[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1522077747246{padding-bottom: 15px !important;}"]Giovanni Della Casa: la buona educazione dell’animo e del corpo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Liliane Jessica Tami del 26/03/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1522077133602{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nel suo saggio «La condizione post-moderna» affermava che la nuova società libera e post-moderna - sorta dalle macerie della seconda guerra mondiale -, grazie alla fluidità del capitalismo, alle nuove tecnologie e all’abbattimento di ogni gerarchia, è estranea alle certezze ed alla coerenza. Tale posizione, agli antipodi del rigore severo e neoclassico che ha caratterizzato gli albori della filosofia occidentale e il Rinascimento italiano, ha creato quella scissione tra forma e sostanza che oggi tanto sembra degradare le masse.
[caption id="attachment_10122" align="aligncenter" width="1000"] Jean-François Lyotard (1924 – 1998) è stato un filosofo francese, generalmente associato al post-strutturalismo e conosciuto soprattutto per la sua teoria della postmodernità. Fu assistente alla Sorbona, professore all'università di Paris-Vincennes e insegnò anche in alcuni atenei statunitensi.[/caption]
Dopo l’epoca triviale medioevale, la buona educazione etico-spirituale dell'uomo è stata fondamentale per redimerlo dallo stato di caotica bestialità in cui per secoli s’era inabissato. Nell'epoca post-moderna, in cui il decostruito, l’informe e il vizioso sono assurti a stati normali dell’essere, la coerenza greca - tale per cui un’anima buona dovesse dimorare in un corpo bello - sembra essersi smarrita. Andando a ritroso, il monsignor fiorentino Giovanni della Casa si preoccupò di redimere gli animi dalla perdizione, stilando l’indice dei libri proibiti, e i corpi dalla bestialità, pubblicando il celebre libello sul buon costume, Il Galateo.
Paradossalmente oggi il mondo necessiterebbe propriamente di personaggi influenti in grado di censurare il degrado televisivo-letterario che corrompe gli animi; così come di un salubre ritorno all’uso delle buone maniere, del ben vestire e del ben parlare. Come Giovanni della Casa, nel suo fanatismo cattolico, si impegnò a purificare molti presunti eretici sul rogo e a condannare coloro che si comportavano da zotici e bifolchi, oggigiorno non dovremmo esitare a «gettare tra le fiamme» di una pacata censura, tutti coloro che sfruttano e utilizzano i mass-media propugnando valori immorali e contro-natura.
Dagli scritti di Giovanni della Casa, e in particolare dalle sue Rime, s’evince ch’egli abbia sempre vissuto idealizzando un’età dell’oro oramai smarrita per sempre. Da giovane non conobbe mai una donna in grado di farlo innamorare perché idealizzò eccessivamente la figura femminile, e da anziano visse la spiritualità in modo estremamente politico e violento perché desideroso di far coincidere la sua idea di società perfetta con la realtà circostante. Della Casa, uomo molto rigido, inflessibile e severo, si preoccupò parecchio della buona educazione dei suoi nipoti e in particolare di Annibale Rucellai, suo favorito.
Traendo spunto dal suo impegno svolto in qualità di zio ed educatore scrisse, in prosa e nella forma d’un dialogo platonico tra un anziano (sé stesso in versione analfabeta) ed un giovane a volte un po’ lento a capire il testo intitolato “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de' modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de' costumi”.
[caption id="attachment_10123" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Della Casa, nato il 28 giugno 1503 al Mugello , figlio di Pandolfo e Lisabetta Giovanfrancesco Tornabuoi, si è sempre definito fiorentino. Fin da giovane venne introdotto negli ambienti più raffinati della Firenze rinascimentale e strinse ottimi rapporti, oltre che di parentela, con la famiglia Rucellai, la quale ebbe un ruolo fondamentale nel finanziare i grandi artisti della pregevole città. All’età di 21 anni si trasferisce a Bologna per seguirvi gli studi di legge, ma la sua grande passione resterà per tutta la vita la poesia. Frequentò il circolo letterario di Girolamo Casio de’Medici si appassionò di greco e latino seguendo le lezioni di retorica e poetica. Frequentò il sodalizio culturale dei Vignaiuoli, in cui personaggi illustri, come la sorella di Baldassarre Castiglione, si dilettavano a vergare verso satirici e divertenti.[/caption]
L’opera, il cui lungo titolo è sintetizzato con “Galateo”, venne scritta tra il 1550 e il 1555, periodo in cui il Della Casa divenne padre di Quirinetto. Probabilmente desiderava che suo figlio, fatto educare dalla famiglia Quirini, crescesse bene e in modo morale seguendo le regole ivi descritte, a differenza dei suoi nipoti che a parer suo sembravano dei bifolchi. Questo libro è nato grazie alle conversazioni sulla buona educazione avute dall’autore con Galeazzo (in latino Galateo) Florimonte, vescovo di Sessa. In quegli anni Giovanni Della Casa iniziava a patire i primi tormenti della gota e si rifugiò presso la badia dei conti di Collalto, a Nervesa, nel trevigiano, i quali appartenevano a quella raffinata cerchia di nobili e colti, amanti del buon costume del ben vestire, tanto graditi a Della Casa in quanto contrapposti alla rozzezza medievale che ancora non s’era riusciti ad estirpare dalle masse.
Il fatto che ad impartire le lezioni di buon costume al giovane sia un illetterato, è fondamentale: Giovanni Della Casa intende così mostrare che il buon comportamento è accessibile a chiunque, a prescindere dalla classe sociale e dalla ricchezza. Per ottenere un miglioramento dell’intera società non serve avere pochi nobili eruditi e ben educati, bensì è necessario provvedere alla diffusione delle buone usanze anche presso gli strati più disagiati della popolazione.
Quest’opera è infatti ben diversa dal libro di Baldassarre Castiglione dal titolo Il cortigiano, pubblicato nel 1528, in cui offre consigli su come, mediante il ben parlare, si possa entrare a far parte della cerchia degli amici intimi del principe. Della Casa non vuole insegnare a sedurre l’interlocutore e compiacere gli astanti medianti giochi ingegnosi di parole e conversazioni amabili, bensì desidera che il lettore possa interiorizzare i precetti della buona educazione divenendo un cittadino, e un uomo, migliore e più buono. Il libro è suddiviso in 30 piccoli capitoli, ognuno dei quali tratta di un tema differente, sempre inerente il corretto comportarsi in società. Mediante una trasposizione delle tesi architettoniche vitruviane nell’ambito comportamentale, Della Casa asserisce che la bellezza, la grazia e la proporzione si ritrovano non solo nei corpi e nella natura, ma in ogni favellare e operare umano. Avendo studiato retorica latina e stilistica poetica, l’autore ha molto a cuore il ben parlare, sia per ciò che riguarda i toni, che devono essere dolci e pacati, che ciò che riguarda le parole, che non devono essere né rozze né sconce.
[caption id="attachment_10125" align="aligncenter" width="1000"] In seguito a questo periodo giocoso e dionisiaco, in cui produsse le sue prime opere letterarie, pentito della sua condotta amorosa eccessivamente lasciva, Giovanni della Casa si avvicinò al clero e, nel 1934, all’età di 31 anni, venne eletto Chierico della Camera apostolica da papa Paolo III. In quegli anni pubblicò anche un libricino, dal titolo An uxor sit ducenda, in cui s’interroga se s’abbia da prender moglie o meno. Giunto alla conclusione d’esser nato sfortunato in amore decise di guadagnarsi, mediante l’impegno religioso e letterario, fortuna sociale. Ben presto entrò nelle grazie della famiglia Fernese e presto assurse alle maggiori cariche ecclesiastiche: divenne tesoriere vaticano e, nel 1544, venne mandato a Venezia in veste di Nunzio pontificio. Iniziò un’assidua lotta contro le eresie e contro la riforma protestante che stava sconvolgendo l’Europa. Ben presto il ruolo religioso divenne anche politico, e si impegnò a promuovere l’alleanza della repubblica di Venezia col Re di Francia contro agli spagnoli e Carlo V, ma ebbe scarsi successi. Di fatto, nelle sue poesie, la spiritualità appare pagana e neoclassica, ossia in contrapposizione al suo personaggio politico e sociale. Se ne può evincere che la sua adesione al clero sia stata un atto politico e razionale anziché una scelta mossa da genuini sentimenti religiosi e irrazionali nei confronti di dogmi del monoteismo biblico. In quegli anni si inaugurò anche il concilio di Trento, per arginare l’eresia dilagante, e Della Casa si adoperò per far mettere sul rogo molti presunti eretici, la cui accusa principale era quella di nuocere al buon funzionamento della società con le loro teorie. Non li fece bruciare per la fede che nutrivano nel loro intimo, bensì per lo squilibrio sociale che andavano creando.[/caption]
In più capitoli ribadisce che il parlare debba essere sottoposto a un buon uso, giacché è inutile sapersi tenere bene a tavola se si adopera il turpiloquio o se ci si mostra eccessivamente verbosi impedendo agli altri di esprimersi. Gli interlocutori, infatti, annoverano tra loro i troppo verbosi, i pomposi, i vacui e i troppo silenziosi. Al fine di evitare questi eccessi, o queste mancanze, è fondamentale esercitare la virtù del discernimento, che permette di scovare il giusto mezzo aristotelico, ossia la virtù dell’equilibrio tra le parti. Nel settimo paragrafo si concentra invece sulla questione del ben vestire, e celebre è l’inizio che recita “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente”.
Fondamentale, infatti, è la cura dell’abito, adeguata all’età, al contesto e alla condizione di chi lo porta, al fine di mostrare rispetto nei confronti del prossimo. Sia l’eccessivo sfarzo che l’eccessiva trascuratezza vengono infatti condannati, così come lo spogliarsi in pubblico o l’allacciarsi le calze in mezzo alle altre persone. Nel capitolo 26 il Della Casa dice che gli uomini differiscono dagli animali proprio per via della loro capacità di riconoscere il bello e la giusta misura, quindi è proprio affinando il gusto e la sensibilità che l’individuo riesce ad elevarsi allontanandosi il più possibile dallo stadio bestiale. Il trattato si chiude con le norme per stare a tavola e con la condanna dell'intemperanza nel bere, divenute poi la base della buona creanza di un’Europa finalmente liberata dallo stato di rozzezza, disordine, immoralità, eccessiva libertà e diseducazione. Non resta che augurarsi che anche questa attuale Europa fatiscente, iperconsumistica, rozza e capitalista possa essere rieducata in fretta!
 
Per approfondimenti:
_Giovanni della Casa, Rime, Bur edizioni, 1993, Milano;
_Giovanni Della Casa, Galateo, edizioni Einaudi, 2006.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1521555154863{padding-bottom: 15px !important;}"]Ad ali spiegate: Rudolf Nureyev e l’armonia oltre la forma[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Edoardo Cellini 21/03/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1521556947983{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Suonare il corpo. I muscoli che si tendono nello sforzo di compiere un gesto, rappresentare una figura e, nell’esatto momento in cui essa è raggiunta, osservarla svanire e mirare a riconquistarla di nuovo, con il medesimo ardore, con rinnovato slancio. La danza è forse tra le forme d’arte quella che vive nella propria “fisicità” il paradosso del tempo: nell’attimo stesso in cui il corpo sembra vincere la forza di gravità per eseguire una forma, questa non diventa altro che il suo ricordo, i piedi tornano a terra e le membra si piegano di nuovo per il passo successivo. Tra i pochi che sono riusciti a segnare una svolta radicale ed esplorare regioni che si pensava fossero al di là dei limiti di detta rappresentazione estetica, spicca su tutti il nome di Rudolf Nureyev.
[caption id="attachment_10105" align="aligncenter" width="1000"] Rudolf Chametovič Nuriev (1938 – 1993) è stato un ballerino e coreografo russo naturalizzato austriaco, internazionalmente noto come Rudolf Nureyev, ritenuto da numerosi critici uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nižinskij e Baryšnikov.[/caption]
Unanimemente considerato uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi, egli rinvigorì la danza di nuova linfa vitale e seppe farsene ambasciatore nel mondo entrando a pieno titolo tra i protagonisti della vita culturale alta del ‘900. La storia del ballerino, di cui ricorre quest’anno il venticinquesimo della scomparsa, ha dell’incredibile se vista da vicino: da un lato infatti sembra affiorare dagli spazi di una tradizione oramai al tramonto, quella del balletto russo; mentre dall’altro compie un tragitto che arriva a conferire una diversa luce all’arte di Tersicore, trasformandola nel più profondo ed inondandola appieno delle tensioni della modernità.
Rudolf Chametovič Nureyev, oppure Nuriev, o Nureev, (l’indeterminatezza del nome fu dovuta alle difficili condizioni in cui fu trascritto all’atto di nascita) venne alla luceil 17 marzo del 1938 durante un viaggio in treno, tra il lago Baikal e Irkutsk, lungo la linea nota come Transiberiana; la strada ferrata emblema di un intero paese, la Russia, che da questa viene solcata da un suo estremo all’altro, dalle gelide acque del Baltico sino alla periferia più orientale affacciata sull’Oceano Pacifico. Lì, esattamente a Vladivostok, erano destinate la madre Farida e le tre sorelle dell’artista, per raggiungere il padre Hamet, militare di carriera. Tutto ciò costituirà per Nureyev un elemento dal forte significato simbolico, quasi un motivo di presagio di ciò che rappresenterà una costante successiva della sua carriera artistica: la necessità di dover fare i bagagli e viaggiare, di volta in volta, nei più importanti teatri del mondo. «Quando sarò morto», dichiarerà l’artista, «mi erigerete una statua: mi si vedrà mentre mi alzo da una sedia con due valigie, pronto a partire. Quella sarà la storia della mia vita». I primi anni di vita del futuro genio della danza furono però caratterizzati dalle difficili condizioni economiche in cui versava la sua famiglia; motivo in più per Nureyev di rafforzare il legame con la madre, della quale ammirò costantemente la pazienza e la tenacia nel tirare avanti tra le ristrettezze. Fu lei a portare il piccolo ad uno spettacolo di danza a teatro, quando questi aveva 5 anni, nel 1943. L’episodio vide il manifestarsi tangibile della propria vocazione: le porte del destino da ballerino si aprirono per la prima volta nella classe di danza di un piccolo teatro di provincia. Il talento di Nureyev non passò presto inosservato, sebbene in famiglia vi fosse la contraria volontà da parte del padre che mirava piuttosto ad assicurare al figlio un avvenire come ingegnere o chimico al servizio del governo. Per la madre e la sorella Rosa, invece, la vocazione alla danza del piccolo Rudolf era qualcosa di straordinario che necessitava di trovare gli spazi adeguati per compiersi al massimo grado. Ma ad accorgersi delle potenzialità del futuro ballerino fu soprattutto la signora Ana Udeltsova, che aveva una classe di danza nel teatro della città di Ufa. L’anziana insegnante vantava alle spalle un’intensa quanto sorprendente carriera professionistica. La compagnia nella quale molti anni prima Ana Udeltsova aveva militato era quella che Sergej Diaghilev (1871-1929) aveva denominato Ballets Russes, un nome ricordato per aver consegnato alla storia qualcosa come “il fatto teatrale più importante dell’ultimo quarto di secolo”.
Nelle intenzioni del coreografo fondatore la tradizione russa, classica e al contempo folclorica del balletto, si sarebbe dovuta rinnovare e aprire a tutte le istanze che agli albori del ‘900 andavano addensandosi all’orizzonte di un composito, quanto agitato, universo culturale. Dapprima itineranti, in seguito compagnia semistabile presso il Teatro dell’Opera di Montecarlo, i Ballets divennero a tutti gli effetti un elemento artistico nuovo della vita europea di inizio secolo. Il successo e la fama furono straordinari, i critici sottolinearono l’assoluto spessore e le qualità tecniche e stilistiche evidenti nella riproposizione di lavori classici, ma ancor più ebbe risalto il repertorio assolutamente inedito che il direttore artistico russo seppe creare attorno alla sua impresa. Diaghilev non si limitò a lavorare con famosi ballerini e coreografi, per la creazione delle sue opere chiamò attorno a sé pittori e artisti contemporanei quali Picasso, Benois, De Chirico, Derain, Bakst; fra i musicisti rilevanti collaborazioni vennero da parte di Stravinskij, con cui mise in scena il celebre Petrouschka (oltre a Le sacre duprintemps, Pulcinella, Renard, Le noches, Apollon Musagéte), da Manuel de Falla ne Il tricorno, Debussy (L’aprés-midi d’un faune, Jeux), quindi con compositori dal nome di Poulenc, Satie, Strauss, Respighi, Milaud, Prokof’ev e altri. Sul versante del balletto il direttore della compagnia russa si preoccupò di reclutare tra i migliori allievi delle scuole del tempo e una menzione speciale va fatta circa l’italiano Enrico Cecchetti (1850-1928), quasi ignorato in Italia, ma tenuto in altissima considerazione dall’ambiente accademico estero. Il coreografo e ballerino originario di Roma era figlio di Severina Casagli e Cesare Cecchetti, entrambi danzatori classici. All’indomani della rappresentazione del Walhalla di Borri nel Teatro alla Scala di Milano (1870), dove impressionò il pubblico per la sua tecnica strabiliante, intraprese fortunate tournée nei maggiori teatri d’Europa. In seguito, assieme alla moglie Giuseppina de Maria, anch’essa ballerina, si trasferì in Russia dove divenne primo ballerino al Teatro Marijinskij, ruolo che ricoprì sino al 1902, insegnando contestualmente alla Scuola imperiale di San Pietroburgo. Dopo aver lavorato a Varsavia e Milano, tornò di nuovo a Pietroburgo e fu allora che avvenne l’incontro. Per la riuscita del suo progetto, infatti, Serghej Diaghilev espresse il desiderio di avere con sé l’intera classe del maestro italiano, al quale offrì di divenire maître de ballet della neonata compagnia, titolo che questi mantenne dal 1909 sino al 1918. Cecchetti lasciò in seguito il corpo di ballo russo per continuare, ormai anziano, la sua carriera a Londra dove svolse una intensa attività didattica il cui contributo di metodo, in forza di una programmazione dello studio con tecniche e fasi moderne, influenzò significativamente l’insegnamento della danza e diede il via ad un impulso decisivo per lo sviluppo del balletto inglese. Nei Ballets Russes di Diagilev, infine, va sottolineato come sotto l'insegnamento del maestro Enrico Cecchetti si espressero alcuni dei più grandi nomi della danza di inizio ‘900. Su tutti: la russa Anna Pavlova (1881-1931) e il celebre Vaslav Nijinskij (1889-1950), cui Rudolf Nureyev verrà in seguito spesso paragonato per talento e grazia.
