La figura del gesuita padre Pirrone, cappellano della Casa, il cane Benedicò, gli oggetti dell’arredamento, le figlie del principe, la tiepida e religiosa moglie, i periodi di villeggiatura (da agosto a novembre) in campagna ed a caccia in Donnafugata, con l’organista della chiesa, don Ciccio Tumeo.
Opera meditata a lungo, dunque, se pur scritta, anzi manoscritta, di getto, come si diceva poc’anzi. E’ più che lecito ritenere che la morte del Tomasi abbia impedito del tutto quel lavoro di revisione e di limatura che sarebbe valso a “Il Gattopardo” un carattere di maggior compiutezza.
Il romanzo apparve nell’autunno 1958 (dopo il rifiuto di Elio Vittorini per la Mondadori), a cura dello scrittore bolognese, ma ferrarese di adozione - città di antiche e feconde tradizioni, attraverso i secoli, di letterati, di poeti, di artisti, di politici, di giornalisti - Giorgio Bassani – al quale pervenne, a sua volta, da Elena Croce - e la compiutezza, nonché correttezza dell’edizione non venne messa in discussione fino al 1968, quando si riscontrarono centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. La questione era già stata sollevata da Francesco Orlando, docente di teoria e tecnica del romanzo alla Scuola Normale di Pisa, nel suo “Ricordo di Lampedusa” (1962) (pag. 82).
Infatti, come commenta quest’ultimo, tre sono le stesure dell’opera, e precisamente: una prima stesura manoscritta e raccolta in più quaderni (1955-1956); una seconda stesura dattiloscritta da Orlando e corretta dall’Autore (1956), ed, infine, una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: “Il Gattopardo (completo)”. Si è adottato la dizione “parti”, anziché capitoli, perché così volle il Tomasi nell’indice analitico. Infatti ogni sezione dell’opera è propriamente una parte, «cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della condizione siciliana», come limpidamente scrive Gioacchino Lanza Tomasi nella premessa dell’edizione dell’opera del 1969.
Infatti le otto parti in cui è composto il romanzo potrebbero tranquillamente essere a se stanti in quanto è come se ognuna iniziasse e terminasse l’illustrazione di un quadro.
Lo straordinario interesse del romanzo non sta tanto nella trama, che poi, come abbiamo visto, è la biografia del Principe di Salina, quanto piuttosto nel ricco e sottile gioco della complicata realtà interiore del protagonista, che nella finissima arte del Tomasi trova una limpida rappresentazione. Don Fabrizio - singolare temperamento, nel quale l’orgoglio e l’intellettualismo ereditati dalla madre, nobile tedesca, si scontrano in perpetuo con la sensualità e la fiacchezza ricevute in eredità dal padre – assiste inerte alla rovina del proprio ceto ed al sorgere, come si è detto poc’anzi, di una nuova classe sociale.
Il motivo della “nobiltà in sfacelo” non viene intonato a patetico rimpianto per un mondo che scompare, che viene meno, che si sfalda, così ben svolto in lirica contemplazione dell’inarrestabile fluire, perire e mutare delle cose: quel vedere andar tutto “alla deriva nei meandri” come scrive il Lampedusa “del lento fiume pragmatistico siciliano”. Peraltro la vena alquanto lirica del Tomasi trova un sapiente contrappunto in una costante venatura umoristica, la quale si ramifica per tutta l’opera, quasi elemento equilibratore ed argine all’arido ed invadente scetticismo del protagonista. Scetticismo che, quando inaridisca e non bruci entro di sé la consistenza fantastica della pagina, trova, in quel sorriso, una giustificazione ed un suo pungente limite.
Nel bisavo Giulio Tomasi di Lampedusa, alias don Fabrizio Corbèra, sembra quasi che ritroviamo il medesimo Autore, uomo aperto ai problemi ed alle complicazioni spirituali del nostro tempo, il quale nella sua realtà - alla conclusione di un ciclo storico, che è la Seconda Guerra Mondiale - crede di veder confermata la tesi del fallimento, sul piano sociale e politico del Risorgimento Italiano, che, con particolare arguzia definì «una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca» soprattutto riguardo al sempre attuale problema del Sud d’Italia. Fallimento, d’altronde, insito nel destino d’una regione e d’una gente antichissima e di antiche tradizioni.
