[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1537831515874{padding-bottom: 15px !important;}"]La Banda Grossi: il nuovo cinema dei fratelli Ripalti[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 25/09/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1537892332422{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nella storia della cinematografia italiana, poche sono state le storie che hanno trattato il cosidetto “brigantaggio” italiano. L’Italia come è noto, ha da sempre difficoltà a fare i conti con la storia e il fenomeno del banditismo non fa certamente eccezioni. Banditi o patrioti? Questa è la domanda che studenti, curiosi e studiosi si devono porre oggi sul tale fenomeno.
Cinestudio, società marchigiana di comunicazione e marketing, ha prodotto il lungometraggio “La Banda Grossi” (film storico, durata 113 min) ad opera del giovane regista di Fermignano Claudio Ripalti. La pellicola, narra le vicende realmente accadute dei briganti della Banda Grossi appena pochi anni dopo quell’Unità d’Italia (1861) che tanti cataclismi culturali e politici aveva prodotto in tutta la penisola italica.
[caption id="attachment_10646" align="aligncenter" width="1000"] Nel fotogramma, i tre attori principali della Banda Grossi (da sinistra a destra): Leonardo Ventura (Olinto Venturi), Camillo Ciorciaro (Terenzio Grossi), Rosario Di Giovanna (Sante Frontini).[/caption]
Attuando una piccola digressione, certamente la storia italiana deve alla famiglia reale dei Savoia, la scintilla ideologica, di aver voluto (sia per necessità economiche private, sia per l’occasione storica presentatosi) un’unità italiana non più solamente culturale, ma politica. La famosa frase di Ferdinando IV di Borbone delle Due Sicilie (1751 -1825), «io sto bene tra l’acqua salata e l’acqua santa», è appunto emblematica: monito del disinteresse degli Stati pre-unitari ad imbarcarsi verso un’unione forzata, di popoli culturalmente molto diversi.
Nonostante la storiografia moderna e contemporanea, si sia sforzata di mutare il senso della storia del brigantaggio, questo si presentava come una forma di ribellione, verso il nuovo Stato Piemontese, il quale oltre ad introdurre la leva obbligatoria - che sottraeva braccia forti al lavoro nei campi, per combattere guerre di cui non si conosceva nulla, nemmeno la collocazione geografica -, aveva necessariamente aumentato diverse tassazioni.
Ancora più delicata è la situazione nelle Marche, ex territorio dello Stato Pontificio, che ancora dolori riuscirà a dare ai Savoia con la brillante vittoria di Mentana, da parte del generale Kenzler, nel 1867.
Certo il contadino Terenzio Grossi (interpretato da Camillo Ciorciaro), primogenito di una famiglia di mezzadri, ha del coraggio quando evaso di prigione, sfida apertamente il nuovo Stato, soprattutto dopo le recenti vittorie di Castelfidardo ed Ancona (1860), da parte dello Stato Piemontese appena insediatosi.
La cura del dettaglio storico nel film è massimale: costumi (Daniela Cancellieri), personaggi, musiche (Enrico Ripalti), ambientazioni sono pressoché perfette. In una recente intervista lo stesso regista Claudio Ripalti ha dichiarato: «Si trattava di trasporre le vicende realmente accadute tra Terenzio Grossi e i suoi compagni, in una sceneggiatura per il cinema. Devo dire che la vicenda storica aveva già tutti i connotati e le caratteristiche per poter fare una trasposizione davvero potente. […] Mi fa anche passare un brivido, pensare che questa vicenda e questi personaggi hanno popolato e hanno vissuto proprio qui, nella nostra provincia».
Difatti l’opera cinematografica è ambientata attraverso paesaggi intensi e poetici: quelli della Regione Marche. Girato interamente tra Petriano, Urbania, Cagli e Apecchio - proprio in quei territori in cui imperversò la banda Grossi -, l’ambientazione donerà sempre quel guizzo epico, ma dai toni romantici e cavallereschi, attorno a cui ruotano almeno 30 attori principali, oltre 200 comparse, 60 giorni di riprese, 20 persone sul campo impiegate durante le riprese tra staff Cinestudio e maestranze.
Difatti “la Banda Grossi” è soprattutto una storia di “questioni umane”: il brigante-uomo a confronto con i politico-uomo. I nomi dei vari personaggi sono tutti esistiti nella storia risorgimentale, concedendo al film un fascino tutto unico. Non mancano anche personaggi ben combinati, come il prefetto di Pesaro Maria Enrico Catalano (interpretato da Roberto Marinelli), individuo che mira verso una rapida carriera politica nel nuovo Stato, di carattere anti-clericale, si dimostra un personaggio opportunista e cinico. Difatti da Terenzio Grossi, ai membri della banda, passando per le autorità sabaude, non esiste nel film “il buono per eccellenza”, se si scarta la figura del brigadiere dei Reali Carabinieri Francesco Cardinale (interpretato dall’ottimo Simone Baldassarri).
[caption id="attachment_10644" align="aligncenter" width="1000"] Nel fotogramma il brigadiere dei Reali Carabinieri Francesco Cardinale (Simone Baldassarri).[/caption]
Tale sistema, scandito da quella che Isaiah Berlin (1909 – 1997) definì come “libertà negativa”, in cui ogni personaggio si muove sotto un copione fortemente egoistico, rende il film mai banale e mai politicamente corretto: in poche parole è autentico.
Se il protagonista, Terenzio Grossi, sembra suggerire nella sceneggiatura e nella trama il ruolo di eroe ribelle “che combatte il sopruso”, in realtà la chiave eroica è nel corpo dei Reali Carabinieri del brigadiere Cardinale: egli è il vero eroe del film, il paladino della giustizia, il quale come nel capolavoro di Sciascia de “I giorni della civetta” sarà il Bellodi della situazione, combattendo sia un nemico esterno, sia uno interno. Sempre sul personaggio del reale carabiniere, tutta una sfumatura storica, che porta i connotati di un’origine francese, che lo lega ancor di più a Casa Savoia.
Per quanto riguarda Grossi, non siamo di-fronte ad un Robin Hood, ma ad un uomo che si pone come un ipotetico ribelle jüngeriano. Certamente il suo “passaggio al bosco” è più concreto e violento di quello descritto dal filosofo di Heidelberg, ma la prassi è la stessa: «Passare al bosco allora, cioè la prima condizione per essere ribelli, significa abbandonare questo mare del conformismo e della manipolazione organizzata. […] Tra il grigio delle pecore, si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cosa è la libertà e non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che un brutto giorno essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco: è questo l’incubo dei potenti». Il suo vagabondare con la propria banda si avvicina molto ad una forma nichilistica interpretata dal personaggio, il quale afferma di non essere «al servizio del Papa» (all’epoca Pio IX, di Senigallia), e di non fare certamente un banditismo buono per aiutare i poveri: il suo è una guerriglia verso uno Stato che non riconosce, peggiore del precedente – che non amava, dove l’altra alternativa sarebbe stata la miseria o l’arruolamento forzato nelle file del neo costituito regio-esercito. Non c’è nel protagonista un’ideologia politica ben marcata, non un ideale ma, al limite, una curiosità verso il suo operato, per cogliere una possibile occasione storica, se lo Stato italiano dovesse “sbandarsi”. Eppure nel suo essere ramingo, Terenzio è un uomo d’onore, un uomo propriamente ottocentesco, rispettato da civili e compagni, amato dalle donne. Un personaggio che, però, per operare il suo piano, si deve contornare di individui poco raccomandabili, i quali rivelano un altro aspetto del brigantaggio, ovvero l’inserimento nelle proprie fila di veri soggetti da forca. Il bandito Sante Frontini (interpretato da Rosario Di Giovanna) è uno di questi: ha alle spalle un’infinità di delitti e malignità, ma verrà ripagato con la sua stessa moneta, proprio sul finale del film.
Come tutti i grandi film, il finale non è positivo per nessuno, se non per la verità storica, di una sceneggiatura che è stata frutto di una raccolta fondi online, che grazie al crowdfunding (finanziamento collettivo in rete) è riuscito a coprire 1/3 del budget necessario alla produzione con ben 72.000 euro in 29 giorni, su una cifra complessiva di 200.000 euro.
Così come afferma lo stesso Enrico Ripalti, produttore del film: «La Banda Grossi è diventato il primo film italiano di maggior successo della storia crowdfunding: abbiamo avuto donazioni dall’America, dal Canada, dall’Inghilterra e quindi è segno di una storia, che partendo dal locale, può raggiungere chiunque con un interesse verso i paesi e i paesaggi della nostra terra».
Le riprese de “La Banda Grossi” iniziate l’otto marzo del 2017 hanno visto l’uscita pubblica il 20 settembre del 2018. Di rilievo anche il contributo del MIBAC (Ministero dei Beni Artistici Storici e Culturali), che ha riconosciuto “La Banda Grossi” come Film di Interesse Storico e Culturale.
[caption id="attachment_10648" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto i due fratelli Ripalti (da sinistra a destra): Enrico si è occupato della produzione e della musica; Claudio della sceneggiatura, fotografia e della regia.[/caption]
Ancora dall’intervista del regista Claudio Ripalti, riportiamo: «Ho avuto ed ho la fortuna di poter lavorare con dei ragazzi strepitosi, che ognuno con le sue competenze professionali è riuscito a mettere a frutto la propria passione, il proprio talento all’interno del film, con una squadra limitata di giovani professionisti. Siamo riusciti a fare un qualcosa che solitamente richiederebbe molto molto di più tempo. Abbiamo la possibilità di aprire uno squarcio, uno spiraglio interessante all’interno del panorama cinematografico italiano. Investitori lungimiranti che credono in quello che sto dicendo, potrebbero ritenere molto interessante investire in opere di questo tipo. Noi, sotto questo punto di vista, siamo molto indipendenti: siamo in una posizione ristretta con pochi elementi, pochi fronzoli e di conseguenza pochi costi. Questo ci dà la possibilità di ottenere un prodotto di qualità a costi ridottissimi e questo è un punto di forza non da poco. Il bello in questa vicenda cinematografica, la vicenda produttiva del film, è la chance di poter lavorare con ragazzi come me, che nutrono la medesima passione e hanno la medesima volontà e interesse di vedere questa opera realizzata su grande schermo. É una chance che non dobbiamo perdere se vogliamo raccontare al mondo una vicenda che ci riguarda e una tradizione che viene fuori da tutto quello che si vede all’interno del film. Una chance che ci obbliga ad andare contro-corrente per quello che è il panorama cinematografico italiano e per le difficoltà che una produzione indipendente, come la nostra, possiede nei confronti del produrre un film. L’andare contro-corrente è una necessità che storicamente a noi uomini ci ha dato la possibilità di fare le cose migliori che abbiamo mai prodotto nella nostra storia, quindi è una necessità, ma anche un dovere di andare controcorrente. Molto probabilmente è lo stesso sentimento che doveva avere un Terenzio Grossi 160 anni fa».
Nell’Italia cinematografica dei cine-panettoni, delle commedie frivole e della centralità da sempre imperante del “mito americano”, un film che ha avuto il coraggio di parlare di noi, della nostra storia, senza fronzoli; un cinema dei paesaggi quotidiani – da dietro casa –, che da una parte ci mostra le antiche cascine contadine, dove molti di noi hanno passato l’infanzia e dall’altra parte ci rivela l’immensa professionalità e la qualità tecnologica di come si deve produrre una cinematografia contemporanea con costi assolutamente contenuti.
 
