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di Giuseppe Baiocchi del 29/07/2024

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La Rivoluzione francese è un evento determinante per la nostra epoca, poiché segna il passaggio tra l’epoca dell’Antico Regime e l’epoca definita “moderna”. Dopo il crollo della Monarchia Costituzionale (1791-92), viene fondata in Francia la Prima Repubblica e sarà proprio durante la Convenzione Montagnarda che esploderà la prima e più importante guerra di Vandea. La Convenzione ha tre fasi: la prima è quella dominata dai Girondini, la seconda dai Montagnardi (Terrore giacobino) e la terza si definisce termidoriana.

[caption id="attachment_16343" align="aligncenter" width="1000"] Ufficiale vandeano - litografia a colori dei primi dell'Ottocento.[/caption]

La storiografia ufficiale conta circa 5 Guerre di Vandea, le quali estendono il loro solco storico su di un arco temporale molto lungo, poiché spaziano dal 1793-94; 1795-96; 1799-1800; 1815 ed infine 1832. Anche se i confini tra una guerra e l’altra sono abbastanza labili, la prima certamente è la più grande guerra di Vandea, di stampo militare e non organizzata, come le successive, nella forma della guerriglia. Quello che poi sarà nominato Esercito Cattolico e reale ha avuto dei leader, degli obiettivi militari, un esercito con i gradi e stendardi per i reggimenti, ed infine un equipaggiamento quasi regolare. La seconda guerra di Vandea (1795-96) è sicuramente uno strascico della prima, che trae le sue origini dalla caduta del terrore e dall’installazione del governo della Convenzione termidoriana, certamente meno autoritario del precedente. La terza guerra di Vandea, (1799-1800) è una piccola insurrezione che approfitta della debolezza del Direttorio, il quale stava per trasformarsi nel consolato napoleonico. La quarta insurrezione vandeana (1815) si sviluppa durante l’epopea napoleonica, in particolar modo durante i 100 giorni nei quali Napoleone si riapproprio del potere. Infine l’ultimo strascico delle guerre di Vandea, risale al 1832, durante la monarchia costituzionale di Luglio di Luigi Filippo, due anni dopo l’abdicazione del Re legittimo Carlo X. La nipote di Carlo X, la duchessa di Berry cercò di risollevare una insurrezione in Vandea con scarsissimi risultati.

Innanzi tutto vorrei analizzare il territorio, che gli storici francesi definiscono come “Vandea militare”. Oggi la Vandea è un dipartimento francese, che non corrisponde del tutto con l’area in cui ci fu la sollevazione contadina. Difatti un Dipartimento francese è un’entità amministrativa creata dalla stessa Convenzione per creare un distacco culturale con tutte le provincie di Antico Regime, dividendo la Francia in un centinaio di zone dalla forma più regolare, applicando un nome sempre riferito ad un elemento naturale al suo interno. La Vandea prende il nome da un piccolo fiume, abbastanza insignificante, che scorre all’interno del nuovo dipartimento creato. Parlando della “Vandea Militare” insorta, oggi possiamo unire diversi dipartimenti: quello della Vandea attuale, a tutto il Nord del Deux-Sevres, a tutto il sud-ovest del dipartimento del Maine-et-Loire e tutto il Sud della Loire-Atlantique. Contrariamente, invece, se inquadriamo la “Vandea militare” con le provincie di Antico Regime, possiamo definire il territorio degli scontri uniformato su tre Provincie: il basso Poitou, il basso Anjou, e la parte bassa della Bretagna, che non parlava bretone. Come la geografia era variegata, anche gli insorti lo furono. Bisogna distinguere, durante le guerre di Vandea, quello che furono i vandeani, dagli Chouan bretoni: i primi erano a Sud del fiume Loira – elemento naturale che divide la Bretagna dalla Vandea -, mentre i secondi a Nord. La distinzione non è solamente geografica, ma è anche culturale, linguistica e militare. Difatti militarmente i vandeani erano organizzati in una armata regolare, mentre gli Chouan erano organizzati per effettuare unicamente imboscate , attuando la guerriglia. Le Chouannerie, termine con il quale la storiografica ha cercato di determinare queste tipologie di guerriglie, dureranno più a lungo delle insurrezioni vandeane: dal 1794 al 1800, senza grandi discontinuità. Difatti uno dei Capi bretoni Georges Cadoudal (Kerléano-en-Brech, 1º gennaio 1771 – Parigi, 25 giugno 1804) sarà ucciso dagli agenti napoleonici nel 1804. Tra le cause del sollevamento della Vandea vi sono diversi correnti tra gli storici francesi: una prima versione filo-repubblicana asseriva che tale rivolta fosse sobillata dai nobili e dai preti insistendo sulla superstizione religiosa dei contadini, per effettuare un colpo di Stato. Certamente il cristianesimo ha giocato un ruolo fondamentale, per via della grande religiosità delle campagne francesi, poiché plasmava non solo l’aspetto religioso, ma anche educativo e sociale: non a caso la vita sociale dei villaggi girava intorno alla parrocchia. Proprio partendo da tale consapevolezza, negli ultimi cinquant’anni di studio, gli storici d’oltralpe sono giunti ad una nuova versione delle cause principali dello scoppio della prima guerra di Vandea: la coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini per le guerre che la Convenzione aveva dichiarato agli Stati Trono e Altare e la Costituzione civile del clero del 12 luglio 1790 attraverso la quale si modificarono i rapporti tra Stato e Chiesa: i preti, vescovi e cardinali dovevano rispettare i dogmi della rivoluzione francese, senza prendere più ordini da Roma (anche le ordinazioni dovevano essere approvate dalla convenzione).Appare lampante e cristallino che ad un contadino