La continuità/immedesimazione Corbèra/Tomasi, la quale, nei momenti migliori, si risolve in un gioco di psicologici scambi e di magiche dissolvenze, direi quasi, entro cui passato e futuro vengono liricamente annullati, si infrange nel momento in cui il Tomasi di Lampedusa balza bruscamente, quasi come un anacoluto, in primo piano con polemiche digressioni. E ciò è un altro recondito aspetto de “Il Gattopardo” che ha contribuito a farlo qualificare “saggistico”.
Come quando l’Autore esprime il suo amaro giudizio sulle conseguenze di quella “nottata di vento lercio”, cioè la nottata dei risultati dell’addomesticato plebiscito, nel corso della quale nel borgo di Donnafugata era nata l’Italia, ma era stata uccisa la “buonafede” dei Siciliani, ad opera di quello «stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata».
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Il Gattopardo è un film drammatico colossal del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. La figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).[/caption]
Al momento storico (la piccola storia fatta di piccoli uomini) si avvicenda il più vasto motivo del fermo, eterno ed “indifferente” fluire del mitico tempo siciliano. Nell'ambiente, nel clima, nel medesimo “sole siciliano”, si direbbe che quella indifferenza trovi una mostruosa e drammatica ipostasi, nel senso della Trinità: «apparve l’aspetto della vera Sicilia (…) un’aridità ondulante all’infinito (…)»; «ondulazioni di un solo colore, deserte come disperazione», «Il sole narcotizzante (…) annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni».
Codesta è una tensione costante, che trova il suo centro propulsore nella natura del protagonista, e cioè a riportare ad una sua visione interna i dati concretissimi della realtà esterna, la quale assume i riverberi e le tonalità della sostanza spirituale di don Fabrizio. E’ più spesso la realtà sensibile ad aprirsi, con le sue violente suggestioni, dei varchi fin dentro le “zone non coscienti” del protagonista, con il suggerire certe lugubri fantasie che lasciano in fondo al suo animo “un sentimento di lutto”. Ecco quindi il pessimismo dell’autore, con il tema della morte che è uno dei più fecondi delle sue ispirazioni. La coerenza fantastica del romanzo va ricercata appunto nel motivo lirico della morte, o meglio, del desolato motivo d’origine esistenziale "dell’essere per la morte”.
E qui desidero precisare che la lirica conclusione del romanzo non si ravvisa tanto nella “parte”, la settima, della morte di don Fabrizio (nel 1883, invece il bisavo del Tomasi morì nel 1885) - con quell’incontro con la donna simbolo della fredda realtà stellare e con quell’assunzione in una patria iperurania del “puro calcolo” che sembrano un’astratta e metafisica soluzione, poeticamente sterile ed arbitraria – ma bensì nella “parte ottava” che rappresenta un desolato prolungamento (fino al 1910) della terrena esistenza del Principe di Salina, il cui fluido vitale va lentamente e stancamente esaurendosi nelle tre figlie superstiti, finché tutto trova pace «in un mucchietto di polvere livida».
E’ proprio qui che poeticamente si risolve il sentimento di quella “compiaciuta attesa del nulla” che domina tutto il libro. Analizziamo, per sommi capi, la figura di don Fabrizio.