Per approfondimenti:
_Isaiah Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Torino, 2005;
_Ernst Jünger, Il Trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990;
_Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano, 2002;
_Giuseppe Baiocchi, Il beato Pio IX: storia dell’ultimo Papa regnante, dasandere.it, ISSN: 2532-8379;
_Giuseppe Baiocchi, Hermann von Kanzler, l’ultimo generale di Cristo, dasandere.it, ISSN: 2532-8379;
_Claudio Ripalti, La Banda Grossi, Trailer.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1537549175025{padding-bottom: 15px !important;}"]Walther Darré e il gentiluomo contadino: la nobiltà di sangue e suolo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Liliane Jessica Tami del 22/09/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1537618983758{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nella storia del 900, tra gli svariati personaggi che il secolo breve ha conosciuto, Richard Walther Darré (1895 - 1953), già Ministro dell’agricoltura tedesca dal 1933 al 1938 è stato politico e scrittore nato il 14 luglio a Buenos Aires, in Argentina, da una famiglia di coloni tedeschi. Alla tenera età di 10 anni sbarca in Germania poiché la famiglia desidera non far smarrire al figlio le sue radici europee. Partecipò alla Prima guerra mondiale e guadagnò la Croce di Ferro poi, dopo aver concluso gli studi presso la Deutsche Colonial Schule, si iscrisse alla facoltà di agraria e zootecnica dell’università di Halle.
Studiando l’eugenetica (dal greco eu=buono ; genos=generazione) animale, in particolare dei cavalli da corsa, prese convinzione verso l'importanza del mantenimento delle linee di sangue pure, sia in campo zoomorfo, sia in quello umano, affinché si preservino le migliori qualità biologiche e caratteriali attraverso le generazioni. Da qui nasce il suo auspicio: che le famiglie nobili e possidenti terrieri non perdano il loro sangue e la proprietà, tramandandoli. Non si tratta di una forma di "razzismo", come potrebbe apparire, ma dalla forma dell'aver della razza: ovvero la preservazione delle proprie peculiarità fisiche e culturali, non dettate da una presunta superiorità, ma dalla volontà e libertà di non attuare il meticciato. 
Il saggio breve dal titolo La Nuova Nobiltà di Sangue e Suolo, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1978 dalla casa editrice AR e poi ristampato nel 2010 dalla Ritter Edizioni, è suddiviso in sei capitoli, la cui nominazione spiega bene i temi esposti. La fase iniziale tratta l'esposizione preliminare della questione (l’autore enuncia i motivi secondo cui vi è la necessità di una nuova aristocrazia); successivamente analizza la storia dell’evoluzione della nobiltà tedesca (confronto fra nobiltà germanica pagana, nobiltà cristiana e nobiltà Romana); osserva i caratteri fondamentali del Ritter von tedesco (libero gentiluomo possessore terriero avente sangue nobile, in grado di partecipare all’amministrazione politica della propria comunità mediante le pubbliche assemblee, i Thing); Il Hegehof (la proprietà terriera di famiglia); L’Hegehof e il matrimonio, con la necessità di trovare una donna di nobili natali, indifferente al richiamo delle vanità borghesi, in grado di portare avanti la tenuta di famiglia; infine alcune direttive generali sull’educazione della giovane Nobiltà e sul suo rango in seno al popolo tedesco.
Nel primo capitolo Darré espone un’analisi etica e politica riguardante la nobiltà. In sintesi egli sostiene che essa debba essere restaurata, come fu in origine, affinché l’Europa venga redenta dalla decadenza morale che l’affligge. Secondo l'argentino, alla base di ogni comunità vi debbono essere le famiglie da secoli legate a quella terra, di contro si andrà inevitabilmente verso la frammentazione in migliaia di singoli individui sradicati dalla propria stirpe e dal proprio luogo d’origine.
Walter Darrè aveva osservato con i propri occhi la decadenza avvertita da parte della società alemanno-tedesca all'interno della Repubblica di Weimar, e qui enuncia una serie di esempi di civiltà che si sono corrotte per via della perdita dell’antica aristocrazia che ne fondò le basi. Ad esempio, all’indomani delle guerre tra plebei urbani e patrizi d’origine agraria, la nobilitas Romana venne perlopiù composta dalle famiglie patrizie indissolubilmente legate alla terra da lavorare. E Roma, che inizialmente era repubblicana, fu gloriosa proprio perché la nobiltà era incarnata dalle famiglie patrizie. A parer suo una civiltà che pone l’individuo, anziché la famiglia, al centro del proprio codice civile è destinata a fallire. Egli infatti asserisce come: «l’avvento della democrazia in uno Stato aristocratico provoca all’inizio una disgregazione generale [...] essa nega i legami ereditari e famigliari […]. Infatti, dopo un’iniziale prosperità, l’assenza di qualità ereditarie ne spegne il bagliore, portandola alla decadenza».
[caption id="attachment_10635" align="aligncenter" width="1000"] Nelle quattro immagini (da sinistra a destra): il politico argentino, naturalizzato tedesco Richard Walther Darré; la versione del saggio italiana; due versioni originali del saggio in tedesco Neuadel aus Blut und Boden.[/caption]
La vera nozione di nobiltà germanica, secondo Darré, si caratterizza mediante una selezione di dirigenti consapevolmente educati sulla base di ceppi ereditari selezionati. Purtroppo, la vera nobiltà, di sangue e di impeccabile educazione non esiste più già dai tempi del Barone vom und zum Stein - Testamento politico di Heinrich Friedrich Karl vom und zum Stein (1757 - 1831), lettera del 24 novembre 1808 a Theodor von Schön (1773 - 1856) -, che ne invocava la soppressione. La nobiltà, secondo l’agronomo, è ormai solo interessata a frequentare i ricevimenti dei commercianti e dei nuovi ricchi, e non ha nulla a che fare con la nobiltà di razza e d’animo, legata alla propria stirpe, che caratterizzava gli antichi germani. Non a caso il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 - 1900), ne La volontà di potenza asserisce che: «Non vi è nobiltà che per nascita e per sangue. Non parliamo però né del Gotha né della particella von intercalata per gli asini. Questa particella von, se noi parliamo di aristocrazia dello spirito, è sospetta e assai sovente nasconde qualcosa: basta solo vedere come gli ebrei ambiziosi la ricerchino. Lo Spirito da solo non nobilita, gli manca ancora ciò che nobilita lo spirito: l’ascendenza nobile»!
Il secondo capitolo è di tipo storico, e l’autore espone una cronologia della storia della nobiltà e le principali differenze che vi sono tra l’antica nobiltà pagana germanica, la nobiltà cristiana, in cui vige il valore dell’eguaglianza, e la nobiltà della Roma imperiale, multietnica e in cui vigevano ostentazione, lussuria e corruzione.
L’antica nobiltà germanica, come in gran parte anche quella degli Indoariani, si basava sulla credenza dell’ineguaglianza umana. Secondo le antiche credenze pagane, queste ineguaglianze risalivano ad antenati divini, e si credeva che il sangue portasse in sé i germi essenziali del carattere dell’uomo, così come le qualità fisiche ed intellettuali. Per questo i pagani pensavano anche che ci si reincarnasse sempre all’interno del medesimo ceppo famigliare. La purezza del sangue, infatti, come ricorda von Amina nel saggio Principi di diritto germanico, veniva mantenuta con severe leggi di selezione che seguivano una logica impressionante. Inoltre, presso gli antichi germani, non vi era differenza tra un nobile e l’uomo libero. Per gli antichi tedeschi non esistevano, infatti, segni esteriori della nobiltà come le insegne di rango tali il trono, lo scettro, il manto regale. Furono le grandi migrazioni provenienti da Bisanzio, nel 900, a portare l’idea che la nobiltà andasse ostentata con segni di riconoscimento superficiali, anziché puramente etici e genetici. I germani, liberi e nobili, senza distinzione di rango, si davano del “Tu”.
L’uso romano di rivolgersi a Sua Maestà il Re e alla terza persona apparve soltanto in seguito, per dar luogo a sua volta ad un’etichetta che nel medioevo divenne via via sempre più complessa, raggiungendo poi vette eccessive durante l’assolutismo.
La nobiltà determinata dal sangue degli antichi germani venne spazzata via dal cristianesimo, secondo cui vige l’uguaglianza tra tutti i figli di Jahwhé e tutti, a prescindere dalla razza d’appartenenza, possono in ugual modo meritarsi il regno dei cieli. Ciò comportò, più tardi, presso i Franchi, che anche i funzionari servi potessero comprare il titolo di nobile. Darrè, inoltre, riporta anche un fatto assai particolare e paradossale: dopo la rivoluzione francese del 1789, ossia il trionfo della borghesia cosmopolita, vennero impiccate e trucidate molte persone solo perché aventi gli occhi azzurri ed i capelli chiari e si temeva potessero ricostituire un governo nobile ed oligarchico non rispettoso dell’idea d’uguaglianza della finta democrazia apportata.
La nobiltà cristiana in Germania è nata nel 496, quando Re Clodoveo e i suoi nobili si convertirono alla fede cristiana, e da questo momento vennero introdotti nella società princìpi di governo non germanici bensì romani. Presto, quindi, le idee cristiane e romane trasformarono il Re eletto dai suoi pari, come accadeva nelle antiche terre germaniche, in un individuo avente la pretesa di esercitare la fonte giurisprudenziale derivatagli dall'elezione divina in terra, direttamente dal Dio Cristiano: «per diritto divino, appunto». Ciò permise che i funzionari ricevessero un’investitura reale benché non fossero originari di un dato territorio. Così un gruppo di funzionari stranieri si sostituì alla Nobiltà tedesca barbara-autoctona, e di conseguenza il governo dei pari nobili, “democraticamente” eletti nelle assemblee (thing) germaniche, venne sostituito dall'istituzione monarchia.
I Sassoni furono i più importanti depositari della nobiltà pagana, e mal sopportavano chiunque volesse imporre loro un governo solo perché recante un titolo nobiliare acquisito. Carlo Magno dovette massacrare i sassoni pagani in modo tale che si decidessero a riconoscere l’autorità politica di dirigenti allogeni, quindi non nobili. Carlo Magno, a detta di Darrè, estirpò lo spirito di uguaglianza (solo) tra nobili tipico dell’antica Germania e vi introdusse l’idea di classe Romana.
[caption id="attachment_10636" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine di sinistra: Johann Siebmacher disegna il Nuovo stemma dell'Imperatore e Re del Sacro Romano Impero nel 1605; a destra particolare del dipinto di Louis-Félix Amiel - Carlo Magno Imperatore d'Occidente del 1837.[/caption]
Se si attua una riflessione, certamente il paese che dopo il medioevo ha meglio mantenuto il concetto germanico di Nobiltà in grado di auto-amministrarsi è stata la Confederazione del popolo degli Helvi, ossia gli Svizzeri. A partire dalla celebre Giornata di Verden, nel 782, la Nobiltà cristiana in Germania si sostituì alla nobiltà germanica. Gli antichi germani cessarono così di esseri pari ai loro governanti eletti, e vennero soggiogati dal potere di un Signore che li costringeva a pagare imposte e a sottostare a leggi straniere che non avevano scelto nelle assemblee dei nobili capi-famiglia, i Thing.
Ciò implicò che gli elementi migliori cercarono di svincolarsi da queste morse troppo strette, e nacque così la figura del vassallo, uomo che gestendo un feudo datogli dal Re cercava di ritagliarsi un po’ di quella libertà perduta. Ciò fece sì che l’antico tedesco, uomo di nobili origini, possessore terriero, lavoratore e capace di usare le armi, scomparve. Alcuni divennero solo uomini d’arme, altri invece si occuparono solo della terra, divenendo contadini oppressi dal signore. La nobiltà intesa come casta e non più come appartenenza ad un antico lignaggio indissolubilmente legato ad un territorio, nacque nel X secolo.
Nel terzo capitolo Walter Darrè spiega i caratteri del contadinato tedesco e di come esso debba essere ripristinato, in chiave nobile, al fine di garantire una vita di qualità all’intero Paese. Inoltre il libero contadinato nobile è garante di rispetto dei legami famigliari e del territorio, quindi ciò implica continuità delle tradizioni, degli usi, dei costumi e del sangue. Le famiglie patrizie di contadini gentiluomini sussistenti grazie ai frutti del proprio lavoro e senza debiti con nessuno, rappresentano per Darré l’emblema dell’uomo Libero e Nobile. Infatti una società per essere forte deve porre al suo centro le famiglie, coi relativi terreni inalienabili, anziché gli individui. Per gli antichi romani, infatti, il pater familias era vincolato ai suoi antenati, ai suoi eredi e perciò anche alla proprietà di famiglia. Egli, quindi, non poteva permettersi, come invece oggi accade, di liberarsi della proprietà solo perché è intestata a lui in quanto era di proprietà dell’intera stirpe. Dopo la Repubblica a Roma sorse l’Impero, ed anche il codice civile mutò. Qui la proprietà privata sopraffò la proprietà di famiglia, e pian piano s’instillò nell’Impero il germe dell’individualismo, della distanza dalla terra e quindi della decadenza.
Questo discorso inerente la continuità tra famiglia nobile e proprietà terriera ci spinge subito al quarto e quinto capitolo, in cui l’autore analizza il concetto di Hegehof, ossia la casa di proprietà di famiglia con terreno coltivabile. Egli apre il capitolo scrivendo: «La Nobiltà che abita in una terra inalienabile è la sola a sviluppare quella libertà di spirito che, on ogni circostanza della vita, osa agire e consigliare seguendo soltanto la propria coscienza». Secondo Darré, infatti, la città è il luogo in cui viene maggiormente denobilitato l’uomo. Egli, infatti, vivendo in un luogo sovraffollato, dovendo dipendere dal commercio per potersi permettere ogni tipo di bene, compreso quello alimentare, perde la propria libertà in quanto costretto a sottostare al denaro e non più dal lavoro. Il Gentiluomo di buon sangue, quindi, per potersi garantire la libertà (se un titolo non offre libertà a che serve?) deve essere innanzitutto possessore di una terra che lascerà in eredità alla propria stirpe. L’Hegehof deve essere abbastanza grande per mantenere la famiglia che lo vive: ciò quindi dipende dal tipo di terreno e dalla sua lavorabilità.
[caption id="attachment_10638" align="aligncenter" width="1000"] Richard Gilson Reeve, Mameluke, cavallo campione nel 1827 dell’ Epsom Derby. Stallone purosangue inglese. Le migliori famiglie equine vengono perpetrate tramite incroci selezionate. Allo stesso modo anche le famiglie nobili, in tale pensiero, debbono essere protette affinché i geni migliori, determinanti per il carattere e l’aspetto fisico, non vengano persi nel tempo.[/caption]
Anche il matrimonio deve essere contratto in modo rispettoso degli eredi che ne nasceranno: Darré distingue le donne in quattro categorie, e quelle di ultima categoria, ossia le prostitute, le straniere e le viziose di ogni tipo, devono essere imperativamente non prese in moglie da un uomo che voglia costituirsi la propria comunità famigliare libera ed autarchica. Inoltre la città, oltre che privare l’uomo nobile della propria libertà originaria, rende la donna più incline alla dissolutezza. La femmina borghese e denobilitata, non dovendosi occupare della tenuta e della prole, può permettersi il lusso di sprecare il suo tempo e le sue energie in inutili civetterie. La gentildonna nobile, di pregiata stirpe, è anche quella che non teme di mettersi al servizio dell’uomo e della sua terra per il bene dei suoi figli e rifugge ogni forma di frivolezza e pigrizia, disdegnando l’ inutile vanità.
L’ultimo capitolo è un appello dell’autore affinché la giovane nobiltà venga educata bene e possa raggiungere al meglio una posizione rilevante politicamente. Egli auspica che, ben presto, una nuova nobiltà di sangue e di animo possa prendere in mano le redini della società per guidarla fuori dal baratro di dissolutezza in cui si è gettata. L’educazione, nel formare l’individuo, è importante quanto la sua natura genetica: la società ha quindi un ruolo basilare nel dare ai giovani di buona stirpe gli strumenti per rendere onore ai loro avi liberi e nobili.
Riuscendo a rimettere al centro del codice civile non più l’individuo, bensì la famiglia, e in particolare quelle autoctone, ben presto i reciproci doveri dei genitori e dei figli verrebbero ristabiliti. La buona educazione, l’amore per la propria cultura, la capacità di vivere del frutto del proprio terreno e la memoria dei propri avi dovrebbero essere elementi costituenti di ogni famiglia. L’autore, infatti, si chiede se sia possibile un’educazione civica in questo ambito, ossia che lo Stato si impegni a rendere i suoi abitanti non solo contribuenti bensì nobili inter pares.
 