analfabeta della Francia feudale del Settecento, lo stravolgimento dell’orario con l’introduzione del nuovo calendario, della geografia, della Santa Messa e la coscrizione obbligatoria venivano viste come un procedimento di aggressione. Inoltre la vendita diretta dei beni ecclesiali non confluisce ai contadini, ma a ricchi borghesi provenienti spesso addirittura da altri territori. Non dobbiamo osservare l’insurrezione delle guerre di Vandea come qualcosa di isolato a quattro provincie francesi, ma tra il 1793 e il 1794 avvenne in tutta la Francia un sollevamento generale di moltissime provincie francesi. Tale opposizione era molto variegata e spesso anche di carattere conservator-liberale. Una di queste forze erano ad esempio i Federalisti, chiamati anche “Girondini” (1791-93) guidati da Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) che dominano la convenzione nazionale tra il 1792 e l’inizio del 1793. Essi sono politicamente all’opposto dei Montagnardi (sfera radicale di sinistra, la quale si suddivideva nei club dei giacobini e dei cordiglieri, periodo 1792-99), poiché ambiscono ad una distribuzione del potere di tipo federale e sono molto potenti nelle grandi città di provincia della Francia. Quando i montagnardi, con i loro decreti, espellono i girondini dalla Convenzione nazionale, molte città sotto l’influenza girondina si sollevarono contro il governo centrale. [caption id="attachment_16345" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) leader dei “Girondini” (1791-93).[/caption] Tra le principali città in rivolta, troviamo Marsiglia, Lione, Bordeaux e Rouen in Normandia e proprio in questo caos – da guerra civile – molti movimenti monarchici si inseriscono all’interno delle compagini girondine. Ovviamente non si può parlare di controrivoluzione in questi casi, ma unicamente di opposizione al regime centrale montagnardo, poiché nessun girondino (anche se appoggiato da correnti monarchiche) voleva inserire nuovamente la monarchia costituzionale. I due episodi più marcanti di queste rivolte sono l’assedio di Lione (1793) durato diversi mesi tra l’estate e la fine dell’anno, finito con la quasi completa distruzione, da parte dei giacobini, della città definita “città senza nome”, quasi a monito per altre eventuali proteste; e la città di Marsiglia che subisce più o meno la stessa sorte. Il sollevamento contadino, dunque, si presenta inizialmente come una “jacquerie” contadina, poiché l’aspetto “monarchico” è arrivato dopo l’aspetto “cattolico”. Difatti inizialmente la nobiltà locale, a carattere feudale, non ha avuto nessun tipo di reazione ai moti rivoluzionari di Parigi (per parte monarchica, ci fu solo la reazione del barone di Sainte-Croix Jean Pierre de Batz, si salvare Luigi XVI dal patibolo). Così rispetto ad un regime lontano, confiscatorio, oppressivo, esterno all’organicità del sistema feudale, portano i primi moti della Vandea a poter essere qualificati come una iniziale rivolta contadina disordinata, senza alcun tipo di obiettivo: con la sola intenzione di colpire i reclutatori repubblicani e i persecutori della fede cattolica. I primi episodi della prima guerra di Vandea iniziano a metà marzo del 1793 con iniziali sporadici episodi di ribellione di braccianti, mezzadri e alcuni artigiani, soprattutto tessitori per via della città di Cholet, famosa per i suoi atelier di filatura e tessitura. Questi attacchi alle sedi locali della milizia della Guardia Nazionale hanno fin dalla prima ora successo, anche per via della scarsa opposizione degli stessi gendarmi che – anch’essi di umile estrazione -, abbandonavano spesso il posto di guardia per sottrarsi al conflitto. Fu così che con queste vittorie, i gruppi di insorti iniziarono a riunirsi e presto dovettero trovare dei leader che li guidassero e che iniziassero a pianificare l’evolversi della rivolta che stata per trasformarsi in una guerra civile. Da notare inoltre che fino a quel momento la Vandea non era una terra militarizzata, per cui non vi era motivo di inserire grandi cantonamenti militari. Caso unico di tutte le ribellioni controrivoluzionarie di quella Francia settecentesca, i vandeani iniziano ad assumere una struttura militare organizzata: nasce l’Armée Catholique Royale (l’Armata Cattolica e Reale), la quale si divise inizialmente in tre grandi armate, secondo la geografia del territorio; nascono così l’Armata del Basso Poitou, l’Armata del Centro (insorti intorno a Cholet) e l’Armata dell’Alto Poitou ed Anjou. Tale struttura militare non aveva conoscenza dell’arte militare, per via dell’estrazione sociale dei propri componenti: i contadini conoscevano il territorio, ma non sapevano delineare una strategia militare; così entrò in gioco quella nobiltà locale composta da tutti ex militari in congedo forzato per il Re di Francia. Il ricorso ai nobili fu coatto, poiché l’aristocrazia locale aveva percezione che tale esercito non poteva tenere testa a quello regolare, ed inoltre era consapevole che i loro possedimenti sarebbero stati – nel corso della guerra – bruciati o confiscati. Perdita di patrimonio e consapevolezza pragmatica delle forze in campo avevano spinto la nobiltà a non intervenire a favore della causa, ma dopo le insistenze – che spesso hanno sfiorato la violenza – diversi aristocratici, si arruolano e saranno poi quei leader che ancora oggi la storia pone a memoria. Così la controrivoluzione vandeana cambia volto: gli obiettivi militari si delineano, insieme a quelli politici: il ripristino della monarchia e della Chiesa di Roma. Un patto tra contadini e nobili viene siglato: “guidateci in battaglia per salvare le nostre terre e noi accetteremo