[caption id="attachment_10107" align="aligncenter" width="1000"] San Pietroburgo, 1900, al centro della foto Enrico Cecchetti.[/caption]
Appare dunque evidente come dietro i consigli, gli incoraggiamenti e le severe ammonizioni della sua prima insegnante Ana Udeltsova, la sensibilità del piccolo Nureyev non potesse non intuire i tratti di un percorso storico, un sentiero imbevuto di folclore e classicismo, di tradizione e innovazione, che dal lascito artistico dei balletti russi giungeva intatto sino a lui. A testimonianza di ciò si possono leggere le ambizioni che già poneva in nuce il precoce talento del ballerino: “Rudolf Nureyev ambiva al massimo”. Così, dopo i corsi della Udeltsova presso Ufa, partì alla volta di San Pietroburgo con l’intento di entrare nella prestigiosa scuola di ballo del Teatro Kirov. Superate le audizioni, in soli tre anni si diplomò (1955-1958) ed entrò come parte stabile della compagnia divenendo presto ballerino solista. Gli anni passati al Kirov segnarono per Nureyev un momento fondamentale per il proprio percorso artistico, come un nuovo apprendistato della danza, ma al contempo un punto di svolta per la sua carriera futura. Certo, l’ambiente accademico di San Pietroburgo assumeva regole ferree che dovevano andar strette al temperamento acceso e anticonvenzionale di Nureyev; nonostante ciò questi fu sempre grato al maestro di allora Aleksandr-Ivanovič Puškin, tanto da considerarlo come il suo primo importante maestro e da giurargli «riconoscenza eterna» per la dedizione che espresse su di lui. Puškin aveva senza dubbio compreso il talento di Nureyev e lo incoraggiò a proseguire verso una forma di espressione della danza che non fosse solo cristallizzazione di schemi o formule da ripetere all’infinito, ma venisse orientata nel senso di una vera e propria partecipazione emotiva, una interpretazione “recitativa” e dunque più coinvolgente dei personaggi che le storie raccontante con il corpo portavano al ritmo della musica. La notorietà conquistata all’interno dei confini russi era ormai un fatto acclarato per Nureyev sul finire degli anni ‘50, e agli occhi del ballerino assumeva sempre più concretezza la possibilità di uscire dai ristretti ambiti del regime sovietico per calcare i palcoscenici europei ed interpretare in modo libero il suo repertorio. L’occasione venne quando durante un’esibizione della compagnia del Kirov a Parigi, nel 1961, il primo ballerino di allora Konstantin Sergeyev si infortunò e fu concesso in extremis a Rudolf Nureyev di sostituirlo. Fu un successo. La sua rappresentazione de La Bella Addormentata, balletto su musiche del compositore romantico russo Pëtr Il'ič Čajkovskij fu accolta con clamore dal pubblico e dalla critica. L’astro nascente della danza si espresse nel suo pieno fulgore. All’arrivo in palcoscenico catalizzò su di sé il silenzio dell’intero teatro che lo osservò attonito mentre danzava entrando nella psicologia del personaggio oltre i formalismi, al di là dei trucchi e dei gesti di maniera retaggio del passato, per dare nuova vita al dramma posto in scena, in forza del suo carisma e virtuosismo trascinante. A Parigi si assistette però ad una nuova determinante svolta nella carriera del ballerino russo. Alla conseguente notorietà del suo nome in ascesa, fece da contraltare l’ordine categorico da parte di Mosca di fare rientro in patria. Ciò si spiega, in parte, con le reiterate contravvenzioni del danzatore agli ordini del regime, quali ad esempio al divieto di frequentare stranieri, cui Nureyev stesso aveva da sempre opposto il suo carattere ribelle, da egli orgogliosamente attribuito alla componente “sanguigna” delle sue origini tartare, unito ad una ferma volontà di scoperta di nuovi orizzonti culturali. «Ballavo poco al Kirov», come dirà per sua stessa ammissione, «tre o quattro volte al mese e sempre le stesse cose». Non assume molta rilevanza ai fini della nostra analisi se nella decisione ebbe maggior peso il desiderio di far proseguire la propria innovazione artistica sulle scene internazionali, oppure il timore che una volta fatto rientro in patria non gli sarebbe più stato possibile andarsene. Un fatto fu però chiaro, complice forse la somma di tutti questi aspetti: Rudolf Nureyev, dopo una tournée con la compagnia del Kirov, invece di rientrare a Mosca il 17 giugno del 1961 tornò indietro dall’aeroporto di Le Bourget a Parigi chiedendo così, di fatto, asilo politico. Superato un primo periodo di incertezze, il ballerino decise di rimanere nella capitale francese, città che lo aveva insignito quello stesso anno del premio Nijinsky alla Université de la danse. Non tardò molto che anche l’Occidente lo ricoprì di importanti offerte: il primo che lo accolse fu il direttore del Grand Ballet du Marquis de Cuevas, Raimondo De Larrain, il quale lo assunse come protagonista in uno dei classici del balletto La bella addormentata, oltre che ne La Sylphide, e in Infiorata a Genzano di Auguste Bournonville. Al termine del suo periodo parigino Rudolf Nureyev si trasferì in Danimarca, dove strinse un importante sodalizio professionale e umano con il coreografo Erik Brhun, per il quale il danzatore russo provava un’autentica ammirazione. Gli insegnamenti del maestro danese sortirono l’importante effetto di condurre l’innato virtuosismo dei movimenti di Nureyev in una forma d’espressione artistica che fosse posta in stretto contatto con il significato più profondo delle esigenze sceniche. Quindi venne la volta di Londra, città che salutò l’arrivo del danzatore russo come un autentico avvenimento.
A volerlo con sé nel Royal Ballet fu una delle maggiori delle étoiles dell’epoca, la ballerina Margot Fonteyn (1919-1991), la cui aurea appariva sul punto di emettere gli ultimi bagliori di una carriera che, sebbene di assoluto spessore artistico, si era ormai attestata su una tranquilla parabola discendente. Eppure, a discapito delle voci che la volevano prossima al ritiro, la stella inglese trovò nel talento del danzatore russo la scintilla che le permise di ritrovare non solo parte dell’antico splendore, ma di acquistare un’inedita luce in forza di quella fusione di spiriti affini che passò alla storia della danza come la coppia di ballerini più famosa della seconda metà del XX secolo. Il duo Nureyev- Fonteyn debuttò a Londra nel 1962 con la rappresentazione di Giselle riscuotendo un immediato successo. Il pubblico acclamò entrambi i ballerini chiamandoli più volte alla ribalta e al termine dell’esibizione Nureyev stesso baciò la mano della collega elogiandola pubblicamente. La critica fu concorde nel ritenere l’esibizione dei due un fatto artistico dalla portata radicalmente nuova. Sino ad allora infatti nel mondo della danza classica si usava qualificare il ruolo del partner della ballerina con il termine di porteur, che denotava colui che assecondava i movimenti della comprimaria aiutandola fisicamente ad ascendere in quelle figure che esigevano lo stacco da terra. Grazie alle qualità e al carisma di Nureyev tale concezione finì presto in frantumi per lasciar posto, nel pas de deux, all’incontro in scena di due personalità distinte che si rispondevano e assecondavano l’una i passi dell’altra, in un vero e proprio “duetto” musicale. Per i ballerini venne ideato un repertorio su misura della loro specificità artistica; Frederick Ashton creò per loro Marguerite and Armand (1963), Kenneth MacMillan il celebre Romeo and Giulietta (1965), cui seguiranno i lavori di Roland Petit, Martha Graham e John Numeier; il duo si esibì quindi anche in numerosi classici in tournée in tutto il mondo, debuttando in Italia al Festival di Nervi ne Il lago dei cigni nel 1962. La fortuna del sodalizio artistico della coppia Nureyev- Fonteyn si basò su di un inedito connubio tanto di caratteri complementari quanto di un’unione assoluta di intenti circa la miriade di particolari tecnici da ridefinire sulla coreografia che andava messa in scena. Il ballerino russo difatti dirà: «Ballare è come percorrere insieme lo stesso sentiero, la cosa più importante è il modo in cui si balla, ma quando si balla con la Fonteyn c’è un unico obiettivo e una sola visione delle cose, non c’è niente che ci divida». Da parte sua la danzatrice inglese così si esprimerà più tardi circa la personalità del suo collega, cogliendone la portata innovatrice: «Non ho mai incontrato un professionista simile; pretendeva la massima precisione anche dagli altri. Certe sue osservazioni erano forse sgradevoli ma azzeccatissime; mi obbligava con dolcezza a ripensare al mio repertorio». Negli Stati Uniti il ballerino collaborò con le étoiles Sonia Arova del Brooklyn Academy of Music di New York, e con Ruth Page del Chicago Opera Ballet; ma per contro si assistette, a partire dai primi anni ʻ60, ad un uso spesso strumentale della celebrità in ascesa di colui che veniva definito il “tartaro volante”, in riferimento alle sue origini. Se dunque sul suolo statunitense la personalità di Nureyev fu spesso associata a quella di un mito, ciò avvenne più in forza del costante assillo mediatico che circonderà da lì in poi la vita privata dell’artista, quanto per i reali meriti che questi portava con sé. Per contro, va sottolineato come il ballerino riuscì a far leva sulla propria visibilità internazionale per sentirsi libero di scegliere dove e con chi collaborare onde proseguire al meglio la propria opera.
[caption id="attachment_10106" align="aligncenter" width="1000"] Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn nel 1963[/caption]
Incessante sperimentatore, Rudolf Nureyev fu ospite delle maggiori compagnie internazionali arrivando ad interpretare nell’arco della sua carriera tutti i ruoli del balletto classico e moderno. Il personale carisma unito ad una ricerca di perfezione tecnica al limite del maniacale e all’ardente bisogno di spingersi sempre oltre i limiti dell’arte che portava in scena, conquistarono i maggiori coreografi e compositori per balletto contemporanei, i quali “avvolsero” Nureyev di un repertorio scritto su misura per lui, completamente nuovo. Oltre ai già citati Ashton, Graham e Petit, vennero composte appositamente per il ballerino russo opere di Rudi Van Dantzig come The ropes of the time (1970) e Blown in a gentlewind (1975), di Maurice Béjart con il suo celebre Chant du compagnon errant, oltre a Moment di Murray Louis (1975), Le bourgeois gentilhomme di George Balanchine (1979) e Marco Spada di Pierre Lacotte, tutte rappresentate con successo. Non meno importante fu il suo lavoro come coreografo. Anche in tale contesto l’artista russo, munito di una lunghissima esperienza maturata sui palcoscenici di tutto il mondo, operò nel segno di una radicale innovazione dei ruoli e dei personaggi del balletto classico mantenendo sempre la propria sensibilità ad una aderenza stretta con i valori di fondo della tradizione da cui, peraltro, le storie stesse prendevano vita. Molte delle riletture dei classici del repertorio, come: Il lago dei cigni, Raymonda, Tancredi, Il Don Chisciotte, La bella addormentata e Lo Schiaccianoci, portano ancora la firma del Nureyev coreografo e sono rappresentate tutt’oggi soprattutto dal Balletto del Théâtre de l’Opéra di Parigi, che il ballerino diresse dal 1983 (l’anno dopo aver ricevuto la cittadinanza austriaca), sino al 1990, senza mai smettere tuttavia, nemmeno durante quel periodo, di calcare il palcoscenico. Al termine di una vita da girovago, nel 1987, in una sorta di esilio dorato in cui avevano convissuto fama e onori assieme all’impossibilità materiale di rivedere il proprio paese, fu concesso a Nureyev, da tempo malato di AIDS, di far rientro in Russia. Lì il ballerino rivide il teatro del suo debutto, il Kirov, e l’antica insegnante di danza, ma soprattutto riuscì a salutare la madre con cui, nonostante gli anni trascorsi e la lontananza forzosa da casa, non aveva mai smesso di essere in contatto. Quasi ignorando la progressiva debilitazione della malattia, l’artista continuò a lavorare lanciandosi nelle imprese più varie: nel 1989 fu protagonista del musical The King and I e dal 1991 si esibì anche nelle insolite vesti di direttore d’orchestra. Gli ultimi giorni di attività lo videro spostarsi nei maggiori teatri attento ad ascoltare i giovani talenti che si erano formati in quegli anni sotto la sua impronta. Aggravatesi ulteriormente le sue condizioni di salute, Nureyev fece ritorno un’ultima volta a Parigi dove morirà per un arresto cardiaco il 6 gennaio 1993. Considerato dalla critica come uno dei massimi interpreti di tutti i tempi, Nureyev con la sua arte incise in maniera indelebile sui caratteri della danza maschile e non solo: egli si impose ovunque per «il virtuosismo brillante, l’espressività misurata e il carisma elettrizzante» con cui restituiva, attraverso un’attenta lettura del personaggio, nuova vita ai drammi che andavano sulla scena. Il ballerino seppe uscire dai canoni estetici della coreografia classica per toccare le vette di un’autentica forma di rappresentazione artistica ove, ad un’audace padronanza della tecnica, facevano seguito le prodezze di un gesto sempre attento, raffinato e sensuale, pieno di grazia e virilità, nelle cui forme lo spirito di Rudolf Nureyev sembrava librarsi al di fuori del tempo.
 
Per approfondimenti:
_Rudolf Nureyev. Biografia di un ribelle. Bertrand Meyer-Stabley; _Nureyev.Ralph Fassey, Valeria Crippa; _Enciclopedia della musica. Ed. Garzanti.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1521376784291{padding-bottom: 15px !important;}"]38°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Proiezioni dell'essere - Rassegna di arte contemporanea. C.Michetti, G.Bacci[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1521378252428{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 17-03-2018 è avvenuta l'inaugurazione della mostra di arte contemporanea "Proiezioni dell'essere", 38°evento dell'associazione culturale onlus Das Andere e quinto evento del programma culturale 2018 "Crisi e metamorfosi". La mostra, che ha visto la presenza del sindaco di San Benedetto Pasqualino Piunti, è stata curata dallo scultore Claudio Michetti, insieme al critico d'arte Giuseppe Bacci.
La conferenza, introdotta dallo scultore Ado Brandimarte, ha come obiettivo la donazione del ricavato al Comune di Acquasanta Terme - fortemente colpito dal sisma -, che ha visto la presenza del sindaco dell'omonimo comune Sante Stangoni.
L'evento è stato patrocinato anche dalla regione Marche e dal Comune di Ascoli Piceno, ed ha visto la presenza di ben 17 artisti provenienti da tutta Italia: Francesca Carle (Torino), Cinzio Cavallarin (Prato), Alfredo Celli (Teramo), Gio’ Coppola (Bomarzo), Massimo De Angelis (Montefiascone), Francesco Lupo (Civita Castellana), Claudio Michetti (Acquasanta Terme), Maria Pizzi (Soriano nel Cimino), Luigi Riccioni (Viterbo), Alfonso Talotta (Viterbo), Maria Grazia Tata (Soriano nel Cimino), Giuseppe Ciccia (Firenze), Anna Donati (Civitanova Marche,) Luigino Guarini (Ascoli Piceno), Ado Brandimarte (Ascoli Piceno), Stefano Scalella (Ascoli Piceno) e Marco Ripani (San Benedetto del Tronto).
Durante la conferenza il critico Bacci ha dissertato sulle dinamiche post-sisma e su come l'arte può risvegliare le coscienze e servire in parallelo anche alla ricostruzione successiva, grazie all'emozione e al benessere che può generare negli individui: "Dopo il sisma si è aperta una nuova realtà fatta di sacrifici, di patemi, di sgomento, ma anche di indomita volontà di ricostruzione e di qualificato senso di solidarietà. Forse, questo tentativo può rappresentare anche un ulteriore scatto in cui mettere a frutto prudenza e coraggio, per avviare quel rinnovamento che per ora si intravede solo con gli occhi degli artisti, ma che si auspica possa nel tempo essere visto da tanti altri.
Gli artisti, protagonisti raccolti in questa avventura, si sono fatti comprendere oltre le parole, grazie all’intelligenza e ai sentimenti (di cui non mancano) che sempre sfondano la barriera delle dichiarazioni verbali e delle situazioni esteriori. Le opere d’arte riprodotte in catalogo, contestualizzate in altrettanti ambienti urbani architettonici, assumono significato rilevante nell’immaginario collettivo, diventando oggetto primario di sensibilizzazione per la speranza di rinascita e ricostruzione di quell’habitat infranto dal devastante terremoto. L’arte, come segno dell’uomo, qualifica e identifica un ambiente, esprime il gusto degli abitanti non solo attraverso ma anche con un design originale, per contemplare lo spettacolo del mondo in un continuo svelarsi delle proiezioni dell’essere nelle sue molteplici declinazioni. L’arte parla al cuore dell’uomo poiché suscita, con la bellezza, inesprimibili sentimenti. L’arte in luoghi pubblici - scuole, ospedali, centri commerciali, luoghi ludici, caserme, carceri - connota l’ambiente, suscitando emozioni specificamente diverse (deferenza, ansia, desiderio, gioia, certezza, timore, ecc.).