Per approfondimenti:
_Richard Walther Darré, Neuadel aus Blut und Boden, J.F. Lehmann, München,1930.
 
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Sabato 15 settembre 2018, è stato presentato il 42°evento associativo sul territorio, il decimo evento annuale legato al programma "Crisi e metamorfosi", scelto dal consiglio direttivo per il 2018. Tema della conferenza, la figura del presidente della Repubblica Luigi Einaudi, di stampo liberale e attore politico fondamentale del primissimo dopoguerra italiano. Ospiti della conferenza sono stati il dott.Gianmarco Pondrano Altavilla, già presidente del Centro Studi Gaetano Salvemini, e il dott.Andrea Merlo, studioso ed esperto di geopolitica internazionale.
La conferenza, guidata dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi, ha visto la presenza istituzionale del vice-sindaco Donatella Ferretti, e di un nutrito pubblico preparato e attento. I due relatori, oltre ad introdurre la figura storica di Einaudi, si sono soffermati sulle scelte tempistiche di entrata nel patto atlantico dell'italia, operando uno sguardo anche sul comportamento geopolitico degli Stati Uniti, guidati da Trump.
Come Einaudi aiutò a capire che la scelta atlantica non doveva essere considerata sul piano delle ricadute interne e diplomatiche nei rapporti di forza con altri Paesi europei, ma nella sua connotazione di scelta di civiltà nell’ambito di un conflitto esclusivamente ideologico che non permetteva indecisioni, atteggiamenti sfumati e terze vie, così egli aiutò ugualmente a comprendere che la via europeista doveva essere valutata non sul piano strumentale ma piuttosto su quello dei contenuti politici più profondi: la sua lezione, prima intellettuale che politica, presentò il federalismo europeo, oltre che come un utile argine all’espansione del sovietismo nel contesto della guerra fredda, anche e anzitutto quale via maestra per conseguire il progresso economico interno, e come l’unica strategia coerente con la storia europea per giungere ad una evoluzione della situazione continentale che garantisse un futuro di pace e prosperità.
Difficile sarebbe non leggere nell’azione di Einaudi i presupposti e gli elementi scatenanti dell’evoluzione dell’europeismo degasperiano, e ancor più difficile giustificare l’esclusione di Einaudi dal novero dei padri dell’Europa unita. In definitiva, più che la conferma di quella superficiale opinione che vorrebbe un Einaudi disinteressato e lontano dai problemi della politica internazionale ed estera italiana, la speranza è quella di aver dato elementi a sufficienza per poter sostenere con sicurezza che il contributo di Einaudi alla ricostruzione del Paese ebbe un rilievo particolare non solo dal punto di vista economico interno, ma anche sul piano della politica estera propriamente intesa e del riposizionamento internazionale del Paese. 
Quanto basta, si spera, per concludere che egli fu, come uomo d’azione, altrettanto grande che come uomo di pensiero; e che - cosa che oggigiorno fa drammaticamente difetto al Paese e ai vertici dell’Europa unita- tanto fu grande e il suo contributo determinante quanto pensiero e azione furono, in lui, legate da un rapporto osmotico e di reciproco sostegno: un pensiero costantemente orientato all’azione, ed un’azione cui mai è mancato il supporto determinante di un pensiero forte e coerente, sono quanto di più, oggi, noi tutti dovremmo forse avere più nostalgia. L'importanza di libertà di espressione e di pensiero, devono rimanere i cardini di una società civile, così come ci è stata tramandata dai padri costituenti, in primis Luigi Einaudi. L'associazione ringrazia il Comune di Ascoli Piceno per aver finanziato l'evento con la figura del nuovo assessore alla cultura Piersandra Dragoni, sia la Regione Marche per il patrocinato non oneroso. Infine un grazie particolare alla Fondazione Carisap e alla Libreria Rinascita, per la messa a disposizione della sala.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1536493633895{padding-bottom: 15px !important;}"]De Martino-Heidegger: il carattere magico e il ruolo dell'esserci[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex 09/09/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1536493391847{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nel mondo magico esplorato da Ernesto De Martino (1908 - 1965) la crisi esistenziale, alla quale l’uomo viene continuamente esposto, rappresenta una forma di negativo che viene fronteggiata attraverso l’utilizzo del rituale magico.
Un elemento caratterizzante della crisi che invade l’uomo e lo rende inerme di fronte al negativo è rappresentato da ciò che l’antropologo napoletano, attraverso le analisi lucidissime a riguardo condotte da Pierre Janet (1859 - 1947), chiama «sentimento del vuoto».
Quest’ultimo identifica la totale perdita di rapporto positivo tra coscienza e volontà al fine di decidere per sé ciò che, su una scala di valori consolidata e collaudata, è giusto o sbagliato commettere. Nel momento in cui l’uomo si ritrova all’interno di una condizione critica, in cui non è più lui ad essere padrone di se stesso, ma diventa un’entità esterna, allora quel sentimento porta a allo sprofondamento l’uomo in quel vuoto in cui si riveste una condizione, totalmente negativa, che l’autore identifica con «l’essere-agito-da», cioè essere mosso da un’entità esterna che ti ripone in una posizione subalterna ad essa e che causa una crisi psicologica quasi irreversibile.
Su questa traccia, da cui emerge quest’orizzonte di crisi, la magia svolge un ruolo determinante, poiché ritrae quell’àncora di salvataggio in cui la finitezza dell’umanità può ancora avere speranza e giungere a un miglioramento di una determinata condizione vissuta. La spersonalizzazione e il sentimento del vuoto verso cui l’uomo si imbatte a causa di determinati e specifici traumi - come ci dimostra l’avvenimento luttuoso -, mettono in scena una serie di resistenze di cui, all’interno dell’universo magico, l’uomo si arma per fronteggiare l’orizzonte della crisi totalizzante.
Su questo livello si intrecciano l’esistenzialismo e l’analitica dell’esserci, che Martin Heidegger (1889 - 1976) ha sviluppato nel suo capolavoro Essere e tempo (1927), con ciò che è stata l’etnologia di De Martino. Il rapporto che intercorre tra i due, inizia a scorgersi a partire dall’ultima risposta di De Martino all’interno dell’antropologia, con termini mutuati dal linguaggio del filosofo tedesco. Concetti come «crisi della presenza» ricorrono all’interno delle analisi dell’orizzonte metastorico del magico Sud Italia. De Martino, nella decostruzione di questo mondo e nell’osservazione di ciò che quell’orizzonte di crisi genera, evidenzia come la vita, subalterna alla cultura egemonica che lo tratta come diversità da trascendere, sia continuamente esposta a quello che viene definito come «rischio radicale».
Per Heidegger l’esserci dell’uomo rappresenta lo «stare al mondo», o per dirla con il suo linguaggio, identifica un «essere-nel-mondo» (nota1), parlando così di esistenza, in quanto l’uomo viene gettato nel mondo con la capacità identificativa per la sua ontologia di progettare la sua vita nella realtà vissuta.
Nel momento in cui De Martino parla di presenza dell’uomo e di collaterale crisi di tale entità, si riferisce al rischio che quell’esistenza, che nel tedesco non subisce minaccia, corre continuamente. Per l’antropologo partenopeo la vita dell’individuo è continuamente esposta al rischio di una frattura della stabilità apparente: per cui il mondo magico, con le annesse categorie di interpretazione della realtà, esprime il modo più adatto per fronteggiare quella crisi che l’individuo potrebbe vivere e da cui potrebbe scaturire il crollo.
Dunque, nell’atto pratico, l’importanza del rituale (magico) risiede in questa intenzionalità, da parte del gruppo di appartenenza o della comunità, di far recuperare all’individuo la sua coscienza e la sua volontà, le quali, nell’ottica di un esistenzialismo applicato al mondo magico e a tutto ciò che comporta, devono ritrovarsi in un rapporto dialettico positivo senza complicazioni.
L’ethos , o per meglio dire il temperamento della magia, risiede in questo compito difficoltoso di protezione dell’individuo, che gettato nel mondo deve proteggere il suo Dasein (nota2) dalle minacce di «annientamento», in quanto nel suo «essere-agito-da» passa da una condizione in cui è il soggetto portante di quella presenza nel mondo a una condizione di soggetto di una non-presenza, parlando così di quell’annientamento dell’uomo stesso che non può più esprimere la sua volontà liberamente. Si viene a creare un dualismo del senso dell’Esserci, poiché diventa un punto focale d’incontro tra i due autori, ma allo stesso tempo in esso si manifestano due visioni dell’esistenza differenti. Mentre in Heidegger l’esserci è un qualcosa di garantito e certo, in cui la visione della realtà è una visione positiva; nel mondo magico di De Martino, questa condizione umana viene capovolta perché immersa profondamente nel nucleo del proprio dramma esistenziale di crisi dell’esserci e dunque di crisi della presenza. L’uomo magico è continuamente esposto al rischio della perdita del sé, l’annientamento, che rappresenta uno dei capisaldi prodotti dall’orizzonte di crisi, viene istituito dalle varie forme e tipologie di minaccia che possono spaziare dalla paura per il raccolto - che un contadino ha di fronte all’incombere di una tempesta -, fino ad arrivare a fronteggiare, per mezzo di rituali magici, entità definite esterne al sé: «L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza».
In queste parole si sintetizza in maniera essenziale e chiara quanto sia incerto e indifeso il mondo magico, fatto di un velo di «superstizione» che funge da struttura portante per la credenza che alberga nella mente degli individui che fanno parte di quel mondo. Nella sua precarietà il mondo magico induce verso l’incertezza dell’essere, il quale durante lo svolgimento di un’attività come le «peregrinazioni solitarie» deve affrontare la realtà investendola di una serie di pericoli percepiti sotto forma di minaccia da attribuire a qualche entità soprannaturale. Sembra che nel mondo magico si evidenzi il totale divario tra uomo e natura: non vi è assolutamente un’identità tra le due cose, poiché l’uomo scorge nella natura una fonte di negatività e di rischio.
Su questo scenario si innesta quella differenza con l’analitica dell’esserci condotta da Heidegger, poiché in De Martino la realtà diventa «realtà condenda», ovvero, esposta continuamente alla negatività, all’annullamento, al male e al crollo psichico. Un realtà, quella dei contadini, in cui tutto è fonte di minaccia che può espandersi fino al diventare anche morte: «la natura in quanto minaccia è minaccia di morte, di disordine, di vuoto, di irrazionalità; il contadino in quanto agente di storia deve dare un ordine anche a questa minaccia, perché sia possibile la vita. Ed è vita riguadagnata attraverso l’assunzione della morte in cui si può dare ordine solo nella misura in cui viene inserita quale momento previsto di una dialettica di vita».
In queste parole che non sono di De Martino, ma di Lombardi Satriani (1936), riecheggia ancora Heidegger, poiché nel suo esistenzialismo prodotto da un rapporto ermeneutico con l’essere e l’esistenza, ritroviamo le situazioni limite di Karl Theodor Jaspers (1883 - 1969), le quali possono essere identificate nel mondo contadino attraverso la comprensione della dimensione metastorica che vive e attraverso la presa di coscienza della sua subalternità causata da una cultura egemonica che lo etichetta come primitivo, in quanto a cultura e religione.
L’orizzonte di crisi di fronte al quale il contadino viene esposto è totalizzante, poiché la minaccia che la natura-realtà genera può anche diventare morte. L’autoctono del mondo magico, vive una realtà labile sotto tutti i punti di vista: questa (realtà condenda) diventa un reale problema da fronteggiare con una tipologia di approccio in cui viene normalizzato il negativo del divenire e in cui si vive armandosi di tutte quelle possibilità di affrontarlo attraverso l’utilizzo dell’atto magico, qualsiasi sia l’entità di tale attività.
 
