[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1527501266812{padding-bottom: 15px !important;}"]Terra incognita per la Repubblica italiana[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 28/05/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1527502172505{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Domenica 27 Maggio si è consumata l’ultima crisi politica che attanaglia il Paese da circa sette anni: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (1941) ha rifiutato di prendersi la responsabilità, verso il Governo 5Stelle-Lega del trinomio Di Maio-Salvini-Conte.
Secondo il comunicato del Quirinale, la motivazione prima del Capo dello Stato è stata quella di difendere l’Italia come Paese fondatore dell’Unione europea, dove ne è protagonista. Non farlo avrebbe significato porre «in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane».
La stragante comunicazione delle agenzie di stampa, hanno apostrofato l’operato di Mattarella come discutibile e non possiamo meravigliarci affatto di tali affermazioni, poiché – come recita la costituzione - «Nella risoluzione delle crisi si ritiene che il Capo dello Stato non sia giuridicamente libero nella scelta dell'incaricato, essendo vincolato al fine di individuare una personalità politica in grado di formare un governo che abbia la fiducia del Parlamento. [...] Una volta conferito l'incarico, il Presidente della Repubblica non può interferire nelle decisioni dell'incaricato, né può revocargli il mandato per motivi squisitamente politici».
Ma quale è stato l’anello di rottura del tanto decantato braccio di ferro tra Matteo Salvini (1973, leader della Lega) e Sergio Mattarella? L’uomo è il professore, già Ministro dell’industria del Governo Ciampi (1993), Paolo Savona (1936). Il Capo dello Stato ha usato nei suoi confronti parole particolarmente dure asserendo: «Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che – al di là della stima e della considerazione per la persona – non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano».
[caption id="attachment_10287" align="aligncenter" width="1000"] Sergio Mattarella (Palermo, 23 luglio 1941) è un politico, giurista e accademico italiano, 12º presidente della Repubblica Italiana dal 3 febbraio 2015.[/caption]
L’aspetto imbarazzante della vicenda risiede propriamente nelle dichiarazioni dello stesso docente, il quale dopo aver affermato un silenzio nel rispetto istituzionale, si dichiarava sereno, poiché egli voleva unicamente un’Europa diversa, più forte, più equa e mai aveva asserito circa l’uscita dell’Italia: «Un’Europa da cambiare, non da distruggere», esclamava sul sito scenarieconomici.it, qualche tempo fa. Il famoso “piano B” del capo di accusa mosso contro di lui, in realtà era unicamente un’elaborazione accademica, presentata presso un Ateneo universitario aperto a tutti. Non troppo diverso da quello che la Germania, della contestatissima Merkel, sta preparando e di cui ha dato conto la Die Welt.
Al netto delle stridenti affermazioni che cozzano con la realtà delle parole della controparte, Giuseppe Conte (1964) passerà alla storia come il premier incaricato durato solo tre giorni: «Fino all’ultimo ho creduto e mi sono impegnato perché fosse possibile», ha asserito in conferenza stampa, leggermente imbarazzato. Mattarella per superare la sua preoccupazione verso le testate estere e gli investitori esteri in Italia, aveva proposto che lo stesso Conte potesse ad interim assumere l’Economia, ma Salvini aveva risposto come «se abbiamo la catena e non possiamo mettere un Ministro che non sta simpatico a Berlino, vuol dire che quello sarebbe un ministro giusto per i tavoli europei»: la rottura era compiuta.
Così dopo il Governo Monti (2011), Governo Letta (2013), Governo Renzi (2014) e Governo Gentiloni (2016), adesso il Capo dello Stato sta pensando di inserire un nuovo Governo tecnico con la figura di Carlo Cottarelli (1954), già commisario della spending review nel Governo Letta e dimissionario del Governo Renzi per incompatibilità con l’ex-premier. Insomma il voto degli italiani non sembra avere più nessun rilievo, ma al “popolo” si sta sostituendo “l’opinione dello spread”, uno strumento economico, da sempre instabile e non calcolabile, ma non sicuramente influenzabile dal posizionamento di un essere umano all’interno di una carica, come le istituzioni ci hanno voluto affermare.
Al netto dei pro e dei contro, ad inizio giugno c'è il G7 e alla fine dello stesso mese un'importante incontro europeo sui migranti, infine ad ottobre la legge di bilancio. Con che forza arriverà l’Italia a questi prestigiosi e importanti appuntamenti? Sicuramente “non da protagonista” come invece ha affermato il Capo dello Stato, rispetto alla posizione che il nostro Paese ricoprirebbe all’interno dello scacchiere europeo, sempre più a trazione franco-tedesca.
Perché, quale Europa Mattarella ha voluto tutelare? Per citare il filosofo Federico Nicolaci: «Lo stupore con cui l'Europa scopre oggi di essere una "tecnocrazia senza radici" (Habermad 2014, p.21) e una costruzione "fondamentalmente vuota" (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, che siamo di fronte al risultato finale di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una "polity" sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna "energia" rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un'unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l'Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna.
Superfluo ricordare la lunga genesi degli Stati europei all'interno di un'unica communitas cristiana ed imperiale, la quale si è articolata con lo sviluppo della modernità e frantumata con il trionfo dei nazionalismi […].
Quale idea europea, dunque? L'idea di un'Europa capace di una progettualità politica che non sia un mero adeguamento alle istanze poste dalle logiche autonome dell'ordoliberismo, […] che sia un progetto comune in nome di un'idea di umanità che ci definisce in virtù dell'appartenenza ad uno spazio di senso comune. Solo questa coscienza potrebbe consentire ai popoli europei, oggi quanto mai divisi da sentimenti di inimicizia e latente ostilità, di ritrovare la giusta via (diaporein!) verso la costruzione di una autentica comunità europea, capace di modellare politicamente gli eventi e le linee di tendenza della nostra contemporaneità globalizzata. […] Congedarsi coraggiosamente dal modello esistente significa rifiutare l'idea che l'Europa debba configurarsi sovranazionalmente: rifiutare il presupposto funzionalista per cui non ci sarebbe altro modo di "fare" l'Europa se non "cedendo sovranità" ad un'entità politica sovranazionale e sovrastatale. Significa, quindi, rovesciare la posizione del problema: […] come sia possibile a partire dal processo di legittimazione della sovranità a livello nazionale stabilire modelli di stabile cooperazione politica tra i popoli europei. L'idea che l'integrazione europea coincida con la cessione di sovranità ad un esecutivo sovranazionale non è solo un antiquato residuo storico e ideologico, ma è anche una colossale menzogna […] una ricchezza che va preservata, non superata in qualche artificiosa entità sovranazionale […]. I popoli europei […] decidendo di riunirsi a agire in modo coordinato e orientato ad un medesimo fine, di natura squisitamente politico-emancipativa senza bisogno di inutili mediazioni e duplicazioni istituzionali».
 
Per approfondimenti:
_Federico Nicolaci, La questione europea, 2015;
_La Repubblica anno 25, n°20 - lunedì 28-05-2018;
_Il sole 24Ore anno 154, numero 145 - lunedì 28-05-2018.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1526659881737{padding-bottom: 15px !important;}"]Il romanzo destinale del Barry Lyndon di Thackeray[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 19/05/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1526734832970{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Le Memorie di Barry Lyndon vengono scritte dall'inglese William Makepeace Thackeray (1811 – 1863), influenzato dalla celebre «letteratura delle canaglie», ma soprattutto dal romanzo picaresco. Difatti Barry – protagonista del romanzo – in realtà è un guascone in buona fede: il termine pícaro, dallo spagnolo briccone, furfante, appare per la prima volta nella Farsa salamantina (1552) di Bartolomé Palau e successivamente sarà identificazione di una narrazione apparentemente autobiografica, fatta in prima persona e in cui il fittizio protagonista descrive le proprie avventure dalla nascita alla maturità. Lo sforzo interpretativo nel capire il protagonista da parte del lettore è molto alto, ed è uno dei motivi del successo di questo romanzo ottocentesco.
[caption id="attachment_10236" align="aligncenter" width="1000"] Samuel Laurence, William Makepeace Thackeray (particolare). Romanziere e autore britannico. È noto per le sue opere satiriche, in particolare Vanity Fair, un ritratto panoramico della società inglese.[/caption] Ma chi è Barry Lyndon? È un uomo nuovo per i tempi del Settecento, all’interno del quale l’autore non risparmia critiche delicatamente velate verso gli illuministi, i tories, i wits e l’intera corte di Giorgio III; un po’ romanzo gotico, con un discreto retrogusto rococò, unito a sprazzi di neoclassicismo. L’autore sembra difatti giudicare con distacco un’epoca considerata conclusa, ma ampiamente rimpianta. L’opera racconta essenzialmente una vita di solitudine, la stessa che lo scrittore assaporerà mentre completava il romanzo in antichi palazzi d’oriente, lontano dalla sua Inghilterra. L’immersione in un Settecento di sogno è presente per gran parte del romanzo: non a caso il nome originale dell’opera si intitolava «Un romanzo del secolo scorso». Opera di difficile collocazione morale, Thackeray ci consegna Redmond Barry, membro della gentry irlandese, il quale cercherà per tutta la vita di farsi includere all’interno dell’aristocrazia inglese. Non è un personaggio malvagio, poiché durante la storia egli sarà coraggioso, generoso, pronto a mescolarsi a genti di ogni ceto, per via delle sue “decantate” origini aristocratiche, di cui non conosceremo mai a fondo la verità. Tutte queste virtù sono in parte manifestazioni di ambizione, vanità e snobismo, ma proprio per questo ci formano un uomo completo, pieno di pregi e difetti, che crea vere e proprie interpretazioni soggettive da parte di chi legge l’opera, consacrando le sue “Memorie” alla contemporaneità. Originariamente pubblicato con il titolo «The Luck of Barry Lyndon: A Romance of the Last Century by Fitz-Boodle» sulla rivista inglese Fraser’s Magazine nel 1844 a puntate, il romanzo verrà tacciato come immorale dai suoi contemporanei: lo scozzese Theodore Martin (1816 – 1909) parla di un’esperienza soffocante attraverso una lettura piena di «libertini e truffatori, bari e ruffiani». L’idea-forza del personaggio spesso può aver tralasciato qualche rifinitura o dettaglio all’interno del racconto, ma l’innovazione sotto il punto di vista letterario, per l’epoca, è certamente il recupero della narrazione in prima persona, usato successivamente solo con Dostoevskij, il quale si andava discostando dal romanzo vittoriano.
 
Come afferma Tommaso Giartosio: «Barry Lyndon è dunque una foce attraverso cui il largo fiume del moralismo a sfondo sociale dell’epoca vittoriana sbocca paradossalmente nel rigagnolo fetido, ma profondissimo, dell’analisi etico psicologica moderna». Difatti la genialità del britannico risiede nell’aver liberato un generico “cattivo romanzato” dall’uso del moralistico e oggettivo “lui”, sempre simbolo di distacco e negatività da parte di chi ci scrive l’opera. Ripudio di una facciata estetica per prediligere una piacevole lettura. William M. Thackeray stravolge nel suo romanzo alcune convenzioni che lo avevano legato, nelle sue precedenti opere, alla tradizione vittoriana incarnata nei personaggi, come il desiderio e il dovere. Difatti, tutto il capolavoro La fiera della vanità, è scandito tra bene e male, sancendo comunque il grande successo del britannico. In Barry Lyndon, di contro, ogni personaggio ha dentro di sé non più un unico valore prestabilito, ma una pluralità di sentimenti e azioni: in poche parole il bene e il male. Poche, pochissime le vere figure del dovere, come il generale Magny, il pastore protestante e il precettore Redmond Quin, sono spesso ai margini di questo racconto. Per paradosso la scalata sociale del nobiluomo Redmond Barry, sembra avverarsi con il matrimonio con una Lyndon, di cui appunto prenderà il cognome. Ma lo sgambetto del destino è dietro l’angolo: difatti l’autore non “punisce” il protagonista analizzando l’etica e la morale delle sue azioni durante tutta la storia, ma per la sua natura stessa: Barry Lyndon, occorre nuovamente affermarlo, ci trasmette la sensazione che le sue “imprese” provengano da una energia intrinseca la personaggio, la quale gli avrebbe consentito di arrivare al successo, qualsiasi fosse stata la sua nascita sociale. Ma ciò che Dio dà, Dio toglie: difatti il protagonista soffre terribilmente le situazioni di stallo, che lo portano in breve tempo al suo scivolamento, come egli stesso afferma: «Sono proprio una di quelle persone nate per guadagnarsi una fortuna, ma non per tenersela» - raggiunto il vertice, gli scopi si concludono. Il suo rapporto con il denaro è parallelo all’unità temporale della famosa frase “il tempo è denaro”; dal “tesoro” Barry tornerà presto verso la miseria della “provincia”. Tale binomio si accosta all’ambiguità del termine inglese luck ripreso sapientemente nel titolo “The Luck of Barry Lyndon” - (La fortuna di Barry Lyndon) -, poiché tale terminologia racchiude felicità e sventura, è ciò che è destinale, non ciò che deve essere, colpa e merito. Così la ruota della fortuna si acquisisce, ma difficilmente si conserva. Ma sarà proprio la sua “fortuna creata” a salvare il personaggio dal fallimento etico e morale, poiché questo rimarrà durante tutto il romanzo sempre unicamente se stesso, senza alterazioni, coerente con i suoi mutabili principi. Proprio tali prerogative, saranno altro merito di Thackeray, difatti all’interno dei suoi romanzi i personaggi divengono sempre e unicamente individui flessibili e mai immutabili. Lo stesso protagonista è soldato nell’universale caserma prussiana, gentiluomo disertore, nobiluomo nel bel mondo dublinese, con un interessante innesco di giochi di pronomi personali: “lui” (Balibari) diventa “io” (Barry), un “io” (Barry) diventa “lui” (Fritz) e ogni volta il soggetto diviene controvertibile in oggettivo, mentre la voce narrante si trasforma in processo temporale del divenire.
[caption id="attachment_10238" align="aligncenter" width="1000"] Estratto fotografico del film del 1975. Il cast del film comprende Ryan O'Neal nel ruolo di Redmond Barry Lyndon (inizialmente assegnato a Robert Redford), Marisa Berenson nel ruolo di Lady Lyndon, Leon Vitali nel ruolo di Lord Bullingdon, Patrick Magee nel ruolo dello Chevalier de Balibari e Anthony Sharp nel ruolo di Lord Hallam.[/caption] A rafforzare la popolarità del romanzo nei tempi recenti, ci ha pensato il regista statunitense Stanley Kubrick (1928 – 1999). Barry Lyndon (1975) è sicuramente uno dei film più famosi di Kubrick, quello visivamente più affascinante, eppure la sua uscita fu un vero flop, che rischiò di mettere in crisi i rapporti tra il regista e la Worner, la quale aveva deciso di produrre Barry Lyndon per evitare una pellicola della quale si aveva grande timore per l’economia: il film su Napoleone Bonaparte, che Kubrick non riuscì mai a girare. Sono gli scherzi degli esperti degli incassi che spesso si dimostrano sbagliati e inattendibili. Per fortuna a non errare fu proprio Kubrick, che con Barry Lyndon ci lascia uno dei suoi film più belli e più densi. L’apporto più grande e geniale fu il punto visuale-scenografico: da una parte perché si ispirò alla grande tradizione della pittura inglese e parallelamente decise di girare tutto con una luce assolutamente naturale: per le celeberrime scene, illuminate unicamente dalle candele, utilizzò per la prima volta uno obiettivo Zeiss, realizzato per fini aerospaziali. Scelse di utilizzare dei lentissimi zoom all’indietro, realizzando che un piccolo particolare – inquadrato nella prima immagine – pian piano mostrasse in che contesto e situazione i personaggi vivessero. Questa lentissima carrellata all’indietro permise al registra di collegare l’individuo e la realtà in cui si muoveva. Così riuscì a restituire quella speciale soffusa malinconia, quella situazione sospesa che è la chiave più vera e più interessante per capire la genialità di questo film. Barry Lyndon vinse quattro statuette: miglior adattamento musicale, la migliore fotografia, la migliore scenografia e i migliori costumi, ma non quella per il miglior film e miglior regia. Kubrick non ha mai vinto l’Oscar per il miglior registra, anche se probabilmente se lo meritava, ma questa è una storia lunga che ci condurrebbe altrove.
Per approfondimenti:
_William M.Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon - Fazi Editore;
_Tommaso Giartosio, Barry Lyndon: nascita, fortuna e (imprevista) innocenza del personaggio moderno - Fazi Editore.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1526560231623{padding-bottom: 15px !important;}"]Finis Austriae - Sul tramonto dell'Europa. Giuseppe Baiocchi[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1526560302305{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
21 Aprile 2018 – Bottega del Terzo Settore - Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Edoardo Cellini
Interviene: Giuseppe Baiocchi
 