di buon grado il ritorno del Re”. La disorganizzazione della Convenzione di Parigi che non aveva inviato truppe sufficienti per arrestare la rivolta, unita anche allo scarso addestramento della Guardia Nazionale, consegnarono, in breve, nella prima fase della guerra – da ottobre a maggio – , quasi l’intero territorio della “Vandea Militare” in mano agli insorti; addirittura in certe porzioni della Loira, le truppe repubblicane non attraversarono mai il fiume per almeno tre mesi. Le vittorie decisive iniziano con la presa di Cholet, città centrale della Vandea, il 14 marzo del 1793. I successi continuano con presa della grande roccaforte repubblicana di Thouars, avvenuta il 5 maggio del 1793, ma l’apogeo della controrivoluzione avviene con la presa della città si Saumur il 09 giugno dello stesso anno. Dopo altre piccole vittorie, lo sguardo volge alla città di Nantes, il vero caposaldo Repubblicano in tutto il territorio: la sua presa avrebbe significato non solo il controllo di tutta la Vandea, ma anche quel ricongiungimento con le truppe bretoni degli Sciuani che combattevano al di là della Loira, senza dimenticare l’anticipato sbarco dell’Armata di Condè sulle coste bretoni, con parte dell’armata britannica. L’intero Nord-Ovest francese si sarebbe reso indipendente. Dopo un assedio furente, il combattimento campale finisce con un pareggio, che però confluisce a favore dei Repubblicani, per diverse cause tra cui diversi errori tattici tra i Generali vandeani, in primis di comunicazione, e successivamente il ferimento (che poi lo portò alla morte) del Generalissimo Cathelineau. Dopo un’intelligente vittoria di Charette, presso La Noirmoutier il 12 ottobre 1793, che aveva assicurato un importante sbocco sul mare. Successivamente nella Battaglia di La Tremblaye il 15 ottobre verrà ferito a morte anche il Generale Lescure e successivamente con la sconfitta di Cholet del 17 ottobre, arriverà anche il ferimento a morte di Bonchamps, che prima di spirare, il giorno dopo, ebbe il tempo di graziare i 1.500 prigionieri in mano ai monarchici. L’esercito Cattolico e Reale, privato dei leader più carismatici e tatticamente più preparati, si ritrovò ben presto in balia degli eventi e dopo una riunione tra i Capi militari rimasti, ad eccezione di Charette, La Rochejaquelein avrebbe tentato quella che sarà chiamata la Virée de Galerne, ovvero una spedizione in terra di Normandia che aveva lo scopo di conquistare una testa di ponte sulla spiaggia per far sbarcare l’esercito di Condé, ma i vandeani, decimati, con il morale basso e soprattutto per via delle numerose malattie a cui già erano afflitti per il conflitto prolungato non arrivarono mai al loro obiettivo e superata la Loira, le diserzioni furono massicce. I contadini, lasciato il loro focolare, lasciata la loro terra per la quale si erano battuti, non avevano una disciplina militare propria di un esercito e non aveva l’interesse per una guerra alla Convenzione di dimensioni nazionali. Nonostante alcune vittorie in terra bretone e normanna, l’esercito perse l’iniziativa e annientando se stesso iniziò la ritirata. Successivamente la repubblica iniziò a pianificare lo sterminio di massa dei civili a partire dal 1794-95. Altri eroi sarebbero morti, i villaggi così come i boschi sarebbero stati dati alle fiamme: iniziavano le Colonne Infernali e il genocidio della Vandea Militare.   Per approfondimenti: Baiocchi G., Storia delle Guerre di Vandea 1793 - 1795 - 1799, 1815 - La reazione di penna e spada alla rivoluzione Vol.1, Il Cerchio Srl, Rimini, 2023.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 13/06/2024

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Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa può essere paragonato, a buon onore, come il “Guerra e Pace” della Rivoluzione e della Guerra Civile russa che intercorse un periodo storico molto lungo e travagliato (1894-1921). A scriverla è un personaggio controverso, l’Atamano (Capo camerata dei Cosacchi) Krasnov Petr Nikolaevich (1869 - 1947): eroe della prima guerra mondiale, premiato sia con la croce di San Giorgio che con l’arma d’oro, Maggiore Generale dell’esercito imperiale russo, leader della breve e combattiva Repubblica del Don (Grande armata del Don 1918-20), pubblicista per gli esiliati bianchi a Parigi e scrittore; nel 1926, il famoso filologo e slavo Vladimir Andreevich Frantsev (1867 - 1942) lo nominò addirittura per il Premio Nobel.

[caption id="attachment_16298" align="aligncenter" width="1000"] Pyotr Nikolaevich Krasnov ( 10 settembre 1869 , San Pietroburgo - 16 gennaio 1947 , prigione di Lefortovo , Mosca ) - Generale di cavalleria russo, nobile Atamano del Grande Esercito del Don, figura militare e politica, scrittore e pubblicista. Fu candidato al Premio Nobel per la letteratura (1926). Uno dei leader del movimento bianco nel Sud della Russia. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come capo della direzione principale delle truppe cosacche del ministero imperiale per i territori orientali occupati della Germania.[/caption]