Nella progettazione di ricostruzione di centri urbani spesso si ravvisa la difficoltà di connotare l’arte nella forma e nel numero di interventi per molteplici cause, sia sul versante dello studio architettonico sia su quello della percezione artistica. Sovente manca, negli architetti e nei committenti, un’abituale frequentazione delle sollecitazioni artistiche. Nella migliore delle ipotesi gli architetti indicano l’intagibilità dell’elemento architettonico attraverso soluzioni soggettive che i fruitori non comprendono, così che l’elemento arte perde di connotazione simbolica. Se da una parte occorre rifuggire simbolismi eccessivi ed ermetici, come si registra in costruzioni di epoche recenti, dall’altra si devono evitare soluzioni puramente funzionali o solo estetiche, poiché si perde il richiamo simbolico e si annulla il filtro tra l’ambiente sociale e quello culturale.
La progettazione dei nuovi centri urbani deve trovare un linguaggio congruo all’attuale cultura e arte, onde dare propositività spirituale all’elemento materiale. Pertanto, si devono raggiungere soluzioni, valutate di caso in caso, evitando, da una parte, configurazioni anonime nelle forme e banali nei contenuti e, dall’altra, virtuosismi stravaganti nelle forme ed esoterici nella sostanza. Il denominatore comune di tutto ciò è la sollecitazione offerta dagli artisti per far superare la situazione di émpasse psicologico causato dal terremoto, quale segno per il presente e stimolo per il futuro. La mostra è costellata di opere nel cui sovrapporsi degli stili si vede la ricerca personale del singolo artista e in catalogo si legge la volontà indomita di personalizzare, di volta in volta, lo spazio urbano ipoteticamente proposto. Lo sguardo del visitatore può così prefigurare il futuro skyline delle città, che potranno riqualificarsi dopo le tragiche vicende telluriche, diventando cittadine vivaci in un sovrapporsi di stili che ridefiniscono l’intero tessuto urbano. Anche attraverso l’arte possono rinascere le speranze in coloro che hanno perso tutto e visto stravolto il proprio territorio, apprezzando la grandezza dell’artista artefice e comprendendo la possibilità di ridare forme splendide al territorio di cui fanno parte.
Ciò è possibile solo attraverso proiezioni concrete delle potenzialità che trovano nell’arte segno sensibile poiché il mondo è legittimamente il «nostro mondo» e questa affermazione deve poter essere pronunciata con fierezza da tutti coloro che lo abitano e lo abiteranno. L’artista, con la propria opera, è voce di chi non ha voce per indicare il primato dell’essere sull’avere, per raccogliere le sfide del nostro tempo. Innegabilmente l’opera degli artisti coinvolti ha la funzione di nobilitare lo spazio e l’arredo urbano, dato che la bellezza, intesa come nobile semplicità e creativa genialità, è un elemento sostanziale per ri-abitare la città e ri-dare dignità alle persone.
Nelle simulazioni in catalogo le opere sono contestuali sia al sistema architettonico - di ben più interessante e congrua fattura, anche se eseguite in epoche e stili diversi - che alle reali esigenze ricostruttive del territorio piceno. Da un gioco grafico può partire un autorevole progetto importante per qualificare i nuovi interventi sia dal punto di vista funzionale, sia dal punto di vista artistico, al fine di allinearsi alle grandi testimonianze di arte e di ricostruzione del passato. È doveroso fornire ai terremotati, che si riapproprieranno del contesto urbano, un’opera non banalmente decorativa ma intrinsecamente sovrasensibile, onde favorire intangibili riflessioni per sviluppare il germe di rinascita del paese: l’opera, quindi, non può essere meramente sontuosa, decorativa, celebrativa.
Nell’odierna cultura, dove la ricostruzione degli edifici spesso è in serie, l’arte deve offrire opere originali e belle, le cui poetiche conducono ad incontrare un mondo elevato dalla bellezza estetica e dall’impegno umano. L’arte s’inoltra nei sentimenti con discrezione e soavità, così da smorzare le tragedie più efferate ed esaltare i sentimenti più nobili attraverso l’idillio scenografico e la visitazione poetica. Luce e colori, sceneggiature e tematiche, personaggi e dialoghi palesano l’estro e la creatività personale.
Bisogna essere davvero lieti che artisti del nostro territorio possano aver concepito e messo in pratica la cultura della collaborazione come qualificato riconoscimento ai superstiti del terremoto, per dimenticare quel grappolo di secondi in cui tutto si è scomposto e ha mutato la vita causando pianto, insicurezza, spaesamento, e per produrre, al contempo, stupore per riprendere ad ammirare, attraverso l’arte, il mondo. Altra convinzione che sostiene questo progetto è che al centro dell’interesse c’è l’uomo! Gli artisti sono uniti dalla comune e concreta passione per l’uomo che soffre nella quotidianità. La bellezza artistica e la sensibilità degli artisti sono ancora fermento vivificatore per una rinascita collettiva, anche attraverso i nuovi consessi della cultura".
La mostra rimarrà presso la Palazzina Azzurra fino al 04 Aprile 2018. Si ringraziano l'Arch.Giuseppe Baiocchi e l'ing.Giovanni Amadio per l'organizzazione della mostra e per la progettazione del catalogo delle opere: http://ita.calameo.com/read/004684135505632915e39.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1478016021581{padding-bottom: 15px !important;}"]Umberto II, il Re gentiluomo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 15/01/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1521386692171{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sua altezza reale Umberto Nicola Tommaso Giovanni Maria di Savoia, abbreviato Umberto II è stato l’ultimo Re di Italia. Spesso gli italiani si sono interrogati sull’eventuale colpa della monarchia: guerra, fascismo, sconfitta. Questa che sto per raccontarvi è una tragedia che rimane, ancora oggi, al centro di una delle tante coscienze nazionali irrisolte del nostro paese.
La casa reale sabauda ha avuto un disegno politico lungo mille anni che, per noi contemporanei, si traduce in uno straordinario patrimonio in opere architettoniche, pittoriche, ambientali, e di istituzioni culturali.
[caption id="attachment_6587" align="aligncenter" width="1000"] Umberto II, nato Umberto Nicola Tommaso Giovanni Maria di Savoia (1904 – 1983), ultimo Re d'Italia. ©collezioni MauryFert.[/caption]
Nella grande muraglia del passato, quale è stato il ruolo di Umberto negli eventi che videro la fine della casata dei Savoia? Raramente se ne parla, quasi questo argomento per la Repubblica sia veramente un tabù. Il tempo passa e la storia si dimentica.
Attraverso lo studio di saggi storici di comprovata veridicità e fonti di archivio ho cercato di ricostruire gli eventi seguendo meramente i documenti storici, senza scendere nella soggettività. Questo articolo vuole essere un’inchiesta, ma è soprattutto una tragedia umana, una favola triste sullo sfondo di un secolo tremendo.
Nato nel 1904 dal matrimonio di Elena (principessa del Montenegro) e Vittorio Emanuele III (Re di Italia) è il terzogenito di quattro figli, unico erede maschio. Cresciuto nell'affetto e nella deferenza di gentiluomini e gentildonne all’interno di meravigliose ville e giardini, Umberto riceve una rigida educazione, vivendo la sua infanzia molto lontano dalle tragedie e dalle catastrofi della successiva storia italiana e Europea.
Nell’immensa e sanguinosa strage della prima guerra mondiale, la pace Europea significherà una serie di tanti irreparabili eventi, ma per le monarchie è un vero terremoto. Molte di queste vengono abbattute e solo l’imperialismo inglese di Re Giorgio V si rafforza. L’Italia, uscita vincitrice dal conflitto, diventa la seconda monarchia Europea dopo la scomparsa dell'impero zarista russo nel 1917 con l’omicidio dello Zar Nicola II (trucidato nel 1918) da parte delle forze bolsceviche (nel 2008 l’esecuzione reale è stata condannata, come omicidio sommario, dal tribunale russo) e dopo la caduta dell'Impero Austro-Ungarico che viene soppiantato da un potere borghese-massonico tutto francese e anglo-americano.
Per Umberto, questo periodo coincide con la fine della propria infanzia che vede l’allontanarsi del padre il quale passerà la guerra al fronte. La guerra è stata l’uovo del drago, dal quale sono nati mostri assetati di sangue: fascismo, bolscevismo, nazismo. Il precettore di Umberto è l’ammiraglio Conte Attilio Bonaldi che lo allevò con incredibile severità: Umberto doveva essere ubbidiente, non doveva mai discutere un ordine, mai permettersi una opinione. Nel 1921 a soli diciasette anni è già un personaggio pubblico. I Savoia erano una dinastia militare e il principe ereditario doveva essere un militare anche lui. Le qualità di Umberto sul finire dell'adolescenza non piacevano a Bonaldi, poiché il principe era gentile, cortese, allegro, elegante e obiettivamente bellissimo. 
La Marcia su Roma il 28 ottobre del 1922 porterà, come è noto, il fascismo al potere. Un potere dovuto ai 306 deputati (di cui 35 del partito nazionale fascista) che votarono la fiducia al Governo di ampia coalizione presieduto dall'onorevole Benito Mussolini . Casa Savoia, stanca della mancanza di riforme e figuracce internazionali come la sconfitta di Adua del 1896, lascia agire Mussolini e gli accorda la fiducia. Comincia così quella tempesta, che porterà alla distruzione il vecchio ordine delle cose.
Oltre a quella fascista, c’era ancora un’altra destra in Italia e in Europa che si plasma intorno alle antiche famiglie reali con le loro coorti, i loro gentiluomini e le loro gentildonne con il loro seguito di aristocratici: principi, duchi, marchesi, conti. Questo mondo si darà convegno a Napoli il cinque novembre del 1927 per le nozze di Amedeo, figlio del duca d’Aosta (in abito meharista) con Anna, figlia del duca di Guisa della famiglia reale francese. I gioielli di Anna appartenevano alla regina francese Maria Antonietta ghigliottinata durante la rivoluzione. Scrive il Corriere della Sera il giorno dopo il matrimonio: “a voler rifare la genealogia della nuova principessa sabauda, una stirpe così pura e antica, bisognerebbe ripercorrere mille anni di storia” e segue un elenco di antenati celebri: “San Luigi, tre imperatori di Bisanzio, tutti i Re di Francia, di Navarra, di Spagna, quelli di Napoli, delle Due Sicilie, d’Ungheria, di Polonia”.
[caption id="attachment_6588" align="aligncenter" width="1754"] Napoli 5 novembre 1927 - Nozze delle altezze reali Amedeo di Savoia Duca delle Puglie con la Principessa Anna di Francia. ©collezioni MauryFert[/caption]
Tornando sul principe di Piemonte Umberto, quasi un attore del cinema americano, egli commosse milioni di donne facendosi vero e proprio mito per l'universo femminile. Molte donne confessarono il loro amore per il principe come per Tancredi o Rinaldo. In fondo al cuore di tutte, era il figlio del Re: un mito irraggiungibile. Se aggiungiamo la grande cortesia, la disponibilità, la mitezza con un fondo di riservatezza e di tristezza, sarà sempre molto stimato dal popolo.
Nel 1928 Vittorio Emanuele III, chiese ad Umberto (all’epoca aveva 24 anni) di intraprendere un lungo viaggio: andrà in Egitto, in Eritrea, in Somalia italiana e in Palestina. Per la sua formazione doveva assolutamente lasciare l’Italia. Tornato in patria, a Torino, il Principe del Piemonte era diventato amico di una attrice di spettacolo Carolina Mignone con la quale era stato visto spesso. Molti millantano un amore, altri una semplice avventura, ma il Re non voleva scandali e “Milly”, così veniva chiamata da Umberto, doveva uscire dalla vita del Principe ereditario. Umberto si congedò da Mignone con gentilezza, le regalò un anello e le disse: “si ricordi che le persone che mi sono care lo saranno per sempre. La mia amicizia per lei non finirà mai”.
[caption id="attachment_6734" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, il Principe di Piemonte Umberto di Savoia sbarca ad Alula (22 marzo 1928), in Migiurtinia, nella Somalia italiana, accompagnato dal Governatore Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon. Nella foto di destra l'attrice Carolina Mignone.[/caption]
Non si conoscono molti altri grandi amori del Principe, che inizia ad essere controllato  dall’OVRA (la polizia segreta del regime, ufficializzata con le leggi fascistissime del 1925) che aveva un intero dossier (mai ritrovato) su di lui.
Nel 1929 Vittorio Emanuele III, inaugura la XXVIII legislatura. Questo sarà un anno di grandi mutazioni sia in Italia, che nel mondo. Il Re affronta i tempestosi tempi nuovi, rimanendo legato alle tradizioni e al cerimoniale monarchico. “Coloro che non hanno conosciuto l'Ancien régime non potranno mai sapere cos'era la dolcezza della vita” asseriva il principe di Benevento Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord. Le guardie con i cappelli impennacchiati, le vesti multicolori, gli ornamenti dorati, i paramenti scarlatti, le guardie del Re, gli ufficiali, i trombettieri e i musici sono uno spettacolo abbagliante durante tutta la cerimonia. 
Il Re aveva accettato la dittatura fascista senza entusiasmo, come il minore dei mali: "i governi  erano destinati a durare qualche anno, le dinastie secoli".
Ma Vittorio Emanuele III aveva sottovalutato la manovra politica di Benito Mussolini che nel 1925 con le leggi definite “fascistissime” aveva inserito una modifica allo Statuto Albertino dove si ratificava che il principe ereditario di Vittorio Emanuele III (Umberto, appunto) sarebbe stato eletto direttamente dal Gran Consiglio del fascismo. Dunque un gravissimo “scacco al Re” – un tradimento alla fiducia accordata in quel 1922. Una manovra di ricatto, che Mussolini userà per controllare abilmente la monarchia italiana e tenerla sotto controllo. Per il maestro di Predappio la monarchia doveva essere sottoposta al fascismo.
Sempre nel 1929, ci fu la conciliazione tra stato italiano e vaticano. Umberto con le sorelle visiterà quello stesso anno il Papa e per il principe piemontese fu un evento di particolare gioia, essendo di grande fede cattolica. Della corte papale facevano parte, per diritto ereditario, le grandi famiglie dei principi romani: i Colonna, gli Orsini, i Borghese, gli Odescalchi, i Patrizi, i Ruspoli con i loro castelli nell’agro-romano e i loro splendidi palazzi rinascimentali, barocchi o settecenteschi. Umberto sarà lieto di frequentare quel mondo, prima separato dai Savoia e di essere riconosciuto, con la benedizione del Papa, come principe ereditario.
Ma il 1929 è ricordato per la catastrofe economica che colpisce la finanza statunitense che sconvolgerà l’Europa. Una serie di fallimenti industriali colpiranno il vecchio continente nel quale avviene un crollo dei consumi e si presenta un forte stato di disoccupazione dalle conseguenze gravissime.
Questa crisi sarà la premessa al secondo conflitto mondiale.
Nel frattempo Umberto, sempre nel 1929, è a Bruxelles dove annuncia il fidanzamento con quella che poi sarà sua moglie Marie José di Sassonia Coburgo-Gotha – figlia del Re del Belgio. Sempre a Bruxelles un giovane studente anti-fascista Ferdinando De Rosa, si fece largo tra la gente e gli sparò un colpo di rivoltella: Umberto rimase impassibile, tanto da far impressione ai belgi presenti. Alla corte del Belgio, si poteva incontrare il meglio della cultura Europea: da Einstein a Claudel, da Pau Casals a George Bernard Shaw.
Il matrimonio sarà celebrato a Roma il 28 Gennaio del 1930. Per Maria José sarà indubbiamente un matrimonio d’amore, con Umberto che aveva ventisei anni e lei ventiquattro. Da anni lei era destinata a lui, fantasticando spesso sul momento delle nozze, mentre per Umberto il matrimonio era un altro dei suoi doveri, che da futuro Re, doveva ottemperare dovendo consegnare un erede maschio al trono. Non sarà un matrimonio semplice.
[caption id="attachment_6595" align="aligncenter" width="1000"] Marie José Carlotta Sofia Amelia Enrichetta Gabriella di Sassonia Coburgo-Gotha, nota come Maria José del Belgio (Ostenda, 4 agosto 1906 – Thônex, 27 gennaio 2001), nata principessa del Belgio, fu l'ultima regina d'Italia come consorte di Re Umberto II.[/caption]
La principessa indossava un vestito confezionato dalla sartoria Ventura di Milano con uno strascico lungo ben sette metri con in capo un antico velo di merletto bianco sormontato da un diadema di casa Savoia, ornato di pietre preziose; il tutto disegnato dalla mano dello stesso principe ereditario. Dopo le nozze avvenne la visita in vaticano. La prima residenza dei principi di Piemonte sarà nella vecchia capitale sabauda Torino, dove Umberto si trovava benissimo. Ha molti amici nell’alta società torinese, tra cui Edoardo Agnelli il quale, se non fosse morto troppo presto, avrebbe ereditato il grande impero economico della FIAT.
Sotto la superficie della cortesia mondana Umberto è attento alle realtà del potere, ancora presenti in Europa, legate al mondo delle dinastie.
Il “mestiere di moglie” di José comprende la presenza alle cerimonie, alle inaugurazioni, ma soprattutto mai occuparsi delle questioni statali. Maria José poteva andare continuamente in vacanza, ma questa pratica annoiava la principessa, che preferiva impegnarsi in prima persona nelle questioni culturali e sociali.