Sabato 21-04-2018 presso la Bottega del Terzo Settore, il presidente dell’associazione Arch.Giuseppe Baiocchi, ha presentato il suo secondo saggio storico “Finis Austriae – Sul tramonto dell’Europa”. L’incontro presentato dal consigliere Edoardo Cellini, ha analizzato il periodo storico che intercorre tra il 1898 e il 1918, anno della dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Baiocchi ha analizzato la krisis spirituale che si è sviluppata all’interno della Monarchia Duale, soffermandosi sulle discipline architettoniche e artistiche.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1525104999101{padding-bottom: 15px !important;}"]Visioni transumane - Tecnica, salvezza, ideologia. Antonio Allegra[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1525106186144{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
11 Marzo 2018 – Sala Bice-Piacentini, Via del Consolato, 14, 63074 San Benedetto del Tronto (AP).
Introduce: Alessandro Poli
Interviene: Antonio Allegra
 

Il Professore Antonio Allegra partendo dal suo testo “Visioni transumane. Tecnica, salvezza, ideologia“ (Orthotes 2017), ha discusso dell’immagine dell’uomo proposta in ambito filosofico, tecnologico e letterario dal post-umano e dal transumano. I due termini, post-umano e transumano, alludono difatti a una trasformazione epocale, a un passaggio verso una condizione che non è solo un’altra variazione sul tema dell’umano, ma la sua radicale alterazione L’incontro ha analizzato, la storia, la preistoria e l’ideologia delle narrazioni transumaniste, le quali funzionano come un’ambiziosa mitologia sul potere della tecnica in nome della redenzione da una condizione umana percepita come intollerabile o addirittura nefasta.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1525098922925{padding-bottom: 15px !important;}"]Ipazia di Alessandria: microcosmo della cultura occidentale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Sirianni del 01/05/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1525100784397{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Vi sono personaggi eterni le cui gesta sono capaci di far intimidire i miti più arditi, individui profondamente inattuali, figli di epoche remote e araldi dellʼavvenire, la cui storia non sarà mai riducibile alla mera biografia. A risiedere nellʼOlimpo di queste grandi personalità, nellʼepoca antica, vi è indubbiamente la grande filosofa, matematica e astronoma Ipazia di Alessandria (370 d.C. ‒ 415 d.C.).
La storia di Ipazia comincia molti secoli prima della sua nascita. La sua formazione culturale, di fatto, è da cercarsi nel passato, tra il VII e il VI secolo a.C., in quel Talete di Mileto che diede inizio al pensiero filosofico, per poi passare alle influenze delle teorie di Anassimene, Anassimandro, Ecateo, Anassagora, Pitagora, Eraclito, Democrito, Platone, Aristotele, Aristarco, Eratostene, fino a culminare nella corrente di pensiero del neoplatonismo.
[caption id="attachment_10216" align="aligncenter" width="1000"] Charles William Mitchell - La morte di Ipazia - 1885[/caption]
Prosecutrice di questi grandi pensatori, vive un presente molto complicato. Nasce poco prima che Alessandria dʼEgitto divenisse parte del nuovo Impero romano dʼOriente (395 d.C.), in un contesto socioculturale pieno di tumulti politici e religiosi perché erede dellʼeditto di Mediolanum del 313 d.C. dellʼimperatore Costantino Magno, il quale conferì pieni poteri al cristianesimo restituendo ai suoi membri tutti i beni confiscati in precedenza dai persecutori romani.
È possibile considerare la figura di Ipazia, a livello cronotopico, come il cosiddetto pesce fuor d’acqua, in primo luogo perché è una donna e la considerazione delle donne, in quel periodo, e in una certa misura anche nei tempi moderni, risente ancora dei costumi macisti che la cultura greca ha praticato fin dallʼetà arcaica. Già il poeta Esiodo, nelle Opere e i giorni, rivolgendosi al fratello Perse, non mancava di etichettare la donna come un essere malvagio dal quale bisognava prendere le dovute cautele: «Né una donna che si agghinda il deretano tʼinganni il cuore sussurrandoti carezzevoli parole e osservando la dispensa. Chi si fida di una donna si fida di un ladro» . Nella cultura greca le donne avevano pochi diritti ed erano confinate nelle mura dellʼοἶκος. La loro vita, tranne che per le sacerdotesse, era quasi completamente incentrata sul matrimonio e sullo sviluppo della prole.
Il matrimonio è il fulcro della condizione femminile. Esso conferisce alle donne delle comunità civiche un titolo basilare di riconoscimento sociale. Si tratta di un passaggio fondamentale dellʼesistenza, un imperativo al quale ogni giovane donna deve sottostare, e al quale potrà essere sottratta solo da una morte prematura. La sua educazione, sotto la guida di una madre e sotto lo sguardo, per non dire la tutela, di una città, è finalizzata a prepararla a questo passo. La parthenos, femmina senza ancora essere donna, si perfezionerà nella maternità, lo scopo dellʼunione coniugale.
Ma a Ipazia non interessavano i figli e il matrimonio, i suoi unici interessi riguardavano la scienza, la filosofia, il sapere. Ella, di fatto, faceva parte di quella inconsueta, inconsistente e scandalosa categoria di donne filosofe. Ci sono poche testimonianze di filosofe dellʼantichità, una fonte importante è Giamblico che «elenca 17 donne tra i 235 discepoli del maestro» Pitagora, la cui scuola è considerata la prima «a incoraggiare le donne a studiare filosofia».
Le donne pitagoriche più famose furono le seguenti: Timycha, moglie del crotoniate Myllias, Philtys, figlia del Crotoniate Theophiris, sorella di Byndakò, Okkelò ed Ekkelò, sorelle dei Lucani Okkelos e Okkilos, Cheilonis, figlia del Lacedemone Cheilon, la Lacedemone Kratesikleia, moglie del Lacedemone Kleanor, Theanò, moglie del Metapontino Brotinos, Myia, moglie del Crotoniate Milon, lʼArcade Lastheneia di Fliunte, Tyrsenìs di Sibari, Peisirrode di Taranto, la Lacedemone Theadusa, Boiò e Babelyka di Argo, Kleaichma, sorella del Lacone Autocharida. Esse furono in tutto diciassette. Oltre alle donne della scuola pitagorica ci sono pochissime altre donne che si possono annoverare nella storia della filosofia antica.
In epoca classica non sono molte le donne sapienti che compaiono nellʼentourage dei filosofi. Non è conosciuta nessuna discepola di Socrate, e sua moglie Santippe sicuramente non fa parte della categoria. Tra gli allievi di Platone e Speusippo, suo successore nellʼAccademia, sono stati tramandati due nomi di donne, Lasteneia di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Questʼultima, stando a Diogene Laerzio (lʼautore delle Vite dei filosofi), si sarebbe travestita da uomo per seguire lʼinsegnamento dei suoi maestri. Non cʼè da stupirsi che non compaia nessuna donna tra i fedeli di Aristotele. In definitiva, lʼunica filosofa dellʼepoca classica alla quale viene prestata qualche attenzione [...] è Ipparchia di Maronea, compagna di Cratete il cinico. [...] Non è chiaro, infine, se si debba collocare nella categoria delle filosofe anche Leonzio, attiva nella cerchia dei discepoli di Epicuro. [...] È difficile farsi unʼidea delle competenze di queste figure, dal momento che le fonti insistono ad nauseam sulle loro storie personali e aneddotiche, trascurando invece di informarci sul loro sapere. Prima di essere filosofe, sono soprattutto donne, e la loro sophia non viene riconosciuta volentieri.
È abbastanza chiaro come Ipazia fosse alquanto svantaggiata in un mondo in cui la donna era considerata in maniera così marginale. Ma il suo genere sessuale non è lʼunico motivo per cui essa è da considerare un pesce fuor dʼacqua del suo tempo.
In secondo luogo, di fatti, coltivare la filosofia, la scienza e il pensiero libero in un periodo e in un luogo in cui le persone non dovevano più aspirare a crescere nella conoscenza, quanto, piuttosto, ad accettare la rivelazione e a coltivare la fede in un dio imposta dai patriarchi, era molto pericoloso sia per le donne che per gli uomini. Il rapporto tra sapere e fede era molto complicato, pieno di idiosincrasie, diverbi, intolleranze. Da una parte vi erano i pagani cosmopoliti che dopo secoli di attività persecutoria desideravano una pacifica convivenza tra diversi culti; dall’altra vi erano i cristiani che dopo un’era di persecuzioni e umiliazioni rispondevano negativamente, predicando la superiorità del loro culto e ordinando la sottomissione e la conversione al cristianesimo a tutti coloro che non ne facevano parte.
Già a partire dal primo secolo era possibile notare questo fortissimo contrasto. Paolo di Tarso (poi divenuto San Paolo, lʼapostolo delle genti) nella prima lettera ai corinzi scriveva: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Secondo le parole di San Paolo la religione e la ragione non solo sono inconciliabili, ma sono addirittura in opposizione. Il sapiente è uno stolto perché con la sua ricerca contrasta la fede incondizionata nel dio creatore. Ma San Paolo sembra non tener conto della profonda contraddizione presente in questa visione, cioè nella concezione del disegno di un dio che consegna agli uomini il libero arbitrio e, al contempo, soffoca a loro la libertà di scelta e di culto. La lettera di San Paolo, dunque, a partire dal I secolo d.C., mette in evidenza il problematico rapporto fra fede e ragione. Un secolo più avanti, in netta opposizione a San Paolo, gli “gnostici” e Tertulliano, con il suo “montanismo”, provano a dare una risposta allʼinterrogativo riguardante il rapporto fede-ragione sostenendo l’ascesi mistica e rigorosa verso la “conoscenza intellettiva” che solo alcuni eletti possono raggiungere attraverso l’otium, indispensabile a coltivare le risorse dello spirito. Ma le loro posizioni erano nettamente antievangeliche e perciò eretiche. In seguito, prima della conversione di Costantino imperatore, nel IV secolo, vennero promulgati gli Editti di Diocleziano che misero in atto la più cruenta persecuzione contro i cristiani. Poi la conversione. L’Editto di Milano di Costantino nel 313, seguitato nel 380 d.C. dall’Editto di Tessalonica con cui Teodosio il Grande elevava il cattolicesimo a religione ufficiale dellʼImpero.
Ipazia si accingeva a crescere in un mondo affetto da continui sconvolgimenti che da lì a poco avrebbero stravolto la sua intera esistenza. Ella però, durante la sua giovinezza, grazie allʼinsegnamento e alla tutela del padre Teone, detto “il divino” (in quanto discendente della Divina Gens Potitia, custode dei misteri della Sacra scienza di Eracles Invictus), riesce a condurre senza problemi unʼeducazione “da maschio”, studiando astronomia, medicina, matematica, fisica e filosofia. Il padre Teone fu uno dei pochissimi uomini dellʼantichità ad avere il potere e la lungimiranza di lasciare libera sua figlia di scegliere il proprio destino, e fu capace di accettare e incoraggiare quella scelta a prescindere dai costumi del suo tempo. Ma, molto probabilmente, non avrebbe mai immaginato che sua figlia si sarebbe appassionata agli studi così tanto da superare il suo stesso maestro. Ella fu, infatti, unʼantesignana della scienza sperimentale. Studiò e realizzò lʼastrolabio, lʼidroscopio e lʼaerometro; comprese la relatività del moto degli oggetti; teorizzò il moto ellittico dei pianeti; fu una delle promulgatrici della teoria eliocentrica introdotta da Aristarco di Samo nel III secolo a.C. e poi definitivamente confermata da Copernico nel 1543 con la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium. Da un punto di vista prettamente filosofico, purtroppo, non ci sono pervenute opere autografe, sappiamo però, attraverso gli scritti del suo allievo Sinesio, che fu una grande sostenitrice del neoplatonismo, nella fattispecie si concentrava molto sulle teorie di Porfirio e Giamblico. Una mente geniale e, come tutti i geni, profondamente inattuale.
Ma Ipazia non fu soltanto una grande intellettuale, durante la maturità divenne anche un solido esempio di moralità e di sensibilità etica. Vivendo appieno il periodo di decadenza dell’Impero romano, si vedrà coinvolta attivamente in vicende che stravolgeranno la sua vita e quella dell’umanità intera. Lo storico Adriano Petta, nel suo saggio Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, ricostruisce gli eventi topici che segnano la breve vita della filosofa cercando di colmare alcuni vuoti biografici con elementi narrativi originali. Petta sceglie stilisticamente di far preannunciare la distruzione del Serapeo, il tempio in cui si ergeva la maestosa biblioteca di Alessandria, depositaria di tutto lo scibile umano, da un sogno premonitore. Olimpio, un filosofo e sacerdote pagano, in una fase onirica vede «il tempio distrutto e la biblioteca bruciare» . Cosa che avverrà per mano del vescovo Teofilo, che si recherà di fronte al tempio di Serapide accompagnato da una fiumana inferocita, riscattando il diritto di imporre le decisioni dell’imperatore Teodosio: L’imperatore dà il suo pieno appoggio alla nostra comunità cristiana! Egli non riconosce quella degli elleni e quella ebraica: egli si è schierato solo dalla nostra parte! […] Oggi l’imperatore rende giustizia all’unico vero Dio nostro Signore! Oggi l’imperatore ci comanda di cacciare dal tempio i pagani che si sono ribellati al suo volere!.
[caption id="attachment_10219" align="aligncenter" width="1000"] Agora (Agorà) è un film del 2009 diretto da Alejandro Amenábar, interpretato da Rachel Weisz. Il film narra in forma romanzata la vita della matematica, astronoma e filosofa greca-alessandrina Ipazia, durante l'epoca delle persecuzioni anti-pagane stabilite per legge dai Decreti teodosiani, fino alla sua morte che nel film avviene per mano di un gruppo di parabolani, nel marzo del 415.[/caption]
Il tempio viene distrutto, il centro di studi devastato, la biblioteca bruciata. Dobbiamo a Ipazia e ai suoi allievi la maggior parte dei resti dei codici e delle pergamene degli scienziati e dei pensatori antichi che ci sono oggi pervenute. Lei e suoi studenti hanno cercato di salvare il possibile rischiando la vita per lasciare ai posteri almeno le piccole briciole rimaste di quella che altrimenti sarebbe stata un’eredità culturale immensa. Nel corso della ricostruzione di Petta, Ipazia affronta i personaggi più importanti di tutto quello scorcio di storia. Si reca a Milano dal vescovo Ambrogio per cercare di convincerlo a trovare una soluzione pacifica per placare i disastri che si stanno verificando ad Alessandria ed in tutto l’Impero romano. Ipazia sosteneva che «ragione e religione possono coesistere, camminare assieme, sostenersi e rispettarsi . Ma il vescovo Ambrogio risponde negativamente, confessando di avere addirittura intenzione di distruggere e «cancellare tutto il mondo dell’idolatria pagana» . In seguito incontra Agostino d’Ippona a Cartagine, sua vecchia conoscenza, che trova totalmente cambiato. Ipazia si ricorda di Agostino come una persona legata alla cultura, difensore del sapere e della ragione, ma egli non era più quello di un tempo. Agostino si convertì al Cristianesimo sotto l’influenza di Ambrogio che lo persuase che «la verità non potrà mai essere raggiunta con la ragione … e quindi è perfettamente inutile dannarsi l’anima e cercarla» . Agostino, di fatto, arriverà ad affermare che «la lettera uccide, lo spirito invece vivifica!» . Si aprirà tra loro un acceso dibattito sul rapporto fra religione e fede che, però, servirà solo a lasciar trapelare i deliranti panegirici di una mente ormai soggiogata, non più disposta a mettere nulla di ciò che afferma minimamente in discussione. L’autore dei Soliloquia, dunque, non è disposto al dialogo se non a livello interiore, l’unico, secondo lui, che permette di mettere in contatto Dio e Anima. Infine, lʼincontro decisivo è quello con il vescovo Cirillo, nuovo vescovo di Alessandria e successore di Teofilo che, per evitare la condanna a morte per eresia della figlia del divino Teone, la intima a convertirsi immediatamente al cristianesimo. Ma Ipazia sceglie di non farlo, sceglie di lottare per i valori della libertà di pensiero, e per lʼidea che la ragione possa coesistere in pace con la fede. Ma non cʼera spazio per un compromesso del genere. Nessuno era più disposto a difendere i valori di cui Ipazia si faceva portavoce, era una presa di posizione troppo forte. Lʼunico che provò a fare qualcosa per lei fu Oreste, il prefetto di Costantinopoli, ma non poté comunque nulla contro la potenza di Cirillo che scontento delle risposte ricevute dalla filosofa incaricherà i monaci parabolani di catturarla, torturarla e ucciderla. Così, come intonerebbe il poeta rapsodo Pallada, si spegne la vita «dell’astro incontaminato della sapiente cultura». Insieme a lei muore il paganesimo, l’ellenismo, il neoplatonismo. Sarà necessario più di un millennio per mettere in discussione il “principio di autorità” e per riavere una rifioritura della ricerca intellettuale con il rinascimento e le successive rivoluzioni.
Ipazia fu un personaggio virtuoso. Il significato di virtù, nel suo caso, non è da ricercarsi nel concetto cristiano di penitenza , ma nel significato greco di ἀρετή, cioè nellʼeccellenza, nellʼessere attivamente volti al bene compiendo azioni pregevoli e di alto livello con vigore morale e intellettuale. Ella, di fatto, fu capace di fondere le proprie opere e la propria esistenza in un rigoroso unicum, diventando un integerrimo e confuciano esempio di vita sia per i suoi contemporanei che per i suoi posteri. La sua storia si estende oltre la sua ontogenesi, questʼultima, «ricapitola la filogenesi» , ma non della nostra bioevoluzione bensì di tutta la nostra cultura occidentale. Prendendo in prestito i primi due postulati di Euclide (suo grande punto di riferimento intellettuale) è possibile, per traslazione semantica, considerare la nascita e la morte di Ipazia come due punti su un piano temporale: la retta che passa da questi due punti (primo postulato) sarà la sua biografia, la sua ontogenesi; il prolungamento indefinito della retta (secondo postulato) nelle due direzioni (passato e futuro) sarà la nostra filogenesi culturale. Parlare della vita di Ipazia, delle sue scoperte nel campo della fisica e dellʼastronomia, del rapporto tra fede e ragione del suo tempo, delle condizioni sociali, politiche e religiose entro cui era immersa è, dunque, come parlare dellʼintera storia occidentale. La sua vita virtuosa, e il suo sacrificio in difesa della libertà di pensiero, non va considerata come una delle tante storie attinenti un passato remoto che non ci riguarda più, Ipazia è il nostro presente, è il nostro avvenire. La sua storia è un microcosmo che racchiude e riassume il macrocosmo della nostra intera storia e cultura occidentale, in tutte le meraviglie e in tutte le contraddizioni che da sempre ha generato e che sempre continuerà a produrre.
 
Per approfondimenti:
_BERNARD, N., Donne e società nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2011;
_ESIODO: S. RIZZO (a cura di), Esiodo. Le opere e giorni, Milano, BUR, 2016;
_GIAMBLICO: M. GIANGIULIO (a cura di), La vita pitagorica, Milano, BUR, 2001;
_MUSTI D., Storia Greca. Linee di sviluppo dallʼetà micenea allʼetà romana, Roma-Bari, Laterza, 2006;
_PETTA A. e COLAVITO A., Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, Roma, La lepre, 2010.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1524393725610{padding-bottom: 15px !important;}"]39°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Finis Austriae - Sul tramonto dell'Europa. Giuseppe Baiocchi[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1524395032127{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 21-04-2018 presso la Bottega del Terzo Settore, il presidente dell'associazione Arch.Giuseppe Baiocchi, ha presentato il suo secondo saggio storico "Finis Austriae - Sul tramonto dell'Europa". L'incontro presentato dal consigliere Edoardo Cellini, ha analizzato il periodo storico che intercorre tra il 1898 e il 1918, anno della dissoluzione dell'Austria-Ungheria. Baiocchi ha analizzato la krisis spirituale che si è sviluppata all'interno della Monarchia Duale, soffermandosi sulle discipline architettoniche e artistiche. 
L'obiettivo sia del saggio, che della conferenza è stato quello di riscoprire la società e le radici, dalla quale proviene l'uomo europeo, oggi sempre più smarrito nella sua crisi di senso. Frizzante dibattito finale, che ha visto la presenza, oltre che del sindaco, dei consiglieri Francesco Ameli e Alessandro Bono.
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Dio salvi la regina, sembra proprio il caso di dirlo: il matrimonio britannico tra il duca di Sussex Henry Charles Albert David Mountbatten-Windsor (1984) e l’attrice afro-americana e ex modella statunitense Meghan Markle (1981) ha generato non poche problematiche alla Royal family. Per capire i principi di non condivisione di tale unione anglicana bisogna inizialmente possedere conoscenza dei rudimenti basici della tradizione e delle radici dell’aristocrazia (Nota 1): elementi fondamentali per non trascendere nella confusione e nel gossip generato da telecronisti e giornalisti che con grande evidenza erano sprovvisti di ogni conoscenza nella disciplina dell’istituzione monarchica.
[caption id="attachment_10260" align="aligncenter" width="1000"] Harry e Meghan Markle sono marito e moglie. Il principe e l’attrice americana hanno detto il loro “sì” davanti all’Arcivescovo di Canterbury, tra sorrisi, lacrime e tanta commozione.[/caption] Nella tradizione aristocratica l’unione tra classi sociali diverse era pressoché proibita: la formula del matrimonio morganatico (Nota 2) fu per la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento assolutamente una grande apertura verso la borghesia. Ma nel caso di Henry l’unione avviene addirittura con una persona del ceto popolare, la quale nella sua vita ha mutato ben tre religioni: cattolica inizialmente, dopo il primo matrimonio ebraica (per via del marito) ed infine anglicana. Per i credenti della Chiesa cattolica, così come per quelli della Chiesa anglicana, nata dallo scisma degli anni trenta del Cinquecento, il Re e la famiglia reale hanno un compito fondamentale verso i propri sudditi e verso il territorio che amministrano: sono i guardiani di Dio in terra, i custodi dell’ordine e della tradizione, fonte di ispirazione verso la perfezione etico-morale e soprattutto riguardante gli usi e i costumi che la popolazione dovrebbe seguire (Nota 3). Per una serie di atteggiamenti e usi, pare evidente come questo matrimonio per etichetta e tradizione non sia stato educativo e d’ispirazione per i tanti che vogliano migliorarsi o ambire ad un uso della convenzione tradizionale. Partendo dai vestiti degli invitati, completamenti fuori luogo – soprattutto in alcuni capi sgargianti da uomo -, fino ad arrivare ai calzini dei musicisti – in particolare del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason – che spiccavano decisamente dagli abiti, come fosse stato un matrimonio di un “nuovo ricco” americano.
[caption id="attachment_10261" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra l'ineleganza del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason. A destra alcuni invitati tra selfie e tatuaggi.[/caption]

Uno degli aspetti principali della decadenza del mondo moderno occidentale si manifesta nella perdita del significato, della forza e della tradizione originaria dell'aristocrazia. Questa si è sempre posta come un valore spirituale, corrisponde a quella funzione di mediazione - uomini che sono centro o modello per le attività inferiori e, simultaneamente, supporto, preparazione e via ad una realizzazione superiore. Essa deve costituire il modo di una superiorità virile, libera, personalizzata, orientata verso l'immanente (Nota 4). Dove è finita la qualità, il dettaglio, la tradizione, la perfezione? Per i matrimoni normali vi sono già le persone normali. Non si avvertiva il bisogno di ostentare, in Inghilterra, la celebrità e l’orgoglio nero: adeguatamente rappresentati con il gospel – che si poneva a sfida del secolare canto gregoriano e completamente fuori luogo nella St. George’s Chapel del Castello di Windsor -, così come i grandi gesti plateali e proletari dell’emotivo vescovo di Chicago, Michael Curry (1953) da sempre a favore dei matrimoni omosessuali, all’interno della Chiesa anglicana. Nella sua omelia, coprendosi attraverso il concetto vuoto di “amore”, ha platealmente annunciato lo smantellamento del “vecchio mondo” con il “nuovo”: «Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore. E quando lo scopriremo, saremo in grado di trasformare questo vecchio mondo in un nuovo mondo. L’amore è l’unica via». A tale proposito non posso non citare il filosofo Massimo Cacciari: «Alla vigilia della fine dei tempi, a satana è data un'estrema opportunità per sedurre l'umanità, ed ora egli s'impegna con sincero entusiasmo e dedizione a garantire a tutti, pane quotidiano, giustizia e pace, e corona questo evento del benessere con un programma di suprema pax religiosa. Convoca a Gerusalemme un grande concilio universale, nel quale inaugura un perfetto ordine tra le religioni finalmente riconciliate. Il successo arride talmente attorno al grande benefattore, e il consenso è talmente forte, che diventa intensa e immensa genuflessione. Solo pochi non ne accettano l'autorità (...). Ed allora essi vengono cacciati dal concilio, e tornano nel deserto, e là si ritrovano dalla parte di Cristo, che il grande inquisitore satana aveva già accusato: "tu hai consegnato gli uomini ad un insopportabile libertà!" E mentre a Gerusalemme risuona l'inno al benefattore, al supremo Re, nel deserto, questo misero resto di umanità, si prepara paradossalmente ed angosciosamente, nel nome del Cristo che li ha destinati ad essere liberi, si prepara all'ultima grande libertà di ogni uomo, a quell'insopportabile grazia di decidere in solitudine ed in libertà, l'evento dell'ascolto e della preghiera. Ascolto e preghiera, sono soltanto scelta che fiorisce dalla libertà dell'uomo». Verso il discorso propriamente razziale bisogna soffermarsi per capire la vera entità del razzismo aristocratico, il quale non si pone – come il pensiero progressista, ci ha insegnato – in uno stato di superiorità con l’altro, ma di riservatezza e conservazione. Ecco perché tale matrimonio è un tentativo di formalizzare l’irrealizzabile, inteso in concetti filosofici e di protocollo. Tradizionalmente, nelle nobiltà sta anzitutto in risalto il valore riconosciuto dal sangue e la subordinazione della persona rispetto ad una casata e ad un principio. Il singolo qui non vale individualisticamente o «umanisticamente», bensì in relazione al suo sangue, alle sue origini e alla sua famiglia di cui deve tenere alto il nome, l'onore, la fede. Un ugual risalto viene dato alla ereditarietà e al principio di escludere gli incroci contaminatori. Le differenze col razzismo qui sono evidentissime. Per millenni il razzismo è stato in atto nella nobiltà gentilizia di ogni popolo, ed anzi nella sua forma più alta, perché si è mantenuto aderente all'idea di tradizione ed ha evitato di materializzarsi in una specie di zoologismo. Prima che il concetto di razza si generalizzasse, come secondo le vedute attuali, «aver della razza» è stato sempre sinonimo di aristocrazia. Le qualità di razza sempre significarono qualità di élite, riferentisi non a doti di genialità, di cultura o di intellettualità, ma essenzialmente di carattere e di stile di vita. Esse si opponevano alle qualità dell'uomo comune perché apparivano, in buona misura, innate: le qualità di razza si hanno o non si hanno, non si possono creare, costruire, improvvisare o imparare. L'aristocratico, a questa stregua, è l'esatta antitesi del parvenu, dell'arrivato, dell'uomo che «si fa», che è divenuto quello che «non era». All'ideale borghese della «cultura» e del «progresso» si oppone quello aristocratico e conservatore della tradizione e del sangue. Questo è un punto fondamentale e l'unico vero superamento dei surrogati borghesi e protestantici dell'aristocrazia.

[caption id="attachment_10264" align="aligncenter" width="1000"] Nel dipinto: Sir Thomas Lawrence, "Sir Charles Stewart, III marchese di Londonderry" (particolare) - 1814.[/caption] La cerimonia tradizionale della conservazione della famiglia nobiliare e dei rami cadetti deve avere il valore di un'azione reale, oggettiva, efficace, per quanto spirituale, e non si deve ridurre per nulla a una mera «cerimonia» più o meno teatrale, come è divenuta con questo matrimonio, innescando contemporaneamente anche la decadenza delle caste sacerdotali. Ciò premesso, l'importanza dei riti tradizionali di consacrazione dei nobili, sta nel fatto che essi ci dicono che nell'antica idea dei capi era compreso molto più che non un potere semplicemente materiale, temporale, politico. Il rito riveste un Re di «spirito santo»: solo allora egli è veramente Re. Allora egli ha le chiavi del regno dei cieli. Si può ricordare, che nell'antichità spessissimo si considerò nel Re il vero artefice della vittoria o della disfatta del suo popolo; inoltre, sin a tempi abbastanza recenti, i soldati e i capi non combattevano per la «patria», la «nazione» e il restante bagaglio della moderna ideologia plebea, ma per il loro Re. Da questa spiegazione molto semplice possiamo dedurre come l’aristocrazia britannica abbia mutato la sua politica, avviandola verso una monarchia che non “guida” il popolo, ma che le vuole essere “amico”, vuole “proletarizzarsi” per avere più clamore e amore. In parole povere vuole aumentare il proprio business economico di fatturato, anteponendo le leggi del mercato ai valori della tradizione e dell’integrità di una casa reale. Dunque tutto diventa possibile: il matrimonio con una divorziata, popolana e di colore, un vescovo americano pro-gay in una delle chiese più importanti della storia inglese, ex calciatori tatuati invitati (in passato le condotte di vita, aprivano o chiudevano porte, oggi no), la madre della sposa con il piercing e tante, tantissime anomalie, che i giornalisti di tutto il mondo – servi del sistema globale – hanno esaltato a modello e innovazione dell’istituto monarchico, non conoscendo praticamente nulla di esso. L’unico che sembra reggere in Inghilterra la fede e la tradizione rimane il principe di Galles Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor (1948), uscito distrutto mediaticamente con la popolare, anch’essa amata dal popolo per la sua stravaganza e impudenza, Diana Frances Spencer. Anch’egli ha dovuto tacere per non alimentare polemiche, accompagnando all’altare una persona che avrà visto cinque, sei volte nella vita. Il principe Charles non ama l’architettura moderna, ritenendola un involucro senza anima, ama la campagna inglese, retaggio di una monarchia feudale ancora viva e indossa abiti sartoriali proseguendo la tradizione dei Windsor legati all’eleganza. Anche tale prerogativa sembra venire meno con il primogenito William che ama acquistare abiti commerciali da Zara o altre marche di rilievo, per poi venderle all’asta. Appare chiaro il rovesciamento di tutti i valori del bello, del giusto e della sopravvivenza di tutto ciò che è autentico, vero, sudato, personalizzato. La globalizzazione ha toccato anche l’aristocrazia britannica, lì dove era più forte: nell’eleganza.
[caption id="attachment_10262" align="aligncenter" width="1000"] Due foto a confronto: il prinpicino George, figlio di William e una foto d'infanzia del principe Charles.[/caption] Chi ha avuto modo di seguire la diretta del matrimonio su un noto programma televisivo, avrà notato la presenza ingiustificata di John Peter Sloan, un sedicente scrittore inglese che vive in Italia e possiamo pensare ospite della trasmissione solo perché nato sull’isola di Albione. Ebbene Sloan si congratulava con gli sposi per aver dato il via alla rivoluzione all’interno delle convenzioni inglesi. Henry (Harry, come viene chiamato) in passato si è espresso sempre liberamente, a differenza della Regina: il sedicente scrittore e cittadino britannico sicuramente è all’oscuro della costituzione inglese che impone alla regina un silenzio e un rigido protocollo; inoltre non si può mettere sullo stesso piano di lettura un principe, il sesto per il trono, e la Regina regnante. Questa è la profondità del principale palinsesto nazionale in Italia. La prima vera spallata al sistema aristocratico, oltre alla Rivoluzione Francese, la diede anche Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il quale nel 1814 si proclamava Re dei francesi “per volontà di Dio e della nazione”, inserendo sullo stesso piano Dio e l’uomo. Non più dunque per diritto divino: che l'uomo non sia sempre all'altezza del principio dell’ascesi della potenza, non importa, la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all'uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell'orgoglio nel servire, quella prontezza all'azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di organismo politico. La retorica giacobina mise in primo piano, non più il Sovrano, ma la «Patria», la «Nazione», il «Popolo». È in tal senso che si realizzarono le prime fasi del franamento collettivistico che, secondo una inesorabile concatenazione, dovevano condurre per gradi dal ciclo delle grandi monarchie europee, sino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il ricorso a simili entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del popolo, ma in alto, ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: «Dove è l'Imperatore è Roma». Gli antichi simboli, rappresentanti la «regalità divina» in tutte le grandi civiltà tradizionali, sono diventati insegne della demagogia grazie al socialismo e al comunismo, ideologie che hanno dato nuova vita all'ideale promiscuo del meticciato: il «sole trionfale» dell’antichità è divenuto il «sole dell'avvenire» dell'utopia socialista; il rosso «imperiale» è stato rubato dalla bandiera rossa del marxismo; lo stesso segno occulto del «microcosmo», uomo dominatore «composto da tutti i poteri», cioè la stella a cinque punte, è divenuto l'emblema di satana, della «civiltà proletaria» bolscevica, associandosi ai rozzi segni di falce e martello. Tutti ciò dovrebbe parlare chiare parole a chi voglia cogliere il senso vero della storia; non quello fittizio, supposto dall'ideologia plebeo-giacobina del «progresso», che è venuta insensibilmente a dominare in tutti i trivii della «cultura moderna. Perché con l’idealismo e con la sostituzione dell’uomo a Dio, il primo vuole ambire alla sua volontà di potenza assoluta: vuole che il Re o presidente della Repubblica (come in Italia) sia un amico, vuole candidare persone impreparate a governare, solo perché sono giovani, si arroga il diritto di criticare tutto e tutti, senza possederne meriti speciali o pregi particolari; insomma in poche parole tutto può essere concesso e tutto ciò che è stravagante e alternativo è visto con bontà e massima apertura al cambiamento. Ma dove ci sta portando ciò? All’annientamento spirituale e umano della nostra identità di europei e poi di italiani. Ma tutto ciò, oggi, che cosa è, se non un curioso ragionamento? A questo titolo dunque la prendano coloro, che non possono capirne di più.
Note
_Nota 1: Tradizione vien dal termine tradere, cioè trasmettere. Si presuppone, infatti, nel trasmettere una continuità, una identità del contenuto, cosa che a sua volta è inconcepibile senza un certo superamento della condizione temporale. Non si può dunque parlarse di tradizione in senso superiore dovunque il suo contenuto non si leghi a qualcosa di metafisico e di super-naturale. La tradizione può avere forme di espressione e di manifestazione varie, ma se essa non vuole trascendere nel significato di routine, trasmissione meccanica di consuetudini, abitudini e idee che si stratificano e sempre più si rendono opache e soggette alla deformazione, di là da quelle forme esteriori e di espressione della tradizione deve sussistere una vera chiara conoscenza. Qui in fondo, si ha una condizionalità reciproca: la tradizione serve da base allo spirito aristocratico così come questo serve da base alla tradizione.
_Nota 2: Prima negatività, è stata la rinuncia al matrimonio definito “Morganatico”, ovvero un’unione tra un uomo appartenente ad una famiglia reale o regnante, e una donna di rango inferiore - un casato che non è reale o regnante, o una donna che non appartiene alla nobiltà. Né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà. I figli sono considerati legittimi per tutti gli altri aspetti, e si applica la proibizione di bigamia;
_Nota 3: Ogni forma tradizionale di civiltà fu caratterizzata dalla presenza di esseri, i quali, per via della loro "divinità", cioè di una superiorità innata o acquisita rispetto alle condizioni umane e naturali, apparivano capaci di rappresentare la presenza viva ed efficace del principio metafisico in seno all'ordine temporale. Tale, secondo il senso interno della sua etimologia e il valore originario della sua funzione, era il Rex secondo l'unico concetto di una divinità regale coadiuvata da una regalità sacerdotale;
_Nota 4: Ariston dal greco καλός significa appunto “il meglio”, il tipo dell'aristòcrate risponde effettivamente allo spirito migliore della classicità, nel suo irradicarsi fortemente nel senso di dignità e di superiorità di classe, nel tendere a ciò che vive all'interno si testimoni altresì, e rigorosamente, in una forma, suggellandosi in un'armonia di corpo, di spirito e di volontà, in una tradizione di onore, di stile, di alta tenuta e di, severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume e delle forme esteriori, in generale in ogni modo del sentire, del reagire, del pensare. Dal punto di vista interno, le qualità dell'aristòcrate sono simili a quelle dell'asceta: vi è un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse al "vivere"; vi è un predominio dell'ethos sul pathos; vi è una semplificazione interiore e un disprezzo rispetto alla massa greggia delle tendenze, delle emozioni e delle sensazioni, ove sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di una capacità d'apertura d'animo, di squisitezza e di finezza nello stesso tempo che di azione chiara e forte, in cui si scolpisce la figura del nobile. Quell'assenza spontanea degli impulsi ciechi da cui gli uomini sono spinti come affamati alla mensa della vita; quel possesso di sé che non è una preoccupazione, ma una semplicità e quasi una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell'equilibrio cosciente che, appunto, conduce allo «stile».
 
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La maurrasiana Enquête sur la Monarchie portò un soffio di vita nuova, una vivacità e vitalità che sembravano ormai dimenticate nella Francia della Terza Repubblica, un mondo nel quale le passioni politiche, i sentimenti fideistici, le infatuazioni dottrinarie si stemperavano nel grigiore del parlamentarismo, si edulcoravano in una atmosfera stagnante caratterizzata dalla assenza di grandi ideali e dalla riduzione della lotta politica a mera contrattazione, e solo tornavano ad esplodere con tutta la loro carica di esacerbata emotività in occasione di grandi scandali quali il crack della Compagnia Universale del Canale di Panama e l’Affare Dreyfus; un mondo che sembrava crogiolarsi in quella ovattata, spumeggiante pittoresca fin de siècle con i suoi cabaret ed il suo cancan, con il Moulin Rouge e con le dame di Chez Maxim. L’Enquête operò da centro di raccolta, da elemento catalizzatore dei sussulti, dei fermenti reazionari che provenivano dall’intimo della vecchia Francia, non dalla sua facciata esteriore, il parlamentarismo, il quale «corrisponde nella vita sociale al romanzo pornografico per la vita morale», essendo il lato con il quale la Francia si mostrava al pubblico straniero, non la sua effettiva realtà.
Il più macroscopico effetto dell’Enquete, quello che maggiormente lascia intuire l’importanza ed il significato di essa nella storia della Francia della Terza Repubblica, è l’acquisizione all’idea monarchica dei membri influenti dell’Action Française. E fu un risultato, questo, di non poco conto, la cui entità appare di tutta evidenza quando si consideri non soltanto il peso del movimento sugli eventi e sulla formazione dell’opinione pubblica francese nei primi decenni del ventesimo secolo, sì anche della sua genesi prettamente ed inequivocabilmente repubblicana.
L’atto di nascita dell’Action può farsi risalire all’8 aprile 1898, allorché un gruppo di intellettuali antidreyfusardi, raccolti attorno a Henry Vaugeois e Maurice Pujo – il primo professore di filosofia ed ex socialista, il secondo giornalista e scrittore senza precise idee politiche – dettero vita ad un Comité d’Action Française con il dichiarato proposito tanto di svolgere una intensa attività propagandistica in chiava antidryfusarda (in quanto ebreo Dreyfus era considerato dagli esponenti della destra antisemita antinazionale) in vista delle elezioni che avrebbero dovuto aver luogo l’anno stesso², quanto reagire alla «dreyfusazione» dell’Union pour l’Action Morale, un centro, di cui tanto Vaugeois che Pujo facevano parte, fondato da Daniel Desjardin per la diffusione di un liberalismo a sfondo protestante e moralistico. Le finalità di questo gruppo di intellettuali sono chiaramente espresse in una lettera indirizzata da Pujo al giornale nazionalista L’Eclair, diretto da Ernst Judet, e pubblicata nel numero del 19 dicembre; lettera nella quale, dopo aver sottolineato come l’astratta formula individualistica dei «diritti dell’uomo» abbia consentito l’anarchia e la corruzione con il parlamentarismo ed il suffragio universale, Maurice Pujo, auspicando una riorganizzazione ed un rafforzamento all’interno e all’esterno della «Francia repubblicana e libera», esclude, con ciò stesso, l’obiettivo di una riorganizzazione monarchica. È però soltanto un anno dopo, il 20 giugno del 1899, che l’Action Française diventa un vero e proprio movimento politico e come tale vien presentata da Vaugeois con un discorso programmatico di chiara impostazione plebiscitaria: «(…) la democrazia francese non ha una testa in cui possa raccogliersi e prendere coscienza di sé. Ecco il male maggiore, la lacuna più grave del nostro regime. Molti pensarono che essa si possa colmare; dovremmo studiare in qual modo sia possibile. Sembra certo, in ogni caso, che occorre una testa, si dovesse pur tagliarla di tanto in tanto.
[caption id="attachment_10175" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Maurice Pujo (1872 - 1955), Henri Vaugeois (1864 - 1916), Leon Daudet (1862 - 1942), Lucien Moreau (1875 - 1932), conte Léon de Montesquiou-Fézensac, (1873 - 1915).[/caption]
Occorre una testa, ma aggiungo, ne occorrerebbero parecchie al di sotto. Quando chiedo che il potere sia personale, intendo dire che è necessario che esso sia vivo a tutti i livelli della gerarchia, che esso sia una coscienza libera e responsabile, invece di essere un organo impassibile per l’applicazione della legge… ».
L’esigenza di restaurare la nozione di sovranità, ancorché avvertita profondamente da quest’uomo che dichiarava di avere orrore del dispotismo, non sboccava tuttavia in una affermazione di fede monarchica: nel suo spirito si confondeva con le fascinose suggestioni emananti dal cesarismo plebiscitario di Barrès ed alla Déroulède, senza peraltro che l’omaggio reso a Paul Déroulède implicasse una accettazione totale dei mezzi di lotta da questi propugnati (Nota 1). Il discorso di Vaugeois apparve il 10 luglio 1899 in una brochure con la copertina grigia: era il numero-programma dell’Action Française.
Il mese successivo venne pubblicato il primo numero, vero e proprio, con un significativo articolo di fondo dello stesso Vaugeois: Réaction d’abord. Se l’iniziale gruppo raccolto intorno alla quindicinale Action Française era costituito di repubblicani quasi interamente, - da Vaugeois a Pujo, da Pierre Lasserre a Lucien Moreau, da Jacques Bainville a Léon de Montesquiou -, tale fatto non si presentava come preclusivo alla possibilità di prendere in considerazione soluzioni diverse da quella repubblicana. Tant’è che lo stesso Maurras, nel fascicolo del 15 novembre 1899, poteva liberamente scrivere di non essere per nulla repubblicano, di ritenere anzi «assurda e puerile» la dottrina repubblicana, di identificare nel fatto repubblicano la causa e l’effetto del processo di decadimento della Francia. Il repubblicanesimo degli aderenti all’Action era più epidermico che effettivo; in realtà mancava al gruppo una dottrina comune, un punto di riferimento ed un centro di raccolta cui ancorare il proprio patriottismo, le proprie sollecitazioni intellettuali e gli sdegni provocati dalle contingenze politiche; mancava, in definitiva, l’elemento catalizzatore capace di plasmare quel diffuso ed avvertito bisogno di sovranità, atto a dargli una veste che non fosse quella, sostanzialmente protestataria e negativa, della ricerca di una autorità sic et simpliciter.
In seno al gruppo gravitante intorno all’Action Française Charles Maurras era l’unico convinto monarchico, e tale convinzione non gli derivava da una tradizione familiare stratificata nel suo animo sin da giovinetto: «Per quanto sia stato spesso affermato, io non sono nato monarchico». Nella sua famiglia coesistevano divergenze di opinione, le più assolute e le più insanabili, non soltanto in politica, sì anche in questioni morali, religiose, erano presenti contrasti disaccordi che sfioravano «le radici supreme delle concezioni della vita». Lo stesso Maurras ha però sottolineato l’importanza materna ai fini della sua formazione (essendo il padre morto quand’egli era ancora fanciullo), di questa donna la quale, pur inclinando verso idee liberali nella convinzione che il 1789 avesse abbattuto vecchie iniquità e profonde ingiustizie, era stata pur tuttavia educata nell’orrore della rivoluzione (Nota 2). Tale ripugnanza si impresse certamente nell’animo del giovane Maurras, ma è forse esagerato identificare siffatto orrore per la rivoluzione con il momento costitutivo della sua formazione intellettuale ed affermare che lo porrebbe «in un sorprendente rapporto di corrispondenza con Nietzsche e in una sintesi romantica col proletario Mussolini».
[caption id="attachment_10172" align="aligncenter" width="1000"] Charles Maurras, nato il 20 aprile 1868 a Martigues (Bouches-du-Rhône) e morto il 16 novembre 19521 a Saint-Symphorien-lès-Tours2,3 (Indre-et-Loire), è un giornalista, saggista, politico e poeta francese, accademico, teorico del nazionalismo integrale.[/caption]
Tant’è che i primi fervori monarchici del giovinetto Maurras per il duca di Chambord, Enrico V, vennero fugati, verso il dodicesimo o il tredicesimo anno, dall’infatuazione per il pensiero di Lamennais: «fu un altro colpo di fulmine. Le tirate infiammate, le immagini bibliche, i gridi sussultanti, ansanti con il loro seguito di allucinazioni fantomatiche mi iniziarono alla filosofia della libertà, alla dottrina dell’affrancamento per mezzo dell’insurrezione. Il mondo mi apparve diviso in oppressori ed oppressi, in sfruttatori e sfruttati; tutti i ricchi cattivi; i poveri, divinamente buoni; ogni segno del potere o della ricchezza corrispondeva a qualche corno della Bestia, ogni rivolta popolare era giustificata ed incoronata di benedizioni: quella sorta di spartachismo, nutrito di sentimenti pii e di una nozione esaltata della giustizia divina e dell’umanità indomabile (mais l’âme se rit d’eux, elle est libre) non consentiva assolutamente che un sol tipo di regime: la teocrazia rivoluzionaria. Ero dunque divenuto un repubblicano teocratico». Questa frenesia intellettuale, questo cieco entusiasmo durò per qualche anno in una singolare commissione di odio-amore, per cui Maurras avvertiva un non meglio definito né definibile senso di disagio di fronte a tali assunti, ne sentiva «in modo vago l’assurdo», ma nel contempo non aveva la forza di ricusare le conclusioni sembrandogli quel tipo di regime, repubblicano e teocratico, l’unico fondato sul diritto; si protrasse tale fase del suo pensiero fino a quando una crisi di ordine religioso si risolse sul piano politico in una sorta di indifferentismo scettico. Il quale, peraltro, in seguito, contribuì non poco a precisare taluni concetti che diverranno, con il tempo, le linee direttrici lungo le quali sarà destinato a procedere il suo pensiero. È il caso – assai significativo e che meriterebbe una più ampia considerazione ed uno studio più approfondito sotto l’angolo della visuale dei rapporti intercorrenti tra filosofia scettica e conservatorismo politico - , della sua concezione del rendimento di un regime, quale indice della positività dello stesso. Tale concezione, che diverrà uno degli argomenti precipui della difesa maurrasiana dell’istituto monarchico, si originò nel pensatore provenzale dalla insensibilità, in questa fase della sua evoluzione intellettuale, a preferenze personali per l’un regime o per l’altro: «legittimi o no, fondati sulla libertà o sull’autorità, agganciati ad un principio o ad un altro, che valevano, in ultima analisi, per la salute e la prosperità delle società, il regime A, o il regime B, o il regime C?».
Se in base agli assunti di una concezione siffatta – che sceglie quale unica pietra di paragone, quale unico metro valutativo atto a fornire la misura della positività di un determinato regime il suo rendimento, storicamente ed obbiettivamente verificabile, nel trascorrere del tempo – la repubblica suscitava non poche diffidenze nell’animo di Maurras, è peraltro vero che egli non sentiva il bisogno di professarsi monarchico. La stessa vita politica non lo attirava;in un certo senso, anzi, gli ripugnava. Pur tuttavia in questo periodo la sua riflessione sulle disfunzioni del parlamentarismo, il cui regno gli appare il più atto a favorire lo sviluppo di tutti i difetti dello spirito gallico e ad impedire la possibilità di temperarne o correggerne qualcuno, e sulle contraddizioni ed assurdità del mito democratico.
La mancata adesione del pensatore all’idea monarchica deriva probabilmente dalla considerazione di essa sotto l’angolo visuale del parlamentarismo (tanto più che un principe come il Conte di Parigi passava per «parlamentare»): «la monarchia parlamentare, come la repubblica parlamentare, mi sembra voltare le spalle ai postulati essenziali di tutti i miei studi»¹³. Quello di Maurras era, per sua stessa ammissione, un pensiero solitario, che, poco alla volta, attraverso una intensa attività speculativa, si incamminava verso la conquista delle «nuove e fragranti gioie della certezza». Alla stessa politica cominciano a sembrargli applicabili, poco alla volta, i criteri del vero e del falso, senza peraltro, che ciò significhi, per il pensatore provenzale, l’assunzione della politica al rango di scienza: «Una scienza? No, la parola mi sembrava ambiziosa e prematura per un insieme ancora non ben congegnato. Ma, in mancanza di nozioni interdipendenti, io intravedevo una serie di cognizioni solidamente determinate e suscettibili di essere gradualmente ordinate».
L’episodio che, però, provocò la definitiva conversione di Maurras all’ideale monarchico fu il suo viaggio in Grecia, quale inviato speciale della Gazette de France, giornale monarchico e legittimista fin dal tempo di Richelieu. Da questo viaggio, dovuto ad una causa occasionale, i giochi olimpici, Maurras tornerà con una visione politica ben precisa che si può compendiare in un profondo odio contro la democrazia: «Qualsiasi democrazia fa nascere un grande falò di gioia dai beni che le generazioni hanno lentamente prodotto e capitalizzato. Ma una fiamma è più pronta a dare ceneri che non a maturare il legno per la catasta di un rogo. L’enormità del nostro capitale nazionale non deve generare una tale ingannevole sicurezza. Essere nazionalista e desiderare la democrazia sarebbe, allo stesso tempo, voler dilapidare la forza della Francia ed economizzarla, cosa che credo impossibile. Insieme a questo odio per la democrazia, anche e soprattutto il suo monarchismo, quel monarchismo che, all’epoca della creazione dell’Action Française, è un fatto, un elemento caratterizzante del pensiero di Maurras; quel monarchismo che, mediante l’Enquête sur la Monarchie, farà non pochi proseliti e darà alla stessa Action Française la base primordiale di cui essa ai suoi primordi, sentiva la urgente necessità.
Il 6 maggio 1899 sulla Gazette de France, Charles Maurras, ormai conquistato all’ideale monarchico, tratteggia sinteticamente i caratteri peculiari della monarchia quale egli auspica: «All’istituzione ereditaria della famiglia, aggiungete le entità permanenti del governo del comune e della provincia, e l’istituzione che equilibra per mezzo dell’autorità: avrete la formula della monarchia». Qualche mese più tardi, a seguito dell’arresto di un certo numero di monarchici accusati di complotto, Maurras redasse quello che doveva essere un manifesto di intellettuali monarchici, il celebre Dictateur et Roi, per il quale palesarono apprezzamento Frédéric Amouretti, Charles Vincent, Jacques de la Massue ed Auguste Cordier allora direttore del Nouvelliste de Bourdeaux. Per diversi motivi la pubblicazione di Dictateur et Roi subì continui ritardi finché, nella primavera successiva, essendo iniziata l’Enquête sur la Monarchie – condotta «sul medesimo piano e secondo le medesime dottrine di Dictateur et Roi» - essa apparve superflua (Nota 3) . Il manifesto tuttavia circolò manoscritto e contribuì non poco alla acquisizione alla causa monarchica di molti ingegni tra cui Maurice Pujo, uno spirito che diverrà tra i più fedeli collaboratori di Maurras e che, quando il Vaticano pronuncerà la nota condanna nei confronti dell’Action Française e delle principali opere maurrasiane, sarà uno dei difensori più strenui delle idee, dell’attività, dei programmi del movimento dimostrando in maniera inequivocabile come la manovra della Santa Sede traesse le sue origini non già da motivazioni di ordine religioso, quanto piuttosto dalle esigenze di una manovra politica mirante al riavvicinamento con la Francia di Briand.
[caption id="attachment_10174" align="aligncenter" width="1000"] 1937 - Conferenza di Charles Maurras alla Lugdunum Hall di Lione, 14 novembre.[/caption]
Nel manifesto sono già contenute, ancorché in nuce ed esposte in maniera logicamente stringata, le principali idee maurrasiane sulla monarchia, quelle che confluiranno poi nel discorso preliminare all’edizione definitiva dell’Enquête sur la Monarchie. Identificato il Regno con il regime dell’ordine concepito «conforme alla natura della nazione francese ed alle regole della ragione universale», Maurras osserva che questo, nella situazione attuale è stato capovolto talché «oggi troviamo la libertà ed i suoi rischi in alto, cioè in quegli affari di particolare importanza che impegnano l’avvenire della nazione e la Sicurezza dello Stato», mentre l’autorità, nel suo senso massimo rigore, è stata collocata «senza utilità alcuna in basso, nel terreno in cui, al contrario, la discussione, la varietà, l’iniziativa d’ogni cittadino sarebbero non solo senza pericoli, ma vantaggiose; si è messo quest’autorità sovrana e decisiva sin nel dettaglio più insignificante dei rapporti dei privati con l’amministrazione!». La ricostituzione dell’ordine naturale e razionale può essere ottenuta soltanto mediante un rovesciamento completo di quello esistente, ponendo cioè la libertà in basso e l’autorità in alto, sostituendo al Cesare-Stato, il Cesare-Ufficio «anonimo e impersonale, onnipotente ma irresponsabile e incosciente» - il quale si studia di molestare fin dalla culla il cittadino, colmandolo di comodità perniciose, disabituandolo alla riflessione ed alla iniziativa personale, atrofizzandone la funzione civica – la libera iniziativa delle famiglie, associazioni naturali, la facoltà auto regolatrice dei comuni e delle contrade, l’autodisciplina delle associazioni professionali, confessionali e morali, cioè una vera e propria serie di corpi intermedi , caratterizzati dalla più completa libertà. Al vertice dello Stato sarà invece l’autorità, incarnata nella figura del sovrano, il quale regnerà e governerà sottraendo il potere centrale alla schiavitù dei partiti parlamentari, ai capricci elettorali, alla instabilità della direzione ministeriale ed alla interna folle discordia. Dalla sovrapposizione della autorità regia alle libertà civiche non potranno che derivare sia una maggiore agiatezza privata sia una maggiore forza nazionale. È con queste convinzioni, ormai maturate e divenute certezza, che Maurras inizia la Enquête sur la Monarchie, quell’opera che, per esprimerci con le parole di Léon Daudet, «avrebbe mutato l’orientamento politico di tutta la gioventù pensosa dalla Francia e restaurato l’idea monarchica ed una attiva dedizione al sovrano».
Le prime due persone intervistate da Charles Maurras sono il capo dell’ufficio politico del duca d’Orléans, il lorenese André Buffet ed il conte Eugéne de Lur-Saluces, entrambi esiliati per la loro attività di monarchici tradizionalisti. Dalle loro parole emerge l’immagine di una Francia, quale essi auspicano, raccolta attorno ad una monarchia nazionale, una Francia decentralizzata, in cui sia rivalutata la famiglia, sia ricostituita nella sua giusta importanza la proprietà rurale che è «un’istituzione politica, oserei dire un bene nazionale e un capitale nazionale», siano risanate le campagne perché da tale risanamento dipende «la sorte degli abitanti della città». Notevole l’importanza assegnata alle famiglie, «da cui tutto dipende», le famiglie che possono venire riguardate come «i naturali veicoli della tradizione» poiché «quando sono energicamente costituite, qual che di utile ha potuto fare un uomo non muore con lui, ma si trasmette, con il sangue ed il nome della sua discendenza». Notevole il rilievo conferito all’istanza decentralizzatrice: per Lur-Saluces la Francia, costretta a fatica nelle istituzioni consolari, ha bisogno d’aria, è come una donna, soffocata da un busto troppo stretto, il cui unico rimedio consiste nel togliersi l’incomodo indumento, per Buffet il decentramenti è tanto importante quanto, nel dodicesimo secolo, poteva essere vitale l’aiuto accordato alla formazione dei Comuni, o, nel tredicesimo, il regolamento della vita corporativa, o, nel diciassettesimo, l’umiliazione di infliggere alla Casa d’Austria, od anche, nel momento attuale, la necessità di riacquistare alla patria l’Alsazia e la Lorena; talché, per André Buffet, decentralizzare equivale a rifare la Francia. E la decentralizzazione appare possibile soltanto in un regime monarchico – derivando ogni potere repubblicano dalla elezione, con la conseguente necessità, per l’eletto, ministro o deputato, di controllare il proprio elettore in vista delle future competizioni elettorali, attraverso una catena amministrativa alla quale il ministro od il deputato non rinunceranno certamente poiché essa rappresenta una garanzia che tiene legati elettore, funzionario ed eletto – i «repubblicani «non esistono, non durano, non governano che attraverso la centralizzazione». Notevole, altresì, il deciso rifiuto della monarchia parlamentare: «La monarchia è rappresentativa. Non è parlamentare. Un re che regna e governa, è abbastanza chiaro?».
Le idee espresse da André Buffet e dal conte di Lur-Saluces ottengono l’esplicita approvazione dello stesso duca d’Orleans, il quale, da Marienbad, indirizza il 18 agosto 1900, una calda lettera all’autore dell’Enquête:
Mio caro Maurras,
è con il più grande interesse che ho seguito la sua inchiesta sulla Monarchia e letto le dichiarazioni che le hanno rilasciato Buffet e Lur-Saluces.
Tutti i miei amici possono differire su sfumature d’opinione o di previsioni di riforme; è loro diritto, - ma quel che risalterà d’ora in avanti, è la profonda identità della concezione monarchica. Essa è riformatrice.
La decentralizzazione! È l’economia; è la libertà. È il miglior contrappeso e la più solida difesa dell’autorità. Da essa, dunque, dipendono l’avvenire e la salvezza della Francia.
Riformare per conservare, è tutto il mio programma.
Non mi pronuncio sui dettagli. Un principe che pretendesse di regolarli in anticipo sarebbe ben poca cosa. Un principe che non si dichiarasse sui principî non sarebbe nulla.
Io ho già espresso il mio pensiero su qualche questione essenziale per la vitalità del Paese. Ho difeso l’esercito, onore e salvaguardia della Francia. Ho denunciato il cosmopolitismo giudaico e franco-massone, sconfitta e disonore del Paese.
Ve ne sono altre sulle quali i francesi hanno il diritto di chiedermi una determinazione netta e categorica.
Fra queste quella che Le sta più a cuore: la decentralizzazione.
Nessun potere debole saprà decentralizzare. Appoggiato sull’esercito nazionale; rappresentando io stesso un potere centrale energico e forte, in quanto tradizionale, io sono il solo in grado di riportare la vita spontanea nelle città e nelle campagne e di strappare la Francia alla compressione amministrativa che la soffoca.
La decentralizzazione dipende in parte dal potere regale e dal sentimento che l’anima, come dalla direzione che il Re stesso può imprimere; ma è anche un problema di organizzazione politica e geografica.
Ad esso rivolgerò i miei primi pensieri. La questione sarà posta allo studio, con la ferma volontà non solo di risolverla ma di risolverla rapidamente. Io tengo a ciò che so d’essere.
Mi creda, mio caro Maurras,
Suo Filippo
Con la sua lettera il duca d’Orléans non aveva soltanto dato un assenso autorevole all’iniziativa maurrasiana; egli aveva altresì stabilito i caratteri essenziali della monarchia: nelle parole di Filippo d’Orléans, Maurras poté ben ravvisare una concezione riformatrice, una concezione nazionalista, una concezione autoritaria ed una concezione rispettosa di ogni interesse come di ogni diritto. Rimaneva in piedi la domanda relativa all’effettiva utilità per il Paese di un istituto così strutturato: «Si o no, l’istituzione di una monarchia tradizionale, ereditaria, antiparlamentare e decentralizzata è di pubblica utilità?». A questa domanda si sarebbe potuta trovare una risposta attraverso la considerazione della situazione politica in cui si dibatteva il paese; tuttavia Maurras ritenne cosa migliore «restar fedele al metodo delle autorità e delle competenze tecniche». Se ci si indirizza ai matematici per la risoluzione di un problema di matematica, se ci si rivolge ai chimici per sbrogliare le equazioni chimiche, se si interpellano i medici per questioni di salute allora, si disse Maurras, in virtù del principio della divisione del lavoro, per una saggia risposta a questa domanda bisogna rivolgersi agli specialisti della scienza politica ed a quanti si sono soffermati a considerare il problema francese non come funzionari, né come candidati, ma come pensatori indipendenti. Di qui l’invito rivolto, senza discriminazioni di nessun genere, ad ogni spirito libero perché faccia conoscere il proprio parere.
La prima risposta giunge il 19 agosto 1900 ed è firmata da un personaggio autorevole nel mondo delle lettere, l’accademico di Francia, Paul Bourget, un «reazionario che fruga nella scienza, e nella scienza positiva, per trovare gli uncini cui attaccare le proprie idee». Monarchico tradizionalista, Paul Bourget motiva le sue convinzioni politiche con argomenti fondati sulla chiara utilizzazione del metodo positivistico, argomenti che appaiono a Maurras in se stessi le proprie razionali giustificazioni, argomenti che fanno appello all’autorità della scienza e non già a quella della dialettica.
La soluzione monarchica gli appare come la sola conforme ai più recenti insegnamenti della scienza. È infatti proprio la scienza che dimostra la validità di una legge naturale, - quella della continuità riscontrabile in ogni sviluppo della vita – la quale, applicata al corpo sociale conduce al riconoscimento della necessità della monarchia; «applicando tale principio a quello che già Rivarol denominava il corpo sociale, si troverà che esso è esattamente l’inverso di questa legge del numero, o, - per usare un linguaggio elettorale: della sovranità popolare che individua l’origine del potere nella maggioranza attuale». È ancora la scienza che additando nella selezione un’altra delle leggi fondamentali dello sviluppo della vita mostra l’importanza dell’eredità fissa e giustifica l’esigenza della monarchia. È infine ancora la scienza che fornisce una terza dimostrazione della necessità della monarchia; se la razza è uno dei più forti fattori della personalità umana e si identifica con l’energia accumulata dagli antenati, è evidente che tale continuità si realizza meglio attraverso la permanenza dell’autorità regale in una sola famiglia. Continuità, selezione e razza, dunque: queste tre leggi della vita che, trasportate sul piano sociale, conducono razionalmente ad affermare non solo la logica, ma anche la estrema esigenza dell’istituto monarchico, chiariscono, nel contempo, come ogni regime fondato sulle irrealtà, sulle astrazioni, sul vuoto delle formule derivanti dai Diritti dell’uomo, ogni regime, in una parola, democratico, risulti antitetico alla monarchia.
Le dichiarazioni antidemocratiche di Bourget ottengono l’immediato consenso di Maurras, che con il fecondo scrittore condivide anche l’immagine da questi proposta della monarchia. Nella risposta Charles Maurras riprende l’accusa mossa da Bourget all’ideale democratico, quella di essere nulla più «nel suo insieme ed in dettaglio, che una somma di errori tutti assai grossolani» e va oltre affermando che la falsità di tale ideale è nella sua stessa essenza: «Una democrazia è necessariamente amorfa ed atomistica, altrimenti cessa di essere una democrazia. Una democrazia non si organizza, poiché il concetto di organizzazione esclude, a qualsiasi livello, l’idea di uguaglianza: organizzare significa differenziare, e, di conseguenza, creare gradi e gerarchie». Al pari della scienza, prosegue Maurras, la Monarchia è realista, il che non può dirsi della democrazia, la quale null’altro è se non «una parola velenosa, rappresentata da un sistema politico contro-natura». In conclusione il ritorno alla monarchia appare al pensatore provenzale l’unica alternativa al male ed alla morte appunto perché « La démocratie, c’est le mal. La démocratie, c’est la mort».
[caption id="attachment_10179" align="aligncenter" width="1000"] 1927: i leader dell'Action française sfilano durante una manifestazione.[/caption]
Da tutt’altra impostazione muove la lettera di Maurice Barrès. Egli riconosce che in abstracto il sistema monarchico può venire accettato, ma obietta che, in pratica, esso si rivela inadeguato per la mancanza di una famiglia, nella Francia contemporanea, capace di catalizzare intorno a sé almeno la maggioranza degli elettori. Accanto a questa carenza, ve n’è un’altra, quella di una aristocrazia, corpo indispensabile per ogni monarchia tradizionale: «Ma l’aristocrazia! Questi nobili che, la notte del 4 agosto, hanno quasi comicamente annullato il loro potere! Che cosa rimane di loro? Non sanno neppure purgarsi dei meticci che a poco a poco danno loro i più ignobili colori!». A tutto ciò Barrès aggiunge il fatto che, ormai, in Francia l’opinione pubblica accorda al principio repubblicano quella «piena del sentimento» che altre nazioni concedono al principio ereditario e che costituisce il presupposto della possibilità di sussistenza di un governo, quale che sia. Il sistema repubblicano, conclude Barrès, consente di portare l’autorità all’apice dello Stato, di operare il decentramento territoriale e creare l’autonomia dei gruppi intermedi.
La replica di Maurras è precisa, puntuale e… puntualizzante. Egli sottolinea la differenza sostanziale tra la dittatura auspicata da Barrès – cioè quella sorta di governo del più forte che sorge nel pericolo e che diviene ipso facto governo di diritto, essendo esso, nelle mani di una sola persona, l’unico atto a garantire la salute pubblica - e la dittatura degli antichi romani, la quale non era emanazione del suffragio diretto dei cittadini né, tanto meno, creazione di un sistema elettivo, ma piuttosto frutto di una designazione alla quale concorreva un elemento politico ereditario, vale a dire il patriziato. Al rilievo barrèsiano della mancanza, in Francia, di una famiglia che riunisca sul suo nome la grande maggioranza degli elettori, Maurras replica affermando che la questione è mal posta, ed osserva che lo Zar Nicola o l’imperatore Guglielmo non occupano rispettivamente i troni di Russia e di Germania perché intorno al loro nome si raggruppa la maggioranza del paese. È vero, invece, il discorso inverso e cioè che proprio per il fatto che essi sono sul trono, possono trasformarsi in elemento catalizzatore, in polo d’attrazione delle maggioranze. Ed i sporadici casi di monarchie elettive, come quella polacca, confermano l’assunto, dal momento che, eccedendo nella indipendenza dell’individuo, i polacchi hanno perduto l’indipendenza nazionale e della Polonia si può parlare soltanto al passato.
L’argomentazione maurrasiana si innesta sulla convinzione, da lui ancora una volta ribadita, che il potere reale, al pari di ogni potere, sia anteriore alla accettazione ed al consenso della massa elettorale, che sia un fenomeno di forza, la manifestazione di una energia politica più o meno confermata dagli avvenimenti: «Quando parliamo di restaurare in Francia la monarchia ereditaria, è un fatto del genere che vogliamo determinare. Non vi è nella storia l’esempio di una iniziativa felice (intendo positiva e creatrice, non distruttiva o puramente difensiva) che sia stata presa da maggioranze. Il procedimento normale di ogni progresso è fondamentalmente il contrario: la volontà, la decisione, l’iniziativa partono dal piccolo numero; il consenso, l’accettazione dalla maggioranza. Alle minoranze appartengono il valore, l’audacia, la potenza e la concezione. Abitualmente inerte, indifferente e torpida la maggioranza è soggetta, è vero, a delle paure i cui effetti sono talora benefici, ma di benefici invariabilmente sterili se non accompagnati da un qualche impulso dell’élite.». A titolo esemplificativo Maurras si richiama alle elezioni del 1871, le quali, effettuate sotto lo spettro della guerra e della Comune, dettero dei buoni risultati senza, peraltro, che questi potessero sortire alcunché di positivo, per la carenza di idee direttive nell’élite e la mancanza di una volontà restauratrice dell’istituto monarchico. In base a tali considerazioni appare lecita la conclusione per cui non vale la pena di preoccuparsi delle maggioranze, dal momento che esse si formano in maniera autogena. Anche per quel che riguarda l’obiezione barrèsiana sulla carenza di una aristocrazia, Maurras capovolge i termini del problema: non è la restaurazione monarchica che dipende in qualche modo dall’aristocrazia, è invece la sorte di quest’ultima che è indissolubilmente legata alla restaurazione monarchica. È il sovrano che ha dovere di riorganizzare l’aristocrazia operando un’armonica fusione , un consonante accordo di elementi antichi, imbevuti e custodi di vitalità energia ed onore, con nuovi elementi offertigli dall’élite francese e che sono sparsi ed amorfi. È il sovrano, dunque, che opera da elemento catalizzatore ed equilibratore dell’aristocrazia, è il sovrano che le fornisce la spinta per una sorta di rinnovamento ed arricchimento. L’aristocrazia nel pensiero maurrasiano non è un qualcosa di statico e, per ciò stesso di intralciante la vitalità di un qualsivoglia regime, sia esso monarchico o repubblicano: è, invece, la linfa vitale, il puntello al quale può appoggiarsi tale regime, tant’è che, per il pensatore francese, l’esistenza di una vigorosa organizzazione aristocratica nella Francia repubblicana costituirebbe, in ipotesi, l’ostacolo di maggior peso, l’impedimento più arduo alla restaurazione monarchica, e, nel contempo, il sostegno più efficace per la repubblica: «la decadenza dell’aristocrazia è un fatto fin troppo certo: ma se questa decadenza non ci fosse, se avessimo una aristocrazia fiorente, una aristocrazia organizzata, radicata, fortemente legata ai destini della Francia, essa potrebbe fornire grandi opportunità di vita e di prosperità per il regime repubblicano. Tutte le repubbliche prospere, tutte le repubbliche nel loro periodo sono state aristocratiche. Nominerò Venezia, Roma, il periodo organico di Atene». La decadenza delle repubbliche inizia quando esse cominciano a cedere alle tentazioni ed alle forme democratiche, quando sostituiscono ad un regime di produzione normale e coordinata un regime di puro consumo. È allora che gli interessi particolari si sostituiscono a quelli generali e si dà il via ad una sfrenata gara per il saccheggio e la spartizione di tutte le risorse, fisiche e morali, dello Stato. È allora che la pace interna viene funestata dalle discordie dei cittadini proni alla dittatura delle fazioni, ossequienti ai voleri delle parti, insensibili al bene dello Stato. Le repubbliche democratiche sono ineluttabilmente condannate a questa sorte e per loro la prosperità di quelle aristocratiche rimane un sogno irraggiungibile, una chimera vana, una illusione inafferrabile. Traslate nell’epoca attuale, le considerazioni del pensatore francese trovano la loro conferma nella progressivo, constante, fatale processo di identificazione delle odierne repubbliche democratiche con altrettante repubbliche partitocratiche. Ed è, siffatta trasformazione, un fatto fisiologico, talché può ben consentirsi con quanti giungono alla conclusione che «bisogna rassegnarsi ad ammettere che oggi chi dice democrazia dice partitocrazia».
Per Charles Maurras la prosperità delle repubbliche e degli stati aristocratici si fonda su una legge, su una costante, che ha in sé un qualcosa di misterioso ed arcano; la legge dell’ereditarietà. L’effetto di questa legge è in una sorta di «nazionalizzazione» del potere, e ciò indipendentemente dal fatto che esso si trovi concentrato in una famiglia o ripartito tra più famiglie, poiché l’interesse individuale viene a coincidere con l’interesse generale. E tale coincidenza rappresenta una delle più raffinate sottigliezze della Politica naturale. Come conseguenza di siffatte argomentazioni, come logico corollario di un così congegnato ragionamento, Maurras può replicare a Barrès precisando che nel momento stesso in cui si addita la decadenza dell’aristocrazia, si dimostra altresì l’impossibilità di una repubblica prospera, potente o comunque in grado di vivere onestamente.
No è la sola risposta, quella di Maurice Barrès, che sia pervenuta a Charles Maurras da parte di repubblicani, di plebiscitari, di bonapartisti, di non monarchici. Numerose personalità, da Lionel des Rieux a Eugene Ledrain a Charles Le Goffic, fanno sentire la loro voce, ora critica ora consenziente, a testimonianza dell’interesse suscitato dall’Enquête, ma anche dallo scoperto stato di disagio esistente nella terza repubblica, dello scontento serpeggiante negli animi di persone non certo monarchiche, dell’esigenza e del desiderio almeno di una riforma costituzionale. Non è un caso che gran parte degli interlocutori dell’ Enquête facciano cenno all’istanza decentralizzante. Dagli interventi all’Enquête emerge l’immagine di uno Stato reso elefantiaco dalla centralizzazione, asfissiato dalla tendenza ad ingerirsi in ogni aspetto della vita collettiva. È naturale, quindi, che il decentramento sia riguardato come una esigenza vitale tanto dai repubblicani quanto dai monarchici, pur se con notevoli differenze dovute a motivazioni di ordine storico. È merito precipuo di Maurras quello di aver mostrato come una reale politica di decentramento possa trovare la sua legittimazione pratica soltanto in un regime monarchico capace di resistere alle spinte centrifughe. Non esiste contraddizione tra la monarchia autoritaria ed antiparlamentare e la sua istanza decentralizzatrice (nota 4), poiché il decentramento sia esso territoriale o professionale corporativo, incide su un piano prettamente politico. Di conseguenza quei corpi che si auto-generano, si auto-organizzano e si autogovernano sulla base esclusiva della partecipazione dei loro membri ad una certa città o ad una certa provincia o ad un certo mestiere, divengono essi stessi fattori di rafforzamento di un potere centrale liberato dall’onere di occuparsi di questioni che esulano dalla sfera della propria competenza e capacità (Nota 5).
Il 7 febbraio 1901 Maurice Barrès, nel corso di una allocuzione, si esprimeva in termini più lusinghieri nei confronti dell’Enquête: «Vorrei che tutti gli uomini di studio leggessero l’Inchiesta sulla Monarchia, di Maurras. Io non sono monarchico, ma trovo che è impossibile concepire un libro di letteratura dal quale si possa ricavare più soddisfazione per il ragionamento e per l’alta cultura». Con tali parole, in realtà, Barrès non faceva più di una constatazione: all’Inchiesta avevano collaborato tanti eminenti personaggi della Francia della terza repubblica, le cui opinioni – che non è possibile esaminare, ancorché sommariamente, in questa sede, ma che meriterebbero un ben altro e ampio lumeggiamento – apparivano, ed erano, tutte dettate da un’intima e profonda, se pur non ascosa, volontà di incidere sulla realtà nazionale, tutte protese – e non importa che sortissero da repubblicani o da bonapartisti o da legittimisti – alla riconquista ed alla riaffermazione di quel sentimento nazionale che ha costituito il tessuto connettivo, la trama, invisibile spesso ma pur sussistente, della storia francese. Opinioni, dunque, scaturite dalla polemica immediata, ma che non si esaurivano in essa e per la levatura di chi le esprimeva – basterà far cenno, oltre agli interlocutori maurrasiani già ricordati nel corso dello scritto, a Lucien Moreau, allo storico Jacques Bainville, a Léon de Montesquiou, a Henry Vaugeois (Nota 6), a Louis Dimier, all’accademico di Francia Sully-Prudhomme, al caricaturista Forain, a Frédéric Amouretti – e per le considerazioni di problemi politici permanenti. Si può affermare, senza tema d’esagerazione, che lo stesso pensiero maurrasiano sia venuto chiarendosi ed assumendo una dimensione sempre più precisa e compatta man mano che egli si trovava a commentare, a chiosare od anche a discutere gli avvisi, le convinzioni, le idee dei suoi interlocutori. L’Enquête sur la Monarchie – apparsa in volume soltanto nel 1909 (Nota 7) - non è una silloge di opinioni raccolte, su un determinato tema, ma è piuttosto un vasto ordito intessuto da Maurras nel quale si incastonano, in una concordia discours, le diverse e variegate voci degli interlocutori. Il «Discorso preliminare» all’edizione definitiva dell’Enquête è il frutto, giunto a piena maturazione, delle riflessioni del pensatore provenzale. Un pensatore che – pur con i suoi non pochi lati deboli e con la sue non poche idee appena abbozzate – val la pena di riproporre oggi all’attenzione di quanti si interessano alla scienza politica ed alla politica tout court se non altro, almeno per la doverosa documentazione delle idee e dei sentimenti di un uomo che tanto influsso e tante sollecitazioni determinò nel mondo intellettuale e politico del suo tempo.
 