_Nota1: L’autore spiega come l’uomo è un essere-nel-mondo, in quanto ricopre la sua funzionalità esistenziale di “prendersi cura” (Besorgen) delle cose di cui necessita, dunque, cambiarle, plasmarle, manipolare, costruirle, dunque tale cura delle cose di cui ha bisogna diventa materiale puro per una progettualità del suo essere e della sua vita.
_Nota2: Il termine è stato utilizzato già in precedenza da Hegel, Jaspers, Feuerbach, ma Heidegger l’ha sviluppato in maniera più approfondita in Essere e tempo, rapportandolo al significato dell’esserci e dunque ponendolo all’interno di un’analitica dell’esistenza.
 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958;
_E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni per una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1948;
_M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971;
_L. M. Lombardi-Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore Palermo, 1989.
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1535825796467{padding-bottom: 15px !important;}"]Hermann von Kanzler, l’ultimo generale di Cristo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 02/09/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1557589334759{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Quando si riflette sul senso legittimo delle unioni degli Stati pre-unitari, confluiti forzatamente sotto il futuro Regno d'Italia, si deve necessariamente analizzare l'importanza dello Stato Pontificio. Difatti quelle battaglie – combattute da uomini vigorosi, valorosi e cattolicissimi –, sono avvenute per difendere una causa non solo territoriale (non solo legittimistica, dato dal regime di legittimità che attraversava i secoli, esistendo da più di mille anni), ma soprattutto etica, in quanto lo Stato della Chiesa – essendo un ente politico di difesa alla libertà del Papa –, doveva consentire al Pontefice di insegnare alle genti i dettami del Vangelo e le indicazione del Magistero Ecclesiastico, senza influenze estere.
[caption id="attachment_10555" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto del 1860 Hermann von Kanzler. Tra le Onorificenze pontificie ricordiamo: Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Piano, Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno, Medaglia commemorativa della restaurazione dell'autorità pontificia, Medaglia di Castelfidardo, Croce di Mentana, Medaglia dell'assedio di Roma. Per Onorificenze straniere ricordiamo: Cavaliere di Gran Croce del Reale Ordine di San Ferdinando e del Merito (Regno delle Due Sicilie), Cavaliere di Gran Croce del Reale Ordine di Francesco I (Regno delle Due Sicilie), Grand'Ufficiale dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia).[/caption]
Dopo la caduta dello Stato Pontificio (1870), la Santa Romana Chiesa è stata sempre più in balia del potere laico cavouriano del motto «libera Chiesa in libero Stato» e dei poteri civili fonte di quelli occulti, i quali portando un aumento considerevole di quella che molti storici affermano essere l’eresia «modernista» del secolo XX. Il modernismo si scatena anche per via dell’assenza di strumenti temporali dati al Papa per difendersi, poiché governa «un francobollo di terra», quello che in fondo era – prima dei patti Lateranensi (1929) – lo Stato della Chiesa. Pio IX (1792 - 1878) governa, dopo il 1870, una scrivania sopra la quale segretari male accorti, conniventi, possono coartare l’azione del Papa nella sua podestà magisteriale. La storia ci ha narrato efficacemente che tutto questo è avvenuto; addirittura l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini (1927 - 2012) cantò le lodi della caduta dello Stato Pontificio, parlando di «liberazione da un fardello»: un gesto da evitare, almeno per i tanti morti papalini, che hanno difeso la Roma millenaria dei Papi da certa invasione cattolica e straniera.
Prima dell’avvento del Risorgimento, di stampo massonico-liberale, il Pontefice non aveva mai avuto bisogno di un esercito ben organizzato, come quello del 1855-1870: difatti a nessuna potenza cristiano-cattolica sarebbe venuto in mente di invadere le terre pontificie. Per Pio IX tutto diventerà chiaro nel 1860, quando le legazioni romagnole a marzo e quelle marchigiane e umbre in novembre furono sottratte al potere dello Stato Pontificio. Difatti il piccolo esercito papalino, si componeva di circa ventimila uomini che all’epoca erano quasi tutti di lingua italica, tranne due reggimenti di Guardia Svizzera a lingua tedesca, ma con il diminuire del patrimonio territoriale di S.Pietro, scese anche il numero dei suoi soldati e nell’ultimo anno di pontificato non arrivava a 13.000 unità. Dal 1850 fu ri-organizzato nella sua formazione tattica e nella foggia uniformologica, seguendo il modello francese di Napoleone III, considerato il miglior esercito sul continente: era ben equipaggiato, ben istruito ed agguerrito.
Massimo generale, della Breccia di Porta Pia, fu il barone Hermann von Kanzler (1822 - 1888) proveniente dal Granducato di Baden (1806 - 1918). Egli è stato uno dei massimi condottieri dell’Esercito pontificio, nonché l’ultimo: dopo di Kanzler, non è stato elevato nessun militare al grado di generale (oggi il massimo grado delle Guardie Svizzere è colonnello). Per il badese la correttezza e l’onore di essere cattolici sono sempre stati posti al primo posto nella sua vita: l’essere fedele a Dio e alla sua Chiesa. Gentiluomo, abile generale, fervente cattolico: egli è stato un personaggio coltissimo e una delle più nobili figure della Roma Papale.
[caption id="attachment_11357" align="aligncenter" width="1000"] Due rare foto del generale badese entrambe scattate nella cittadina di Anzio (da sinistra a destra): Guardie nobili dello Stato Pontificio con il generale Kanzler; a villa Albani siede in posa insieme allo Stato Maggiore Pontificio: De Charrette, Albert, Caimi.[/caption]
Figlio di Markus Kanzler e Magdalena Krehmer, nasce a Weingarten il 28 marzo del 1822 e trascorre la giovinezza a Bruchsal e nella vicina Mannheim, completerà i suoi studi. Successivamente decide di intraprendere la carriera militare, presso l’accademia di Karlsruhe, uscendone come Sottotenente del IV Reggimento fanteria. Promosso Tenente il 25 maggio del 1841, nel gennaio del 1844 si dimette dall’esercito granducale per essersi rifiutato, come cattolico, di battersi a duello con un collega sfidante. A seguito delle dimissioni deciderà di soggiornare per alcuni mesi in Inghilterra, dove – da uomo colto quale era –, apprende la lingua che parlerà insieme all’italiano, al francese e allo spagnolo. Tale caratteristica deve porci la riflessione di come Kanzler, sapendo ben cinque lingue, si prestasse già naturalmente ad entrare nell’esercito Pontificio, da sempre di carattere e caratura internazionale.
Così il primo settembre del 1845, ripresa la carriera militare, si pone al servizio del Papa-Re, venendo promosso Sottotenente il 12 marzo del 1847: è lo stesso anno in cui si unisce in matrimonio con una delle donne di spicco dell’aristocrazia bolognese, Letizia Piepoli. La loro storia d’amore non era destinata ad essere fortunata: la Piepoli morirà appena un anno dopo, nel parto per mettere alla luce suo figlio, che seguirà sfortunatamente anche la madre. Il trauma per la doppia perdita è per Kanzler molto dura e per superare l’evento si getterà a fondo nelle vita militare, dove tra il 1848 e il 1854, parteciperà a diverse battaglie per la difesa dello Stato Pontificio, le quali lo faranno avanzare di grado e insignirlo dei cavalierati di San Gregorio Magno e di San Silvestro, diventando Colonnello il primo maggio del 1859. Sempre a Roma conoscerà la sua seconda moglie, la contessa Laura Vannutelli, con la quale si unisce il 2 maggio 1860, vigilia della partenza del condottiero pontificio per le Marche, dove fino alla sede di Ancona lo seguì la consorte: donna di spiccata intelligenza che sarà sempre degna compagna, permettendogli anche negli anni successivi di estendere e mantenere le relazioni sociali adeguate allo status che avrebbe rivestito. Dalla loro unione nascerà Rodolfo von Kanzler (1864 - 1924), uno degli archeologi a capo della Santa Sede; fino al 1896 sarà membro della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e fu considerato il più abile conoscitore della topografia della Roma antica, avente un ruolo primario negli scavi sotto la Basilica di San Pietro e nelle catacombe.
Il 27 settembre di quello stesso anno Kanzler viene promosso Generale, mentre contrasta i moti insurrezionali contro i reparti italiani nelle Marche. Il 19 ottobre viene nominato comandante dei depositi di ogni arma esistente nella capitale. Il tedesco aveva in mano tutto l’armamento bellico dello Stato Pontificio. Cogliendo anche l’occasione della morte del generale Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière o de la Moricière (1806 - 1865), Kanzler il 15 ottobre del 1865 viene promosso Tenente Generale, subentrando al belga Federico Francesco Saverio de Mérode (1820 - 1874), come Pro-Ministro delle armi. Tale scelta provenne direttamente da Pio IX, che aveva avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo. In effetti egli, il cui ultimo impegno è stato quello di Ispettore della Fanteria, è l’uomo più adatto in quel determinato momento. Lavoratore instancabile e eccellente organizzatore, costituiva un punto di equilibrio tra le milizie indigene e estere di Santa Romana Chiesa, gestendo le due brigate comandate dal marchese Giovanni Battista Zappi (1816 - 1885) e quella del conte Raphael de Courten (1809 - 1904).
Il 15 dicembre il Papa approva il suo piano organico dell’esercito, che nei mesi successivi viene posto in applicazione, così da fornire milizie per garantire l’ordine pubblico e per proteggere le frontiere contro le truppe regolari sabaude, almeno fino all’arrivo dei rinforzi francesi di Napoleone III. Viene iniziata anche una decisa campagna contro il brigantaggio, favorito inizialmente per motivi politici, ma successivamente combattuto per via delle notevoli problematiche venutasi a creare per Pio IX.
Nel autunno del 1867 si arriva verso una nuova offensiva garibaldina, che non prende impreparato il suo esercito: sfruttando le nuove linee ferroviarie esistenti il generale rintuzza le puntate offensive dei volontari, attento parallelamente a non lasciare indifesa Roma. Fu il primo caso in cui la ferrovia veniva utilizzata come arma tattica per la guerra. Tale strategia diede il tempo alla Francia Imperiale di intervenire a difesa del Sommo Pontefice. Proprio l’aver lasciato truppe di Zuavi a Roma, si rivelerà fondamentale per la capitolazione del colpo di mano garibaldino, parallelo a Mentana, dei fratelli Enrico e Giovanni Cairoli. I due rivoluzionari con settanta compagni e due barche cariche di armi avevano disceso il Tevere, ma giunti presso il Ponte Milvio constatarono che nessuno era ad attenderli in armi: semplicemente il popolo romano non era insorto, poiché grazie alle riforme tecnologiche e infrastrutturali di Pio IX, quest’ultimo era apprezzato dalla popolazione di Roma. Si fermarono presso Villa Glori, dove furono assaliti il 23 ottobre del 1867 dagli Zuavi pontifici e furono sopraffatti dopo un lungo combattimento, anche all’arma bianca. 
Alla testa del suo esercito il 3 novembre a Mentana, insieme al generale francese Balthazar Alban Gabriel de Polhes (1813 - 1904), marcia verso le postazioni garibaldine a Monterotondo. L’esercito pontificio era costituito da truppe veterane molto motivate (erano volontari) e di prolungato inquadramento, numericamente di 3.000 uomini di cui 2.500 del corpo di spedizione francese. Quest’ultimo veniva composto da truppe regolari e truppe mercenarie: lo stipendio dei soldati prevedeva non solo una retribuzione economica (50 centesimi al giorno), ma anche il vitto e l’alloggio. I fucili papalini erano all’avanguardia poiché erano muniti del modello Chassepot 166, a retrocarica munito di otturatore e caricato a cartuccia di cartone. Il fucile permetteva di caricare ben 12 colpi al minuto: quasi il doppio di quelli italiani. La cavalleria, costituita da circa 150 dragoni e 50 cacciatori a cavallo, possedeva un’artiglieria di circa 10 pezzi. Kanzler proseguendo con i suoi uomini lungo l’antica via Nomentana – che darà nome poi alla città di Mentana -, in direzione Monterotondo, giungono in prossimità della tappa intermedia di Mentana nel primo pomeriggio.
[caption id="attachment_10567" align="aligncenter" width="1000"] Il generale badese Hermann Kanzler, passa in rivista le truppe di spedizione franco-pontificie dopo la battaglia di Mentana del 6 novembre 1867.[/caption]
Di fronte alle sue truppe il villaggio si presenta sul lato di una collina a forma di promontorio, cinto da un muraglione con il fronte un antico castello medievale volto proprio verso la Nomentana. Alcune miglia a sud, tre compagnie di Zuavi pontifici vengono inviati lungo il Tevere, verso Monterotondo ed il fianco destro del fronte garibaldino. La colonna principale invece con i dragoni in avanguardia e i francesi in retroguardia prosegue verso l’obiettivo lungo la Nomentana. Kanzler punta quasi ad accerchiare l’esercito che in quel momento stava avanzando, prendendo un primo e inaspettata contatto con gli avamposti di Garibaldi, già a sud di Mentana mentre è in corso un trasferimento di volontari in direzione Tivoli. Li sospingono in una località denominata Vigna Santucci, a circa 1,5 chilometri a sud-est del villaggio. Qui la posizione è difesa da tre battaglioni di camice rosse, schieratesi a sinistra sul Monte Guarnieri e da destra nella fattoria della Vigna Santucci. Alle 14:00 del pomeriggio gli assalitori conquistano le posizioni e posizionano l’artiglieria sul Monte Guarnieri in vista del villaggio e del vicino altopiano. Garibaldi schiera l’artiglieria sull’altura nord: il Monte San Lorenzo e la gran parte delle truppe all’interno e intorno al villaggio murato dal castello in posizioni fortificate. Contro tali difese si infrangono i ripetuti assalti franco-pontifici con relativi contrattacchi, continuati fino all’inizio della notte. A questo punto viene programmato un incontro con un contrattacco di aggiornamento su entrambi i fianchi dello schieramento papalino, ma senza successo da parte dei garibaldini. Nel frattempo le tre compagnie di Zuavi che hanno marciato lungo il Tevere occupano la strada fra Mentana e Monterotondo, inducendo Garibaldi a recarsi personalmente sul luogo, lasciando l’esercito a difendere Mentana. Sarà a questo punto che la strategia di Kanzler colpisce nel segno: il corpo francese attacca le camicie rosse, sfondando le linee, inducendo i difensori alla rotta verso Monterotondo o verso il castello, dove si arrenderanno la mattina seguente. Garibaldi stesso ripiega nel Regno d’Italia con 5.000 uomini, inseguito fino al confine dai dragoni pontifici. Al termine della giornata i franco-pontifici hanno registrato 32 morti e 140 feriti, mentre i garibaldini 150 morti, 220 feriti e 1.700 prigionieri. Kanzler torna a Roma trionfante e viene accolto dal beato Pio IX come un eroe, rivolgendosi a lui con la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso: «Canto l’arme pietose e ‘l capitano/che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo./Molti egli oprò co ‘l senno e con la mano,/molto soffrì nel glorioso acquisto;/e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano/ s’armò d’Asia e di Libia il popol misto./Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi/segni ridusse i suoi compagni erranti».
La battaglia di Mentana, quindi, sancisce l’allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento insurrezionale garibaldino, assicura allo Stato Pontificio tre ulteriori anni di vita dei quali il Sovrano Pontefice profitterà per tenere il Concilio Vaticano I, nel giugno del 1868, fino al luglio del 1870, quando verrà sospeso a causa della presa di Roma da parte sabauda.
Pio IX riuscì anche ad approvare il Pastor Aeternus, una costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I sulla Chiesa di Cristo, approvata il 18 luglio 1870, che definì due dogmi della Chiesa cattolica: il primato papale e la sua infallibilità.
Le speranze di pace si concludono, dopo qualche mese, poiché il 20 settembre del 1870 il Regio esercito aprirà una breccia nelle mura Aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando così la fine del glorioso Stato Pontificio. Seppur l’attuale storiografia ha scritto di una facile vittoria del generale sabaudo Raffaele Cadorna (1815 - 1897), i combattimenti furono cruenti. La mattina di martedì 20 settembre l’artiglieria sabauda inizia il cannoneggiamento: il Ferrero sparava in direzione dei Tre Archi e un quarto d’ora dopo l’Angioletti apriva il fuoco contro Porta San Giovanni. Seguirono subito dopo il Mazè de la Roche e il Cosenz con i loro tiri contro Porta Pia e Porta Salaria. Verso le 8:00 Roma, alla sinistra del Tevere, fu circondata da un cerchio di fuoco e di fumo e Cadorna, da Villa Albani, telegrafa a Firenze asserendo: «breccia tra Porta Pia e Salaria già bene inoltrata». Nel frattempo la Porta San Giovanni brucia, sebbene il sabaudo Angioletti sia tenuto lontano dai tiri della batteria pontificia di Daudier. Ai Tre Archi il muro, che sostiene il piccolo terrapieno su cui son posati i cannoni di difesa, si sta riducendo in frantumi: per gli artiglieri papalini il maneggio dei pezzi diviene impossibile e già durante tutta la notte, da questo lato, erano avvenute delle scaramucce, con morti e feriti da ambo le parti. A Porta Pia, fin dalle 6:45, dal “gabinetto del Ministro” Ungarelli si comunica che il maresciallo Sterbini ha segnalato al comando di piazza che «a Porta Pia è stato smontato un pezzo (ce n’erano due soli), e che detta posizione è in pericolo». Proseguendo con la cronaca, alle 8:13 da Santa Maria Maggiore il generale Zappi telegrafa: «Porta Pia perduta, nostra sezione artiglieria ritirata, cioè un pezzo smontato, l’altro mandato a Monte Cavallo, perché difenda la strada di Porta Pia, ove nemico ha impiantata artiglieria». Già alle 7:35 Girolamo Bixio (1821 - 1973), con un bombardamento nel quartiere della Lungara aveva innescato delle fiamme su tre diversi gruppi di case.
Eppure il generale Kanzler, sembra non prestar fede alle parole del Pontefice Pio IX, il quale aveva lasciato disposizione, tramite una lettera, di difendersi unicamente «a una protesta atta a constatare la violenza e nulla più», prescrivendo «di aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone».
[caption id="attachment_10565" align="aligncenter" width="1000"] La breccia, qualche decina di metri sulla destra di porta Pia, in una foto d'epoca.[/caption]
La resistenza prosegue, poiché l’esito non sembrerebbe scontato: se i cannoni dei pontifici valevano poco, i loro fucili svedesi, i Remington Rolling Block, si palesavano di molto superiori ai Carcano di cui facevano uso i sabaudi; infine la conformazione dell’urbe e le difese riequilibravano parzialmente il dislivello numerico delle due compagini belliche. Dai ricordi dello scrittore Edmondo De Amicis, soldato del regio-esercito: «il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. [...] Gli Zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno».
Alle 9:30, dopo quattro ore di combattimento, il cuore di Pio IX sanguinava per il prolungato micidiale combattimento: conoscendo la fedeltà di Kanzler, non poteva sospettare che il generale, per decoro militare, intendesse resistere oltre. Il Papa comandò così, senza attendere l’avviso del generale badese, che fosse issata sulla cupola di San Pietro la bandiera bianca. Occorse del tempo prima che si riuscisse a comunicare l’ordine sovrano al colonnello Achille Azzanesi (1823 - 1888), il quale a sua volta lo trasmise al tenente Carletti. Quando alle 10:00 il dispaccio Azzanesi giunse, sulla cupola, da qualche minuto la bandiera bianca sventolava sull’asta della croce dominante la basilica e alla breccia il fuoco cessò alle 10:10, quando un ufficiale, spedito dal de Tourssures, ebbe innalzata la bandiera bianca.
Da una parte all'altra si era combattuto con grandissimo vigore e non pochi morti giacevano sul terreno, ma le truppe che avevano superato la breccia - oltre ai prigionieri Zuavi di villa Bonaparte, nelle cui adiacenze si era aperto il varco -, contro tutte le regole belliche, secondo le quali alzato il vessillo bianco ciascuno è obbligato ad arrestarsi dove si trova, tirarono diritto in città spingendosi a piazza del Quirinale, a piazza di Spagna, al Pincio e a piazza del Popolo.
Nel pomeriggio Cadorna si incontra con Kanzler, alle 14:00 presso Villa Albani, per stipulare la capitolazione; intanto le truppe pontificie dovrebbero ritirarsi nella città Leonina, che resterebbe al Papa. Sottoscritta la capitolazione, Pio IX che aveva amicizia e stima del generale badese, doveva risolvere la problematica del suo uomo migliore che non aveva rispettato i suoi ordini e che poteva dar adito alla propaganda sabauda, riguardo alla “liberazione” del Pontefice.
Infatti da ben 10 anni il governo papale aveva smentito sempre con vigore, che gli stranieri militanti nello Stato Pontificio non rappresentavano un ostacolo verso una conciliazione con il neonato Regno d’Italia. Bisognava dunque giustificare l’ordine di resistere ad oltranza che il Papa Pio IX avrebbe dato anche contro ogni speranza di buon esito, e nello stesso tempo rimanere sempre il Princeps pacis per eccellenza.
Dopo attenta riflessione e sotto consiglio dei suoi uomini più fidati, il Papa scrisse una seconda lettera in tutto simile alla prima, meno che in due frasi le quali furono così modificate: dove era scritto «ai primi colpi di cannone» si sostituì «appena aperta la breccia» e allo stralcio «a qualunque spargimento di sangue» fu eliminato il “qualunque”, mettendovi «a un grande spargimento di sangue».
La lettera, così emendata, fu pubblicata ne La Civiltà Cattolica del 7 gennaio 1871. Così per un senso cavalleresco e di amicizia verso il suo generale migliore, il Pontefice preferì lasciar ricadere su se stesso la responsabilità di una ventina di morti (i sabaudi ebbero 48 morti e 141 feriti; i pontifici 20 morti e 55 feriti) e di tutti i danni causati alla città da 5 ore di fuoco.
Con il tramonto del sole, il 20 settembre segnò l’estremo fato del principato civile della Chiesa. La mattina del 21, non appena al chiarire del giorno furono aperte le bronzee porte della Basilica Vaticana, vi si affollarono i militari pontifici, che pregarono sulla tomba di San Pietro, Principe degli Apostoli. Di lì a qualche ora l’esercito pontificio sarebbe stato un mero ricordo storico: ufficiali e soldati, disarmati, sarebbero stati tratti prigionieri a Civitavecchia, dove rimpatriati, molti di questi non avrebbero più rivisto Roma.
Anche Hermann Kanzler fa parte di questo destino, ma egli per sua decisione si stabilirà, con la famiglia, presso il Vaticano dedicandosi negli anni seguenti all’assistenza degli ufficiali e dei soldati pontifici che non hanno aderito a prestare servizio nell’esercito italiano. Si dedica con successo a studi di carattere militare ed astronomico e continua ad essere nominalmente Pro-Ministro fino al 1888, rimanendo ad esercitare le sue funzioni di comandante in Capo delle truppe e delle armi papali – anche se solo simbolicamente.
[caption id="attachment_10569" align="aligncenter" width="1000"] Quattro dei principali attori militari dello Stato Pontificio negli anni 1850/1870: il belga Federico Francesco Saverio de Mérode (1820 - 1874), il badese Hermann Kanzler (1822 - 1888), il francese Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière o de la Moricière (1806 - 1865) e il francese Georges de la Vallée de Rarecourt marchese de Pimodan (1822 - 1860).[/caption]
Dopo l’avvento al soglio pontificio di Leone XIII (1810 - 1903), che lo nominerà barone (da cui si può aggiungere l’appellativo di von), torna ad abitare a Roma, alternando la permanenza in città con lunghi soggiorni nella villa che ha acquistato a Borgo Buggiano in Toscana.
L’ultimo generale di Cristo verrà meno nella notte tra il 5-6 gennaio 1888. Tutta la sua famiglia è sepolta al Verano, accanto alle tombe di alcuni Zuavi pontifici, ma oggi la sua lapide versa in uno stato di totale abbandono, non avendo la sua linea di successione lasciato alcun erede. Francamente appare triste che la Chiesa non ricordi e soprattutto non abbia cura di coloro che l’hanno sempre servita fedelmente. Di lui ci rimangono le carte Kanzler-Vannutelli, in origine composte da 90 unità attivistiche per gli anni 1824-1906: esse costituiscono i documenti appartenuti all’ultimo comandante dell’esercito pontificio e pro-ministro delle armi di Pio IX, nonché la corrispondenza ideale del cognato, il frate domenicano Vincenzo. Le carte sono divise in due serie: le carte denominate Kanzler-Vannutelli A costituite da 75 pezzi archivistici, tra registri, volumi, rubriche e pacchi di carte sciolte, probabilmente relativi al versamento del 1931. Essa contiene numerosa documentazione relativa agli ordini del giorno: rapporti, corrispondenze, memorie, telegrammi e gli avvenimenti che videro coinvolti l’esercito pontificio tra il 1867 e 1870, nonché la documentazione precedente a partire dal 1831 di argomenti militari e successivi al 1870. La seconda serie invece, carte Kanzler-Vannutelli B, è conservata in 15 buste, ed è probabilmente la parte acquisita dopo il 1937. Essa costituisce il vero archivio privato della famiglia Kanzler-Vannutelli, contenendo la corrispondenza privata del generale, di sua moglie Laura Vannutelli, ma anche dei loro antenati, coprendo un periodo che va dal 1824 al 1906. Un’ultima parte della documentazione è relativa agli scritti personali del domenicano Vincenzo Vannutelli dove si rileva una corrispondenza molto interessante con gli attori maggiori del panorama orientale-cristiano dell’ultimo quarto dell’Ottocento.
Curioso e degno di nota, inoltre, un brano tratto da un’opera inedita di don Giuseppe Clementi (1865 - 1944) e del conte Edoardo Soderini (1853 - 1934), che ci dimostra la situazione a Roma il giorno prima del 20 settembre 1870: «Nel pomeriggio del 19 il passaggio fu animatissimo su la strada di Porta Pia; né vi mancarono preti, frati, fin qualche vescovo: questa è stata sempre una delle passeggiate predilette dagli ecclesiastici. Qualche colpo di moschetto, sparato dagli avamposti a Villa Patrizi si faceva sentire, ma non impressionava; né maggior impressione producevano i rari colpi di cannone tirati dall’Aventino in direzione di Porta San Sebastiano. C’era da domandarsi se si era proprio alla vigilia di un bombardamento o non piuttosto di una festa. Con siffatte manifestazioni dello spirito pubblico si poteva pensare sul serio a una lunga resistenza? C’era bene chi andava spargendo notizie che, se vere, l’avrebbero giustificata, anzi imposta: si sussurrava che il Cadorna dovrebbe levar presto il campo per correre a rinnovare le gesta di Palermo a Firenze dove affermavano scoppiata una rivoluzione e proclamata la repubblica; girava anche un’altra fola: quarantamila austriaci sbarcati in Ancona si dirigevano su Roma per raffermare in soglio il Pontefice-Re. Pio IX nel pomeriggio, accompagnato dai camerieri segreti De Bisogno e Samminiatelli, si andò alla Scala Santa; sebbene grave di anni e d’incomodi, volle salirla ginocchioni, appoggiandosi al braccio di monsignor De Bisogno. Giunto alla cappella del sancta sanctorum pregò a voce alta e commossa. Uscito dal santuario, pregatone dallo Charette, benedì le truppe accampate sulla spianata della basilica [...]. Mentre in carrozza se ne tornava in Vaticano, da vari gruppi di persone gli fu gridato: “Santità, non partite”. Si temeva che nella notte s’imbarcasse a Ripagrande per l’estero. Rientrato nei suoi appartamenti, diresse al Kanzler l’ordine di cessare la resistenza non appena si fosse fatta rilevare la violenza, di cui andava a esser vittima».
[caption id="attachment_10583" align="aligncenter" width="1000"] Diversi erano invece i militari pontifici di lingua italiana (da sinistra a destra): conte Raphael de Courten (Sierre, 2 gennaio 1809 – Firenze, 24 dicembre 1904), divenne Generale di brigata il 7 agosto 1860 e combatté nella campagna delle Marche e dell'Umbria (1860), in quella dell'Agro-Romano (1867) e infine alla Breccia di Porta Pia; il marchese Giovanni Battista Zappi (Rimini 1816 - Roma 1885), divenne Generale di brigata nel 1860 e combatté alle principali battaglie fino alla Presa di Roma nel 1870; marchese Giovanni Lepri di Rota (Roma, 15 aprile 1826 – Roma, 1 giugno 1885) divenne colonnello nel 1864 e combatté nelle principali battaglie per la difesa dello Stato, prestò servizio anche nella Guardia Nobile; Azzanesi Achille (Roma, 1823 - Roma, 1888), divenne colonnello comandante nel 1870, assumendo il comando della prima zona di difesa che comprendeva la città Leonina ed il vaticano.[/caption]
Il testo esatto della lettera di Pio IX, che come abbiamo detto fu modificato, è il seguente: «Signor generale, Ora che si va a consumare un gran sacrilegio e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un Re cattolico senza provocazione, anzi senza nemmeno l’apparenza di qualunque motivo cinge di assedio la capitale dell’Orbe, sento in primo luogo bisogno di ringraziare lei, signor generale, e tutta la truppa nostra della generosa condotta finora tenuta, dell’affezione mostrata alla Santa Sede e delle volontà di consacrarsi interamente alla difesa di questa metropoli. Siano queste parole un documento solenne che certifichi la disciplina, la lealtà, il valore della truppa al servigio di questa Santa Sede. In quanto poi alla durata della difesa, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta, atta a constatare la violenza e nulla più, cioè di aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone. In un momento in cui l’Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi nazioni, non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo, quantunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire a qualunque spargimento di sangue. La causa nostra è di Dio, e noi mettiamo tutta nelle sue mani la nostra difesa. Benedico di cuore lei signor generale e tutta la nostra truppa».
Hermann Kanzler rivolgendosi ai suoi soldati, dopo l’avvenuta capitolazione romana, si espresse verso di loro con un congedo anticipato: «Soldati! È giunto il momento in cui dobbiamo separarci ed abbandonare il servizio a Sua Santità, che più di altra cosa ci stava a cuore: Roma è caduta, ma grazie al vostro valore, alla vostra fedeltà, alla vostra mirabile unione, è caduta onorevolmente. Taluno forse si lagnerà che la difesa non sia spinta più oltre, ma una lettera di Sua Santità, che in seguito sarà pubblicata, vi spiegherà il tutto. Questa testimonianza dell’Augusto Pontefice sarà di conforto a tutti e il più bel compenso che nelle attuali e tristi circostanze potevamo ottenere. Debbo infine farvi conoscere che venendo per forza maggiore dispersa l’armata, Sua Santità si è degnata di sciogliere tutti dal loro giuramento di fedeltà. Addio cari commilitoni, ricordate del vostro capo, il quale serberà indelebile e cara la memoria di voi tutti. Viva Pio IX, Viva Cristo-Re».
In conclusione tali avvenimenti, per la fragilità delle conquiste effettuate, imponevano al Regno d'Italia ed alla sua dirigenza una ferrea azione di difesa dei nuovi territori appena conseguiti, anche tramite una finta propaganda, oggi ampliamente svelata. A 150 anni dall'Unità d'Italia, tali nemici "reazionari" sembrano non essere più presenti e la difesa ferrea della propaganda risorgimentale non è più necessaria. Oggi possiamo permetterci di andare a conoscere esattamente che cosa è effettivamente avvenuto, come è stato interpretato e come è stato poi raccontato. Infine successivamente costruire la nostra ricerca sulla base dei documenti e dei dati oggettivi, che spesso fa emergere una realtà che è diversa da quella che si conosce come storia tramandata ed acquisita e tale piccolo contributo mira a preservare una memoria, possibilmente con una maggiore conoscenza di causa, degli eventi che hanno contraddistinto il crollo di uno degli Stati secolari di lingua italica più importanti della penisola.
 
Per approfondimenti:
_Valerio Castronovo, Un mondo al plurale - Dalla metà del Seicento alla fine dell'Ottocento, La Nuova Italia, Milano, 2009;
_Cerchiai, Di Benedetto, Gatto, Mainardis, Manodori, Matera, Rendina, Zaccaria, Storia di Roma, Newton Compton Editori, Roma, 2008;
_Giuseppe Baiocchi, Il beato Pio IX: storia dell'ultimo Papa regnante, dasandere.it, 31-05-2018, https://riserva2.dasandere.it/il-beato-pio-ix-storia-dellultimo-papa-regnante/;
_Attilio Vigevano, La fine dell’esercito pontificio, ristampa anastatica, Albertelli Editore, Parma 1994;
_Giulio Cesare Carletti, L'esercito Pontificio dal 1860 al 1870, Viterbo, Tip. Soc. Agnesotti & C., 1904;
_ Archivio Segreto Vaticano, Carte Soderini-Clementi, b. 11, cap. lxxxiv, pp. 3-27;
_Archivio Segreto Vaticano, Carte Kanzler, b 16;
_La Civiltà Cattolica, 7 gennaio 1871, pp. 107-8;
_P. Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini, Ravenna, 1992;
_Edmondo De Amicis, Le tre capitali. Torino-Firenze-Roma, Vigonglo, Torino, 1997.
 
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Johann Strauss, Joseph Lanner e la Nemesi del Valzer

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La famiglia che dà i natali ai più celebri balletti della corte di Vienna proviene da Leopoldstadt, oggi secondo distretto della città di Vienna, ad est di Inner stadt, primo distretto, sopra il canale del Danubio. Questo quartiere era separato dalla Pazmanitengasse, enorme arteria che ospitava la più grande sinagoga di Vienna, che venne distrutta nella notte dei cristalli del 1938. Suo nonno, Johann Michael Strauss (1720 - 1800), originario di Budapest, era ebreo, ma si era convertito al cattolicesimo per poter sposare Rosalia Buschin (1729 - 1785), figlia di un guardiacaccia originario dell'Austria Inferiore. Il 14 marzo 1804, Johann Strauss viene battezzato con rito cattolico.
Suo padre, Franz Borgias Strauss (1764 - 1816), sposò Barbara Dollmann (1770 - 1811) e la giovane coppia gestiva una locanda nella Flossgasse, frequentata prevalentemente da marinai del Donaukanal, provenienti da Linz. Le esibizioni dei viandanti erano di casa: il piccolo Johann Baptist Strauss, Sr. vi assistette spesso e con grande curiosità; egli fu il solo dei sei figli della coppia a superare il secondo anno di vita, assieme alla sorella, Ernestine Strauss (1798 - 1862), che in futuro avrebbe sposato Kark Fux (1805 - 1859), musicista e futuro segretario del compositore. Tale famiglia è un esempio perfetto dell'assorbimento della cultura ebraica all'interno dell'Austria-Ungheria e ci mostra come la forza della cultura tedesca, di stampo cattolico, sia riuscita ad amalgamare gli ebrei con la società: elemento sempre molto difficile con il popolo eletto.
[caption id="attachment_10536" align="aligncenter" width="1000"] Johann Strauss in una litografia di Joseph Kriehuber, 1835.[/caption]
A dodici anni fu mandato come apprendista presso un rilegatore, per poter imparare un mestiere. Non riuscì a lungo a sopportare il nuovo lavoro e tentò addirittura una fuga che, per certi versi, si rivelò fortunata: per strada incontrò un suonatore ambulante, chiamato Polischansky, il quale dopo averlo riportato a casa e aver ottenuto l’approvazione dei suoi genitori, sarebbe diventato il suo primo insegnante di musica.
Molto di moda erano, all'epoca, le orchestre da ballo, tra le quali spicca quella diretta da Michael Palmer, il quale si esibiva presso il raffinato Cafe Sperl. Fu così che alla giovane età di quindici anni Johann Strauss ebbe la fortuna di esibirsi insieme a loro: qui entrò in contatto con il giovane Joseph Lanner (1801 -1843), di tre anni più anziano, con il quale intraprese una forte amicizia. Già da tempo l’amico stava facendosi strada nell’ambiente che li vedeva uniti, ma le loro strade si biforcheranno. L'amico Lanner nato al numero 5 di Mechitaristengasse, ora settimo distretto di Vienna, di famiglia umile, studierà il violino da autodidatta mostrando doti molto precoci: entrerà infatti nell’orchestra di Palmer all’età di dodici anni. Legati da forte affiatamento abbandonano insieme l'orchestra nel 1818 per fondare un trio con i fratelli Karl e Johann Drahanek, rispettivamente al violino e alla chitarra, che diventerà poi un quintetto aggiungendovi un violoncello ed una viola, suonata dallo stesso Strauss. Il progetto cresce e Lanner riesce a costruire una vera e propria orchestra.
In quel periodo Strauss e Lanner condividono un appartamento nel Windmuhlgasse, al numero 18 e nel 1824 Lanner diventa definitivamente il direttore dell’orchestra, mentre a Strauss spetta il ruolo di vice direttore. Mentre le esibizioni si susseguono senza tregua in un successo sfrenato, Strauss si convinse che le proprie opere non venissero celebrate abbastanza.
[caption id="attachment_10537" align="aligncenter" width="1000"] Charles Wilda: Joseph Lanner e Johann Strauss (particolare), olio su tela, 1906.[/caption]
Una sera di settembre 1825 allo Zum Bock, Joseph Lanner e Johann Strauss litigano atrocemente. L'orchestra si scinde e 14 elementi decidono di seguire Strauss, che crea così una propria orchestra apertamente ostile a Lanner; quest’ultimo, da parte sua compone il Trennungs-Waltzer op. 19 (Waltzer della separazione). Tuttavia, nonostante tutto, i due musicisti avrebbero avuto ancora occasione di lavorare insieme. Nello stesso anno, dall'unione di Strauss con Maria Anna Streim (1801 - 1870), nasce il suo primogenito, Johann Baptist Strauss, II (Jr., 1825 - 1899), futuro compositore. Il 22 agosto 1827 nasce il secondogenito Joseph, anch’egli destinato alla medesima professione.
In breve tempo il complesso di Strauss ottiene un discreto successo. Così gli balenò l’idea di creare e gestire più gruppi musicali, così che si potessero esibire contemporaneamente in più contesti. Anche la famiglia Strauss continuava ad ampliarsi, con la nascita di Anna (1829), Teresa (1831) ed Eduard (1835), futuro musicista, compositore e direttore d’orchestra. Dal 1834 la famiglia Strauss dimora stabilmente nella Hirschenhaus, sulla Tabostrasse.
Il complesso di Strauss esordisce allo Sperl il 4 ottobre 1829. Ad assisterlo troviamo il giovane Richard Wagner (1813 - 1883), che ricorda con sincera emozione «l'entusiasmo quasi frenetico in cui entrava immancabilmente il sorprendente Johann Strauss, ad ogni pezzo che dirigeva suonando, ad un tempo, il violino. All'inizio d'ogni nuovo valzer tremava, quell'autentico genio della musicalità popolare viennese, come una pitonessa sul tripode e il vero gemito voluttuoso dell'uditorio inebriato assai più dalla sua musica che dalle bevande consumate, spingeva l'entusiasmo del magico violinista ad un grado per me quasi angoscioso».
Fino ai primi anni '40 il successo di Johann Strauss fu sempre inferiore a quello di Joseph Lanner. Nel 1829 quest’ultimo ricevette l'ambita nomina a direttore musicale dei balli alla Redoutensäle nel palazzo imperiale di Hofburg; poco tempo dopo gli venne affidata anche la direzione della banda del II reggimento cittadino della città di Vienna. Con Joseph Lanner il valzer smise di essere un genere contadino.
Il valzer viennese nasce nel contesto più popolare. Il nome deriva dal tedesco Waltzen, che significa “girare in tondo”. Molte danze popolari ne possedevano caratteri affini; alcune, austriache e bavaresi, come il Dreher (da ‘sich drehen’, girare su se stessi), sono alla base della sua costituzione. Molti studiosi ritengono che il Ländler, danza tipica degli ambienti contadini austriaci originaria del Landl, una regione dell’alta Austria, ne sarebbe il diretto antenato; tant’è che, nelle prime apparizioni del valzer, il loro nome veniva confuso assieme a quello di altri generi (alcuni valzer beethoveniani recano anche il nome di “Contraddanza”). Il Landler è in ¾, si balla a coppie ed ha un andamento molto marcato, lontano dai toni eleganti e leziosi dei generi aristocratici. A partire da esso il valzer, con l’affermarsi della borghesia nel corso del XVIII secolo, venne importato a pieno titolo nelle città.
[caption id="attachment_10540" align="aligncenter" width="1000"] Philipp Steidler: Joseph Lanner (particolare), olio su tela, 1840.[/caption]
Il nome si diffonde nell’Ottocento e figura tra gli scritti di Haydn, Mozart, Beethoven; tuttavia per lungo tempo fu ostacolato dai “conservatori”, che vedevano in esso un genere musicale senza troppe pretese, semplice e lascivo. Addirittura cominciarono a circolare dei manualetti che indicavano come comporre valzer sfruttando il gioco dei dadi: il più famoso, “Introduzione per comporre quanti Valzer si vuole per mezzo di due dadi, senza sapere nulla di musica o di composizione”, è attribuito a Wolfgang Amadeus Mozart.
Diffusosi inizialmente in Austria e nel sud della Germania, il valzer raggiunge presto le capitali Europee e diventa un genere internazionale. Nonostante tutto piace, entusiasma i ballerini, che possono finalmente danzare abbracciati, e le melodie catturano tutti. I valzer vengono suonati in Italia, in Inghilterra, vengono scritti anche dai compositori più insigni; in Francia, dopo l’introduzione tra i balli di corte voluta da Maria Antonietta, diventa un momento tipico del genere operettistico, assumendo caratteristiche del tutto proprie ed un carattere più melanconico, languido, lento. A Vienna, invece, invece, i valzer di Lanner e Strauss sono un’imponente tradizione.
Il loro campo vincente era quello della musica da ballo. Infatti era nel Carnevale, il "Fasching", che le grandi orchestre riuscivano ad avere più attività. Joseph Lanner si cimenta in diverse centinaia di musiche da ballo dei generi più in voga; naturalmente, molte di esse erano valzer. Il suo valzer più celebre è Die Schönbrunner, op.200, "L'abitante di Schombrunn". Il nome di quest'opera proviene dal titolo, che si riferisce al proprietario del Caffé Dommayer, locale nel distretto di Hietzing, dove si trova anche il castello.
Fino all'ascesa di Johann Strauss Jr. con "An der schönen blauen Donau " nel 1867 (Sul bel Danubio blu), fu questo, forse, il valzer che più riecheggiava, tra le vie di Vienna.
Dai titoli di molte opere (valzer, Ferdinand II, gewidmet ; valzer, Maria Ludovica, gewidmet; “gewidmet” in tedesco significa “dedicato a”) si evince che la loro destinazione fossero gli ambienti aristocratici viennesi. Lo stesso castello di Schonbrunn (Schloss Schönbrunn, in tedesco) fu la sede della casa imperiale d'Asburgo dal 1730. Voluta dall’imperatore Carlo VI come residenza estiva, raggiunge la sua maestosità con gli imponenti lavori voluti da Maria Teresa D'Austria. Per tre anni vi prese residenza lo stesso Napoleone Bonaparte, e fu il luogo di nascita dell'imperatore Francesco Giuseppe, che vi morì nel 1916.
Perderà la destinazione di residenza imperiale con il crollo della monarchia asburgica nel 1918. Oggi molte delle sue sale sono destinate ad usi governativi.
Altre composizioni celebri furono Hofballtänze (Danze per il ballo di corte, ancora oggi estremamente popolari) op. 161, Steyrische-Tänze (Danze stiriane, composto in stile Landler, in omaggio all'antenato del valzer) op. 165, e Die Romantiker (Il Romantico) op. 167.
Mentre Lanner coltiva il proprio successo locale, Strauss ha progetti più vasti. La sua orchestra conta ormai più di 200 elementi, il suo nome domina le scene. Nonostante la precarietà della sua situazione familiare, riesce a districarsene; convalescente da un duro malore, si separa dalla moglie per averla tradita, nel 1833, con una cappellana viennese, Emilie Trampusch e, avendo costruito con lei una seconda famiglia segreta,sceglie di seguire quest'ultima.
La relazione con la moglie era complicata da tempo; detestava il fatto che lei avesse concesso ai figli Johann e Joseph di prendere lezioni di musica.
Allo stesso anno risale la sua prima tournée, che lo portò ad esibirsi al cospetto del re di Prussia. Le recensioni dei critici sono entusiastiche. Nel '37 prende parte ai festeggiamenti per l'incoronazione della regina Elisabetta ed il grand tour dei musicisti procede per altre settantadue mete.
[caption id="attachment_10541" align="aligncenter" width="1000"] Monumento ai due compositori padri fondatori del valzer viennese, Johann Strauss padre e Joseph Lanner. Parco del municipio di Vienna (Rathaus).[/caption]
Forse ottusamente Lanner, che preferì non travalicare il suolo nazionale, era convinto che il valzer non avrebbe potuto “attecchire” all’estero, o detenere un successo pari a quello già costituito localmente. In Francia l’orchestra di Strauss dette la bellezza di ottantasette concerti. Al concerto del 1º novembre 1837 a Parigi assistettero, tra le file degli spettatori, Berlioz, Cherubini, Meyerbeer e Paganini. Il 5 novembre, alle Tuileries, si esibì davanti a al re Luigi Filippo e al re Leopoldo del Belgio. Il culmine fu raggiunto con la stipula di un contratto con Philippe Musard, artista addetto alla musica da ballo, col quale tenne una trentina di concerti nella capitale francese. In Inghilterra, Strauss prese parte ai festeggiamenti per l’incoronazione della Regina Vittoria, il 28 giugno 1837. Johann Strauss rientra a Vienna il 13 gennaio 1839.
L'anno successivo gli viene concesso di partecipare ai grandiosi Balli di corte, dove si sarebbe potuto esibire di lì in poi alternandosi con Lanner; dal 7 gennaio 1846 ne divenne il direttore, su concessione dell’imperatore.
Tuttavia il successo dell’amico-nemico si sarebbe spento presto. Un’epidemia di tifo invase Vienna nel 1843 e Lanner, rimastovi contagiato, morì. Ciò significò, per Strauss, trovarsi ad essere l’incontrastato dominatore delle scene musicali Viennesi. Ai funerali di Lanner, fu lui ad occuparsi delle musiche.
Tra il 1835 ed il 1844 Johann Strauss ed Emilie Trampusch ebbero sei figli; in quest’ultimo anno ottenne il divorzio definitivo dalla moglie Anna. Fu solo grazie al distacco del padre che suo figlio Johann Strauss Jr., poté finalmente debuttare nel mondo musicale: il suo primo incarico fu quello di direttore dei balli al Casinò Dommayer di Hietzing, vicino al Castello di Schönbrunn.
L’ondata di rivoluzioni che travolse il ‘48 invase la capitale austriaca il 13 marzo, quando studenti e lavoratori insorsero contro lo stato di polizia messo in piedi da Metternich, Strauss si pose sempre come accanito difensore della Monarchia Asburgica. È questo clima che vede la nascita della più celebre opera del compositore, la Radetzky-Marsch op. 228 (La Marcia di Radetzky), eseguita per la prima volta il 31 agosto 1848 al Water-Glass di Vienna per festeggiare il Feldmaresciallo Radetzky, il quale aveva guidato la riconquista austriaca di Milano dopo i moti rivoluzionari in Italia del ‘48. L’operazione si era conclusa con la firma di un armistizio che obbligava i piemontesi a lasciare Lombardia e Veneto precedentemente occupati e che concludeva la prima guerra d’indipendenza italiana. Le sue note erano destinate a diventare l’inno dei soldati austriaci. Con essa si guadagnò il disprezzo dell’intera area rivoluzionaria.
Durante un soggiorno a Londra incontrò l’approvazione dello stesso cavaliere Metternich, che era lì in esilio. A Vienna, anni dopo, eseguì la Jellacic-Marsch, dedicata proprio al personaggio croato Josip Jelačić, noto per la durezza dei suoi metodi repressivi, che aveva riacquisito il controllo di Vienna per gli Asburgo, guadagnando ulteriore malcontento. Ammalatosi gravemente, Johann Strauss muore di scarlattina il 25 settembre 1849. Ai suoi funerali venne eseguito il valzer Das Wanderers Lebewohl op. 237 (L'addio del viandante), scritto prima della sua ultima tournéeLa sua tomba, inizialmente posta nel cimitero di Oberdöbling, venne spostata in una tomba d'onore nel Zentralfriedhof (Cimitero Centrale), a fianco dell'antico amico e rivale, Joseph Lanner.
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[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470839670395{padding-bottom: 15px !important;}"]Andrea di Pietro della Gondola: una speranza per una idea di bellezza[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 14/08/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470840933960{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Andrea di Pietro della Gondola, questo il vero nome di Palladio, (1508/1580) è un architetto del Rinascimento, nella sua architettura egli non si sofferma sul singolo aspetto ma ha avuto il talento per riuscire ad osservare la città, il tema del progetto, fino al linguaggio analizzando tipo e costruzione.
Nel suo famoso trattato di architettura consegnato alla storia: “I Quattro libri sull’architettura” l’architetto veneto sostiene che il passato è il tempo e il luogo dove cercare “quel che serve” per costruire il presente, per edificare una città immersa nella natura, ma che allo stesso tempo abbia forti caratteri di monumentalità.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1533042072748{padding-bottom: 15px !important;}"]Alterazioni del costruito. Ludovico Romagni, Enrica Petrucci[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1533041331961{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
20 Giugno 2018 – Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (Via Buozzi n.14)
Introduce: Maria Rosa Romano
Interviene: Ludovico Romagni
Interviene: Enrica Petrucci
 
Mercoledì 20 Giugno presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (Via Buozzi n.14) è andato in scena il 41°evento dell’associazione Das Andere, il nono incontro del programma culturale 2018 “Crisi e metamorfosi”. Ospiti dell’associazione sono stati i professori Ludovico Romagni ed Enrica Petrucci, che hanno presentato il loro ultimo saggio “Alterazioni del costruito – Osservazioni sul conflitto tra antico e nuovo”, moderati dall’architetto Maria Rosa Romano. È necessario definire nuove strategie progettuali capaci di descrivere livelli di alterazione crescente di preesistente e di definire i gradi di trasformazione in progressione: in tal modo possiamo distinguere sia le diverse categorie di manipolazione sia i soggetti attuatori. Tuttavia, all’interno di uno scenario urbano in cui coesistono i frammenti incompiuti e abbandonati della città, vale a dire i rifiuti della storia identificati nei siti archeologici o nei ruderi dei monumenti, nonché le rovine del tardo Moderno, occorre interrogarsi sulla validità della distinzione fra le tradizionali categorie di intervento sulle preesistenze e sui nuovi innesti. Il tema di una reinterpretazione consapevole dei luoghi investiti dal recente sisma mostra livelli di complessità inediti e coinvolge il rapporto fra preesistenza – pur mutilata e frammentaria – e nuovi interventi. La sfida si pone in tutta la sua complessità e guarda agli esempi del passato come riferimento su cui impostare nuovi temi di ricerca progettuale.

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Niccolò Paganini e il Centone di sonate

[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Carlotta Travaglini 13/06/2018[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1531391919826{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

«[…] l'accompagnamento ritmico o armonico è importante almeno quanto la canzone stessa, e quindi bisogna ispirarsi in questo direttamente al popolo; chi la pensa diversamente con il suo lavoro non farà altro che un centone più o meno arguto di quello che vorrebbe realizzare nella realtà». In questo articolo, apparso sulla rivista «Mùsica», Manuel De Falla parla del lavoro di scrittura delle proprie Canciones Populares Espanolas. L’anima intrinseca, la genuinità, la secolare capacità comunicativa, la familiarità autoctona, l’immediatezza: è questo ciò su cui si è lavorato e che si è voluto far uscir fuori.

[caption id="attachment_10443" align="aligncenter" width="1000"] Maclise Daniel, Ritratti di Niccolò Paganini (particolare) - Dover Museum.[/caption]

Non si è trattato di una selezione, di una collazione o di una malriuscita imitazione. Un Centone è stato scritto nel 1828 da Niccolò Paganini – ovvero, il Centone di sonate, le Diciotto Sonate per violino e chitarra MS 112. La fama del musicista lo precede già al suo tempo: “acrobata” nelle sue esecuzioni, elude tutte le possibilità tecniche allora conosciute, turbando gli spettatori - un prodigio estroso, che ama cimentare sé stesso in ardue sfide di improvvisazione sui suoi stessi scritti e su quelli altrui. Perché mai, dunque, “scadere” in un Centone? Il Centone è in genere un componimento letterario formato dalla sovrapposizione di parole, frasi, versi di un altro autore celebre. Il termine riprende una parola latina, centō, derivante dal greco κέντρων, che indica una veste di cenci di vari colori e anche un tipo di composizione. I primi centoni provengono dall'antico mondo greco, gli ὁμηρικοί κέντρωνες, e riprendono i celebri versi di Omero; famosi sono quelli di un vescovo di nome Patricius, ascrivibili al V sec. a.C. Altri provenienti dalla tradizione latina, sono spesso ad imitazione dei precedenti modelli greci, ma prediligono Ovidio. Col passare del tempo acquisirono sempre maggior popolarità e varietà di argomenti: dal 500 compaiono pregiate edizioni a stampa (quali la celebre di Aldo Manuzio, uno dei maggiori stampatori italiani). I testi letterari prediletti sono le Sacre Scritture e le opere virgiliane. Nella letteratura medievale, dove il senso religioso è accresciuto in tutti i generi di testi, queste due matrici vengono reciprocamente commiste. L'enigmista tardo ottocentesco Anacleto Bendazzi si cimenta in un centone basato su 666 versi virgiliani, a loro volta infarciti di altri autori e resi più aderenti alle storie evangeliche. Su questo indirizzo Etienne de Pleurre (1585-1635), canonico di Saint-Victor di Parigi, scrive una Sacra Aeneis, una vera e propria 'Eneide sacra', e la nobile romana Proba scrive, nel 362 circa, una Vita di Cristo. Robert Burton, saggista inglese e pastore protestante, scrive ad Oxford, università nella quale insegnava, nel 1632, The Anatomy of Melancholy, dove descrive la malinconia come una vera e propria malattia, facendone diagnosi e prognosi in una rete di citazioni che vanno da Aristotele a Ippocrate e Galeno, da Marsilio Ficino alla letteratura Cristiana. Il Centone nella musica è, dunque, un brano fatto di più brani, ‘cuciti insieme’ e pescati qua e là. Nel repertorio gregoriano, è un canto formato da incisi di testi di provenienza varia, per buona parte ripresi dal repertorio sacro. Questo tipo di scrittura segue la prassi della centonizzazione. Il termine si estende poi anche a ‘raccolta di canti liturgici’. Nel XVIII secolo si scrivono sovente composizioni con spunti provenienti da altre opere. Questo ‘infarcimento’ è molto in voga e particolarmente gradito al pubblico, che desidera uno svago in cui riecheggi di qualcosa di già noto. Di grande successo è il pasticcio, un'opera composta da più compositori insieme, formata da spunti di più opere oppure scritta rielaborando creativamente un'opera preesistente in maniera libera, non autorizzata o inautentica. Il termine è ripreso dall'ambito culinario, ma in Italia designa per la prima volta una composizione musicale nel 1795. Compositori come Georg Frederik Haendel (nell'opera Muzio Scevola, 1721) o Cristoph Willibald Gluck e Johann Christian Bach si cimentano in lavori di altri compositori, aggiungendoci del proprio, come anche molti inglesi (ad esempio, William Shield, compositore, violinista e violista britannico), che riprendono dal repertorio delle canzoni popolari irlandesi o britanniche. Un esempio illustre ci è dato dallo stesso Wolfgang Amadeus Mozart, i cui primi quattro Concerti per pianoforte (K 37, K 39 - 41) sono quasi completamente trascrizioni da movimenti di sonate per strumento a tastiera contemporanee, a cui non fece che aggiungere parti orchestrali e separare una linea melodica più marcata da affidare al solista.

[caption id="attachment_10446" align="aligncenter" width="1000"] Barbara Krafft, Wolfgang Amadeus Mozart (particolare),1819.[/caption]

Il concerto per pianoforte n.1 K 39 in fa maggiore riprende: nel primo movimento, l'Allegro della Sonata n. 5 op.1 di Hermann Friedrich Raupach; nel secondo, un Andante di Johann Schobert; il finale è tratto da spunti dal primo tempo della Sonata op. 2 n. 3 di Leontzi Honauer. Lo stesso Leopold Mozart, padre integerrimo del compositore, non dovette ritenere conveniente una cosa del genere, visto che scelse di non inserire composizioni simili negli autografi del figlio. Al contrario, Ludwig von Kochel, autore del catalogo integrale dell'opera di Mozart, li inserì a pieno titolo tra i 27 concerti per pianoforte del compositore. La prassi della trascrizione, comunque, non era aliena. Nel repertorio rinascimentale, inizialmente, la musica per strumenti era una 'riscrittura' di quella vocale, fatta in forma più o meno radicale. Nell'epoca moderna troviamo delle vere e proprie 'riduzioni' per pianoforte solo, o per due pianoforti, anche di imponenti sinfonie di Brahms.

Nella tradizione clavicembalistica vi sono imponenti lavori di trascrizione. Questo strumento apriva un ulteriore squarcio di possibilità alle combinazioni del contrappunto: celebre è la trascrizione del Concerto a quattro violini in si minore RV 580 di Antonio Vivaldi scritta da J.S.Bach nel suo Concerto a quattro clavicembali in la minore BWV 1065. Nell'Ottocento il culto dell'estro creativo fa fondere la trascrizione col virtuosismo: celebri le trascrizioni o 'parafrasi' di compositori come Liszt su motivi di opere teatrali o sinfoniche (per l’ascolto: ad esempio, Paraphrase de concert sur Rigoletto, per pianoforte e orchestra, basata sul quartetto dell’atto III dell’opera di Giuseppe Verdi). Ad opere di tale grandiosità concorrono, invece, ‘sollazzi’ per un ambito più elitario, ristretto, 'sofisticato', i cosiddetti pot-pourri; era usanza che insigni virtuosi dello strumento riproducessero in forma ridotta melodie molto in voga all'epoca nei grandi salotti della borghesia – un intrattenimento ciarliero ma di buon gusto, che riecheggia di sollazzi, risate e grida, fremiti, alternati ad abissi ricchi di mistero e, infine, a frasi di straripante ampiezza lirica. Sono musiche di carattere, suonate ed interpretate anche ai giorni nostri con quel tipo di respiro e di spensieratezza che caratterizzava il contesto. Di questo tipo sono le sei Rossiniane di Mauro Giuliani o, dello stesso autore, i numerosi Pot-Pourri e la Semiramide (opera di Rossini) ridotta in dodici walzer con introduzione e gran finale, entrambi per chitarra. Il musicista “dei salotti” può esprimersi, sofisticato ed estremamente lusinghiero. Mauro Giuliani era uno di questi: vastamente noto nei salotti mondani per le sue mirabolanti esecuzioni alla chitarra, portò ad una totale riscoperta di questo strumento, prima di allora relegato ad intrattenimento casalingo per il suo contenuto volume. Versatile, agile, riesce al contempo ad essere solista, corale, sinfonica ed assolutamente concertante nel connubio con altri strumenti (per l’ascolto: Serenata op. 127 per flauto e chitarra, dello stesso autore). La crescente stima negli ambienti musicali europei gli valse il soprannome di 'Paganini della chitarra', e la sincera amicizia del compositore. Spesso gli stessi compositori, nella scrittura di qualcosa di nuovo, riprendevano in parte proprie vecchie opere. Gioacchino Rossini riprende la celebre Sinfonia del suo Barbiere di Siviglia dall’Aureliano in Siria, e la riutilizza anche nell’Elisabetta regina d’Inghilterra. In questo senso possiamo intendere il Centone di sonate di Paganini, dove il solismo cede il passo a toni più intimi, nel duo violino - chitarra. Allo strumento a pizzico aveva destinato una vasta produzione: 22 pezzi solistici, delle serenate con il mandolino, quindici quartetti con gli archi (violino, viola, violoncello) ... Non è inconsueto il dialogo col violino: ci sono temi e variazioni (Variazioni sul Barucabà, melodia popolare genovese; Carmagnola con variazioni), sonate di vario respiro (Gran Sonata, Sonate varie, Centone). La voce del violino è ancora largamente solistica, ma il lavoro di limatura sulla commistione dei timbri dei due strumenti è notevole. In un’abbinata di certo non comune, Paganini ritrova un piacevole dialogo, dove l’eccentrico decade in favore della cantabilità.

[caption id="attachment_10445" align="aligncenter" width="1000"] Daniel Maclise, Niccolo Paganini.[/caption]

Nelle mani di compositori coevi come Beethoven, Schubert, troviamo il violino ed il pianoforte tra i protagonisti assoluti del genere della Sonata da camera, di cui hanno seguito tutte le vicissitudini, la storia e la crescita come genere. Tuttavia Paganini riprende, del genere della Sonata, soltanto il nome. Tradizionalmente, infatti, ad esso corrispondeva già all’epoca una forma di scrittura d’obbligo, la “forma-sonata”, ed il reiterato connubio dei due elementi divenne distintivo del genere: scrivere una Sonata voleva dire scrivere in forma-sonata. Qui esso è inteso semplicemente come "composizione esclusivamente strumentale", nel significato originario del termine nelle sue prime comparse del XVI secolo. La forma è dunque libera e duttile, e non obbedisce ad uno schema se non alla creatività di Paganini. I toni lirici ed estrosi sono chiari autografi del suo stile, ma la forma sciolta fa succedere i movimenti con leggerezza, intrattenendo il pubblico con i più svariati toni. La Sonata n. 1 in la minore si apre con una suggestiva introduzione, dove il violino si fa strada con brevi e percussivi incisi di semicrome, conclusi a mo’ di cadenza su un vigoroso accordo in chiusa della chitarra. Subito dopo, una melodia breve e sospesa, improvvisa e impellente come un grido languido, che si conclude con l’insistenza dei ritmi iniziali, sospesi sulla dominante. Subito dopo, dal levare del violino la melodia risolve poderosamente su un accordo di tonica, un la minore allegro in una mossa marcetta dai ritmi puntati, corrucciati e lievi insieme. Subito dopo, un breve spunto lirico dai toni caldi ed ispirati, quasi pensosi. Il movimento si chiude con la ripresa del tema iniziale. L’ultimo movimento è festoso, vivace, fanciullesco nella voce del violino, che si destreggia tutt’altro che corrucciato sotto l’incedere incalzante e disteso della chitarra. Il dialogo, stavolta in la maggiore, si fa sempre più interessante quando, all’incalzare del ritmo dello strumento a pizzico il suono del violino si gonfia, e, poi, d’improvviso, scompare nel sussurro del pizzicato. Dove esso, nel suo scarno risultato acustico, è sostenuto dagli accordi ‘strappati’ della chitarra, su una melodia dubbiosa e puntigliosa e allo stesso tempo molto spiritosa, ecco il ‘gridolino’ di rivalsa dell’altro, che rapidamente riprende l’arco e suona una goffa strappata, a marcare la fine dell’inciso melodico, e subito riprende a pizzicare. Il finale riprende il tema iniziale e in una coda sempre più incalzante, dopo un timido refolo di pizzicati, si chiude ironicamente su tre granitici accordi di la maggiore.

 
Per l'ascolto si consiglia:
_Niccolò Paganini, Centone di sonate, vol. 1-2-3, Naxos, 1994 (violino Moshe Hammer, chitarra Norbert Kraft).
 
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a cura di Stefano Scalella
16 Giugno 2018 – Libreria Rinascita - Piazza Roma n.7, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Luca Taddio
Interviene: Damiano Cantone
 
Sabato 16 Giugno, presso la Libreria Rinascita (Piazza Roma n.8 – 63100 AP) è avvenuto il 40°evento dell’associazione Das Andere, l’ottavo incontro della programmazione culturale “Crisi e metamorfosi” scelta per la stagione 2018. Ospiti i professori di estetica Damiano Cantone e Luca Taddio, i quali si sono interrogati sull’importanza dell’affermazione dell’architettura nella società, nella politica e nella fenomenologia moderna e contemporanea.
Dal momento che un progetto viene realizzato, si afferma e nel compiersi (affermarsi), sfugge al controllo dell'architetto, il quale non potrà confutare la sua opera nell'inesorabile scorrere del tempo: essa potrà cambiare funzione sfuggendo così all'idea iniziale del progettista. La chiave di lettura che questo libro sviluppa per interpretare l’architettura contemporanea è offerta dalla parola affermazione, che rappresenta il punto di incontro tra la dimensione architettonica e quella filosofica. Ciò non deve essere inteso come se da un lato vi sia l’architetto e dall’altro il filosofo che riflette, quanto piuttosto come la presa di coscienza che nel piano immanente del fare e del produrre vi è in gioco un sapere, intrinseco al produrre stesso, che oltrepassa le competenze specifiche dell’architettura. È tale necessario sconfinamento che può diventare oggetto d’analisi critica sia da parte del filosofo sia dell’architetto.