La figlia del Re belga era interessata all’arte, alla filosofia, alla letteratura: non era certamente antifascista, ma frequentava intellettuali molto lontani dal regime, tra i quali Benedetto Croce o Umberto Zanotti Bianco. Più tardi nel 1946 confesso all’amico Zanotti Bianco “sento in qualche modo di dover espiare la fede che ho avuto in Mussolini. La sua vitalità allora mi aveva affascinato”.
I coniugi lasceranno Torino per trasferirsi a Napoli: lo spirito poco assoggettabile al regime, rendeva la cultura partenopea affine ad entrambi, i quali avevano ormai una forte diffidenza verso la politica estera di Mussolini, sempre più aggressiva contro le potenze europee con le quali i Savoia avevano relazioni centenarie.
Ma gli anni scorrono veloci e ci portano al discorso di Benito Mussolini a Piazza Venezia il due ottobre del 1935: il Duce della oramai passata “rivoluzione fascista” annuncia la guerra contro l’Etiopia e agli italiani promette l’impero. “Un ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Durante tredici anni abbiamo pazientato mentre si stringeva, attorno di noi, sempre più rigido il cerchio che vuole soffocare la nostra irrompente vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni! Ora basta!”.
Maria José parte infermiera della Croce Rossa per la guerra, il marito Umberto resta in Italia: per lei è la grande avventura. La guerra in Etiopia è un successo, il regime arriverà all'apice dei consensi storici. Pietro Badoglio, capo delle forze armate coloniali in Abissinia entra a Roma da trionfatore, ma nonostante il successo anche il maresciallo è sfavorevole all’alleanza con la Germania nazista di Hitler, che si andava prospettando.
Anche la principessa belga torna in Italia ed è convinta, come la maggior parte degli italiani, che l’Impero assicurerà agli italiani grandezza e prosperità. Gli eventi, come tristemente noto, precipitarono nel giro di pochi anni. La politica agricola completamente errata del Regime che basò tutto sulla agricoltura auspicando uno stato rurale, dopo tre rivoluzioni industriali, fa entrare l’Italia in crisi economica – crisi che può essere superata solo con una guerra, dove come detto lo spazio etiope si presentava come spazio di interesse per lo slancio della “vitalità italiana”. L’Italia, garante della sovranità austriaca contro le pretese tedesche, si accorda con Francia e Inghilterra per operare in Etiopia senza ricevere sanzioni, ma le speranze di Mussolini vengono disattese dalla Gran Bretagna. Giorgio V  vedeva l’anacronistica espansione coloniale italiana con preoccupazione in chiave coloniale, nello specifico nel Sudan e nel Somaliland, possedimenti britannici.
L’embargo contro l’Italia, spinto dagli inglesi, fa mutare la politica estera del governo fascista che si avvicina definitivamente all’unica nazione, tra l’altro potentissima, del continente: la Germania nazionalsocialista.
Nell’agosto del 1936 si tengono a Berlino le olimpiadi, che per Hitler sono l’occasione di far ammirare al mondo la grandezza della Germania nazista. Gli italiani e i tedeschi si preparano a riavvicinarsi: ospite delle Olimpiadi sarà il principe di Piemonte, notoriamente anti-tedesco, Umberto. E’ un gesto dimostrativo che precede trattati di amicizia e poi di alleanza.
Intanto la prima figlia, Maria Pia nascerà nel settembre del 1934 e il secondo figlio Vittorio Emanuele nasce a Napoli il 12 febbraio del 1937: è una grande festa popolare, poiché assicurare la continuità della dinastia era cosa di primaria importanza. Il lieto evento smentisce le voci che il regime fascista faceva circolare intorno al Principe, accostandogli il reato della pederastia: accuse false e infamanti. Per deridere l’erede al trono si usava l’appellativo di “stellassa” in dialetto milanese: stellina. Alla festa per l’erede maschio partecipa anche Galeazzo Ciano, ministro degli esteri. Ciano ha sposato la figlia di Mussolini Edda e sono in molti a pensare che quando il tempo verrà sarà lui il successore di Mussolini. I due delfini si conoscono con un misto di amicizia e di diffidenza. 
Continua, nel frattempo, la grande mondanità internazionale di Umberto. Deve presenziare al festival del cinema di Venezia o al cafè society. Intorno a lui aristocratici, artisti, giornalisti, architetti, cinematografi, intellettuali – insomma la crema della società. Questa è una realtà che Umberto, a differenza di Maria José, ama moltissimo. In questi ambienti è sempre allegro e di buono umore, non dimostra mai quella alterigia che una altezza reale, per di più erede ad un trono oramai imperiale potrebbe dimostrare.
Nel dicembre del 1937 Amedeo di Savoia duca d’Aosta (cugino del principe di Piemonte Umberto) parte per l’Africa orientale italiana di cui è diventato Vice-Re per stabilizzare la difficile situazione degli indigeni etiopi che imperversavano con bande armate a cavallo, rendendo il neonato impero poco sicuro per i proletari italiani. Secondo disegno del regime, infatti, emigravano per avere gratuitamente appezzamenti di terreno e proprietà a discapito degli africani. Scrive il duca d’Aosta nel suo diario: “sto navigando su un superbo incrociatore che mi porta verso la grande avventura della mia vita”. Sarà avventura, ma anche morte per il Duca. La nomina di un Vice-Re monarchico e non fascista verrà presa con grande orgoglio e grande responsabilità dalla monarchia italiana che dal punto di vista politico-amministrativo, rende la situazione meno instabile abolendo le vessazioni di Graziani verso il popolo indigeno.
[caption id="attachment_6598" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Savoia, Duca D'Aosta - eroe dell'Amba Alagi in Etiopia.[/caption]
Il terzo duca d’Aosta segue la costruzione di acquedotti e strade, controlla i lavori delle abitazione dei coloni ai quali non doveva mancare nulla. Amedeo Di Savoia nella sua tesi di laurea auspicava una integrazione totale tra italiani e popolazione dell’impero dove, in accordo con Italo Balbo, auspicava una parità di diritti tra le due parti per riavvicinarsi a quella integrazione creata già dall’Impero Romano. Solo un anno più tardi in italia venivano invece promulgate le leggi razziali per l’indignazione di molti italiani e della monarchia stessa. 
Nel maggio del 1938 Vittorio Emanuele III riceve Adolf Hitler in Italia: si parla già di asse Roma-Berlino. Perfetto amore? Niente affatto. Il Re non si vuole impegnare e tra casa Savoia e i nazisti non corre buon sangue. Da anti-tedesco non nutre stima per Hitler, ma la pressione di Mussolini è insostenibile. Così non si firma un patto di alleanza con impegni precisi. Hitler dirà successivamente: “al quirinale si respira aria da tomba” chiedendo al Duce quando potrà congedare il Re. Quest’ultimo a sua volta accuserà Hitler di essere un pazzo, un degenerato e di prendere droghe.
Il due marzo del 1939 viene incoronato Papa con il nome di Pio XII il cardinale Eugenio Pacelli. Questi non vuole la guerra e cerca una intesa con Vittorio Emanuele III e la trova. Non sarà in grado di influire sul corso degli eventi, ma si crea un’intesa per tenere a freno Mussolini: ne fanno parte sicuramente la principessa Maria Josè, con più prudenza Umberto, con infinita prudenza Re Vittorio Emanuele III. In questo movimento sono simpatizzanti anche una parte della fronda fascista, capeggiata da Italo Balbo, Galeazzo Ciano, Dino Grandi e Giuseppe Bottai. C’è anche Badoglio, ma di tutta questa corrente rimangono poche tracce - quasi che qualcuno abbia voluto cancellarne la memoria.
[caption id="attachment_6599" align="aligncenter" width="1000"] da sinistra a destra: Eugenio Pacelli (Pio XII), Maria José, Umberto Savoia, Italo Balbo, Galeazzo Ciano, Dino Grandi e Giuseppe Bottai.[/caption]
Il Re in quel momento avrebbe avuto la forza di fermare Mussolini? Casa Savoia era popolare, Umberto e Maria José erano molto amati, i nazisti venivano guardati con diffidenza. Il Re, forse, avrebbe potuto osare.
La situazione fra monarchia e regime si incrina ancora alle nozze del principe Aimone di Savoia Aosta, principe di Spoleto (fratello del duca di Aosta, Amedeo). Il primo luglio a Firenze avviene il matrimonio con Irene, figlia del Re di Grecia. L'evento può essere visto come una piccola prova di forza della antica Europa tradizionale delle dinastie che fa apparire di nuovo la gloria e lo splendore del mondo di ieri. Quel mondo che in fondo al cuore, sia Hitler che Mussolini detestavano. Umberto, fa parte a pieno titolo di questa alta società, che non è ancora del tutto esautorata e vive a pieno titolo tutto con entusiasmo. Tutte le famiglie monarchiche sono presenti al matrimonio, ma un ombra velata è intrisa nell'aria: l’assenza di Benito Mussolini. La Grecia e l’Italia avevano già avuto un momento di attrito, voluto dal Duce il quale iniziava già ad aguzzare, dall’Albania, il suo sguardo sulla penisola ellenica.
Si arriva alla guerra: il secondo conflitto mondiale era iniziato nel settembre del 1939 con l'invasione nazista alla Polonia. Le truppe di Hitler sbaraglieranno nel giro di pochi giorni i polacchi e Stalin darà loro una mano attaccando anche lui la Polonia da est. L’Italia non interverrà nei primi mesi di guerra.
Il 24 febbraio del 1940 nasce la terza figlia di Umberto: Maria Gabriella. Nel frattempo Mussolini non ha ancora deciso quando entrare in guerra al fianco dell’alleato tedesco. Il Amedeo Savoia e Italo Balbo, in questo periodo, si avvicinano ancor più al principe di Piemonte. Ancora dal diario di Amedeo Savoia si evince come poco prima dell’entrata in guerra, in un aspro confronto con Mussolini, il Duca disserta come l’esercito non sia preparato ad una guerra di medio-breve durata, di come i soldati del regio-esercito non erano né per numero, né per mezzi sufficientemente pronti. Il suo comando sconsiglia l’entrata in guerra al Duce, ma un Mussolini stizzito lo ascolta e lo congeda. Amedeo per senso del dovere ubbidisce agli ordine rimanendo in africa orientale, nonostante i consigli di Vittorio Emanuele, circa un suo rientro in Italia insieme a Italo Balbo. Ancora dal suo diario, Amedeo scrive: “ho preferito rimanere a Massaua dove ci sono ben 250.000 italiani che non posso abbandonare”.
Nel diario di Ciano il 22 febbraio del 1940, egli annota: “il principe di Piemonte è molto anti-tedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. E’ preoccupato per l’orientamento sempre più favorevole ai tedeschi della nostra politica (...) la Germania per noi è un terreno di manovra”.
Il migliore amico del duca d’Aosta, dott. Edoardo Borra scrive che ai primi di Aprile del 1940, Amedeo Savoia si trovava a Roma (confermato nel diario stesso del duca). Il progetto, scrive Borra, prevedeva di sostituire alla presidenza del consiglio Mussolini con Galeazzo Ciano per tenere l’Italia fuori dalla guerra. Nell’idea erano coinvolti il principe Umberto, Aimone di Savoia duca di Spoleto, Adalberto di Savoia duca di Bergamo, Italo Balbo ed altri sopra citati. Il Re, del resto, nei giorni precedenti aveva riferito a Ciano che la monarchia era pronta ad intervenire, militarmente se necessario, per dare un corso diverso agli eventi. Un operazione difficile, che porterà Aimone segretamente ad incontrare gli inglesi in Svizzera nel 1941. Nelle fasi concitanti dell’otto settembre 1943 questo carteggio è andato perso o distrutto.
La principessa Maria José, ispettrice della Croce Rossa è profondamente ostile ai nazisti. Dal diario di Ciano, questi scriverà su di lei: “è soprattutto inquieta per la minaccia di invasione del Belgio. Le ho lasciato capire che secondo le nostre informazioni la cosa sembra assai probabile”. Maria José avvertirà il fratello, Re Leopoldo del Belgio ed ai primi del 1940 sarà proprio lei a chiedere a Aimone e a Balbo di venire a Roma per cercare di impedire la guerra.
Per Umberto, arriva l'avvicinarsi del conflitto: avrà lo sgradito compito di "comandante in capo delle truppe della Armata Nord", attestata sul confine delle Alpi francesi. E’ tuttavia sempre meno convinto della guerra.
La domanda che sorge spontanea è chiedersi il perché dopo tanto complottare, nessuno si è mosso? La risposta giace all’interno degli eventi militari: il 10 maggio del 1940 l’esercito tedesco passa all’offensiva contro la Francia e Mussolini viene tirato giù dal letto dall’ambasciatore tedesco a Roma che gli consegna il dispaccio. Anche in Francia come prima in Polonia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, la wehrmacht si dimostra completamente superiore e in poche ore l’equilibrio europeo è capovolto. Nessuno sembra in grado di competere con Hitler: chi in Italia non era d’accordo è ridotto al silenzio. Un silenzio che Umberto manterrà per sempre. Da fonti certe e autorevoli l’ex Re, prima di lasciare Cascais per la malattia che lo porterà alla morte nel 1983 passerà molte serate al caminetto a bruciare documenti.
10 Giugno 1940, l’Italia dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra. L’ambasciatore francese a Roma Andre Francois Ponsè asserirà a Ciano: “non scavate fossati troppo profondi, ve ne accorgerete, i tedeschi saranno duri padroni”. L’offensiva italiana voluta da Mussolini dette risultati molto modesti: qualche chilometro quadrato di terreno occupato sulle Alpi e a Mentone sul mare Ligure. Intanto i tedeschi avevano conquistato 2/3 della Francia, Parigi compresa.
Le testimonianze degli ufficiali della Armata Nord Occidentale su Umberto sono di un individuo cortese, serio, onesto. Perché, dunque, si è lasciato coinvolgere da quella offensiva che Roosevelt definirà “il colpo di pugnale nella schiena”? Ancora una volta Umberto, da soldato, esegue gli ordini. Oramai non c’era più nulla da fare: il bastone del comando era saldamente nelle mani del Duce. A contrastarlo c’è il rischio di vedere nel giro di 48 ore i tedeschi a Roma.
E’ il momento, questo, dove Mussolini per l’opinione pubblica italiana ha ancora una volta ragione sugli eventi che accadono. Un celebre aforisma di Longanesi asseriva: “Mussolini ha sempre ragione”.
Dopo l’armistizio (separato da quello tedesco) della Francia con l’Italia – inizia per Umberto una situazione che si avvicina ad un esilio anticipato: fino ad allora l’istituto Luce, con molta parsimonia, lo aveva diverse volte ripreso, ma dalla battaglia sulle Alpi in poi non lo farà più. Del principe di Piemonte e della sua popolarità il Duce ne ha avuto evidentemente abbastanza. Forse era stato informato sulla partecipazione di Umberto a quella che possiamo chiamare “partito anti-guerra”? E’ lecito supporlo. Di certo Umberto nelle pellicole dell’Istituto Luce dal giugno del 1940 al luglio del 1943 in tutto comparirà sugli schermi dei cinema italiani poco più di un minuto. Maria Josè è sempre seguita dalla polizia e i telefoni di casa Savoia sono sotto stretta sorveglianza da parte dell’OVRA. Furono travati microfoni al Quirinale.
Contrariamente alle previsioni di Mussolini la guerra sta andando male: nel marzo del 1941 l’Africa orientale è perduta. Scrive sul suo diario il duca d’Aosta: “perdere un Impero non succede tutti i giorni. Vedere la mia opera, alla quale ho dedicato tre anni della mia vita andare a pezzi sotto la bufera è cosa non comune. Affogo nel lavoro l’amarezza dell’ora, mantengo la mia serenità. Anche se scrivo l’ultima pagina di questo grande dramma voglio scriverla bene". Il 18 Maggio avverrà la resa agli inglesi che gli renderanno un antica pratica miliare “l’onore delle armi”. Sarà internato nel Kenya britannico dove morirà di tubercolosi nel marzo del 1942.
Maria Josè prende atto degli eventi catastrofici che hanno portato la Monarchia italiana a perdere l’Impero e si convince sempre più che sia importante giungere ad una pace di compromesso il prima possibile. Si rivolge al vaticano: la morte di Amedeo di Savoia l’ha profondamente commossa. Si informa con il pontefice su come poter aiutare alcuni amici ebrei tormentati dalle leggi razziali, sempre più aspre e severe. Con il pontefice dialoga anche su una possibilità di contattare gli anglo-americani. Pacelli rassicura Maria José, asserendo come egli avesse la possibilità di poter entrare in comunicazione con gli anglo-americani in via segretissima. Nel frattempo, il Re inizia a operare un carteggio con i britannici: gli alleati riconoscendo l’Italia come nazione sovrana imponevano a questa, di non richiedere rivendicazioni territoriali e di dover sul campo meritare di essere alleato. Gli inglesi promettevano anche di aiutare con armamenti il regio esercito a patto di sbarcare senza problematiche in Sicilia. Questa idea presupponeva che la monarchia si liberasse del fascismo tramite un colpo di Stato e affidasse le forze armate a Badoglio. Lo stesso Maresciallo affermava che arrestare Mussolini era semplicissimo: bastavano due divisioni dei Granatieri i quali dovevano nella notte circuire Villa Torlonia e arrestare Mussolini imprigionandolo.
[caption id="attachment_6600" align="aligncenter" width="1000"] Umberto II, possedeva i seguenti titoli: Re d'Italia, Re di Sardegna, Re di Cipro, di Gerusalemme e di Armenia, duca di Savoia, principe di Carignano, principe di Piemonte, principe di Oneglia, principe di Poirino, principe di Trino, principe e vicario perpetuo del Sacro Romano Impero, principe di Carmagnola, principe di Montmélian con Arbin e Francin, principe balì del ducato di Aosta, principe di Chieri, principe di Dronero, principe di Crescentino, principe di Riva di Chieri e Banna, principe di Busca, principe di Bene, principe di Bra, duca di Genova, duca di Monferrato, duca d'Aosta, duca del Chiablese, duca del Genevese, duca di Brescia, duca di Piacenza, duca di CarignanoIvoy, marchese di Ivrea, marchese di Saluzzo, marchese di Susa, marchese di Ceva, marchese del Maro, marchese di Oristano, marchese di Cesana, marchese di Savona, marchese di Tarantasia, marchese di Borgomanero e Cureggio, marchese di Caselle, marchese di Rivoli, marchese di Pianezza, marchese di Govone, marchese di Salussola, marchese di Racconigi, con Tegerone, Migliabruna e Motturone, marchese di Cavallermaggiore, marchese di Marene, marchese di Modane e di Lanslebourg, marchese di Livorno Ferraris, marchese di Santhià, marchese di Agliè, marchese di Barge, marchese di Centallo e Demonte, marchese di Desana, marchese di Ghemme, marchese di Vigone, marchese di Villafranca, conte di Moriana, conte di Ginevra, conte di Nizza, conte di Tenda, conte di Romont, conte di Asti, conte di Alessandria, conte del Goceano, conte di Novara, conte di Tortona, conte di Bobbio, conte di Sarre, conte di Soissons, conte dell'Impero Francese, conte di Sant'Antioco, conte di Pollenzo, conte di Roccabruna, conte di Tricerro, conte di Bairo, conte di Ozegna, conte delle Apertole, barone di Vaud e del Faucigny, alto signore di Monaco e di Mentone, signore di Vercelli, signore di Pinerolo, signore della Lomellina e Valle Sesia, nobil homo, patrizio veneto, patrizio di Ferrara.[/caption]
Il giorno seguente, il Re avrebbe dovuto proclamare il fascismo come esautorato, ma la guerra sarebbe continuata. Altre idee riguardavano invece il bisogno di concordare con gli anglo-americani quando fare il colpo di Stato e quando operare l’armistizio delle forze armate. Bisognava evitare, se possibile, di trasformare l’Italia in un campo di battaglia e salvaguardare le popolazioni civili, già profondamente segnate dalla guerra. Maria José non rinuncia al grande gioco politico con la complicità del marito Umberto. Questa complicità non è vista bene da Re Vittorio Emanuele III che voleva le donne di casa Savoia fuori dalla vita politica. Il rapporto tra Umberto e suo padre si fa sempre più tormentoso. Vittorio Emanuele era un uomo intelligente, che gli anni lo avevano reso cinico e sfiduciato: manca di fiducia anche nei confronti del figlio e la nuora gli sembra una “esaltata irresponsabile”. E’ convinto anche lui che la guerra sia perduta, ma non si decide ad intervenire e senza il Re l’esercito non si muove. Ancora Umberto Zanotti Bianco (fondatore e primo presidente di Italia Nostra) aiuterà la principessa nei movimenti per arrivare al colpo di Stato.
Ha scritto un diario inedito, dal quale rimangono ancora pochi volumi custoditi dalla associazione nazionale per il Mezzogiorno d’Italia (ente di studio, di cui Zanotti Bianco è stato il fondatore). Per liberare l’Italia dal fascismo si punta sul colpo di Stato militare. Il 7 febbraio del 1943 scrive di essersi incontrato con Maria José.
Zanotti Bianco ha interpellato i comunisti clandestini che gli hanno negato l’appoggio militare verso la monarchia in caso di golpe. Invierà alla Regina, dopo la guerra una foto con scritto: “a sua maestà la Regina, amica fedele nel tempo delle persecuzioni”.
Il bombardamento del 19 luglio 1943 a Roma convincerà Vittorio Emanuele III sulla necessità di agire. Maria José aiutata da Zanotti Bianco, da Giuliana Benzoni e da dame di corte come Ninì Pallavicino, Sofia Iaccarino e Guendalina Spalletti ha ottenuto una rete di appoggi: Il maresciallo Caviglia, Ivanoe Bonomi, Vittorio Emanuele Orlando, preziosissimo il cattolico Guido Gonella, artefice del contatto con il Vaticano. Sia pure con grande ritardo il Re si muove nella direzione da lei suggerita.
[caption id="attachment_6603" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Zanotti Bianco, Giuliana Benzoni, Ivanoe Bonomi, Vittorio Emanuele Orlando, Guido Gonella, Enrico Caviglia.[/caption]
Il 25 luglio del 1943 il Re fa arrestare Mussolini e nomina il maresciallo Badoglio presidente del Consiglio. Dopo tante sconfitte e tante sofferenze la gente è stanca del fascismo. Si legge dal diario di Zanotti Bianco che Maria José ricevette l’ordine dal ministro della real casa duca di Acquarone di partire subito da Roma, per andare in esilio ed isolamento nelle montagne piemontesi a Sant’Anna di Valdieri. Il Re, spiegò Maria José: “non ha osato parlarmi direttamente, perché avrebbe dovuto dirmi cose troppo amare. Mi rimproverò di aver complottato contro di lui tenendo contatti con elementi liberali e socialisti. In casa Savoia, aggiunse, le donne non si sono mai occupate di politica”. Maria José si rifugiò invece, in Svizzera luogo che non gli permetteva più di intervenire in nessun ambito.
Corre l’otto settembre del 1943, l’Italia alleata della Germania nazista e in guerra contro Inghilterra, Stati Uniti e Unione Sovietica chiede la resa: è la sconfitta.
Gli Alleati sbarcano a Salerno con i tedeschi che si impadroniscono di tutto il resto del territorio italiano. La famiglia reale con il primo ministro Badoglio lascia Roma e si rifugerà a Brindisi. In quelle ore drammatiche, grazie agli scritti del conte Francesco di Campello (ufficiale d’ordinanza del Principe dal 15 gennaio 1943 al 20 giugno 1944), possiamo capire come Umberto II non era d’accordo con la scelta paterna di lasciare la capitale. Campello in data otto settembre scrive: “butto la mia poca roba nella valigetta e scendo con il Principe di Piemonte. Non posso trattenermi dal dirgli francamente che questa fuga precipitosa mi sembra una vera pazzia. Condivide quanto vado dicendo. Non credo di esagerare, scrivendo di averlo veduto disperato per la fuga e per questa confusione generale. Il principe, ad ogni modo, è pienamente d’accordo con me: è nero. Non gli ho sentito dire una parola, tranne ripetere tra sé e sé – Dio, ma che figura! Che figura! – Lo supplico, con quella libertà che mi prendo essendo stato suo compagno di giochi da bambino di riflettere se per il bene della causa, della dinastia, del paese non sarebbe stato molto meglio per lui tornare a Roma. Arrivo financo a dirgli che avrebbe potuto rientrare a Roma come Re Umberto II”.
In un intervista Rai del 1979 fatta ad Umberto II a Cascais (/kɐʃ'kaiʃ/) in Portogallo, il sovrano ci descrive quei momenti: “l’aver lasciato, in quel modo, Roma può essere stato uno sbaglio. Senza avvisare i ministri, i quali non hanno avuto la possibilità di raggiungere il Re e prendere le loro disposizioni. Il mio rammarico è che queste persone sono state dimenticate negli attimi più concitati”.
Sulla mancata difesa di Roma, sotto un certo profilo, ha ragione Umberto: le truppe italiane erano certamente superiori per numero, ma erano inferiori in armamento e soprattutto erano inferiori anche da un punto di vista psicologico per la mancanza di ordini, poichè non vi era un piano di difesa organizzato.
Spesso la storiografia contemporanea tende a svalutare l’ex-Re, osservando in lui un uomo vittima di personaggi molto più forti di lui: Vittorio Emanuele III (Re e suo padre), lo stesso Mussolini (Capo del Governo), la moglie Maria José del Belgio. Umberto avrebbe voluto intervenire, ma era costretto ad attenersi alle norme che l’educazione monarchica gli aveva insegnato, relegandolo spesso ai margini. La vera essenza di Umberto verrà fuori solo troppo tardi, quando finalmente il padre gli consegnerà le chiavi del regno e in pochi mesi farà vedere a tutti il suo spessore politico e morale, troppo spesso non ricordato dalla storia.
Dopo l’armistizio si instaura il regno del sud e Umberto entra in contatto con gli alleati e sembra non aver altro pensiero quello di combattere per risollevare l’onore della casata dei Savoia.
Nel dicembre 1943 gli americani risalgono lentamente la penisola contrastati dalla accanita difesa tedesca. Al governo Badoglio e al Re Vittorio Emanuele III viene riconosciuta pochissima autonomia. Il capo della missione alleata anglo-americana, generale britannico Noel Mason MacFarlane in un rapporto scriverà sul Re: “il Re appare patetico, vecchio e alquanto rimbambito”. I partiti anti-fascisti vorrebbero che lui abdicasse. Accetterebbero, se pure di mala voglia e provvisoriamente, che Umberto diventasse Re, ma Vittorio Emanuele III non se ne vuole andare: “a casa Savoia, si regna uno alla volta” asseriva spesso.
Umberto sbarca a Brindisi con la frustrazione di un militare che non ha potuto combattere: decide di mettersi in contatto personalmente con gli anglo-americani chiedendo di poter costituire una armata italiana per combattere le truppe tedesche al fianco degli alleati. Gli Anglo-americani sono sospettosi, vorrebbero addirittura che il Principe vestisse in borghese senza divisa. Gli americani sono fortemente prevenuti nei confronti della monarchia italiana che considerano collusa con il fascismo. Gli inglesi hanno un atteggiamento assai più aperto, ma nessuno degli Alleati si fida dell’esercito Regio. Il governo Badoglio e la corona hanno bisogno di una forza militare: combattere al fianco degli alleati vuol dire il riconoscimento della cobelligeranza, uno status quo fondamentale per il futuro politico del paese.
A Nord, Mussolini ha fondato con l’ausilio dei tedeschi la Repubblica Sociale Italiana: uno stato senza l’approvazione degli italiani, controllato dai nazisti con Roma occupata da quest’ultimi.
Dunque la situazione presenta tre forze su suolo italiano: al Sud il governo di Brindisi e il Re (coadiuvato dagli anglo-americani), La repubblica fascista di Salò a Nord (coadiuvata dai tedeschi) e i partigiani di derivazione comunista, socialista e reduci dell’esercito regio stanchi di farsi comandare da comandi inadeguati: è la guerra civile.
Umberto risoluto dalla sua azione, organizza il primo reparto militare italiano inquadrato delle truppe alleate. E’ il primo raggruppamento italiano motorizzato: 5000 uomini e Umberto ricorda come “gli americani accettavano che noi si combattesse accanto a loro, ma con molte esitazioni politiche e ricordandoci spesso che eravamo stati loro avversari”. Il reparto italiano a dicembre si distingue per la battaglia di Montelungo sul fronte di Cassino. Umberto si impegna nelle azioni militari tanto che gli americani lo propongono per una medaglia al valore.
[caption id="attachment_6609" align="aligncenter" width="1650"] Foto su pellicola Kodak che ritraggono il Principe Umberto in operazioni militari a Tavernelle (Appenino Tosco - Emiliano) al Comando della 210^ Divisione.[/caption]
Il generale Clark, comandante delle forze alleate in Italia, dichiarerà nelle sue memorie: “il Principe si comporta con grande coraggio: più di una volta mi attraversò l’idea, che come rappresentante di Casa Savoia non solo egli fosse pronto a morire in battaglia, ma che si esponesse volontariamente alla morte”.
E’ il 1944 e Umberto lavora alla costituzione del corpo italiano di liberazione. Gli alleati gli impediscono di assumerne il comando per timore di rinvigorire troppo l’ascendente di Casa Savoia sugli italiani, spingendo Vittorio Emanuele III ad abdicare in favore del figlio. Chiedono che la monarchia si rinnovi, che salga sulla scena il Principe, mai direttamente colluso con le scelte del regime. L’insistenza degli alleati è pressante, quasi umiliante per l’anziano Re il quale coinvolgerà il figlio nella delicata questione. Finalmente Umberto dopo aver dimostrato le sue doti militari si avvicina a pieno diritto alla gestione delle scelte politiche ed è il vero punto di svolta nella vita pubblica e privata del principe di Piemonte.
Vittorio Emanuele III non vuole abdicare, gli viene prospettata una reggenza, ma è contrario per un carattere meramente giuridico: l’istituto della reggenza in termini statutari (Statuto Albertino), implicava che il reggente sarebbe dovuto essere approvato dalle camere e queste in quel dato momento non esistevano più. Si impegnerà una volta liberata la capitale ad affidare la luogotenenza al figlio.
Il governo è a Salerno e il 4 Giugno gli alleati entrano a Roma. Il giorno successivo il Re, nomina Umberto “Luogotenente generale del Regno” una tenenza temporanea, dove tutti i poteri passano in mano ad Umberto. Vittorio Emanuele III si auto-sospende e si trasferisce a Napoli in Villa Maria Pia, rilegando le sue attività alla pesca.
Nella Roma liberata, Umberto si trasferisce al Quirinale, formalmente è il rappresentante del Re, ma in realtà agisce di sua spontanea volontà. Il luogotenente garantisce il riassestamento della vita democratica. Dopo lo scioglimento del Governo Badoglio affida il Governo all’anziano Ivanoe Bonomi che rappresenta una forma politica completamente anti-fascista. Umberto si ritaglia un ruolo super partes, ponendosi a garanzia di una legalità costituzionale ancora incerta, manifestando la propria idea di monarchia moderna. Questa idea si basa su un concetto di attualità, dove la monarchia diventa collante e elemento di moderazione fra diverse etnie, diversi dialetti, diversi costumi e usi del popolo italiano.
Con la fine della guerra, l’Italia inizia a rinascere dalle sue macerie, ma la parabola dei Savoia giunge al tramonto: 2 giugno 1946 si svolge il referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica. Un Referendum imposto dalle forze di occupazione anglo-americane rimaste sulla penisola.
Umberto facendo fede agli impegni presi, indice le elezioni per l’assemblea costituente e apre il referendum popolare sulla questione istituzionale fondamentale per l’assetto del paese. L’Italia si trasforma in una immensa arena elettorale. Le sinistre avrebbero preferito che ha decidere su monarchia o repubblica fosse stata l’assemblea costituente (di stampo repubblicano e filo-atlantista), temendo la fedeltà del sud Italia alla monarchia. La data stabilita per le due consultazioni è il due giugno. Umberto chiede al padre di abdicare, comprendendo che l’unica possibilità di vittoria si trova nelle sue mani, comprende che l’istituto monarchico può salvarsi solo attraverso il rinnovamento. Vittorio Emanuele III ancora non vuole abbandonare il potere nelle mani del figlio, abdicando solo il 9 maggio a ventisette giorni dalla data del referendum. Abdica a Napoli alla presenza del notaio e parte alla volta di Alessandria D’Egitto: non vedrà più l’Italia. Il nuovo Re d’Italia diviene il Principe Umberto II – denominato successivamente “il Re di Maggio” poiché il suo regno durò solo 33 giorni, nel mese di Maggio. Acclamato, in taluni casi fischiato, in altri ignorato, Umberto II annuncia che in caso di vittoria la Monarchia farà indire un nuovo referendum di conferma per accreditarsi come “Re democratico”, ma il tempo è poco e in molte regioni italiane il governo repubblicano, imposto al Re, vietò anche di poter fare propaganda per parte monarchica.
Vota l’89% degli aventi diritto. Si contano i voti e il 4 giugno la monarchia ha un notevole vantaggio, ma in una sola notte la situazione si rovescia! La Monarchia è sconfitta con il 54% degli italiani votante repubblica.
Il 10 giugno il presidente della Corte di Cassazione Pagano comunica che mancano ancora i dati di alcune sezioni, riservandosi di dare il risultato definitivo il 18 Giugno, tre giorni dopo, come data ultima per sciogliere i dubbi sul referendum. Il 13 mattino il Governo assegna le funzioni di capo dello stato al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, in accordo con il partito comunista di Togliatti, con il partito socialista e quello repubblicano, pur in assenza del risultato definitivo. La domanda che sorge è se la nostra repubblica ha avuto la maggioranza dei voti degli italiani.
Solo più tardi in molte città verranno a galla situazioni equivoche, brogli e subito dopo pochi giorni, come detto, le schede del primo scrutinio saranno bruciate così da rendere impossibile la veridicità delle votazione, richiesta dal Re per un riesame dopo il rovescio avvenuto in una notte. Vengono presentati i ricorsi. Umberto ordina alla famiglia di partire per l’estero e decide di rimanere in Italia fino alla sentenza della corte di cassazione. La corte si limita a dare il quadro dei risultati, ma non proclama la repubblica. Il governo sostiene che i risultati sono scontati e proclama la repubblica, senza aspettare il 18 giugno. Nella notte del 12 giugno si riunisce il consiglio dei ministri e definisce come il capo del governo sia anche capo provvisorio dello stato. Umberto II è messo davanti alla decisione della sua vita: sciogliere il governo, fare arrestare i ministri, incitare gli italiani alla rivolta, chiedere l’aiuto dell’esercito fermamente monarchico; oppure partire, lasciare il suo paese. In un clima da guerra civile, sceglierà la seconda ipotesi anteponendo prima il bene degli italiani al suo legittimo diritto a governare. Andrà in maniera volontaria a Cascais in Portogallo per 34 anni. Maria José andrà a vivere in Svizzera con i figli.
In un messaggio del 13 Giugno del 1946 con la chiara contestazione dei risultati fraudolenti del referendum, Umberto II si rivolge al popolo italiano: “Nell’assumere la luogotenenza generale del regno prima e la corona poi io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo liberamente espresso sulla forma istituzionale dello stato e uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 Giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della coorte suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del Referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatti dalla corte suprema, di fronte alla sua riserva di pronunziare il 18 Giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli, di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io ancora ieri ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re, attendere che la Coorte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente questa notte, in spregio alle Leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con un atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nella alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Italiani! Mentre il paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua libertà in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me, perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola. Ma non volendo porre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il governo ha commesso lascio il suolo del mio paese nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio, nel supremo interesse della patria sento il dovere come italiano e come Re di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta. Protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto. A tutti coloro, che ancora conservano fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia io ricordo il mio esempio e rivolgo le esortazioni a volere evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di avere compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome dell’Italia e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia!”.
Con questo messaggio Umberto II non riconosce la Repubblica e si avvia all’estero (non esilio) nella convinzione che si tratti di un gesto pacificatore. Continua ad essere considerato Re, da tutte le Monarchie europee (anche da Papa Pio XII - Pacelli) e non cessa mai di esserlo, fino alla morte.
Giovedì 24 Marzo 1983, nella abbazia di Hautecombe (risalente al XII secolo) su suolo francese, si è celebrato l’ultimo saluto al Re di Maggio Umberto II.
[caption id="attachment_6606" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra l'abbazia di Hautecombe in Francia. A destra una foto che ritrae i moltissimi manifestanti accorsi ai funerali del Re Umberto II.[/caption]
L’abbazia che ospitava già il riposo di Carlo Felice e della regina Maria Cristina ha visto presenti moltissimi italiani accorsi per l’ultimo saluto. Pesanti le assenze della repubblica italiana che dimostra una totale mancanza di coraggio civile, non inviando nemmeno una corona di fiori, perché in questa Italia, i morti hanno un colore politico e questo è francamente molto triste. Ancora una volta le monarchie europee si riuniscono per congedare un uomo che ha detta di molti era considerato un vero gentiluomo. Sulla sua bara, spoglia, richiese soltanto la bandiera italiana sabauda e segui il rito “more nobilium” con la bara posata in terra, sul pavimento della chiesa, anziché sul catafalco. E’ stato un addio difficile, quasi proibito e tutti hanno avvertito che l’epilogo è stato ingiusto.
 
Per concludere riprendo le parole espresse da Re Umberto II riguardanti  l'istituto monarchico: “La repubblica si può reggere col 51%, la monarchia no. La monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla”. 
 
 
Per approfondimenti:
_Falcone Lucifero, L’ultimo Re, i diari del Ministro della Real Casa 1944/1946 – edizioni Mondadori 2002
_Francesco di Campello, Un principe nella bufera. Diario dell’ufficiale di ordinanza di Umberto 1943-1944, Le Lettere
_Edoardo Borra, Amedeo di Savoia, terzo Duca D’Aosta e Viceré di Etiopia – edizioni Mursia
_Maria José di Savoia, Giovinezza di una Regina – edizioni Mondadori
_Lucio Lami, Umberto II il re di maggio. Dalla monarchia alla repubblica, Edizioni Mursia
_Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943 – Edizioni Castelvecchi
_Aldo Alessandro Mola, declino e crollo della monarchia in Italia. I Savoia al referendum del 2 giugno 1946 – Editore Mondadori 2006
 
Si ringrazia Maurizio Lodi  per le foto.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1521109219730{padding-bottom: 15px !important;}"]Maurice Merleau-Ponty: struttura, percezione e corporeità[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex 15/03/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1521109290243{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Con il termine Gestalt si è voluto intendere, negli studi della psicologia, una scuola che basasse il suo operato sul rapporto percettivo tra l’individuo e la realtà circostante. Tale termine, rappresentante il participio passato di Von Auge Gestellt, che letteralmente significa “posizionato di fronte agli occhi”, sta ad indicare tutto ciò che percepiamo attraverso gli occhi della realtà che ci circonda. Quando menzioniamo la Gestaltpsychologie, dunque, ci riferiamo alla “psicologia della forma”, la disciplina che studia la realtà attraverso le forme con cui essa si manifesta.
La Gestaltpsychologie nasce a Berlino come scuola di pensiero che vede nella percezione della realtà non solo la somma di tutti i dati sensoriali ma, allo stesso tempo, anche una tipologia di approccio che permetta di captare la totalità degli oggetti dati alla nostra vista. Nell’approccio della Gestalt si istituisce un concetto di percezione che permette all’individuo di “intuire” nell’immediato qualcosa in più rispetto alla totalità delle parti della forma del corpo percepito; di fatto, il motto che contraddistingue tale scuola psicologica recita: «Il tutto è più della somma delle singole parti», sottolineando il procedere non riduzionistico della percezione visiva.
Sulla scia di questa dovuta introduzione sulla base teorica della psicologia della forma si identificano quelle caratteristiche dentro le quali si incastra la concezione della percezione che ha abbracciato la parte preponderante della filosofia di Maurice Merleau-Ponty, punto focale che caratterizzerà lo svolgimento di questo lavoro.
La filosofia di Merleau-Ponty rappresenta un approccio che è stato oggetto di innumerevoli interpretazioni e definizioni. Alcuni lo hanno definito “strutturalista” per via dell’utilizzo che fece del concetto di “struttura”; altri lo hanno definito “fenomenologo”, perché identificato come il degno erede francese della scuola fenomenologica husserliana; ma nel suo operato si scorge, in realtà, un importantissimo innesto tra le due correnti.
La tematica che attraversa tutta l’opera merleau-pontyana è il rapporto che l’autore ha voluto sviscerare tra l’organismo (inteso come il corpo dell’individuo), e l’ambiente che lo circonda (inteso come il mondo a cui lʼorganismo è legato). Tale rapporto viene inteso, dunque, come il rapporto che intercorre tra coscienza e natura, tra soggetto che percepisce e mondo percepito. In questo innesto tra coscienza soggettiva e mondo oggettivo percepito, Merleau-Ponty inserisce una determinata e circoscritta tipologia di esperienza che del mondo si fa, ovvero quella della percezione. Quest’ultima rappresenta una esperienza pre-discorsiva , nel senso che, in virtù del fatto che vi è un corpo vivente (Leib) che percepisce, la percezione diventa quel meccanismo che mette in rapporto immediato la coscienza con il mondo, precedendo ogni forma di oggettivazione scientifica. All’interno dell’immenso orizzonte della percezione, il corpo, come possiamo apprendere, viene istituito come il mezzo principale attraverso cui si dipana il mio punto di vista sul mondo di cui faccio parte. Il corpo in Merleau-Ponty, al fine dello sviluppo del suo concetto di percezione, occupa uno spazio immenso.
In Fenomenologia della percezione (1945), l’autore dedica una parte cospicua al corpo e vedendolo come il mezzo attraverso cui si istituisce il rapporto originario con la realtà, scrive:
il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. Quando cammino nel mio appartamento, i diversi aspetti sotto i quali esso mi si offre non potrebbero apparirmi come i profili di una medesima cosa, se io non sapessi che ciascuno di essi rappresenta l’appartamento visto da qui o da lì, se non avessi coscienza del mio proprio movimento, e del mio corpo come identico attraverso le fasi di questo movimento.
È il corpo a mantenere lo spettacolo visibile, nel senso che è in esso che si identifica quell’ampio processo di percezione attraverso cui il soggetto dà senso alle cose della realtà. Ed è esattamente nel corpo che si incarna la base di ogni sapere: la percezione. Quest’ultima rappresenta la base materiale, in quanto corporea, della conoscenza. Come l’autore dice «la teoria dello schema corporeo è implicitamente una teoria della percezione» , poiché è attraverso esso che si istituisce il potere conoscitivo del mondo percettivo. Il corpo è lo strumento attraverso cui noi siamo al mondo, attraverso cui noi percepiamo il mondo e lo conosciamo. In Merleau-Ponty esso rappresenta la sintesi tra soggettività ed oggettività, acquisendo la caratteristica di ente “ambiguo”, poiché è in esso che si identifica l’unità indistinta dei due poli intesi come soggetto e oggetto. Il corpo, inteso per esempio come una mano che tocca, rappresenta sia il soggetto che sente toccando, sia l’oggetto sentito che viene toccato. Nella percezione del mondo attraverso il corpo noi ritroviamo noi stessi in quanto prendiamo coscienza della nostra esistenza nel mondo attraverso la presa di coscienza materiale e fisica della corporeità.
Ma riprendendo così contatto con il corpo e con il mondo, ritroveremo anche noi stessi, giacché, se si percepisce con il proprio corpo, il corpo è un io naturale e come il soggetto della percezione.
Ogni sensazione che l’oggetto esterno genera nel nostro corpo, come se fosse per l’appunto un io naturale, trova una sua specifica localizzazione corporea attraverso i sensi che ricevono l’impulso e generano il riflesso. La percezione, inoltre, nell’essenza di ciò che, come ci spiega lo stesso autore, non è il prodotto della somma di elementi isolati che costituiscono l’oggetto percepito, altrimenti diverrebbe una tipologia di percezione analitica, diversa da una tipologia prettamente spontanea e pre-discorsiva che ci permette, sempre e irreversibilmente attraverso il nostro corpo, di far luce sulla totalità di un oggetto da percepire. Tale totalità, si identifica con il concetto di “struttura” che in Merleau-ponty è determinante. Essa rappresenta un concetto attraverso il quale si può rientrare all’interno della tematica dell’ambiguità. Significa che la struttura, nell’oggetto percepito, risulta ambigua perché ha due valenze: lʼuna risiede nel contenuto materiale dell’oggetto per mezzo di un’analisi scientifica, qualsiasi sia la sua entità; l’altra risiede nella sfera trascendentale, dunque, nel parlare di tale struttura nell’oggetto percepito si parla di una rete di significazioni conoscitive, all’interno di un’unità di senso che attraverso la percezione sarà chiarificata.
In questa funzione chiarificatrice della percezione bisogna tener conto dell’importanza che riveste il “sentire”, perché è nel sentire che si incarna l’intenzionalità conoscitiva verso il mondo che percepiamo. È proprio questo concetto che l’autore vuole evidenziare: «Il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita» . Nel sentire, la percezione porta l’individuo all’oggetto, ne scannerizza la struttura totale, perché nel sentire vi è una maniera diretta di essere afferrati da parte dell’oggetto . Ma nel sentire si interseca anche l’esercizio dell’intelligenza. Qui si istituisce la complessità del processo di percezione, definita da Merleau-ponty come “infrastruttura istintiva”, sulla quale si impiantano, per mezzo dell’intelligenza, altre “sovrastrutture” che rappresentano infine il vero e proprio legame tra coscienza e realtà circostante.
[caption id="attachment_10057" align="aligncenter" width="1000"] Maurice Merleau-Ponty (1908 – 1961) è stato un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento.[/caption]
In questo legame si apre la via verso la verità tracciata dall’atto percettivo, nel quale il corpo rende l’intenzionalità (intesa come “predisposizione” verso l’oggetto da analizzare dopo averlo percepito) un qualcosa di motorio. Nella caratteristica motoria di tale intenzionalità si identifica il soggetto incarnato nel corpo, che tramite la percezione coglie la struttura del percepito come forma. Tale forma è «l’apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità» . Dunque in essa, che si identifica come l’aspetto effettivo del mondo circostante, si dipana il senso della coscienza percettiva in cui interiore ed esteriore si uniscono, intendendo allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto (cioè mondo circostante).
Merleau-Ponty nel lavoro di spiegazione del suo approccio fenomenologico alla realtà è riuscito a segnare un percorso complesso e articolato in cui l’individuo, come abbiamo potuto comprendere, entra in contatto con la struttura delle cose per mezzo della percezione. Su questo aspetto della struttura si dipana l’influsso della psicologia della Gestalt, di cui avevamo analizzato alcuni aspetti in principio del discorso descritto. Nel motto della Gestalt, «il tutto è più della somma delle singole parti», si identifica il concetto merleau-pontyano di struttura, intesa come un tutto che ha una forma, per mezzo della definizione caratteristica che l’autore dà della percezione. Quest’ultima è percezione di quel tutto al quale alludiamo, non è assolutamente una somma riduzionistica di elementi isolati.
La mia percezione non è una somma di dati visivi tattili o uditivi: io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi.
Quindi, attraverso questo processo multiforme, la percezione muove l’intenzionalità esplicativa in funzione della conoscenza dell’oggetto attraverso la sensazione che si ha della struttura che lo costituisce.
Maurice Merleau-Ponty ha reso caratteristica una tipologia di approccio fenomenologico alla realtà, istituendo nel suo concetto di percezione un nuovo modo per conoscere il mondo circostante. Il suo importante contributo alla storia del pensiero filosofico è stato il prodotto della sua formazione fenomenologica di impronta husserliana che ha abbracciato nel suo lavoro altre discipline come la psicologia di Whertheimer o Koffka e la linguistica di De Saussure. Molteplici sono gli influssi nella sua ricerca del senso attraverso l’atto percettivo, molteplici a tal punto da trovar lecita l’intenzione di definirlo o un fenomenologo o uno strutturalista per via dell’utilizzo che fa del concetto di struttura, ma allo stesso tempo sembrerebbe restrittivo il cercare di definire un autore come questo solo in un modo o in un altro. In realtà, come affermato in precedenza, Merleau-ponty ha trovato il modo per applicare su un unico concetto, la percezione, un impianto sia fenomenologico, sia strutturalista, sia psicologico, sia linguistico, così da non poter essere circoscritto all’interno di un’unica corrente. Nello studio dei testi di Merleau-Ponty si possono ritrovare spunti gnoseologici volti allo studio delle discipline filosofiche e, soprattutto, è possibile ritrovare il senso di queste discipline, oggi intese come un lusso poiché non rientrano nelle logiche del mercato del lavoro odierno. Nel filosofo si manifesta il processo di apertura delle menti e dei cuori verso l’importanza del pensiero attivo. analizzando e indagando in maniera originale il mondo che ci circonda, tra strutturalismo e fenomenologia.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1520953701907{padding-bottom: 15px !important;}"]37°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Visioni transumane. Tecnica, salvezza, ideologia. Antonio Allegra[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1520955315824{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nella suggestiva sala della poesia nel palazzo Bice Piacentini a San Benedetto del Tronto, si è tenuto il secondo evento del Circolo Culturale di San Benedetto del Tronto dell’Associazione Das Andere (il quarto evento del programma Crisi e metamorfosi).
Ospite il Professore Antonio Allegra che, a partire dal suo testo “Visioni transumane. Tecnica, salvezza, ideologia“ (Orthotes 2017), discuterà dell’immagine dell’uomo proposta in ambito filosofico, tecnologico e letterario dal post-umano e dal transumano.
I due termini, post-umano e transumano, alludono difatti a una trasformazione epocale, a un passaggio verso una condizione che non è solo un’altra variazione sul tema dell’umano, ma la sua radicale alterazione L’incontro ha anlizzato, grazie anche al dott.Alessandro Poli, la storia, la preistoria e l’ideologia delle narrazioni transumaniste, le quali funzionano come un’ambiziosa mitologia sul potere della tecnica in nome della redenzione da una condizione umana percepita come intollerabile o addirittura nefasta.
L'associazione ringrazia la Regione Marche, per la quale ha presenziato il consigliere Fabio Urbinati e il Comune di San Benedetto del Tronto per la concessione dello spazio comunale.
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1520261359020{padding-bottom: 15px !important;}"]MEME. Linguaggio e identità digitale. Di Alessandro Poli[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1520261508921{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Alessandro Poli
12 Gennaio 2018 – Liceo Classico statale “F.Stabili - E.Trebbiani” - Viale Vellei 10, 63100_Ascoli Piceno)
Introduce: Giuseppe Lori
Interviene: Alessandro Poli
 

Venerdì 12 Gennaio è andato in scena il 1°evento del programma 2018 "Crisi e Metamorfosi" (33°evento) della Associazione culturale onlus Das Andere. Alla presenza del vicesindaco Dott.Donatella Ferretti, il consigliere Dott.Alessandro Poli ha dissertato sulla tematica "MEME. Linguaggio e identità digitale". L'evento, presentato dal consigliere Dott.Giuseppe Lori, si è sviluppato intorno alla storia di Technoviking - il più longevo meme in circolazione -, attraverso il quale Poli, ha analizzato alcuni aspetti del linguaggio utilizzato dai meme, ed in particolar modo la loro capacità di creare e modificare identità reali e digitali. In aula, folta la presenza di studenti e professori.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470950566499{padding-bottom: 15px !important;}"]Fantomas, l'anti-borghese[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 02/03/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471001450268{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Personaggio dimenticato nei giorni nostri, è stato l’unico erede dei grandi mostri dell' Ottocento: dei Frankenstein, dei dottor Jeckyll, dei Dracula.
Di chi sto parlando? Di Fantomas, creatura fisicamente e intellettualmente "regolare", la quale rappresentava l'irruzione del Male nella spensierata società borghese della Belle Epoque. Il demolitore di ogni regola, il Grande Sovvertitore. Occorre tornare indietro ai deliri erotico-libertari del marchese de Sade, per trovare una simile esaltazione del male, e una fantasia tanto ricca nel praticarlo.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1519739310424{padding-bottom: 15px !important;}"]Armando Diaz, il duca della vittoria[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gianluigi Chiaserotti 28/02/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1519743970443{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Armando Vittorio Diaz nacque in Napoli il 5 dicembre 1861 da Ludovico ed Irene Cecconi, in una famiglia - di lontana origine spagnola - di militari, di magistrati e di uomini di Legge.
L’avo Antonio era stato “ordinatore di guerra” durante il regno del Re Ferdinando II di Borbone (1810-1859); il padre fu ufficiale del genio navale nella marina borbonica e quindi italiana; la madre veniva da una famiglia di magistrati e di professionisti. Il padre, dopo aver lavorato negli arsenali di Genova e di Venezia (di quest’ultimo era stato direttore, con il grado di colonnello), morì nel 1871; la vedova con i quattro figli si stabilì in Napoli, sorretta dalle cure del fratello Luigi, avvocato, vivendo in modesta agiatezza.
[caption id="attachment_9996" align="aligncenter" width="1000"] Armando Vittorio Diaz (Napoli, 5 dicembre 1861 – Roma, 29 febbraio 1928) compì gli studi elementari in varie scuole private, poi, già orientato alla carriera militare, frequentò la scuola tecnica pubblica, quindi l’istituto tecnico, traendone una solida cultura scientifica e la capacità di scrivere in una lingua italiana sobria e corretta; molto tempo dedicò anche agli esercizi ginnici in palestra. Superati gli esami di ammissione all’Accademia Militare di Torino, vi prese servizio il 15 settembre 1879; sottotenente di artiglieria nel 1882, frequentò la scuola di applicazione di Artiglieria e Genio di Torino e, nel 1884, fu assegnato, con il grado di tenente, al 10º reggimento di artiglieria da campo di stanza a Caserta. Vi rimase fino al 1890, alternando studio e lavoro con la partecipazione alla vita della buona società napoletana. Nel marzo 1890, Armando Diaz fu promosso capitano e trasferito al 1º reggimento di artiglieria da campo stanziato a Foligno. Preparò e superò gli esami di ammissione alla Scuola di guerra, che frequentò nel 1893-95, classificandosi al primo posto della graduatoria finale del suo corso.[/caption]
Il 23 aprile 1895 Diaz sposò Sarah De Rosa, di una famiglia napoletana di avvocati e magistrati: un matrimonio nato all’interno dello stesso ambiente della buona borghesia napoletana, che si rivelò solido e felice, allietato dopo alcuni anni dalla nascita di tre figli.
Dal 1895 al 1916 la carriera del Diaz si svolse prevalentemente negli uffici del comando del Corpo dello Stato Maggiore, dove lavorò per un totale di circa sedici anni, lasciando Roma soltanto per diciotto mesi per comandare un battaglione del 26º reggimento di fanteria, quindi dopo la promozione a maggiore nel settembre 1899, e per poco più di tre anni, e precisamente dal 1909 al 1912.
A Roma prestò servizio soprattutto nella segreteria del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generali Tancredi Saletta (1840-1909) prima, eppoi Alberto Pollio (1852-1914). Un incarico che non lasciava spazio per studi personali o strategici, ma comportava un confronto quotidiano con la realtà dell’esercito (organici, bilanci, armamenti) e con il mondo politico romano.
Si rivelò, il Diaz un lavoratore preciso ed instancabile, capace di far funzionare al meglio i servizi dipendenti, affabile e diplomatico nei rapporti esterni; non ostentava interessi politici, ma era bene informato di quanto accadeva in Parlamento e nel paese ed in grado di destreggiarsi con gli uomini politici e con gli addetti militari stranieri.
Di statura medio bassa, tarchiato ma non pesante, con i capelli tagliati a spazzola e grandi baffi (più tardi ridotti a baffetti), elegante senza esibizioni, di poche e forbite parole, buon conoscitore del francese e sempre disposto a tornare al suo napoletano, autorevole ma non autoritario, esigente ma comprensivo, Armando era un ufficiale che lavorava molto e bene senza mettersi in mostra, sempre all’altezza della situazione, con una forza interna che si inseriva senza difficoltà nell’istituzione militare.
Tenente colonnello dal 1905, nell’ottobre 1909 il Nostro lasciò Roma perché nominato Capo di Stato Maggiore della divisione di Firenze.
Il giorno 1 luglio 1910 fu promosso colonnello ed assunse il comando del 21º reggimento di fanteria stanziato in quel di La Spezia, dove seppe accattivarsi l’affetto dei soldati con un regime disciplinare generoso ed un attivo interessamento alle loro condizioni di vita.
Nel maggio 1912 fu destinato in Libia a sostituire il comandante del 93º reggimento di fanteria, caduto ammalato; e subito ebbe per i suoi nuovi soldati dimostrazioni di affetto e di fiducia relativamente rare nell’esercito del tempo, ed anche immediatamente ricambiate.
Il 20 settembre 1912, nello scontro di Sidi Bilal nei pressi di Zanzūr, fu ferito da una fucilata alla spalla sinistra mentre conduceva le truppe all’attacco; prima di abbandonare il terreno volle assicurarsi del successo del suo reggimento e baciare la bandiera, lasciando poi ai soldati un ordine del giorno di elogio e ringraziamento. Armando Diaz fu quindi rimpatriato con la croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoia.
Nel gennaio 1913, appena guarito, riprese servizio al comando del corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, come capo della segreteria del generale Alberto Pollio.
Fu confermato in questa carica dal nuovo Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna (1850-1828), poi, nell’ottobre 1914, promosso maggior generale, assegnato al comando della brigata Siena e subito richiamato al comando del corpo di Stato Maggiore come generale addetto.
Nel maggio 1915, al momento della costituzione del Comando supremo dell’esercito mobilitato, in cui Armando Diaz era l’ufficiale più elevato in grado dopo il Cadorna, vi ebbe la responsabilità del reparto operazioni, che però, malgrado il nome, non si occupava di operazioni (la cui direzione era accentrata nelle mani di Cadorna e della sua piccola segreteria), ma dirigeva l’insieme degli uffici e servizi del Comando Supremo e quindi esigeva una visione complessiva della situazione dell’esercito.
Diresse l’ufficio con efficienza e piena soddisfazione di Cadorna per oltre un anno, poi chiese di andare al fronte; il 27 giugno 1916 fu nominato comandante della 49ª divisione di fanteria e subito dopo promosso tenente generale.
Tenne il comando della 49ª divisione per circa 10 mesi, sempre alle dipendenze della 3ª armata, sul Carso o nelle immediate retrovie.
Sin dall’inizio dimostrò notevoli capacità professionali e molto impegno nella ricerca dei maggiori risultati con le minori perdite, predisponendo con grande cura l’azione dell’artiglieria e gli assalti della fanteria; e guidò con energia le sue truppe nei sanguinosi combattimenti a nord del San Michele, nel settore di Veliki, conquistando nell’offensiva autunnale l’altura di San Grado di Merna e, nel marzo successivo, la dorsale di Voltkoniak con una manovra aggirante.
Per i soldati il Diaz ebbe sempre un’attenzione costante, controllando personalmente che fossero rispettati i turni tra trincea e riposo e nella concessione delle licenze, che tutto il possibile fosse fatto per assicurare un rancio adeguato e regolare, che nelle retrovie le truppe fruissero di qualche comodità. Non perdeva poi occasione di interrogare i soldati nelle sue frequenti ispezioni alle trincee e di incoraggiarli con poche e commosse parole. Dalla Libia aveva scritto che “tutto il segreto è nell’elemento uomo”; e ora ribadiva: “si comanda col cuore, con la persuasione, con l’esempio”.
Un atteggiamento che può parere retorico, come altri gesti del Diaz, ma che in lui era spontaneo, oltreché piuttosto raro sul Carso, così come la sua riluttanza a punire i soldati per piccole infrazioni (non transigeva invece sull’obbedienza in combattimento ed era severo, anche se sempre cortese, con gli ufficiali).
[caption id="attachment_9998" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto il generale Luigi Cadorna. Il 25 ottobre 1917 il parlamento italiano negò la fiducia al governo presieduto da Paolo Boselli che fu costretto a dimettersi. Il giorno 30 ottobre il governo si ricostituì sotto la guida di Vittorio Emanuele Orlando, il quale già nei colloqui dei giorni precedenti aveva richiesto al Re la rimozione di Cadorna. Nel frattempo arrivarono a Treviso il comandante supremo dell'esercito francese generale Ferdinand Foch e il generale William Robertson, capo di stato maggiore dell'esercito britannico.[/caption]
L’interesse per i suoi soldati e l’impegno con cui cercava di risparmiare le loro vite trovavano un limite nella sua convinta accettazione degli ordini superiori: un suo ufficiale di ordinanza, testimonia che Armando Diaz condusse l’offensiva autunnale verso il San Michele con inflessibile energia, pur ritenendola destinata all’insuccesso.
Le truppe in ogni caso risposero appieno alla sua fiducia, seguendolo senza cedimenti in tutta la sua azione di comando.
Il 12 aprile 1917 il Diaz fu promosso alla testa del XXIII Corpo d’Armata appena costituito e destinato ancora sul Carso con la 3ª Armata.
Le sue divisioni entrarono in linea ai primi di giugno nel settore di Castagnevizza e furono subito oggetto di un violento contrattacco austriaco, che respinsero; poi nei giorni dal 19 al 21 agosto, nel quadro dell’ultima offensiva italiana sul Carso, conseguirono buoni progressi a sud di Oppacchiasella, perdendo 8.800 uomini e facendo 4.400 prigionieri; infine in settembre mantennero le posizioni conquistate malgrado il ritorno offensivo degli Austriaci.
Il Comandante fu premiato con la croce di commendatore dell’Ordine militare di Savoia; una leggera ferita da palletta da shrapnel al braccio destro, nel corso di una ricognizione in prima linea il 3 ottobre, gli valse inoltre una medaglia d’argento, conferitagli sul campo dal Duca d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia (1869-1931), suo diretto superiore come Comandante della Invitta III Armata.
Il giorno 8 novembre 1917, il generale Armando Diaz fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in sostituzione del generale Luigi Cadorna. Codesta decisione il Re la prese “nel tratto compreso tra il ponte della ferrovia e quello della Strada Provinciale per Monselice” come precisa un’Aiutante di Campo del Sovrano.
Le modalità della scelta sono ben note nelle linee generali, anche se su singoli dettagli esistono versioni parzialmente contrastanti dei diversi protagonisti, mai del tutto composte.
A fine ottobre, al momento della costituzione del nuovo governo, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), il Re e il ministro della Guerra, generale Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918) avevano concordato sulla necessità di sostituire il Cadorna.
La designazione del generale Diaz come successore era stata fatta da Vittorio Emanuele III (1869-1947) e dal Ministro Alfieri, quindi accettata da Orlando, ma rinviata al momento della stabilizzazione del fronte.
Senonché il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, gli Anglo-Francesi subordinarono l’invio di loro truppe in Italia all’esonero immediato di Cadorna, cui addebitavano l’ampiezza della sconfitta italiana, il disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo.
Ed allora il Re e l’Orlando presero l’iniziativa di chiamare subito il Diaz alla testa dell’esercito, aggiungendogli come sottocapi i generali Gaetano Giardino (1864-1935) e Pietro Badoglio (1871-1956), su indicazione rispettivamente del Re, di Orlando e di Leonida Bissolati (1857-1920).
Artefice primo della sua designazione era stato il Re, come abbiamo di già detto, che nelle sue visite al fronte carsico aveva appreso a stimarlo per le sue doti di comandante e la capacità di avere rapporti positivi con i soldati e con i superiori.
Ma soprattutto gli Alleati si ritrovarono insieme in Italia, anche per l’occasione solidale del loro soccorso al nostro Esercito dopo la rotta di Caporetto. Gli Alleati (Capi politici e militari) si riunirono a Rapallo (6 e 7 novembre), quindi a Peschiera del Garda (8 novembre), dove furono gettate le basi per “[…] una miglior coordinazione dell’azione militare”.
Il Diaz apprese la notizia della sua alta nomina (del tutto inaspettata, per lui e per tutti) il pomeriggio del giorno 8 novembre 1917; non esitò e si presentò al Comando Supremo dicendo al tenente Paoletti: “Mi hanno dato una spada rotta, ma saprò riaffilarla”.
Immediatamente diramò un sobrio ordine del giorno all’esercito: “Assumo la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito e confido sulla fede e l’abnegazione di tutti”.
Il Nostro scrisse, tra l’altro, alla consorte: “[…] Il peso che grava sulle mie spalle è immenso, assai più pesante di quanto possa immaginare e come base non ho che la mia fede infinita e la fiducia in Dio che prego mi voglia dare la forza per affrontare il durissimo problema […]”. Un bilancio del suo operato come comandante in capo dell’esercito italiano nell’ultimo anno di guerra non è facile, perché la tradizione e la bibliografia offrono soprattutto contributi celebrativi, consolidati dalle esigenze propagandistiche del regime fascista.
Il Diaz ed i suoi diretti collaboratori non lasciarono testimonianze né studi su questo periodo, mentre generali illustri come Enrico Caviglia (1862-1945) e Gaetano Giardino rivendicarono la loro parte nella vittoria con polemiche forzatamente reticenti e cifrate.
I maggiori studiosi della guerra italiana, come Piero Pieri (1893-1979) e Roberto Bencivenga (1872-1949), hanno concentrato la loro attenzione sul periodo cadorniano; e la relazione dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito è giunta ad affrontare l’ultimo anno di guerra solo a cinquant’anni dai fatti.
In sostanza, mancano ancora studi di respiro sul Comando supremo del Diaz, anche se disponiamo di pagine e giudizi interessanti e di buoni contributi di sintesi su singoli problemi, in particolare sulle grandi battaglie.
Tutto ciò premesso, cerchiamo ugualmente di delineare il suo contributo alla vittoria, dando per noto l’andamento delle operazioni, la battaglia d’arresto sul Grappa e sul Piave nel novembre-dicembre 1917, la riorganizzazione dell’esercito, quindi la vittoriosa resistenza sul Piave, che fu esclusivamente difensiva ma avendone rinnovato, ed in meglio, le forze.
Il 23 giugno 1918, appena conclusa tale battaglia, Vittorio Emanuele Orlando così telegrafò a Diaz: “Mi mancano gli elementi per valutare tutta la grandezza dell’avvenimento e soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale dell’esercito nemico da rendere consigliabile di non lasciargli prendere respiro”. Fu l’inizio dell’offensiva finale che culminerà in Vittorio Veneto.
Il primo merito del nuovo Comandante fu, senza alcun dubbio, la capacità di far funzionare il Comando supremo in modo adeguato alle esigenze e dimensioni della Grande Guerra.
Anche se non sono d’accordo in quanto diverse testimonianze, ma anche documenti affermano il contrario, Cadorna aveva accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi piani e l’esecuzione dei suoi ordini e di non riuscire a capire la gravità dei problemi che ricadevano sul governo.
Forte della sua lunga esperienza di ufficiale di stato maggiore e di una visione più aperta delle necessità del conflitto, il Diaz riorganizzò il Comando supremo, valorizzando il ruolo del sottocapo Badoglio e del generale addetto Scipione Scipioni (1867-1940), riordinando il lavoro degli uffici ed attribuendo ad ognuno di essi responsabilità definite e concrete; tutto ciò senza clamore né scosse, conservando anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la nascita di un clima di squadra nel rispetto dei diversi compiti. Il nuovo Comando Supremo curò particolarmente lo sviluppo dei servizi informativi e potenziò il ruolo degli ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie dirette sulla situazione dei vari fronti, senza però scavalcare i comandi d’armata, con cui furono curati rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione con Badoglio (dell’altro sottocapo, Giardino, il Diaz si era elegantemente liberato promuovendolo a comandare l’armata del Grappa), che si occupò soprattutto delle operazioni e del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo, alleggerendo il Diaz di buona parte del lavoro di routine e conquistandone la piena fiducia (tanto che, come è noto, Armando Diaz ottenne per lui un trattamento di assoluto privilegio dalla ministeriale commissione d’inchiesta sul ripiegamento al Piave, che dovette rinunciare ad approfondire l’esame della sua condotta a Caporetto).
Ciò non significa che egli abdicasse alle sue responsabilità di comandante in capo, ma che, come richiedeva la complessità della guerra, sapeva valorizzare l’opera dei suoi collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi, di preparazione e di controllo, riservandosi però la decisione finale e l’intervento personale nelle situazioni di emergenza.
Più che a Napoleone, modello inconfessato di tutti i comandanti della grande guerra, il Nostro può essere avvicinato a Dwight David Eisenhower (1890-1969), un altro comandante capace di affrontare la complessità della guerra moderna appoggiandosi sul lavoro del suo stato maggiore.
Sin dall’inizio del suo comando si era proposto di curare di persona i rapporti con il Re, il governo e il mondo politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza prebellica e la sua convinzione della necessità di una collaborazione di tutte le energie disponibili. Con il Re, il Nostro ebbe contatti frequentissimi: si recava da lui a pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più spesso quando c’erano novità.
Con Vittorio Emanuele Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, al Comando Supremo o a Roma, con lunghi colloqui che assicuravano unità d’azione nella difficile situazione.
Il Diaz aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un Comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato maggiore dell’esercito e della marina avevano soltanto voto consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a Roma, ministri e uomini politici influenti [in particolare Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Ministro del Tesoro, che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si dava da fare per appoggiarlo], senza intromettersi nei contrasti interni alla maggioranza governativa, ma per illustrare le esigenze dell’esercito e il suo operato. Tutta questa disponibilità non implicava una eccessiva arrendevolezza alle istanze politiche: egli non discuteva il primato del governo e la necessità di un’ampia e continua collaborazione, anche per migliorare l’immagine del Comando Supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con un’interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna, sulla distinzione di sfere tra potere politico e potere militare; come è noto, nel settembre 1918, egli respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare l’esercito austro-ungarico di cui si profilava la crisi, rivendicando a sé soltanto, la condotta delle operazioni, tanto da tenere inizialmente il governo all’oscuro della preparazione dell’offensiva cui si era infine deciso.
Anche con gli alleati franco-britannici ebbe buoni rapporti: non era sensibile come Cadorna alla necessità di una condotta unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre di sferrare offensive senza altro obiettivo che l’alleggerimento indiretto del fronte francese, ma seppe dare un’impressione positiva di sicurezza e volontà di collaborazione e stabilire proficui contatti a livello degli Stati Maggiori.
L’altro grande e indiscusso merito del Diaz comandante in capo fu il suo fattivo interesse per le condizioni dei soldati.
[caption id="attachment_9999" align="aligncenter" width="1000"] Teatro delle operazioni della disfatta di Caporetto.[/caption]
In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda articolata ed efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz medesimo, il quale fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e regolare, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un’assistenza morale e politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta l’effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con l’ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l’ordinamento gerarchico dell’esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu l’accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle riserve a disposizione del Comando Supremo che negli anni precedenti erano state vietate dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui il Nostro fruì, ossia la forte produzione dell’industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore.
Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell’esercito italiano era molto più delicata (mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone” al cavallo di razza in difficoltà.
Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere con relativa larghezza: il Diaz non avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del 1919.
In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); ed infatti l’asprezza dei contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra (1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo Boselli (1838-1932) di condividere e appoggiare l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il Diaz, dopo dieci mesi di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull’opportunità dell’offensiva autunnale.
In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918.
Merito del Nostro fu di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente positiva la proclamazione dell’inscindibilità della divisione, pedina base della condotta del combattimento (così come il battaglione ad un livello inferiore); semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai pesante).
Positive furono anche la redistribuzione dell’esercito in sei armate di medie proporzioni e l’emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive dimostrative (anche se poi Armando Diaz permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe, anche perché all’efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e inesperti.
Deludente infine l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati del generale Cadorna e la gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra felice.
Indubbiamente il primo non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità innegabile ed i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati non furono pochi, anche se meglio accolti dall’opinione pubblica.
In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.
Un giudizio complessivo dell’operato del generale Armando Diaz come comandante in capo è certamente positivo.
Al riguardo cito volentieri due giudizi sul nostro, uno del generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta sotto la guida di una mente sempre in equilibrio e sempre presente a sé stessa”. L’altro è del Sonnino: “Diaz è un uomo che ragiona e con cui si puo’ ragionare”.
Non aveva l’inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Luigi Cadorna, ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un’immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l’uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una guerra pressocché logorante.
Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito di aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell’impiego delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel settembre 1918, quando un’offensiva italiana diventava così necessaria da un punto di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo momento utile contro un nemico sull’orlo del collasso, ma ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo bisogno.
Successo consacrato nel famoso “Bollettino della Vittoria”, steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani (1879-1938), e dal Diaz aggiustato, corretto, integrato e sottoscritto.
Il Generale Armando Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno ancora dopo l’armistizio. Non fu un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull’Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull’esercito e dentro l’esercito.
Nella primavera 1919 il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Parigi, appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico non comportava difficoltà militari nell’immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi l’arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in giugno del governo del Nitti con un programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e collaborò pienamente alla smobilitazione dell’esercito condotta quasi a termine nell’estate.
Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell’inchiesta ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della guerra.
Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva approvare l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che metteva in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la spedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e in seguito, alle polemiche sull’amnistia che nel settembre 1919, che cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee dell’opinione pubblica a spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al di sopra delle parti.
In occasione dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio dell’esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito, improntato a economie di gestione e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale.
Il generale Armando Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a titolo di riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell’alto comando dell’esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo di Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio dell’esercito, di cui il Diaz assunse la vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali della “vittoria”).
Il Consiglio dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l’esercito sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico, ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non ne fu scalfito e, nell’autunno 1921, compì una trionfale missione di propaganda negli Stati Uniti.
Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma ed un piccolo ufficio al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.
Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento fascista.
[caption id="attachment_10000" align="aligncenter" width="1000"] Sopra Armando Diaz con il capo indiano Crow a Washington nel 1921.[/caption]
All’inizio dell’ottobre 1922, mentre la crisi politica precipitava, il presidente del Consiglio, Luigi Facta (1861-1930), lo convocò con Badoglio per essere informato dell’orientamento dell’esercito e rassicurato sulla sua obbedienza in caso di gravi disordini. “Diaz e Badoglio “- telegrafò Facta al Re il 7 ottobre – “assicurano che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti, farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma”; il che significava che il Diaz, pur rivendicando l’unità e l’obbedienza dell’esercito, aveva consigliato una soluzione politica della crisi e non la repressione dello squadrismo fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a dirigere).
Secondo testimonianze lacunose, ma nella sostanza attendibili, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre il Diaz ribadì questo atteggiamento direttamente al Re (non sappiamo se per telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna a Roma in automobile), sconsigliando la proclamazione dello stato d’assedio con la nota frase: “l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Subito dopo accettò di entrare nel primo governo Mussolini come ministro della Guerra [con l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel (1859-1948) come Ministro della Marina]: un avallo fondamentale per il governo fascista dinanzi all’opinione pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per la monarchia e per l’esercito, come fu sottolineato nelle prime uscite pubbliche del governo, in cui Mussolini cedette al Diaz il primo posto e i maggiori applausi.
La principale preoccupazione del Diaz, come ministro della Guerra, nei primi diciotto mesi del Governo Mussolini, fu il riordinamento dell’esercito, in modo da porre fine alla confusa situazione creata dal sovrapporsi della smobilitazione, dei tentativi di riforma e modernizzazione e della resistenza passiva delle alte gerarchie.
Il nuovo ordinamento dell’esercito, che il Diaz varò nel gennaio 1923 con una celerità permessa dai pieni poteri ottenuti dal governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di un anno, rappresentava un sostanziale ritorno all’anteguerra.
L’ordinamento del Diaz ebbe indubbiamente il merito di porre fine ad una situazione di incertezze e di dare soddisfazione alle aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe però tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e delle aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che auspicavano un maggiore coinvolgimento del paese nella preparazione bellica, e invece conservò organici troppo ampi per le disponibilità finanziarie, tanto che al giorno 1 aprile 1924 l’esercito contava solo 125.000 uomini, con compagnie di 69 uomini assorbiti per tre quarti da servizi e presidi caratteristici di un esercito di caserma.
Altre decisioni del Diaz come Ministro della Guerra meritano di essere ricordate.
Innanzi tutto l’avallo concesso alla costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che raccolse tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini, rompendo il monopolio della forza armata e il ruolo di tutore dell’ordine che l’esercito aveva tradizionalmente avuto e difeso.
Secondo ogni evidenza, il Diaz accettò la Milizia come un prezzo da pagare al fascismo e manovrò per diminuirne il ruolo militare, rifiutando l’equiparazione dei suoi ufficiali a quelli dell’esercito e l’impiego bellico dei suoi reparti; negli anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e militare, pur continuando a esercitare un’influenza negativa sulla preparazione bellica nazionale.
Concesse inoltre a Mussolini una drastica riduzione del bilancio dell’esercito per favorire il conseguimento del pareggio anche a scapito dell’efficienza dell’ordinamento da lui varato; e non si oppose alla costituzione di un’aeronautica indipendente, che pure nasceva non da una meditata scelta di politica militare, bensì dalla ricerca di successi propagandistici del regime fascista.
All’inizio del 1924 il Diaz maturò la decisione di lasciare il governo, perché pensava di avere ormai portato a termine il riordinamento dell’esercito e perché il lavoro d’ufficio (cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava pesante per la sua salute.
Rinviò le dimissioni a dopo le elezioni di aprile per non indebolire il governo, poi il 30 aprile 1924 lasciò il ministero della Guerra al generale Antonio Di Giorgio (1867-1932), scelto con il suo consenso. Fu subito nominato vicepresidente del comitato deliberativo della Commissione suprema di difesa. con compiti vasti quanto indeterminati (e in definitiva non mai esercitati) di impulso e coordinamento della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica fino alla morte.
Negli anni seguenti il Diaz continuò a dividere il suo tempo tra l’ufficio romano, la villa di Napoli e le vacanze a Capri.
Nella primavera 1925 si schierò con gli altri “generali della vittoria” nella battaglia senatoriale contro il riordinamento dell’esercito proposto dal suo successore Di Giorgio, risoltasi con il ritiro del provvedimento e le dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul Carso.
Il generale Armando Diaz fu creato Senatore del Regno il 24 febbraio 1918 ai sensi della categoria 14 dell’art. 33 dello Statuto Albertino e la sua creazione fu convalidata il giorno 1 marzo.
Ad un anno esatto dalla “Vittoria” fu insignito anche dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, quale creazione n. 747 dalla fondazione dell’ordine medesimo. Quindi con R. D. “motu proprio” del 24 dicembre 1921 e RR. LL. PP. del giorno 11 febbraio 1923 (riconosciuto poi con D. M. 21 novembre 1940), Armando Diaz ebbe anche il titolo di Duca della Vittoria, nonchè il 4 novembre 1924 quello di Maresciallo d’Italia.
Morì a Roma il 29 febbraio 1928.
I tre protagonisti della Vittoria Italiana nella I Guerra Mondiale, il Nostro, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Duca del Mare, ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’insigne giurista Vittorio Emanuele Orlando, sono tutti sepolti nella chiesa romana di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alla piazza dell’Esedra.
Concludo con il ricordo della friulana Maria Bergamas (1867-1952), il cui figlio volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato. A lei toccò il compito di scegliere il Milite Ignoto.
La solenne cerimonia ebbe luogo il 28 ottobre 1921, nella Basilica Romana di Aquileia, e Maria scelse il corpo di un soldato tra le undici salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. La donna venne posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione, e, gridando il nome del figlio, si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d'oro al Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato.
Le Sacre spoglie prescelte vennero portate a Roma con uno speciale convoglio ferroviario sul quale era visibile il feretro che nelle principali stazioni ferroviarie ricevette gli onori dei picchetti militari in armi e delle popolazioni commosse.
Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, la bara, portata a spalla da dodici decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma dell’Altare della Patria in Roma.
Al Milite Ignoto fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
“Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”.
 
 Per approfondimenti:
_Luigi Gratton "Armando Diaz Duca della Vittoria", Bastogi Editrice Italiana S.r.l., Foggia 2001, passim;
_Alberto Lumbroso "Cinque Capi nella tormenta e dopo Cadorna - Diaz - Emanuele Filiberto - Giardino - Thaon di Revel visti da vicino", Casa Editrice Giacomo Agnelli, Milano 1932, pagg. 179-217, passim;
_Amedeo Tosti "Condottieri dei nostri tempi", Istituto per gli studi di politica internazionale, Milano 1939, pagg. 223-238, passim;
_Gioacchino Volpe "Italia Moderna 1910-1914", Sansoni, Firenze 1973, passim, Caporetto", Gherardo Casini Editore, Roma 1966, passim.
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«Perché non avete il coraggio di fare veramente di voi stessi, completamente e in ogni caso, il centro, la cosa fondamentale?» Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

“L’unico e la sua proprietà” (Der Einzige und sein Eigentum) è l’opera capitale di Johann Kaspar Schmidt, meglio noto come Max Stirner (dal tedesco ‘stirn’, ovverosia ‘fronte alta’), pubblicata in una prima edizione nell’ottobre del 1844 presso l’editore Wigand di Lipsia. Nel testo, l’autore si scaglia polemicamente contro ogni posizione filosofico-teologica che pretende di descrivere oggettivamente l’essere umano comprendendone le esigenze e i più naturali bisogni. La sua è anzitutto una reazione allo hegelismo e una critica serrata a taluni concetti che, a parer suo, non hanno permesso all’uomo di riconoscersi e, anzi, hanno annientato progressivamente la sua individualità - la sua unicità - a favore di scopi più ‘alti’ e nobili: Dio, stato, patria, famiglia, umanità.
[caption id="attachment_10014" align="aligncenter" width="1000"] Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, La lunga ombra 1805.[/caption]
Nell’apparato teorico elaborato da Stirner nelle quasi quattrocento pagine che compongo “L’unico e la sua proprietà”, l’uomo non è più concepito come oggetto di una rappresentazione, dal momento che per sua stessa natura è «indicibile». Egli è l’«Unico» (‘Einzige’ in tedesco) e, in quanto tale, ha nell’unicità il suo tratto distintivo. Questo non basta a definirlo; l’Unico infatti sfugge alle più argute definizioni, è indefinibile e, proprio perché indefinito, non ha bisogno di essere ‘etichettato’, determinato, definito. Nella definizione, ciò che è definito viene compreso, determinato, afferrato, diventa suo oggetto. La cosa definita è oggettivata, si fa etichetta e, in certo senso, si esaurisce nella definizione. La cosa è definita poiché ha acquisito una nomina, è stata nominata. La nomina esiste in quanto atto imposto, è il frutto dell’imposizione, impone il proprio statuto. Nominare è il verbo della chiamata. Quando si nomina, si chiama innanzi qualcosa. Io nomino te: ti chiamo. La definizione chiama a sé ciò che definisce, lo contrassegna, impone cioè un segno peculiare. Definire, in tal senso, vuole dire ‘segnare’, ‘imprimere’, imporre un segno, un marchio, un sigillo. La definizione è la ‘cosa marchiata’, ciò che ha ricevuto una determinata segnatura.
Per Stirner, l’Unico non può - e non deve - essere definito. La definizione, infatti, intaccherebbe la sua natura e, riducendolo in una definizione, svuoterebbe (annullerebbe) la sua unicità. L’Unico è in quanto indefinibile: questo è il segreto del suo essere se stesso, singolare, originale, irripetibile, unico. Non esiste un solo concetto in grado di nominarlo, esprimerlo: «Si dice di Dio: ‘Nessun nome può nominarti’. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 380). Ma l’Unico è tale in un senso ancor più forte. Egli fonda la sua causa su di sé, ha in sé il fondamento, nulla è all’infuori di sé. A tal proposito, Stirner è inequivocabile:
«Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia esistenza su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico […] Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto» (M. Stirner, “L’Unico e la sua proprietà”, p. 13).
Con uno stile dissacrante e provocatorio, il pensatore tedesco esalta il principio di autoaffermazione (o autodeterminazione) e si affida alla dialettica nulla-tutto per chiarire la sua posizione. Stirner scrive: «Io ho fondato la mia causa su nulla». Come ha fatto notare Franco Volpi nel saggio “Il nichilismo”, la tesi - che apre e chiude il libro di Stirner - secondo la quale ‘io’ ho fondato la mia causa su nulla (auf nichts in tedesco) esprime «la negazione e il rifiuto di ogni fondamento che trascenda l’esistenza originaria e irripetibile dell’individuo» (F. Volpi, Il nichilismo, p. 30). Non c’è nulla che sta sopra di me. Non c’è, ovvero, un fondamento o principio che sta alla base di me - dell’Unico. Perché? La risposta è nella proposizione: «io fondo allora la mia causa su me stesso». L’Unico si concepisce come causa di sé e, proprio perché fondatore di se medesimo, appare al contempo avvolto dal nulla e dal tutto. È il nulla di ogni altro: non è gli altri, non fonda gli altri. È il tutto di se stesso: sta a suo fondamento, è pura autoaffermazione. Il concetto di Unico è fortemente legato a quello di proprietà (in tedesco ‘Eigentum’).
«Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico […] Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 381).
[caption id="attachment_10017" align="aligncenter" width="1000"] Georg Friedrich Kersting, Uomo che legge alla luce della lampada.[/caption]
L’Unico è difatti per Stirner «proprietario» del suo potere, «potenza» integralmente ripiegata su di sé che, di conseguenza, non ha punti d’appoggio esterni, non si definisce nel rapporto con l’altro. È, al contrario, «egoismo», creatura auto-determinante, vale a dire ‘dominus’ del proprio stato, orgoglioso del proprio io.
L’Unico di Stirner è un concetto formidabile che provoca l’uomo e spinge a guardare la vita e a guardarsi nella vita, con altri occhi e altre prospettive. Il premio è il «nuovo paradiso», l’aprirsi di uno sguardo nuovo sul mondo. Egli è il ribelle che annienta tutto il resto per riaffermare la sua libertà, l’uomo in rivolta che è «negazione di tutto ciò che nega l’individuo e glorificazione di tutto ciò che lo esalta» (cfr. A. Camus, “L’uomo in rivolta”). Nell’Unico «ogni essere supremo, compresa l’umanità, viene annientato, e la teologia si ribalda in antropologia». C’è dunque da un lato una negazione, una parte distruttiva, un annientamento; dall’altro una vera parte costruttiva, un ribaltamento, un cambio di prospettiva che è essenzialmente un guadagno, il guadagno della propria individualità. L’individuo non è più schiacciato da esseri e concetti (Dio, stato, umanità…) che opprimevano e occultavano la sua natura. La battaglia contro ciò che vi era di più alto - e perciò lo calpestava e indeboliva il suo sentimento di unicità - è vinta. L’insurrezione è realizzata. L’io è finalmente pensato in tutta la sua potente unicità e ricondotto a se stesso. Stirner compie così il suo inno all’egoismo, a quell’egoismo capace di supportare e sostenere l’Unico, l’io vero, elevandolo a fonte, sorgente, centro, cosa fondamentale del proprio sé. Ad esistere è solo lui e ciò che conta per lui è lui stesso, nient’altro che sé: l’Unico, proprietario del suo potere, cosciente della sua unicità.
 
Per approfondimenti:
_A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), Bompiani, trad. it. di L. Magrini, Milano 2017;
_M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà (1844), trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979;
_F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009.
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