Note:
1: È significativa, in proposito, la risposta di Vaugeois a François de Mahy, già ministro dell’agricoltura e della marina, il quale, in occasione di quella conferenza, gli chiedeva se egli fosse favorevole ai pronunciamientos: Vaugeois rispose con un elogio a Déroulède e con una condanna nei confronti dei tentativi di invasione dell’Eliseo;
2: A proposito delle convinzioni politiche della madre, Maurras tiene a precisare che anni più tardi, quando era prossima alla cinquantina, essa, attraverso la lettura di Mme de Sévigné, «finì per rendersi conto del vecchio equilibrio storico dei servigi e degli onori» e, che, del resto, «mai aveva manifestato la minima fede in una buona repubblica, e Thiers non le era parso meritevole di stima che in qualità di furiere dei principi d’Orleans».
 3: Vi fu, peraltro, chi della mancata pubblicazione ebbe a rammaricarsi: Maurras ricorda che taluno si espresse in termini assai espliciti («C’est dommage, c’etait trés clair!») e commenta con una punta di soddisfazione «Jamais une oraison funébre ne me fit autant plasir».
4: Tale rilievo è posto nell’intervento di Eugene Ledrain: «Potete immaginarvi una monarchia con un capo assoluto, senza l’effettivo controllo di una camera, una monarchia poignarde, servita da amici poignards, e che, al tempo stesso fosse decentralizzata? Non è forse il colmo dell’impossibile? Chi è poignard non divide con alcuno il potere e si mostra fatalmente unitario» (Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, cit. , Lettre de M. Eugène Ledrain, pag. 312).
5: Osserva in proposito, un acuto studioso di storia delle dottrine politiche: «Si può ammirare, in tutto questo, un ringiovanimento della vecchia politica dei corpi intermedi. Ringiovanimento ben diverso, malgrado certe apparenze, dalla trasposizione che Tocqueville aveva consigliato, sull’esempio dell’America. Ringiovanimento che riproduce insomma il sistema preconizzato da Bonald sotto il nome di monarchia temperata (basata su “delle libertà” al plurale, non sulla giacobina Libertà)». (Jean-Jacques Chevallier: Le grandi opere del pensiero politico, Il Mulino, Bologna, 1968, pag. 399).
6: È particolarmente importante, ai fini dell’intelligenza della visione maurrasiana della monarchia, la risposta che l’autore dell’Enquête fornisce appunto a Henri Vaugeois e nella quale sono enucleati i caratteri distintivi dell’istituto monarchico.
7: Pubblicata inizialmente in tre fascicoli presso le parigini Editions de la Gazette de France fra il 1900 e il 1903, l’Enquête sur la Monarchie venne raccolta in un solo volume, arricchito di un’ampia introduzione, nel 1909 presso la Nouvelle Libraire Nationale. L’edizione definitiva (preceduta, peraltro da numerose ristampe) è del 1924 e fu pubblicata, unitamente mal discorso preliminare dalla stessa Nouvelle Libraire Nationale, che era, in definitiva, la casa editrice dell’Action Française.
 
Per approfondimenti:
_Giuseppe Prezzolini: La Francia e i francesi nel secolo XX osservati da un italiano, Treves, Milano, 1913;
_Jacques Bainville: La troisiéme République (1870 1935), Fayard, Paris, 1935;
_David Thomson: Democracy in France. The Third Republic, Oxford University Press, London;
_Emile Faguet: Problèmes politiques du temp présent, Libraire Armand Colin, Paris, 1901;
_G.A. Castellani: Vita e morte della terza repubblica, Corbaccio, Milano, 1941;
_G.A. Castellani: Gli anni più belli, Ceschina, Milano, 1962; _Roberto Michels: Francia contemporanea, Corbaccio, Milano, 1926;
_Eugen Weber: L’Action Française, Stock, Paris, 1964 (la prima edizione è americana ed è stata pubblicata con il medesimo titolo dalla Standford University Press, Standford, 1962), e di Robert Havard De La Montagne: Histoire de l’ Action Française, Paris, 1950;
_Charles Maurras: Confession Politique, da: Au Signe de Flore, contenuto in: Charles Maurras: La dentelle du rempart, Grasset, Paris, 1937;
_Ernst Nolte: I tre volti del fascismo, Sugar, Milano, 1966;
_Charles Maurras: Confession politique;
_Charles Maurras: Le mie idee politiche, Volpe Editore, Roma (ed. orig.: Mes idées politiques, Fayard, Paris, 1937);
_Charles Maurras: Anthinea, d’Athénes á Florence, Imprimerie de Choisy-le-Roi, s.d. (ma 1901).
_Charles Maurras: Sapore di carne, antologia a cura di Jean Chuzeville, Le Edizioni del Borghese, Milano, 1966;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, Nouvelle Libraire, Paris, 1920;
_Maurice Pujo, Comment Rome est trompée, Fayard, Paris, 1929, risposta al volume: Pourquoi Rome a parlé, Aux éditions Spes, Paris, 1927, scritto da Paul Doncoeur, M.V. Bernadot, E. Lajeune, D. Lallement, F.X. Maquart e Jacques Maritain;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, Nouvelle Libraire Nationale, Paris, 1924, edition définitive, suivie de Une Campagne royaliste et Si le coup de force est possible. Il discorso preliminare è stato ripubblicato in: Charles Maurras: Ouvres Capitales, II, essais politiques, Flammarion, Paris, 1954, con il titolo: Vingt-cinq ans de monarchisme;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage. Anche il manifesto Dictateur et Roi è riprodotto nel citato volume delle Ouvres Capitales;
_Léon Daudet: Panorama de la III République, quinzième édition; Gallimard, Paris, 1936;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, cit., chez M. André Buffet;
_Scipio Sighele: Letteratura e sociologia, Treves, Milano, 1914;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Paul Bourget: Réflexions sur l’heritage, in Paul Bourget: Au service de l’ordre, Libraire Plon, Paris, 1929;
_Maurice Bardèche, Che cosa è il fascismo, Volpe, Roma, 1963;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Panfilo Gentile: Democrazie mafiose, Volpe Editore, Roma, 1969;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Maurice Barrès: Scéne set doctrines du nationalisme, Èmile-Paul Èditeur, Paris, 1902.
 
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a cura di Stefano Scalella
17 Marzo 2018 – Viale Bruno Buozzi, 63074 San Benedetto del Tronto (Ap).
Introduce: Ado Brandimarte
Interviene: Claudio Michetti
Interviene: Giuseppe Bacci
 

L'associazione onlus Das Andere presenta al pubblico la mostra "Proiezioni dell'essere - Rassegna di arte contemporanea", quinto evento della stagione culturale "Crisi e matamorfosi" e 38°evento complessivo. La manifestazione si è tenuta dal 17-03-2018 (inaugurazione ore 17:30) al 04-04-2018 presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto in via Bruno Buozzi n.14. L'esposizione comprende ben 16 artisti provenienti da tutta Italia che hanno esposto le opere legate al gusto artistico contemporaneo, per cercare, attraverso l'arte, di sollecitare il pensiero dell'individuo verso i problemi sociali del nostro tempo. L'esposizione vedrà coinvolto il critico-curatore Giuseppe Bacci che è intervenuto all'inaugurazione della mostra insieme ad Ado Brandimarte e Claudio Michetti. Gli organizzatori Giuseppe Baiocchi e Giovanni Amadio, hanno posto fin da subito l'obiettivo sociale: devolvere parte del ricavato agli eventi pro-sisma 2016, presso il Comune di Acquasanta Terme, che insieme alla Regione Marche e Comune di San Benedetto del Tronto hanno appoggiato questa manifestazione socio-culturale.

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“Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [subsidium afferre] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.
 
Tale principio è ordinatore ed ha carattere normativo, non è una sorta di “imperativo categorico”, ma deriva da una precisa concezione antropologica relativa alla dimensione sociale dell’uomo e alle sue ripercussioni politiche ed economiche.
Trattare il principio senza il suo fondamento sarebbe come progettare un tempio senza preoccuparsi delle colonne.
Tale fondamento è di tipo metafisico, in quanto riguarda l’uomo e le sue formazioni sociali cui il principio sarà applicato, e la questione è la coordinazione dei loro rapporti che dovrà rispettare la loro specifica natura e non “piegarla” a qualcosa di estraneo.
Si è usi racchiudere nel nome di “persona” la complessità dell’essere umano. Il problema della sua definizione è stato dibattuto a lungo in filosofia, specie per ciò che concerne la sue conseguenze nel diritto e nelle scienze.
San Tommaso d’Aquino sosteneva che “il termine persona indica quanto di più nobile c’è nell’universo, ovvero un essere sussistente di natura razionale”; a questa definizione di San Tommaso d’Aquino si può avvicinare quella di Boezio: “naturae rationalis individua substantia”. Da ambedue le definizioni emergono le nozioni di: individuo, la caratteristica e qualità di un soggetto; natura, comune a tutti gli individui; sostanza, “il modo fondamentale di essere […] ciò che esiste in sé e per sé”.
Accorpando queste tre definizioni con il termine “persona” si farà riferimento a una sostanza individualizzata di natura razionale. Nei confronti della stessa natura umana la persona è il singolo unico e irripetibile il quale ha come fondamento ultimo il possesso di un atto di essere proprio, intendendo con ciò il principio metafisico per il quale una cosa è realmente e radicalmente, il suo essere come atto di perfezione basilare. Si può asserire che anche altre sostanze individuali “sono”, ma la persona “agendo per se stessa” mostra una sussistenza superiore ed il suo atto di essere è più “proprio”.
Proprio in quanto la nozione di sostanza rimanda a quella di “persona” in quanto essere sussistente, avente l’atto di essere in sé e per sé e che non dipende da altro che non da sé, non potendo essere inglobata né assorbita, essa risulta individuo unico tra tutti. Tale fondamento metafisico della stessa si vedrà è vero fondamento del principio di sussidiarietà.
Caratteristiche dell’essere persona:
_inalienabilità. Il suo essere non si può sottrarre dalla persona stessa né assunto da altri. Secondo una definizione classica la persona è sui iuris et alteri incommunicabilis, ha una sfera di intangibilità in quanto appartiene a se stessa e non è alienabile in chiunque o qualunque cosa. Non può essere annullata né in un nulla né in un Tutto (Natura o Divinità).
_Irripetibilità. La persona è unica, nella sua singolarità, dunque irripetibile. La sua dignità “non deriva da qualcosa di astratto, ma dalla radice metafisica di questo essere sussistente che, in quanto tale, è singolare, concreto, reale, individuale” .
_Completezza. La persona è tale per sé e non in relazione a un tutto, per il fatto di essere un tutto in se stessa in quanto essere sussistente. Essa non è parte di qualcosa: “il concetto di parte è in contrasto con quello di persona”.
_Intenzionalità e relazionalità. Le quali indicano la capacità di instaurare relazioni aprendosi verso gli altri. Se essa non si auto-possedesse non si potrebbe aprire verso gli altri fino a donarsi.
_Autonomia. La persona agisce per se, né seguendo gli altri né agendo d’istinto, ma usando la razionalità che la rende autonoma nel giudizio e nella libertà di scelta.
Altra caratteristica dell’uomo è la socievolezza. Come ci hanno dimostrato filosofi del ‘900 di tradizione ebraica Martin Buber ed Emanuel Levinas, l’uomo si comprende come essere in relazione agli altri. Tra persona e società c’è una sorta di rapporto di dipendenza: si pensi alla dimensione affettiva e a dimensioni materiali. Come asseriva il filosofo francese Jaques Maritain: “la persona come tale è un tutto. Dire che la società è un tutto composto di persone, è quindi dire che la società è un tutto composto di tanti tutti”. Essa è frutto del libero auto-realizzarsi della persona avente sostanza, del suo espandersi verso gli altri, del suo comunicare. La società non ha sostanza, dunque non è al di sopra della persona.
La solita definizione di società è: “unione morale e stabile di più individui che tendono a un medesimo fine”. Come scrive Sofia Vanni Rovighi: “l’uomo non si risolve nel suo essere sociale […] La società civile […] nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire dei fini, legati col bene essenziale della sua natura, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Il fine della società è il bene comune dei suoi membri […] La società civile non è un ente fisico […] ossia non è una sostanza esistente per conto proprio, indipendentemente dagli individui che la compongono: chi esiste e chi opera è sempre e soltanto l’individuo. E questo andrebbe tenuto presente quando si sentono esaltare i poteri della società, della comunità, dello Stato. Quando lo Stato può tutto e ha tutti i diritti nei confronti dei singoli individui [significa che] uno o più individui che reggono lo Stato possono tutto, a scapito di tutti gli altri individui che non possono nulla. Che cosa è allora la società? Niente del tutto? E’ una unità di relazione; è un complesso di relazioni fra gli individui che la compongono […] E perciò la società ha una realtà: realtà di relazione”.
In questa prospettiva è chiaro che la dimensione sociale porta un notevole arricchimento alla persona, chiara è anche la distinzione tra la presenza di sostanza metafisica presente nella persona, ma assente nella società. I due termini distinti assumono diversi ruoli: strumentale quindi la società nei confronti della realtà libera e sostanziale della persona. Ugualmente la prospettiva rimane invariata, viene anzi ulteriormente rafforzata sostituendo alla società lo Stato.
“Per ciò che l’uomo è come cittadino, per ciò che ha e riceve dalla partecipazione alla comunità politica, l’uomo dipende da questa […]. Ma l’uomo non ha il suo essere uomo dallo Stato; l’uomo non si risolve nel cittadino: ha da conseguire una perfezione che va oltre i risultati raggiungibili sulla terra e per nulla al mondo può sacrificare questa sua finalità – che lo fa uomo. Il che è quanto dire che neppure per il bene dello Stato l’uomo può violare la legge morale e andar contro le conclusioni della sua coscienza”.
Per quanto concerne il contesto filosofico (anche teologico) nel quale si è sviluppato il principio di sussidiarietà, il concetto di bene comune va oltre il vago concetto di un qualcosa di dato da un’ autorità od ente superiore alla persona in nome del bene sociale.
Si veda la sintesi espressa nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: “Unico e irripetibile nella sua individualità, ogni uomo è un essere aperto alla relazione con gli altri nella società. Il convivere nella rete di rapporti che lega tra loro individui, famiglie, gruppi intermedi, in relazioni di incontro, di comunicazione e di scambio, assicura al vivere una qualità migliore. Il bene comune che gli uomini ricercano e conseguono formando la comunità sociale è garanzia del bene personale, familiare e associativo”.
Secondo l’ottica espressa nel compendio il bene comune è garanzia del bene sociale e si configura in funzione dello stesso, delle associazioni, delle naturali espansioni della persona (famiglia in primis); ciò rimane il riferimento unico in quanto metafisicamente fondato. Sempre nel compendio si legge che il bene comune non deve essere visto come un fine in se, ma acquisisce autentico valore in quanto è riferimento per il raggiungimento dei fini della persona: “Una società che, a tutti i livelli, vuole rimanere al servizio dell’essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune in quanto bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo […]. La responsabilità di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica […]. L’uomo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di rendere accessibili alle persone i beni necessari […] per condurre una vita veramente umana”.
Da tale testo sul bene comune limpidamente emerge il ruolo strumentale delle istituzioni in vista del pieno raggiungimento del singolo uomo, della famiglia e corpi intermedi, dell’ente dotato di sostanza e delle sue naturali espansioni nei confronti dello Stato.
Un altro testo a conferma dell’importanza profonda del bene comune è il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Per bene comune si deve intendere ‘l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente’. Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l’ufficio dell’autorità”.
Nel documento sono specificati tre elementi sostanziali i quali formano il bene comune: rispetto della persona; autorità; pace.
Nel nome del bene comune, i poteri pubblici sono tenuti a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo ed hanno il dovere di permettere ai cittadini la loro completa realizzazione. Spetta all’autorità rendere accessibile ai cittadini i beni essenziali ad una vita pienamente umana: il lavoro, il vitto, il vestito, la cultura, il diritto a formare una famiglia. Il concetto di pace coincide con quello di sicurezza sociale la quale autorità deve garantire ivi compreso il diritto alla legittima difesa personale.
Come scriveva nel 1953 il filosofo domenicano A.F.Utz il contenuto del principio di sussidiarietà è il diritto del singolo di fronte allo Stato e alle formazioni maggiori. Il singolo viene considerato in quanto esponente del diritto prestatale, dallo stesso si costituiscono società e Stato. Allo stesso modo, anche i corpi intermedi e le configurazioni sociali devono determinarsi in relazione a propri diritti sui quali le entità maggiori non possono intervenire se non nel caso di una vera e reale necessità. Un diritto di ingerenza da parte dello Stato è concesso solo trattandosi di sottrarre al singolo o alla formazione minore un compito che essi non sono in grado di espletare. Il diritto del singolo e delle formazioni minori vale nella misura in cui gli stessi possono esigere l’aiuto delle formazioni maggiori e statali prima che le siano tolti i rispettivi compiti. Da qui il termine sussidiarietà (prestazione d’aiuto) il quale esprime un rapporto giuridico e non amicale. Tale rapporto contiene in sé una formula implicita secondo la quale “quanta più libertà è possibile, tanta più autorità è necessaria”.
Già l’ Enciclica Quadragesimo anno,che verrà esaminata successivamente, dimostra come la questione dell’autorità è intimamente correlata alla sussidiarietà la quale è anche un principio giuridico in base al quale viene formulata e una gerarchia di poteri. Elemento che contraddistingue il principio di sussidiarietà è il concetto di auto-responsabilità del singolo e della formazione cui appartiene, il quale influisce direttamente nel bene comune. L’autorità viene vista quindi come elemento di difesa sociale, diviene essa istituzione coercitiva quando il bene sociale non viene più assicurato dal singolo o dalla formazione minore. Sempre dal concetto che vede la persona metafisicamente superiore a società e Stato deriva tale concezione del principio di sussidiarietà.
La persona metafisicamente superiore a società e Stato. Trattandosi di un concetto di superiorità metafisica, essa non riguarda solo la persona, riguarda anche la comunità in quanto naturale espansione della stessa ed in primis la famiglia sullo Stato e sulla società nei quali viene meno l’elemento della consistenza metafisica ma, solamente come sosteneva la Vanni Rovighi, una realtà di relazione.
Secondo H.E.Hengstenberg, “la comunità è l’unione stabile e duratura di persone in un valore comune, nel quale al contempo i singoli vivono la propria realizzazione […]. Per la società sono quindi caratteristici non tanto i valori comuni convenuti […] quanto piuttosto un fine comune da realizzare. I membri della società si riuniscono con lo scopo di realizzare un fine esterno […]. La società ha un carattere organizzativo. Per la comunità, invece, l’elemento di realizzare insieme un fine esterno, non solo non è necessario, ma addirittura è di impedimento se questa ‘intenzione’ era la ragione che guidava il loro intimo incontro […]. La società è all’opposto della comunità, non metafisica. Possiamo rappresentare l’essenza della società ricorrendo a un semplice esempio. Se più uomini insieme sollevano una cassa, dal momento che questa è troppo pesante per un uomo solo, allora essi sono dipendenti l’uno dall’altro in vista del sollevamento della cassa (il successo). Ma questo successo si aggiunge come un risultato accessorio ai singoli. Non si tratta di una comune intima determinazione del loro essere (come nella procreazione), e per questo non è necessario un legame reale tra gli uomini. Essi possono essere reciprocamente indifferenti a se stessi […]. La comunità, è giustificata solo per il fatto che essa è ciò che è […]. La comunità ha un senso (interno), mentre la società ha uno scopo (esterno) […]. Lo stesso ordinamento gerarchico non necessita di essere dimostrato. Esso trova il proprio fondamento nella superiorità metafisica della comunità di fronte alla società. Nella comunità viene a compiersi la natura e la personalità dell’uomo. La società ha un senso immediato solo in quanto rende possibile, facilita, protegge ed assicura il compimento e la vita della comunità. Il fatto che il matrimonio occupi il primo posto è dato dal suo carattere di pura comunità” .
Si è quindi parlato inizialmente di un circolo il quale si viene a creare tra istituzioni, comunità e Stato. Risulta ora evidente che esso ruota, volendo trovare le sue fondamenta, attorno a concetti quali persona e mondi vitali (comunità), le quali si configurano come colonne portanti dell’arco a volta del principio di sussidiarietà.
Per approfondimenti:
_Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno (1931), parte V n. 35, AAS 23 (1931);
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae, vol. 1;
_S. Boezio, Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae, cap. III, PL 64, 1343;
_S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_G.Vittadini, Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_J. Maritain. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_S.Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 3, La Scuola, Brescia (1995);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_P.Del Debbio, Fondamenti filosofici del principio di sussidiarietà, in Che cosa è la sussidiarietà, G. Vittadini;
_H.E.Hengstemberg, Philosophische Begrundung des Subsidiaritatsprinzip, in A.F.Utz (a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip.
 
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