Perché allora tale particolare personaggio vive nell’oblio? A spiegarcelo in soldoni è un altro scrittore russo, naturalizzato francese, figlio di emigrati russi Vladimir Volkoff (1932 - 2005) che in un’altra perla letteraria “Il Montaggio” ci regala questa descrizione: «Gli emigrati russi detti “bianchi”, di cui gli uni avevano scelto di battersi per la Germania perché il diavolo era migliore dei comunisti, gli altri di servire l'Unione Sovietica, perché il diavolo era migliore del tedesco. [...] Innanzi tutto, la vittoria della Russia eterna sulla Germania appariva agli emigrati come una vittoria della Santa Russia sull'usurpazione bolscevica. Sì la bandiera che sventolava sul Reichstag era soltanto rossa e non bianco-azzurro-rossa, ma i soldati sovietici che incontravamo parlavano della Russia più che “dell'Unione” [...] in poche parole sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi erano stati introdotti. [...] Infine, c'era un segno, visibile e tangibile, della rinascita della nostra Russia, della sua restaurazione interiore. [...] quel rettangolo di cartone rivestito di stoffa e fissato sulla spalla con un bottone di rame aveva acquistato tanto significato quanto avevano potuto averne, in altre epoche, le croci di questa o quella forma. [...] L'incubo, vagheggiavano, era finito». Difatti la vita dello scrittore, che aveva abbracciato – in piena coerenza con le sue idee monarchiche anti-sovietiche – a piene mani l’Operazione Barbarossa di Adolf Hitler per l’invasione dell’Unione Sovietica (diresse da dietro le linee per la sua età avanti nel tempo il XV SS-Kosaken Kavallerie Korps), mori di morte violenta: finì il 16 gennaio 1947 alle 20:45, quando fu impiccato nel cortile della prigione di Lefortovo1. Famosa rimase la sua frase: «Contro i bolscevichi, anche con il diavolo». Krasnov apparteneva ad una famosa famiglia cosacca del Don che aveva da sempre sfornato agli Zar, nelle epoche antecedenti, i migliori ufficiali di cavalleria2. Prima dell’incredibile carriera militare che lo attendeva, iniziò la sua seconda passione: quella di scrittore. Le sue attività sorgono già all’età di 12 anni nel 1891, per poi avviarsi verso una letteratura che glorificava l’esercito dove l’abile penna descrisse la vita di cadetti e alfieri (molte opere contenevano una storia d’amore), per sviluppare l’idea degli ufficiali come una speciale casta nobile e nella difesa dei privilegi delle guardie. Tuttavia, il tema determinante dei primi lavori dell’Atamano fu quello dell’eroismo. La stessa tematica infatti fu ripresa nel suo esilio in terra tedesca nel 19203. Un posto importante nel vasto processo creativo è l’eredità di un ciclo di romanzi dedicati alla “Grande tragedia russa” (rivoluzione del 1917): “Uno indivisibile” (1925), “Capire – perdonare” (1928), “Rotolo bianco” (1928). Questo ciclo preparato per 27 anni lo porta alla stesura del suo romanzo più celebre “Dall'aquila Imperiale alla bandiera rossa” (pubblicazione in quattro volumi 1921-224). Riflettendo gli eventi chiave del regno dell’imperatore Nicola II, il protagonista della tragica storia è l’ufficiale delle Guardie dello Zar, Alessandro Nicolaievitch Sablin chiamato affettuosamente dagli amici “Sasha”, che durante la Grande Guerra sarà infine nominato Generale. Il romanzo straordinario di carattere letterario realista è basato su eventi reali, su circostanze e fatti che non solo hanno fatto parte della vita dell’autore, ma che inevitabilmente ne hanno plasmato il destino.

Tutto inizia quando la Rivoluzione russa è nella sua fase finale: i Soviet sono già al potere e il regime di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881 - 1970) è caduto con il Governo provvisorio russo (1917) sfaldatosi in appena un anno di Governo, dopo l’ultima offensiva al fronte fallita, con i Soviet che contrariamente alle elezioni politiche perse, effettuano il colpo di Stato con Lenin leader. Nel Paese vige l’anarchia e l’assassinio anche solo per poco denaro, cibo o vestiario. Siamo in un vagone merci nella cittadina di Voronezh diretto a Rostoff nel Sud della Russia, ed è qui che avviene la prima descrizione di un bolscevico da parte di una giovane ragazza: «Ella esaminava ora i lineamenti del soldato dallo sguardo duro e del robusto giovanotto che si vantava di avere ucciso un agente di polizia. I loro visi erano belli, ma volgari e grossolani. Erano adatti ai ruvidi cappotti che portavano; cercò di figurarseli in un salotto, vestiti da ufficiali o in eleganti abiti borghesi, e sentì subito che sarebbe stata una cosa impossibile. Vi era come un richiamo all’età della pietra e di un umanità primitiva in quella potente muscolatura, in quelle mascelle formidabili, che testimoniavano una salute animale, in quei crani massicci, dalle folte arcate sopracciliari, ricadenti come una visiera, in quei capelli a spazzola, duri come crini» e subitanea un’altra riflessione della giovane ragazza, che rispecchiava invece “il mondo di ieri”, ovvero quello aristocratico: «E lei, Olia, saprebbe cavarsi d’impaccio, se si trovasse priva di qualunque aiuto? Certo, ella non ne sarebbe capace […] con quelle mani delicate che tradiscono la sua origine aristocratica. Olia si ricordò che Nika aveva un giorno ucciso una lepre a caccia e l’aveva consegnata alla cuoca, non sapendo né spellarla né vuotarla […] ella rise fra sé al pensiero che egli potesse fare una di queste cose. […] Erano dei parassiti in questo mondo. Erano dei burjuyes. […] degli sfruttatori e delle sanguisughe. Ella dovrebbe fare da se stessa il letto, lavare la biancheria, tenere in ordine il cortile, l’orto, il bestiame, preparare il desinare, cucire i vestiti per sé e per quelli che lavorano nei campi, faticare tutta la giornata senza riposo, come fanno le contadine. Mio Dio! Ma la giornata non basterebbe per tanto lavoro. Quando avrebbe il tempo di leggere, di studiare le lingue, di riflettere, di passeggiare, di ammirare le bellezze della Creazione? […] il mondo intero sarebbe dunque obbligato di abbassarsi al livello di quegli uomini e di dedicarsi esclusivamente ad un lavoro che abbruttisce per arrivare semplicemente a procurarsi il sostentamento: non vi sarebbe più né poesia, né religione, né bellezza sulla terra»5.

[caption id="attachment_16299" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra un giovane cadetto dell'aristocrazia di campagna russa. Nella foto di destra 2° laurea accelerata presso l'Università di Tashkent del 1 maggio 1915. Le scuole per sottufficiali (circa 60) furono create nell'Impero russo con l'inizio della Prima Guerra Mondiale, a causa della carenza di sottoufficiali e ufficiali morti prematuramente durante l'inizio del conflitto: la Russia perdeva gli uomini più fedeli dell'Impero. La durata della formazione durava 3 mesi. Le scuole furono aperte sulla base delle scuole militari esistenti, e concluso il periodo, il corpo dei cadetti veniva indirizzato direttamente al fronte.[/caption]
Qui avviene, immediata e prima ancora della presentazione del nostro protagonista – la prima perla del romanzo: due mondi opposti e inavvicinabili, due classi sociali non dialoganti e lontani, i primi ignoranti, numerosi, opportunisti e forti, senza storia e con futuro incerto; i secondi colti, fragili, educati, chiusi nella loro società inaccessibile, deboli e con il futuro segnato da povertà o morte. Ora il momento storico è a favore dei primi, che scovano e uccidono i secondi, che per secoli hanno dominato la scena politica russa. Nello scompartimento ferroviario vi è anche il Generale Sablin che scoperto da una guardia rossa fugge dal treno: qui si interrompe il prologo e inizia il vero romanzo. Il salto temporale è al 1894 e subito si denota il cambiamento sociale con la sua gerarchia di classe: i dialoghi tra gli svariati personaggi mostrano subito al lettore le differenze tra il prologo “rivoluzionario” e il primo capitolo “zarista”: si avverte che si è in un’altra epoca, ma siamo solo 23 anni prima. La vita del nostro protagonista è colma di serenità e piena di quei valori ideologici dove il Dio, la Patria e la famiglia sono propriamente i cardini di un’esistenza sana e retta. In primis il Dio cristiano che si incarna nello Zar. Proprio sull’Imperatore russo vi è una delle più brillanti descrizioni dell’intero libro, che ci trasmettere il senso del Sacro, ovvero l’autore ci inoltra indirettamente un concetto che oggi più che mai si è perso: la fede, il credere in un principio di vita: «La Bruna non soltanto aveva invaso le colline, ma anche i piedi del monte […]. Nulla faceva prevedere il sole, che pure doveva brillare quando sarebbe apparso lo Zar, “l’Unto del Signore”. Questa convinzione era condivisa da tutti, dal Generale coi capelli bianchi fino alla più giovane delle reclute. In uno splendore da sogno lo Zar doveva apparire in faccia al suo esercito in una aureola di raggi solari, magnifico eppur lontano. Era sempre stato così, dicevano i vecchi: il sole accompagnava sempre l’Imperatore, ed in ciò si vedeva la grazia divina, un miracolo che provava che lo Zar non era stato posto là dagli uomini, ma da Dio. […] Sablin era profondamente persuaso che il sole sarebbe venuto, ma talvolta, alla vista di quel cielo grigio che provava da un momento all’altro un acquazzone, sentiva il dubbio penetrargli nell’anima. […] Il sole verrà […] perché ci sarà l’Imperatore, e perché è sempre stato così in tutti i tempi! […] Le trombe della scorta di Sua Maestà squillarono. In testa, su un piccolo cavallo grigio di razza araba, dalle froge nere e ricoperto di una gualdrappa azzurra ricamata d’oro, l’Imperatore si teneva graziosamente e leggermente in sella. Il suo berretto rosso da Ussaro era piegato un poco da un lato, e al disotto della visiera nera, i suoi occhi grigi guardavano con bontà. Il suo dolmann rosso era coperto di alamari d’oro. […] Nello stesso istante, un raggio luminoso di sole brillò sul berretto di porpora e avvolse il cavaliere imperiale. Si sarebbe detto che la natura avesse atteso lo slancio potente di quegli urrà e quell’inno che risonava come una preghiera di fede incrollabile. Il miracolo era avvenuto. Il semidio appariva al popolo e i pensieri terrestri se ne volavano ben lontani dagli uomini. I cuori entusiasmati si sentivano più vicini al cielo. […] Si sentiva la voce carezzevole dell’Imperatore che diceva: - grazie, miei prodi.. - e già non si vedeva più. Davanti a loro si stendeva la pianura vuota; le note della musica, rimasta indietro, non arrivavano più che per ondate, simili a lontani ricordi di una gioia passata»6.
Inizialmente l’aristocratico Sablin è un Alfiere di Pietroburgo che trascorre la sua giovinezza tra riviste militari e feste mondane nei palazzi dell’aristocrazia russa. Sarà proprio in una di queste feste che conoscerà la ballerina Caterina Philipovna che in breve tempo lo svezzerà sotto il profilo amoroso e indirettamente – ma solo momentaneamente – ne ammorbidisce il suo profilo militare, difatti proseguendo la lettura “Sasha” inizierà ad avere dubbi sull’esistenza di Dio e sull’importanza dello Zar: semplici domande introspettive, umane, che qualsiasi persona nella vita si pone di fronte un comportamento poco corretto che esegue: un lavaggio di coscienza insomma. In tale ambito avviene un aspetto molto interessante del romanzo, inerente l’esercito poiché Krasnov inizierà ad introdurre personaggi sinistri che saranno coloro che nel tempo logoreranno l’esercito russo, fino a portarlo alla dissoluzione e all’anarchia, con il conseguente sbandamento delle truppe dovuto anche ai comportamenti inaccettabili del Governo Provvisorio già menzionato. Tengo a riportare ancora un piccolo passo nel quale si capisce lo scontro sia generazionale tra i “padri e i figli” all’interno del complesso militare: «Se tu tenti di predicare la rivolta fra i miei uomini, o di fare una propaganda qualunque, ti farò ammazzare, non mi scapperai. So che sei protetto. Il generale Martoff ha interceduto per te. Non me ne importa. Io non ho che un’idea in testa: il dovere, il servizio e l’osservanza del giuramento. Se ne son viste di tutti i colori qui. Abbiamo avuto ladri, degli ubriaconi […] All’occasione io posso perdonar tutto e anche nasconder tutto; ma mai, m’intendi, Liubovin, mai il socialismo è entrato in queste mura. Di modo che, comprendimi bene, se una follia di questo genere germinasse in una testa qualunque, sei tu che me ne renderai ragione. Tu la pagherai con la tua testa, e nessuno ti potrà salvare! Ti strangolerò con le mie mani! - Terminò il sergente con un mormorio roco. - Puoi andare, ora, ho voluto avvertirti, così al volo. Ma non mi viene neppure in mente che nel nostro reggimento possa trovarsi un solo uomo che osi avere un pensiero contro la Fede, l’Imperatore e la Patria. Via! »7.
Tali profili, in tempi non sospetti verso la Rivoluzione, ci fanno comprendere come essa ebbe radici profonde, già alla fine dell’Ottocento. Nemici interni all’esercito iniziarono a plasmarsi, ma vi erano anche i nemici esterni; uno di questi è l’eterno studente Fedoro Feodorovitch Korgikoff, che poi divenne leader rivoluzionario il quale così esprimeva al militare Vittorio Mikhailovitch Liubovin come doveva comportarsi all’interno dell’esercito: «La sola cosa che vi rimane da fare è di agire con dolcezza, nelle conversazioni a quattr’occhi. C’è una parola che è eccellente. È la parola “compagno”. Servitevene quando parlate al soldato. Attaccatelo isolatamente, egli non ha mai udito quella parola; lo sorprenderà dapprima e gli parrà in seguito di una straordinaria dolcezza che gli penetrerà insensibilmente nell’anima. Datemi un solo uomo ben preparato da voi alla rivolta, e avrete fatto opera utile. Cercate di averne uno soltanto, che sia sempre malcontento, che critichi ogni cosa; dopo cercate di prepararne il secondo. Bisognerà anche guadagnarsi l’animo di un sottufficiale; senza di ciò è molto difficile agire»8.
Così scatta il piano di Korgikoff di avvicinare Sablin al processo rivoluzionario. Il meccanismo è semplice: usare la sorella di Liubovin, Marussa ad incontrare l’ufficiale per poi farlo diventare un agente della rivoluzione strisciante. Ma il nostro protagonista si rivela un vero figlio dello Zar, fedele e dall’anima immacolata. Il piano fallisce e addirittura Marussa si innamora perdutamente di Sablin. Marussa proviene dalla piccola borghesia, che all’epoca in Russia comprendeva una parte esigua della popolazione, poiché la borghesia europea – così come la conosciamo noi – in Russia fino all’Ottocento era praticamente quasi inesistente, vigendo un sistema feudale. In una conversazione tra i due, la giovane donna affermerà a Sasha come: «Voi avete una profonda fede, lo vedo, - disse Marussia - tutto è stabilito con tanta semplicità nel vostro spirito; si direbbero dei compartimenti classificati contenenti tutte le nozioni ammesse: Dio, la Chiesa, i ceri, le immagini, le genuflessioni, lo zar, la devozione, le riviste; poi il reggimento, l’uniforme, l’onore e finalmente la famiglia. Vi è una distinzione precisa tra quello che è permesso e quello che è proibito, tra quello che è possibile e quello che è impossibile. […] invece in me vi è un caos completo nelle mie idee, Alessandro Nicolaievitch […] Tutti e due cerchiamo la verità, e ciascuno di noi la comprende come può, per quanto essa non sia stata scoperta da nessuno. Io voglio la felicità per il mondo intero, voglio amare l’umanità intera, mentre voi non date il vostro amore che ad un piccolo cerchio di esseri e non riconoscete degna del vostro affetto che una piccola parte dell’universo. Ci siamo incontrati, abbiamo discusso e ci siamo interessati uno all’altro. Un idolo ci ha ravvicinati. Questo idolo è la bellezza. Voi l’adorate e ne siete fiero, mentre io la considero come una debolezza, quasi come un vizio.. Voi mi avete fatto vedere un quadro da racconti da fate: lo Zar e il suo Regno. Io nel cuore ho un altro racconto che vi dirò un giorno; per il momento non siete preparato a comprenderlo. Permettetemi di restare per Voi una sconosciuta, come Cenerentola al ballo del principe». Ebbene ancora una volta l’autore cerca di trasmettere, prima degli eventi decisivi del romanzo, quelle differenze ambientali e ideologiche tra le varie classi sociali. L’amore tuttavia è ricambiato, ma il principe Repnin lo richiama all’ordine, rispetto alla sua situazione nell’esercito, poiché un matrimonio “misto” tra classi sociali non paritarie impartirebbe uno scandalo pubblico all’onore del reggimento. Sablin pensa di suicidarsi, poi di lasciare il reggimento per amore, di cambiare radicalmente vita, poi torna il senso del dovere verso l’ideale, verso i principi del suo “bel mondo”: rispettare le convenzioni per essere preservati da esse stesse. Ancora l’autore ci instilla un altro concetto, oggi scomparso: di fronte ad un desiderio individualista, compiere un sacrificio grave ci rende uomini e ci fa sentire in armonia con il contesto sociale al quale apparteniamo. Sablin però aspetta un figlio da Marussa, ma non può tenerlo, così in un aspro scontro verbale con Korgikoff, quest’ultimo si impegnerà a crescere suo figlio con gli ideali della rivoluzione, mentre nel frattempo Marussa muore di malattia. Siamo di fronte alla prima piccola tragedia sulla pelle del protagonista.
Di tanto in tanto l’autore inserisce nel romanzo il classico personaggio opportunista, lo zio Oblenissimoff: sarà fervente zarista prima della guerra, per il Governo provvisorio rivoluzionario nel 1917 ed infine dopo essere stato spogliato dai suoi averi, come la sua casa, dai Soviet fuggirà con codardia in Svezia, dove nel frattempo – guadagnando soldi al mercato nero sulle persone più disagiate – aveva guadagnato una fortuna e aveva trasferito i soldi nel paese della corona scandinava. I dialoghi di scontro ideologici con il protagonista sono epocali: «Vi fu un tempo, in un lontano passato, in cui il monarca precedeva il popolo. Ora le parti sono invertite. Viene prima il popolo e poi il monarca. - Non so figurarmi un gregge che guidi i passi del pastore, - disse Sablin. - Ma, in ogni gregge vi sono dei montoni di guida che conducono il gregge e senza il loro aiuto le pecore rischierebbero di rovesciare il pastore»9.
Il seguito scorre veloce agli occhi attenti del lettore: se la guerra russo-giapponese (1904-05) si rivela essere un autentico disastro militare mal gestito dal comparto militare zarista, sarà la Prima Guerra Mondiale (1914-18) che assesterà il colpo decisivo all’Imperatore per il proliferare della Rivoluzione che in primis riuscirà a distruggere il morale dell’esercito al fronte. Una volta che l’esercito si sfalderà, l’anarchia rivoluzionaria iniziale e gli omicidi degli ufficiali sia al fronte che all’interno del Regno inizieranno. Il nostro protagonista, dopo la tragica esperienza amorosa si sposa con una sua pari-grado, la contessa Vera Constantinovna dalla quale avrà due figli, un maschio Kolia e una femmina Olga. Nel frattempo, a corte la zarina sempre più intrigata dalla fascinazione di Rasputin, vero e proprio demone ed incarnazione del male – così come confermato dalla bellissima autobiografia del principe Félix Yussupov, nel suo “Dalla corte all’esilio” – cade sotto la critica della stampa, mentre anche sua moglie Vera viene irretita e “assaggiata” sessualmente dal monaco depravato. Yussupov così descrive Rasputin: «Fu proprio alla fine di quell'anno, il 1909, che incontrai per la prima volta Rasputin. [...] Questa giovanetta era troppo pura per capire l'ignominia del “sant'uomo” e troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e guarire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti. Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur senza avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento me lo rendeva sospetto. [...] A sentirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo; le debolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e preghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di conoscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di recarmi [...] alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre starez. [...] Poco dopo la porta dell’anticamera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a me e mi disse: “Buongiorno, mio caro”, con l’aria di volermi baciare. Arretrai istintivamente. [...] Di primo acchito, qualche cosa in lui mi spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso, piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esagerata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in Siberia); gli si sarebbero dati quarant’anni. Indossava un caffetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nell’insieme aveva l’aria di un semplice contadino. Il suo volto, incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio trasparente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto le folte sopracciglia. Benché affettasse una grande disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino una vigile diffidenza; si sarebbe detto che spiasse continuamente il proprio  interlocutore»10. [caption id="attachment_16301" align="aligncenter" width="1000"] Principe Felix Felixovich Yusupov , conte Sumarokov-Elston ( 11 marzo 1887 , San Pietroburgo - 27 settembre 1967 , Parigi ) - Aristocratico e giornalista russo, l'ultimo dei principi Yusupov. Noto per aver partecipato all'assassinio di Grigory Rasputin. Marito della principessa Irina Alexandrovna , nipote dello Zar Nicola II.[/caption]
La moglie Vera non regge alla situazione e per senso di colpa, all’insaputa di Sablin, si suicida. Per il protagonista della nostra storia il colpo è tremendo: qui si comprende come la stessa nobiltà russa inizia a comprendere come la politica del Regno si sia arenata politicamente anche per via di personaggi profittatori, ambigui e dalla dubbia eticità o moralità ed il caso di Rasputin calza a pennello. Sablin è distrutto, ma ha ancora il figlio Kolia e per lui prevede una grande carriera militare. Inizialmente il figlio non può partecipare al conflitto per via dell’età, ma invogliato dallo zio Oblenissimoff, Kolia si presenta alla vigilia di una delle primissime cariche di cavalleria dell’iniziale offensiva russa. L’evento è epico e drammatico e qui l’autore mirabilmente ci descrive da soldato qual è, la crudeltà della guerra: «I serventi della batteria tedesca non videro subito che stava per arrivare la carica della cavalleria. Sablin ebbe il tempo di discendere in un’ampia vallata e di risalire su di una collina senza essere stato scorto dal nemico. […] La batteria tirava a sinistra in diagonale e Sablin poteva vedere i lampi dei colpi. Poi essa cominciò a voltarsi rapidamente dalla sua parte. […] Al galoppo allungato! - comandò […] Sablin vide scoppiare una gran fiamma dritto dinanzi a sé; apparve una nuvola bianca; il cavallo di Rotbeck cadde. […] Un colpo violento lo aveva colpito al petto. Gli sembrò che il suo cavallo s’impennasse e fu gettato di sella. La terra nera e odorosa rinfrescò il suo viso e gli entrò in bocca. Sablin sollevò la testa. […] «sono ferito», pensò; vide sulla testa il cielo azzurro e infinito, poi delle miriadi di piccole bolle trasparenti passarono davanti ai suoi occhi e lo accecarono. Chiuse le palpebre e perdette i sensi. Il conte Blanckenburg fu il primo a giungere alla battaglia e con un colpo di sciabola fece stramazzare un uomo che gli sparava contro. Il suo squadrone e quello di Rotbeck circondarono i pezzi e fecero strage di tutto ciò che li circondava. Alla loro destra un urrà sonoro si ripercosse nell’aria. La fanteria russa, uscendo dalle trincee, correva dietro ai tedeschi in ritirata. […] la vittoria era completa. E questa vittoria, l’esercito russo la doveva all’assalto temerario, insensato, del mezzo reggimento di Sablin. Sablin stesso, gravemente ferito al petto, era rimasto a terra senza conoscenza. Suo figlio Kolia, col torso crivellato e la testa asportata, giaceva in una pozza di sangue fumante. Il capitano in seconda Artemief, l’alfiere Pokrovsky, il tenente Agapoff, l’alfiere Barone Lieser eran morti; il tenente Kuscnaref, il barone Livdal ed il conte Toll erano feriti. Traversando la pianura silenziosa, un cavaliere si avvicinò al trotto: era il principe Repnin. Il suo volto era maestosamente calmo. - Grazie, ragazzi; è stata una mischia gloriosa, un episodio eroico, - disse Repnin. - Avete glorificato per sempre il nostro reggimento. […] Ma come è stata falciata la nostra gioventù russa! Bisogna che tutto l’universo sappia che il nostro popolo è unito, e che i nostri ufficiali sanno morire insieme ai nostri soldati, e in testa ai soldati […] la bellezza di quest’impresa è rimasta a Sablin! Che egli muoia o che viva, il giorno dell’assalto che egli ha condotto e che ci ha dato la vittoria brillerà d’uno splendore eterno!»11.Arriva infine la terza tragedia di Sablin. Proprio in questo scontro il figlio rimane ucciso, anche in maniera brutale da una palla di cannone che gli taglia la testa. Ora il Colonnello Sablin – che dopo questo scontro diventerà Generale acquisendo anche la croce di San Giorgio – ha solo come obiettivo di vita il servizio alla Patria e presto gli verrà tolta anche questa.La guerra che fece perdere allo Zar i suoi figli più fedeli nei primi due anni del conflitto provocò la Rivoluzione. Messi fuori gioco l’apparato dell’esercito fedele all’Imperatore e successivamente chiamate le seconde linee non esperte e soprattutto già indottrinate politicamente dalla rivoluzione, le gerarchie tra ufficiali e soldati cessarono, scatenando il caos. Eroi del romanzo, senza macchia, come il Sottotenente cosacco Alessio Karpoff furono mandati al macello per conquistare piccoli metri di terra, che poi il Governo dei Soviet avrebbe svenduto ai tedeschi per la pace, tradendo quegli stessi morti dello stesso popolo russo. Intanto il fronte interno si sfalda, il tradimento è ovunque, tutti si rivoltarono contro la polizia. I «cittadini soldati» dimenticarono che il nemico era il tedesco e stabilirono che il nemico fosse il russo. Inizia la caccia anche agli ufficiali, questi furono divisi in ufficiali rivoluzionari e ufficiali controrivoluzionari. Ai primi fu messa una coccarda rossa all’occhiello, poi furono disarmati e i soldati li trascinarono per mano cantando a squarciagola. Gli altri furono ricercati e inseguiti; tutti quelli che s’incontravano furono uccisi per la strada. Il Governatore di Pietrogrado, il Generale Khabaloff, tentò di protestare. Fu arrestato e condotto in fortezza. Mentre la Duma festeggiava la folla andò alla fortezza di Pietro e Paolo, massacrò gli ufficiali e i guardiani e mise in libertà tutti i prigionieri dello «zarismo», sia politici, sia di delitti comuni. La città fu riempita di delinquenti di tutti i generi. Furono incendiate le caserme dei pompieri, rotti i vetri e saccheggiati i magazzini. Tutte le città risuonavano della parola “compagno”. Ma non è la gente del popolo che ha tradito. A loro molto sarà perdonato perché non sanno quello che fanno; sono le alte sfere che hanno tradito l’Imperatore; non gli hanno permesso di arrivare fino a Tzarskoie Selo. Il suo treno è stato fermato per la strada e il comandante delle armate del Nord, il Generale Russky, è andato a trovarlo con i rappresentanti del popolo, che del resto non sono stati delegati da nessuno, Gutchkoff e Sciulghin. Tutti e due appartengono alle destra: uno è ottobrista, e l’altro, Sciulghin, redattore del giornale Kievlianin. Essi erano latori di un manifesto già redatto, nel quale l’imperatore dichiarava di abdicare in favore di suo figlio. Non c’era che da firmare il documento. Vicino all’imperatore nessuno per consigliarlo, per sostenerlo. Gli dissero che tutta la Russia si era dichiarata contro di lui. Russky affermava che se non firmava il manifesto, i soldati del fronte delle armate del Nord avrebbero marciato su Pietrogrado. Così l’Imperatore affermò «se sono la causa dell’infelicità della Patria, sono pronto a sacrificare tutto, anche la vita, purché la Russia sia felice». Ma il sentimento ebbe il sopravvento e per non consegnare suo figlio al popolo, fece quello che non aveva diritto di fare, abdicò anche a nome di suo figlio. L’Imperatore ha abdicato in favore di suo fratello Michele Alessandrovitch, ma quest’ultimo ha rifiutato di assumere il potere sovrano. Così il principe Lvoff è Capo del Governo, Gutchkoff Ministro della Guerra, Kerensky, socialista d’estrema sinistra, ministro della Giustizia, e così di seguito, quasi tutti personaggi insignificanti, com’è del resto la Duma dalla quale vengono. Si arriva così verso l’epilogo caotico e sanguinoso dell’intera epopea. L’autore ci descrive con mirabile ingegno come poco a poco la macchina bellica si sgretola: come l’ufficiale coscienzioso viene sostituito dall’amico militare del governo provvisorio, per inserire piccoli commissari politici sotto sembianze da ufficiali; ci descrive come il saluto militare diviene quasi facoltativo; fino all’ammutinamento, alla rivolta, ed infine agli omicidi dei generali e degli ufficiali. «La 204ª divisione stava preparandosi a prestare giuramento di fedeltà al Governo provvisorio […]. Sablin si preparava già ad andarsene, quando fu bruscamente fermato da un violento rumore di voci. Vide i soldati dirigersi verso di lui spingendo avanti brutalmente un ufficiale; Sablin riconobbe il tenente Ermoloff. Quegli stessi soldati che poco tempo prima avevano espresso la loro adorazione per questo comandante con il quale avevano condiviso la vita della trincea, adesso lo maltrattavano. - Che c’è? - gridò Sablin. - Come osate?.. - Il gruppo si avvicinò e subito fu contornato dalla folla dei soldati. - Generale, - disse un giovanotto con aria insolente continuando a tenere Ermoloff per la giubba - permettetetemi di spiegarvi. Tutti hanno prestato giuramento, e hanno firmato la formula, ma il tenente Ermoloff si è diretto improvvisamente verso la foresta. Dunque egli non vuole prestare giuramento. - Anzitutto come osate malmenare un ufficiale? Lasciatelo in pace e ritornate nelle vostre file! - gridò Sablin. Nessuno si mosse. […] - Ho prestato giuramento al mio Imperatore, - disse Ermoloff con voce rotta, ma ferma e distinta - e non presterò giuramento a nessun altro. Io non sono un traditore. - Un mormorio passò tra la folla. - L’imperatore ha abdicato; è il popolo che governa, ora, ed egli rinnega il popolo. - