti professionali e lavorative.
[caption id="attachment_9939" align="aligncenter" width="1000"] l Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica. Esso avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, durando ben 18 anni, dal 1545 al 1563, sotto il pontificato di tre papi. Si risolse in una serie di affermazioni tese a ribadire la dottrina cattolica che Lutero contestava. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante).[/caption]
Non a caso, fra gli inizi del XVII secolo e la metà del successivo, l’Europa conobbe da una parte interventi di “ingegneria disciplinare” dell’assolutismo illuminato, ma dall’altro lo sviluppo di numerose iniziative basate sull’assistenza domiciliare e su un diretto rapporto con il povero, di perdurante ispirazione religiosa, nel solco dell’esperienza confraternale. Alle istanze di rinnovamento diffuse nei paesi riformati, fece riscontro l’opera di san Vincenzo de’Paoli e l’azione delle religiose da lui fondate al di fuori del chiostro, mentre la spiritualità di san Francesco di Sales diede un particolare impulso a una carità a sfondo sociale. Non è un caso che in quel periodo molte proposte di cambiamento giunsero da ambienti religiosi, miranti a una migliore organizzazione dei ricoveri, e più tardi, a un generale ripensamento del sistema caritativo. In tale prospettiva la scoperta del “sociale” – che portò a una sottolineatura della centralità del momento sanitario e ospedaliero, nonché dell’importanza di un associazionismo libero da vincoli di ceto – mise in discussione molte delle forme ereditate dal passato, ma non un comune riferimento ideale.
Come avvenne in Inghilterra con le “poor laws”, i tentativi di riforma si dovettero misurare con un mutamento rispetto al quale si rese necessario un intervento pubblico e i suoi caratteri di universalià e razionalizzazione. Se in Italia non si giunse a sistemi di “carità legale”, si giunse comunque ad un ingresso dello Stato e non più solo dell’autorità cittadina nel campo della beneficienza pubblica. Di fronte ad un processo sempre più rapido di crescita demografica e di modernizzazione economica, con il conseguente aumento della povertà e disgregazione dei rapporti familiari, si imposero delle decise innovazioni.
Andarono verso tale direzione molte voci di matrice illuministica, accompagnate a volte da accenti antipauperistici, anche se con Montesquieu non mancò chi sostenne una estensione più coerente dei diritti nel sociale. Tale estensione fu resa più urgente dai limiti imposti ai corpi intermedi, soprattutto in rapporto ai diritti tradizionali delle comunità, mentre gli ordini religiosi, le corporazioni e le confraternite furono colpite dalla politica delle soppressioni con ricadute ovvie sul tenore di vita di popolazioni rurali ed urbane.
Due principali caratteristiche possiamo trovare nelle legislazioni assistenziali tra la fine del 700 e gli inizi dell’800, nel tentativo, di ricreare la coesione sociale: sul piano municipale la concentrazione degli istituti che porterà ai “bureaux de bienfaisance” e in età napoleonica alle congregazioni di carità, ed in secondo luogo un intervento governativo diretto nella gestione degli enti, con nomina pubblica degli amministratori e controllo diretto dei patrimoni, vista l’inadeguatezza e la diminuzione delle rendite e dei lasciti testamentari.
Alla luce di nuovi indirizzi delle scienze sociali e mediche si crearono premesse per una nuova visione dell’ospedalizzazione, che non prevedeva più una cura indifferenziata, attraverso l’apertura di istituti per fronteggiare il problema della povertà. Aumentarono le possibilità di intervento e i governi se ne servirono ampiamente, talora con un uso selettivo e discriminante dei sussidi elemosinieri. Soprattutto in relazione a un’inedita mentalità produttivistica, case d’industria e di ricovero allargarono notevolmente la loro capacità ricettiva ma, furono utilizzate a fini del controllo territoriale e di polizia. In più di un’occasione, tuttavia, si arrivò a svolgere un’opera di assistenza immediata, sovente con il ricorso del lavoro a domicilio, nei confronti della povertà tradizionale e della nuova marginalità sociale tipica delle città europee fra il ‘700 e l’800. Incertezze teoriche si rifletterono sul piano pratico, in sostituzione delle disgregate forme di solidarietà, al dovere dello Stato di occuparsi dei bisogni non corrispose un diritto all’assistenza se non per il breve periodo del giacobinismo nella Francia rivoluzionaria.
Nel periodo della Restaurazione si cercò un diverso equilibrio, con i gruppi dirigenti che mantennero il controllo dello Stato sulle istituzioni di beneficienza, ma allo stesso tempo favorirono impostazioni paternalistiche basate su una politica sociale fatta di lavori pubblici e sussidi familiari, mutuo soccorso, ospedali e ricoveri. Tali scelte si rivelarono del resto insufficienti, in un processo di industrializzazione e modernizzazione economica, e questo non poté che riaprire spazi per l’iniziativa religiosa e privata. Le chiese tornarono in primo piano e, dopo le soppressioni del 700 e dell’età napoleonica, si registrò una diffusione di ordini religiosi, soprattutto femminili, dediti alla rieducazione, all’istruzione popolare, all’assistenza ospedaliera e privata.
A tale fenomeno di amplia portata si accompagnò sovente un associazionismo laicale che diede vita a forme di soccorso originali soprattutto verso le forme di povertà causate dall’urbanesimo come la devianza giovanile e il disagio familiare. Su tali basi si svilupparono ulteriori progetti nel campo del credito popolare, della cooperazione in agricoltura, del mutuo soccorso operaio, i quali costituirono una risposta coraggiosa ed aperta alle necessità del tempo.
Tutto l’800 conobbe dunque un incremento di opere sociali, con la fondazione di gradi istituti medici specializzati anche nel campo pedagogico, frutto di una nascente filantropia laica e di una rinnovata coscienza religiosa, unite nel tentativo di un contenimento dei costi elevati del “progresso” celebrato da tante parti. Diverse ispirazioni animarono una vasta gamma di iniziative, in un concetto di sussidiarietà costruita dal basso in grado di intervenire sulla politica.
Sul finire del secolo furono introdotte delle prime norme legislative di rilievo nel campo previdenziale, infortunistico, mutualistico-sanitario, di tutela dell’infanzia e della maternità coniugando seppur con tensioni le richieste dei movimenti di ispirazione democratico-cristiana e socialista. Con la Lettera enciclica Rerum novarum del Pontefice Leone XIII (che sarà trattata nel cap.IV) si incoraggiò tale prospettiva prendendo le difese dell’associazionismo e del particolare ruolo dei corpi intermedi.
[caption id="attachment_9941" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine: miniatura sul ritratto di Papa Leone XIII (particolare). Papa Leone XIII (1810 – 1903) è stato il 256º Papa della Chiesa cattolica (dal 1878 alla morte). È ricordato nella storia dei Papi dell'epoca moderna come Pontefice che ritenne che fra i compiti della Chiesa rientrasse anche l'attività pastorale in campo socio-politico. Se con lui non si ebbe la promulgazione di ulteriori dogmi dopo quello dell'infallibilità papale solennemente proclamato dal Concilio Vaticano I, egli viene tuttavia ricordato quale Papa delle encicliche: ne scrisse ben 86, con lo scopo di superare l'isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo la perdita del potere temporale con l'unità d'Italia. La sua più famosa enciclica fu la Rerum Novarum con la quale si realizzò una svolta nella Chiesa cattolica, ormai pronta ad affrontare le sfide della modernità come guida spirituale internazionale. In questo senso correttamente gli fu attribuito il nome di "Papa dei lavoratori" e di "Papa sociale", infatti scrisse la prima enciclica esplicitamente sociale nella storia della Chiesa cattolica e formulò quindi i fondamenti della moderna dottrina sociale della Chiesa.[/caption]
L’evoluzione legislativa della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo costituì indubbiamente il punto d’arrivo dell’azione pubblica nel settora dell’assistenza e in molti casi gli stati si orientarono in questo senso dopo l’esempio della Germania bismarckiana. Al tempo stesso la rete degli istituti di beneficenza e delle opere pie fu ovunque posta sotto il controllo statale, come avvenne in Italia con la legge Crispi del 1890. Fu il risultato paradossale di un intervento statale di risposta alle attese sociali e che per molti aspetti le deluse, anche se l’associazionismo non perse vitalità e continuò ad esercitare un ruolo fondamentale nella risposta al bisogno.
Alla vigilia della I guerra mondiale, la formazione della società di massa, impose il passaggio ad una fase ulteriore caratterizzata da un’estensione dei servizi di assistenza ai lavoratori e alle loro famiglie. Dagli anni ’30 si accompagnò una forte crescita delle spese per i servizi sanitari e mutualistici divenuti obbligatori, mentre si delinearono i primi sistemi di welfare state in riferimento al modello inglese, su base universalistica e fondato sul diritto di cittadinanza. I movimenti politici sociali e le chiese cristiane sostennero con convinzione l’idea del welfare state, pur in una varietà di proposte ed in difesa del proprio spazio d’iniziativa.
I sistemi occidentali hanno in genere sviluppato tali premesse, raggiungendo innegabili risultati di socialità e di democrazia. Il sacrificio sovente imposto alle forme autonome di organizzazione e il peso attribuito all’azione pubblica –controllata e in molti casi direttamente esercitata da istituzioni dello stato o di altri enti territoriali- rappresentano tuttavia elementi problematici dall’inizio latenti e palesi di fronte alla più recente crisi del welfare state. Si tratta di una crisi certo dovuta a fattori esterni - di natura finanziaria, fiscale, demografica -, ma che è non di meno legata alla crescente difficoltà di rispondere a esigenze non riconducibili alla sfera economica e non affrontabili da un’autorità politica centrale e inevitabilmente lontana. Non a caso non è mai venuta meno e si è anzi sempre più affermata la necessità di lasciare spazio ai soggetti della società civile, riaffermando il valore della sussidiarietà, in rapporto alle politiche dello Stato moderno, come fondamento di un intervento efficace e come espressione della libera iniziativa delle formazioni sociali.
Per approfondimenti:
_Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (2005);
_Boezio S., Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae;
_Bortoli B., I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), AAS 58 (1966);
_Concilio Vaticano II, Dichiarazione Gravissimum educationis (1965), AAS 58 (1966);
_Dal Pra Ponticelli M., Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma (2010);
_Dal Pra Ponticelli M., Pieroni G., Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma 2005;
_Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (1981), AAS 74 (1982);
_Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1991), Libreria editrice vaticana (1991);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Mater et Magistra (1961), AAS 53 (1961);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (1963), AAS 55 (1963);
_Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum (1891), AAS 23 (1890-91);
_Lombo J.A., F. Russo, Antropologia filosofica. Una introduzione;
_Magagnotti P., Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna (1991);
_Maritain J.. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), AAS 63 (1971);
_Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio (1967), AAS 59 (1967);
_Pio XII, Radiomessaggio al VII congresso internazionale dei medici cattolici (1956), AAS 48 (1956);
_Pio XII, Radiomessaggio natalizio sul problema della democrazia (1944), AAS 37 (1945);
_Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno (1931), AAS 23 (1931);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Villa F., Dimensioni del Servizio Sociale, Vita e pensiero, Milano (2000);
_Vittadini G., Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_Vives J.L., De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae;
_Vanni Rovighi S, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_Vanni Rovighi S., Elementi di filosofia, vol. 3 , La Scuola, Brescia (1995);
_Utz A.F., Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des Subsidiaritatsprinzip, in Utz A.F.(a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip, Kerle, Heidelberg, 1953, (trad. it. In A.F.Utz (a cura di), Il principio di sussidiarietà, a cura di P.Del Debbio, trad. it. Di G.Lacchin).
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470842234337{padding-bottom: 15px !important;}"]L’irrealtà reale del Barone Bagge , di Alexander Lernet-Holenia[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 22/02/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1511360625245{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Pubblicato da Adelphi, “il barone Bagge” fa parte del lascito del poco noto scrittore austriaco vissuto nel 900, il crepuscolare Lernet-Holenia. Quale l’elemento che balza agli occhi? Giovanissimo, si arruola volontario nel IX reggimento dragoni nel primo conflitto mondiale, l’abisso che sconvolse l’Europa e dal quale non si riprese mai più del tutto.
Lo scrittore austro-ungarico attinge a piene mani da questo bacino d’esperienza per poi costruire le sue trame narrative, i suoi racconti.
Edito nel 1936, il romanzo, che si esaurisce in una ottantina di pagine, ha una intensità di lettura sicuramente fuori dal comune, cattura il lettore per trascinarlo in modo potente nella sua trama.
1915: il IX battaglione dei Dragoni austriaci si trova in Russia con il compito di depotenziare l’esercito dello Zar, una delle potenze storiche che, con la Grande Guerra, avrebbe concluso la sua parabola storica.
Il Barone Bagge, giovane tenente e rampollo della nobiltà austriaca, partecipa a questa particolare missione ed è agli ordini del carismatico e folle capitano Semler, fin da subito un individuo che trasmette instabilità e incapacità tattico-gestionale, pari alla sua sfrenata ambizione.
Sul confine russo, la compagnia punta a Nord, nella pianura pannonica. L’obiettivo è risalire il confine russo (oggi Ucraina) fra crateri ormai spenti e pantani gelati. Scopo dell’operazione è quello di rilevare le posizioni russe, senza ingaggiare nessun combattimento ed attestarsi nella cittadina di Nagy-Mihaly. Giunti in prossimità di un ponte sul fiume Ondava, il capitano, preso dalla boria e disobbedendo agli ordini ricevuti, lancia alla carica i suoi centoventi uomini contro le postazioni russe.
Dopo un breve tratto la strada svoltava di nuovo a destra; ora si andava in linea retta verso est. Poco più in là ci sorse davanti un lungo terrapieno, basso e uniforme. Era l’argine interamente innevato dell’Ondava, che scorreva a livello più alto della pianura; e improvvisamente, a pochi metri da noi, vedemmo il ponte, con le rade case del paesello di Hor sparse sulla sinistra. In quel momento Semler ordinò il galoppo; lo squadrone, sciolto ogni freno, sfrecciò innanzi di colpo, e quasi nel medesimo istante ci raggiunsero frontalmente, echeggiando smorzate nella bufera, delle salve di fucileria. Udii il trombettiere dare il segnale di carica, e con gli uomini piegati sui colli degli animali, le lame delle lunghe, moderne sciabole inglesi tese in avanti, l’intera massa a cavallo si precipitò di gran carriera e in pochi attimi superò la sommità del terrapieno che conduceva al ponte. Vidi tre o quattro dragoni sparire dalle selle, come soffiati via o cancellati, e anche stramazzare alcuni cavalli. Tutt’intorno neve, pezzi di ghiaccio e ciottoli si sollevavano mulinando; due ciottoli mi colpirono. Uno, risonando squillante, mi batté sull’elmetto, vicino alla tempia, l’altro mi colpi alla sinistra del petto, vicino alla spalla. Meno male, pensai, che non sono scoppiettate! Già il ponte rumoreggiava sotto di noi, e vidi che l’avamposto russo di guardia giaceva a terra. Di fronte, a poche centinaia di passi, si scorgeva il paese di Vaserely, che fin allora ci era stato nascosto dall’argine e da cui sciamavano stormi di russi in fuga, che in parte andavano a fermarsi all’estremità del paese, in parte, dopo aver corso ancora un tratto, si gettavano a terra nei campi e aprivano il fuoco su di noi. Ma per loro era già troppo tardi. Passato il ponte di slancio ci spiegammo subito, a gruppi e a frotte disordinate, su una specie di fronte, travolgemmo coi cavalli gli avversari, di cui alcuni ci correvano ancora incontro mentre altri balzavan su e scappavano, e dopo aver divorato in circa mezzo minuto la distanza che ci separava dal paese, piombammo sulle prime case facendo strage di russi e ricacciando i rimanenti dentro il villaggio, dove gettarono le armi e si arresero”.
Vi è qui una prima conclusione del racconto, essendo il romanzo suddivisibile in due parti antitetiche e speculari, come nella nostra esistenza lo sono la vita e la morte.
Questo squadrone lanciato all’attacco suicida attraversando il ponte sull’Ondava riceve il fuoco dell’artiglieria russa. Arrivati a questo punto il racconto conosce una pausa ritmica che non attiene solo alla narrazione, ma che coinvolge lo stesso spazio e tempo, elementi che troveranno uno scopo, sempre labile, solamente nel finale.
Imperante è la compenetrazione tra le due dimensioni, sì che non è possibile scinderle. Sogno e realtà acquisiscono la stessa consistenza, sono specchio di se stesse.
Questo evento si correla in maniera strettissima alla natura umana, espressa in termini di ambiguità, come il binomio vita-morte, che per l’autore sono concetti relativi. La stravaganza narrativa è paradossale e semplicissima poiché tocca la psiche umana in riferimento al concepire soggettivamente la propria e l’altrui vita: siamo abituati a chiamare morte ciò che per altri è vita, e siamo soliti chiamare sogno ciò che per altri è realtà.
Proseguendo con il racconto, Bagge si riprende dalla caduta da cavallo, data dall’uccisione del suo animale e scopre che in apparenza il reggimento russo è distrutto e disperso, e la carica ha avuto successo, ma l’impressione che “qualcosa non vada” si sente nell’aria. In primo luogo nei compagni che lo circondano, taciturni, glabri, spenti di quell’ardore cavalleresco che li contraddistingueva.
Altro elemento è la ricerca, quasi spasmodica, del capitano Semler, intenzionato ad andare oltre il ponte e continuare la ricerca, senza avere più veri ordini. Riprendo dal testo questa bellissima sfumatura:
Da quel momento continuammo a cavalcare per altri tre giorni e per alcune ore del quarto giorno. (…) Lo strato di nubi che teneva nascosto il cielo e occultava la vista delle montagne poco più in alto del fondovalle, s’incupiva sempre maggiormente, e si mutò alla fine in una specie di nebbia nerastra nella quale, più che marciare, andavamo tastoni”.
Dunque, con una buona dose surrealista, il viaggio prosegue spedito verso la cittadina russa di Nagy-Mihaly che viene raggiunta senza incontrare né il nemico né nessuna opposizione.
La piccola cittadina, oggi facente parte della attuale Slovacchia, si presenta stracolma di persone in festa dando un’accoglienza calorosa al battaglione che entra trionfante. L’unico ad avere perplessità è sempre il nostro protagonista che trova certamente impensabile un’accoglienza del genere da una popolazione nemica in territorio di guerra!
Suoni, contesto, paesaggio che circondano la città sono sempre esternamente ovattati, nebbiosi, poco distinti.
Invitato ad un ballo in maschera nella festa del paese, il tenente trova i paesani travestiti da soldati con uniformi ingiallite dal tempo, trattenendo il lettore sempre in una sorta di stupore. Anche una piccola storia d’amore con una donna, Charlotte, sembra inverosimile poiché la donna afferma di amarlo e aspettare il suo ritorno da sempre, ma Bagge si innamora di lei e le dichiara anche lui il suo amore.
Altro piccolo dettaglio: nella festa a Charlotte cade un ventaglio su cui è impressa una poesia emblematica di Stéphane Mallarmé: “mentre essa sta davanti allo specchio, ad ogni battito del ventaglio lo specchio s’illumina e ogni volta qualche granello d’invisibile cenere si riversa sul cristallo”.
Prima di fare chiarezza sul suo amore Bagge deve obbedire all’ennesimo eccesso del capitano Semler: si deve proseguire con l’esplorazione per trovare il nemico. Nonostante le controversie il battaglione si rimette in marcia.
Nel suo saluto a Charlotte, Bagge capisce chiaramente che questo per lui è un addio. Qui incontriamo un altro elemento importante in Lernet-Holenia: non ci può essere posto per l’amore quando si è svuotati completamente dalla mancanza di valori e ideali, quando non si ha più uno scopo nella vita.
In realtà, come poi scopriamo, tutto il villaggio non è altro che una sorta di “limbo” dove le anime, morte nella violenza del conflitto, aspettano l’ultimo passaggio verso l’aldilà.
L’anima di Charlotte scambia in realtà Bagge per il suo amato defunto in guerra, ma nello stesso tempo, l’anima di Bagge non può rimanere con lei, poiché egli è ancora vivo.
Il libro, intriso degli spiriti cavallereschi già scomparsi ai tempi della stesura del romanzo, restituisce quell’atmosfera decadente che caratterizza proprio il suo sguardo sul mondo: una realtà spazzata via, come la morte dei valori divini che l’uomo aveva tramandato da secoli: la lealtà, il valore, l’onore, il crollo di tutto ciò in cui quest’uomo aveva creduto, viene spazzato via nel 1918 appena due anni dopo “il barone Bagge” lasciando posto allo spirito della nuova epoca. In questa stretta relazione la morte di tutti i suoi compagni sta a significare, appunto, proprio la fine degli ideali, una conclusione che Lernet-Holenia come il tenente Bagge non accetta subito e che si trascina questo peso nell’anima ancora per un po’. Crede che gli altri siano ancora vivi, come quel mondo che non c’è più. Poiché la tragica scoperta che sta per fare il personaggio è proprio che cavalca, si muove, dialoga con elementi che oramai sono della terra d’ombra: sono morti. L’avvenimento viene descritto in maniera epocale e bellissima:
Ed ecco mostrarsi all’improvviso sulla strada davanti a noi un gran bagliore metallico, e avvicinandomi mi resi conto che veniva da un ponte che scavalcava il fiume in quel punto. Un fragore formidabile, come di cascate di vetro alte fino al cielo, e un vapore iridescente come d’acque bollenti veniva su dall’abisso. Ma il ponte stesso era rivestito di lamiere di metallo che rilucevano come oro. Sì, era proprio oro quello di cui il ponte era coperto. “Volete, volete passare il ponte?” urlai nel fragore delle cascate. “Si”, risposero tutti, e le loro voci rimbombarono come un coro di campane. Ma io no, io non vengo con voi, non voglio passare dall’altra parte, non voglio, dev’essere tutto un sogno, ma io voglio svegliarmi - e mi svegliai”.
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Bagge di colpo, allora, si risveglia gravemente ferito sul teatro della schermaglia campale ed è ferito da due colpi di arma da fuoco, creduti inizialmente pietre. Il battaglione è annientato e lui rimane l’unico sopravvissuto. Perderà ancora una volta la coscienza, ma vivrà e nell’ospedale ungherese dove verrà portato, avrà modo di riflette su questo stato di pre-morte che lo ha colto, è come risvegliarsi in una nuova epoca e di non sentirsi più a proprio agio, come del resto avvertirà già nel sogno dopo lo scontro a fuoco.
Concludendo con le pagine di questo bellissimo racconto, la parola torna al narratore che “svela” di facto quello che era accaduto: “Bagge aveva percorso il cammino di nove giorni della morte, così come è prefigurato nei miti, s'era spinto verso il paese del sogno, verso nord, fino al ponte di Hor, o di Har, là dov'è la via di Hel, degli Inferi, fino al ponte d'oro che porta nell'irrevocabile da cui nessuno torna. Lui solo era riuscito a volger le spalle, ed era tornato indietro. Poiché, se qualcuno - così è detto - volge le spalle sulla via della morte, egli farà ritorno”.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1518914319512{padding-bottom: 15px !important;}"]36°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Retour d'Égypte. L'influenza dell'antico Egitto nel Vecchio Continente. F.Bottigliengo[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1518915161478{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 17-02-2018 si è svolto il 36°evento dell'associazione Das Andere, quarto incontro della rassegna culturale "Crisi e metamorfosi".
L'ospite - presentato dalla nuova vice-presidente dott.Valentina Galati e moderato dall'arch.Giuseppe Baiocchi -, è stato l'egittologo Federico Bottigliengo, già consulente scientifico per la società torinese Bolaffi.
Il dott.Bottigliendo, attraverso un'interessante e bellissima lezione ha dissertato sulle influenze degli antichi egizi all'interno del continente europeo: influenza partita dagli antichi greci e culminato con la spedizione bonapartista alla fine del Settecento. Particolare analisi è stata dedicata al mobilio e alla simbologia che l'antico Egitto ha prodotto in tutta Europa: dal significato delle Sfingi, fino alle curiosità di carattere medico e artistico.
Nel finale si è svolto il dibattito, che ha visto coinvolto una platea interessata e preparata. 
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1518772584373{padding-bottom: 15px !important;}"]Crisi e metamorfosi. Addio alla verità. Il limite come cifra. Danilo Serra[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1518772723932{padding-top: 45px !important;}"]  
03 Febbraio 2018 – Sala Bice-Piacentini, Via del Consolato, 14, 63074 San Benedetto del Tronto (AP).
Introduce: Giovanni Amadio
Modera: Alfredo Calcagni
Interviene: Danilo Serra
 

Danilo Serra introduce attraverso la sua lezione "Addio alla verità. Il limite come cifra", la tematica adottata dall'associazione culturale Das Andere per la stagione 2018 "Crisi e metamorfosi". Il nichilismo è senza dubbio uno dei fenomeni che più̀ interessa l’uomo del nostro tempo: il tempo ipertecnologico. Nietzsche lo definisce come «il più̀ inquietante» (unheimlich) tra tutti gli ospiti, il più̀ allarmante, quello più̀ pre-occupante. L’emergere del nichilismo (dal latino nihil, “niente”) ha condotto storicamente alla crisi della ragione e della metafisica, all’idea cioè̀ che ci possa essere una verità̀ unica afferrabile come principio di tutto. L’impossibilità di rispondere alla domanda posta da Leibniz «perché́ [esiste] Qualcosa anziché́ Niente?» caratterizza l’epoca nichilista.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1518433516209{padding-bottom: 15px !important;}"]Brexit la sfida. Daniele Capezzone, Federico Punzi[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1518433671179{padding-top: 45px !important;}"]  
20 Gennaio 2018 – Bottega del Terzo Settore – Via Trento e Trieste n.18, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Daniele Capezzone
Interviene: Federico Punzi
 

Sabato 20 Gennaio presso la Bottega del Terzo Settore si è svolto il 34°evento dell'associazione onlus Das Andere. Ospiti l'Onorevole Daniele Capezzone e il giornalista Federico Punzi. L'evento introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi ha visto protagonista un pubblico variegato, con i saluti di apertura del presidente del Consiglio comunale Marco Fioravanti. Nell'ultimo anno la magnitudo britannica Brexit ha avuto effetti devastanti sull'opinione pubblica - di stampo fortemente europeista -, la quale ha drammaticamente demonizzato il fenomeno della libera scelta dei cittadini britannici. Federico Punzi prima, Daniele Capezzone poi, hanno dissertato sul vero significato di un'operazione politica complessa, dove è emerso unicamente il desiderio e il bisogno, da parte britannica, di continuare a perseguire il proprio interesse nazionale. Rischio dell'Italia, diversamente, quello di accodarsi all'asse franco-tedesco, che propone un sistema economico sempre più centralizzato e sempre meno competitivo. Frizzante e di forte interesse le domande del pubblico che ha dimostrato - ancora una volta - grande preparazione disciplinare: giusto premio verso un saggio - edito da historica edizioni di Francesco Giubilei -, di grande coraggio e spessore.

Il volume ha l'obiettivo di illuminare, attraverso opinioni originali e controcorrente, l'altro lato possibile del voto per la Brexit, dopo il quale in Europa è prevalsa un'opinione ostile e di condanna delle scelte del popolo e del governo britannico. Su tutto questo, la distanza tra popolo ed "esperti", tra cittadini ed establishment, appare sempre più marcata. In sottofondo, c'è l'antica e mai risolta antinomia tra un mondo anglosassone storicamente capace di scommettere sulla libertà, sulla competizione, sul confronto, e una consolidata tendenza dell'Europa continentale a costruire sistemi politici ed economici consociativi, bloccati e rigidi. In palio non c'è solo il nuovo equilibrio che si verrà a creare tra Londra e Bruxelles, ma anche la capacità di cogliere l'occasione per ridiscutere le regole europee, per costruire alleanze dinamiche e intelligenti, salvo altrimenti accettare come destino irreversibile il predominio franco-tedesco.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1518312114671{padding-bottom: 15px !important;}"]Esegesi del pensiero politico progressista[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci 11/02/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1518336381010{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
I manuali accademici distinguono principalmente quattro grandi correnti all’interno del pensiero politico contemporaneo: sinistra moderata o riformista, sinistra radicale o massimalista, destra moderata o liberal-conservatrice e infine destra socio-radicale.
Secondo tale definizione il socialismo, in particolar modo le sue correnti radicali come l’anarchismo e il comunismo, rientrerebbero nella seconda categoria costituendo l’ala estrema della sinistra tanto che i due termini costituirebbero un binomio inscindibile. La tesi secondo la quale la sensibilità socialista sia legata in qualche modo alle dottrine della sinistra è un’idea indotta che risale sostanzialmente all’affaire Dreyfuss, conflitto politico e sociale consumatosi come è noto in Francia alla fine dell’Ottocento.
[caption id="attachment_9887" align="aligncenter" width="1000"] Alfred Dreyfus (1859 – 1935) è stato un militare francese. Generale dello Stato Maggiore, ebreo, il 22 dicembre 1894 fu condannato da un tribunale militare con l'accusa, poi rivelatasi falsa, di alto tradimento: ancora oggi una storia tra luci e ombre.[/caption]
Sino a quel momento, il côté gauche, come lo si chiamava all’epoca, si definiva come il partito del Progresso, della Scienza e della Ragione in opposizione alla “destra”, la quale rappresentava tutti coloro i quali si ponevano come obiettivo di restaurare, in toto o in parte, le istituzioni dell’Ancien Régime e il potere temporale della Chiesa Cattolica.
La sinistra si è sempre presentata nella storia, come l’unica vera erede legittima dell’Illuminismo, e a questo titolo, come avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, sia di carattere tecnologico, economico, politico e morale.
Al contrario la sensibilità socialista ha origini diverse se non opposte. Essa si formò veramente solo a partire dall’inizio del XIX secolo, dapprima attraverso le molteplici lotte degli operai inglesi e irlandesi contro i modi di vita degradati loro imposti dalla prima modernizzazione industriale.
Il progetto socialista, è sempre stato orientato, fin dalla sua nascita, dal desiderio che avevano i primi lavoratori moderni di proteggere, contro gli effetti disumanizzanti dell’allora nascente capitalismo, un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuivano essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.
Il movimento operaio si pose quindi sin dalle sue origini come forza indipendente sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei “reazionari” che dei “repubblicani” e di altre forze di sinistra. Ovviamente, l’aspirazione a conservare «un mondo comune», per dirla con Hannah Arendt, si poneva in contrasto tanto nei confronti dei privilegi di casta legati alle gerarchie dell’Ancien Régime - privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – quanto nei confronti dell’individualismo della filosofia dei Lumi e la sua apologia dei valori mercantili già così ben criticati da Rousseau. Non è un caso che il termine “socialismo” sia stato coniato da Pierre Leroux (1797 – 1871) per indicare il contrario dell’individualismo assoluto.
I primi socialisti dunque non sembrano essere avversari del passato. Più esattamente essi distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito della dominazione gerarchica, da loro rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio “comunitario” (la Gemeinwesen di Marx).
Ha fatto osservare molto giustamente Jean-Claude Michéa che «per i primi socialisti una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una società degna di questo nome»¹
La sinistra così come la conosciamo oggi (o almeno come l’abbiamo conosciuta fino al 1989-1991), non è stata altro che il risultato di un compromesso storico particolarmente precario sorto in Francia nell’ambito dell’affaire Dreyfuss tra il liberalismo progressista – all’epoca essenzialmente incarnato dal partito radicale – e il movimento socialista ufficiale.
Compromesso chiaramente dettato dalla minaccia, a quel tempo quanto mai reale, rappresentata dalle forze clericali, monarchiche e reazionarie.
È questo compromesso storico che costituì dunque l’evento fondatore della sinistra del ventesimo secolo.
Per far capire ulteriormente l’infondatezza della tesi secondo la quale il socialismo trovi le sue origini nella sinistra non è forse inutile ricordare che le due repressioni di classe più feroci, e dunque più pesanti sul piano delle vittime, che si sono abbattute nel XIX secolo sul movimento operaio francese (con il plauso - ça va sans dire – della destra monarchica e clericale) sono state ogni volta decise da un governo liberale o repubblicano (dunque di “sinistra”, nel senso stretto della parola). Innanzitutto quella ordinata da Louis-Eugène Cavaignac, all’epoca delle giornate di giugno del 1848 (Cavaignac sarà del resto il principale candidato di sinistra alle elezioni presidenziali di dicembre – il che spiega in parte il voto di molti operai parigini per Luigi Napoleone Bonaparte). E poi quella, ancora più spietata, diretta da Adolphe Thiers contro la Comune di Parigi nel maggio 1871. Si può capire come la maggior parte degli anarchici e dei socialisti avrebbe trovato particolarmente assurdo e indecente chiedere agli operai che erano appena sfuggiti a quei massacri (o che si trovavano ancora deportati in Nuova Caledonia o esiliati in Inghilterra) di riconciliarsi al più presto - col pretesto di una più che vaga “unione della sinistra e di tutte le forze progressiste” – con alcuni dei loro più odiosi carnefici (come per esempio quel sinistro Gaston de Galliffet – il “macellaio della Comune” – che nel 1899 occuperà ancora un posto decisivo nel governo di “difesa repubblicana” di Waldeck-Rousseau).
[caption id="attachment_9886" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Baptiste Delafosse, "Louis-Eugène Cavaignac" (particolare) - 1848. Cavaignac (1802 – 1857) è stato un politico e generale francese.[/caption] È d’altronde contro il riformismo e il parlamentarismo della “sinistra” che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano svilupparono allora l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’”azione diretta”, ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.
Né Marx né Engels, non più delle altre grandi figure fondatrici del movimento socialista, hanno mai pensato di definirsi di “sinistra”. Ai loro occhi – e quando gli capitava di usare quel vocabolario proveniente dal «gergo parlamentare» (come ha osservato Tocqueville nei suoi Ricordi del 1850) – la “destra” designava l’insieme dei partiti ritenuti rappresentativi degli interessi (a volte contraddittori) dell’antica aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica. Mentre la “sinistra”, anch’essa molto divisa, costituiva il punto di adesione politica delle diverse porzioni della classe media fino alla “piccola borghesia” repubblicana e “radicale” (la bottega e l’officina) ancora molto segnata all’epoca dalla tradizione giacobina.
L’unico uso sistematico che Marx abbia mai fatto dell’opposizione destra/sinistra è sempre stato strettamente filosofico. Si trattava allora (e Marx non faceva che riprendere una terminologia già consacrata) di distinguere gli hegeliani “di destra”, fautori del “Sistema”, dagli hegeliani “di sinistra” fautori del “Metodo”. Tale uso filosofico si ritroverà, in una certa maniera, nel vocabolario leninista (e poi maoista) per designare i due tipi possibili di deviazione filosofica di una “linea giusta” – la “deviazione di sinistra” (o “sinistrorsa” e “settaria”) e la “deviazione di destra” (o “opportunista” e “revisionista”). Per il resto è evidente che Lenin non ha mai chiesto ai lavoratori di fondersi in una “unione della sinistra” qualsiasi - unione che, secondo lui, avrebbe messo il movimento operaio “a rimorchio” della borghesia – e nemmeno, a maggior ragione, in un qualunque “blocco repubblicano”.
Sia Marx sia Engels nutrivano una profonda stima per alcuni critici romantici del capitalismo industriale, nei cui confronti avevano un indiscutibile debito intellettuale. Certo, nel Manifesto del Partito Comunista (1848) essi rifiutavano come “reazionario” qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebrarono il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale, che non soltanto aveva sviluppato su scala gigantesca e senza precedenti le forze produttive, ma aveva anche creato l’universalità, l’unità dell’economia mondiale, presupposto essenziale per la futura umanità socialista. Elogiarono il capitalismo perché aveva lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comportava una punta di ironia: introducendo forme di sfruttamento più brutali, più esplicite e più ciniche, il modo di produzione capitalistico avrebbe favorito lo sviluppo della coscienza e della lotta di classe degli oppressi. L’anticapitalismo di Marx non mirava all’astratta negazione della civiltà industriale (borghese) moderna, ma alla sua Aufhebung, cioè al tempo stesso alla sua abolizione, la conservazione delle sue più grandi conquiste e il suo superamento da parte di un modo di produzione superiore.
Tuttavia a partire dagli anni '70 del XIX secolo e fino alla morte nel 1883, Marx cominciò a mettere in forse i risultati delle sue opere precedenti e a nutrire seri dubbi sulla possibilità di una rivoluzione proletaria in Occidente. Fu in tale contesto che pur senza condividere i presupposti ideologici dei Narodniki, il Moro di Treviri iniziò a supportare l’idea che la comunità russa tradizionale (obščina) avrebbe potuto far saltare alla Russia la fase storica del capitalismo e approdare direttamente al comunismo muovendo da quella dimensione collettiva della vita che connotava da secoli la storia rurale del paese. Come scriverà esplicitamente nella lettera dell’8 marzo 1881 alla populista russa Vera Zasulič, «questa comune è il fulcro della rigenerazione sociale in Russia. Ma perché possa svolgere tale funzione, bisognerebbe dapprima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da ogni parte, e poi garantirle le condizioni normali di uno sviluppo spontaneo».²
[caption id="attachment_9888" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Karl Marx e Friedrich Engels (particolare) a Bishkek nel Kirghizstan.[/caption]
Marx insisteva, beninteso, sulla necessità che la comune agraria si appropriasse delle conquiste e delle tecniche della civiltà industriale europea, ma la sua analisi coincideva comunque in larga misura con la scommessa Narodnik sulla possibilità di risparmiare alla Russia i tormenti della modernità.
Il compromesso storico sorto all’epoca affaire Dreyfuss tra la borghesia progressista e il movimento socialista venne a rompersi definitivamente con gli eventi del maggio del ’68 quando i fondamenti storici della destra clericale, monarchica e reazionaria scomparirono progressivamente in conseguenza del dirompere di quel «nuovo spirito del capitalismo» di cui hanno parlato i sociologi Luc Boltanski e Éve Chiapello.³
Una volta che tale instabile configurazione ideologica ha rinunciato a conservare nel suo programma ufficiale la critica radicale del capitalismo moderno essa si è trasformata in una semplice macchina politica destinata a legittimare, in nome del “progresso” e della “modernizzazione”, tutte le fughe in avanti della civiltà liberale. Risulta dunque evidente che in tale ruolo la sinistra è infinitamente meglio attrezzata dal punto di vista intellettuale di tutte le destre del mondo.
La “destra” ha infatti la tendenza a difendere la premessa (l’economia della concorrenza assoluta), ma ancora stenta ad accettarne la conseguenza (il riconoscimento delle unioni di fatto, la delinquenza, l’immigrazione ecc…) mentre la “sinistra” tende a operare scelte contrarie. Il merito, se così si può chiamarlo, di quest’ultima fazione politica è quella di rendere immediatamente visibile la complementarietà dialettica dei due versanti dell’accumulazione del capitale, quello dell’economia e quello della cultura.
La domanda che dobbiamo porci dunque è la seguente: coloro che credono ancora nella possibilità di edificare una società libera, ugualitaria e solidale o, in altri termini, coloro che si riconoscono nell’ideale socialista, possono fare ancora affidamento sulla "sinistra"? La risposta è no, non possono.
In un suo ben argomentato studio⁴ il filosofo e sociologo francese Jean-Claude Michéa ha sostenuto la tesi secondo cui la sinistra oggi, avendo completamente abbandonato le lotte sociali e politiche che furono del movimento operaio, si è riconfigurata come completamente organica al capitalismo e permanentemente in balia di quello che lui ha definito «il complesso di Orfeo» ovvero non riesce a guardarsi indietro considerando tutto ciò che è vincolato alla tradizione e al passato come qualcosa di intrinsecamente dannoso da cui prendere congedo. La sinistra nel suo odierno divorzio dalle classi popolari fa suo il progetto di “progressismo capitalistico”. In nome del “progresso” il capitale oggi continuamente dissolve e destruttura ogni legame tradizionale, ogni radicamento culturale, simbolico, spirituale e territoriale con l’autorità dell’«eterno ieri» per citare Max Weber.
Se l’ideale socialista oggi vuole essere rivitalizzato non va più inteso come lotta di classe o dittatura del proletariato, bensì come common decency (secondo la fortunata formula di George Orwell), ovvero il concetto secondo il quale una vita compiuta non si misura dalla quantità di potere e di denaro che si riescono ad accumulare durante la propria esistenza.
Un socialismo quindi umanistico, comunitario e tradizionale che preveda un approccio municipalista e confederale all’economia; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese “nazionalizzate”, da una parte, o la sua riduzione a forme di capitalismo collettivista “controllato dai lavoratori”, dall’altra. La democrazia economica, nel suo senso più profondo, significa, secondo quanto ha sostenuto l’anarchico statunitense Murray Bookchin «l’accesso libero e democratico ai mezzi di vita, la garanzia di affrancarsi dal bisogno materiale, e non certo il coinvolgimento operaio nelle faticose attività produttive che faremmo meglio a lasciare alle macchine. Che la democrazia economica sia stata reinterpretata per significare proprietà delle maestranze o che la democrazia del lavoro sia diventata compartecipazione operaia alla gestione industriale, invece che libertà dalla schiavitù della fabbrica, del lavoro razionalizzato e della produzione pianificata, è un impudente stratagemma che ha purtroppo mietuto insperati successi anche in ambiti radicali.»⁵
Come ha osservato correttamente a suo tempo Georges Bernanos «esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c'è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c'è un popolo solo».
 
Note:
1. Jean-Claude Michéa, Orwell, la gauche, l’anti-totalitarisme et la «common decency», intervista a cura di Élizabeth Lévy, in «Le Magazine littéraire», dicembre 2009;
2. Ettore Cinnella, L’altro Marx, Pisa, Della Porta Editori, 2014, pp. 140.141;
3. Luc Boltanski, Éve Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014;
4. Jean-Claude Michéa, Le Complexe d'Orphée: La gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Parigi, Flammarion, 2011;
5. Murray Bookchin, Democrazia diretta, Milano, Eléuthera, 2015, p. 91.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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30 Settembre 2017 – Libreria Rinascita – Piazza Roma n.7, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Paola Monaco
Modera: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Luca Steinmann
 

Il giornalista Luca Steinmann, ha raccontato i suoi reportage asiatici in Cina. Tema della conferenza è la storia di due ragazze in fuga dal Regime comunista di Kim Jong-un: capire quali condizioni di vita esistono in uno degli ultimi totalitarismi esistenti. Dunque dal passato del comunismo del novecento, una riproposizione moderna e attuale, dove l’ideologia della volontà di potenza vige sovrana, insieme al mito del dittatore. Dalle parole di Steinmann: “Dandong è una città della Cina nordorientale che si affaccia sul fiume Yalu e guarda in direzione di Pyongyang, la capitale della Corea del Nord. Per i nordcoreani è l’unico ponte sul mondo sul quale affacciarsi e osservare cosa succeda al di fuori delle severissime leggi con cui il presidente Kim Jong Un (김정은) controlla il loro Paese e le loro vite. Noi – io e il cameraman Brando – ci siamo spinti fin qui per incontrare due ragazze nordcoreane che quel filo spinato lo ha scavalcato illegalmente per fuggire. E che ora vogliono attraversare clandestinamente tutta la Cina – Paese alleato della Corea del Nord – per raggiungere il Laos, presentarsi alla locale ambasciata della Corea del Sud e fare richiesta di asilo politico”.