Scrive il Tomasi di Lampedusa, don Fabrizio era “immenso e fortissimo”. Egli è per parte di madre erede di un’antica dinastia tedesca. La carnagione lattea ed i capelli biondo miele, segno evidente di questa discendenza, non ne rappresentano però l’aspetto più profondo, che invece riguarda il temperamento. Autoritario ed incorruttibile, orgoglioso difensore delle tradizioni e del proprio casato ma anche aperto alla scienza e singolarmente incline alle matematiche, apprezzato astronomo ed addirittura scopritore di due piccoli pianeti (il bisavo dell’Autore era un astronomo). Il Principe deve conciliare la sua anima germanica con la sensualità superficiale ed impulsiva, la facile irritabilità ed il disfattismo fatalista che gli vengono dal padre. Don Fabrizio è ironico e pessimista “in perpetuo scontento”, osserva, come abbiamo accennato, con inquietudine ed indolenza la rovina che sta per travolgere i privilegi della sua classe e la consistenza del suo patrimonio. Egli si considera l’ultimo Gattopardo.
L’ultima personificazione dell’araldico animale che campeggia nell’azzurro stemma della sua famiglia. Dopo di lui banali logiche di mercato stravolgeranno il senso medesimo dell’aristocrazia trasformandola in un vuoto decoro, utile forse ad agevolare carriere borghesi.
Il rifiuto che il principe oppone al nobile piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo, giunto da Torino con l’incarico di offrirgli il laticlavio di Senatore del Regno d’Italia, non è un gesto di orgoglio, ma la disperata fedeltà alle proprie radici, alle proprie tradizioni, al carattere dei siciliani, alla propria, ormai disillusa, “decenza” morale, perché, dice il Principe: «(…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: (…) ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza». Dice padre Pirrone al Principe: «Senatores boni viri, senatus autem mala bestia».
La grandezza, ma anche l’originalità del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sta nel fatto della immensa cultura dell’Autore.
Infatti il suo leggere, il suo documentarsi quasi quotidianamente lo spinsero a rivedere gli sciapi, ma veri diari dell’avo Giuseppe (1838-1908), il quale amava annotare la giornata incorniciata da rosari (il romanzo inizia con la quotidiana recita del Santo Rosario) e pratiche di devozione.
E qui nasce il naturale raffronto fra “Il Gattopardo” e “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, che descrivono effettivamente una civiltà al tramonto. Ma il Lampedusa, come scrive il Lanza Tomasi: «fa suonare il campanello di allarme non appena la volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di sembrare, mentre Nievo puo’ abbandonarsi alla retorica della patria e dell’amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande cittadino veneto e un cattivo italiano; Lampedusa stava all’erta di non esserlo mai».
In Ippolito Nievo ed in Giuseppe Tomasi di Lampedusa i loro racconti, entrambi altamente biografici, si rifanno alle impressioni ed alle annotazioni dei loro avi.
Altro raffronto con il romanzo storico lo possiamo comodamente e tranquillamente trovare ne “I Viceré” di Federico de Roberto, romanzo anch’esso che narra il trapasso dal Regno delle Due Sicilie a quello d’Italia, ponendo in risalto i problemi politici e sociali della Sicilia, raccontando le vicende di una famiglia dell’alta aristocrazia siciliana di origine spagnola (anche don Fabrizio lo era) gli Uzeda, i cui componenti, con il mutare delle generazioni e delle circostanze, continuano a distinguersi per alcune sinistre caratteristiche, come l’egoismo, la prepotenza e l’avidità.
Ma tutto ciò non c’è ne “Il Gattopardo”, ove don Fabrizio è tutt’altro che egoista, prepotente ed avido. Forse un larvato egoismo, ma misto all’invidia, lo troviamo in Concetta, la figlia maggiore di don Fabrizio, innamorata da sempre del cugino Tancredi, la quale non accetterà mai l’unione di quest’ultimo con Angelica.
La vicenda descritta ne “Il Gattopardo” può, a prima vista, far pensare che si tratti di un romanzo storico. Il Tomasi ha sicuramente tenuto presente, come abbiamo visto poc’anzi , una tradizione narrativa siciliana (la novella “Libertà” di Giovanni Verga, “I Viceré” del de Roberto e la novella “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito in Sicilia, dove erano vive le speranze di un profondo rinnovamento).
Ma mentre de Roberto è, senza dubbio, per codesta tematica il più significativo, indagando le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, il Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che “in extremis” si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che fosse il modo migliore perché tutto restasse com’era.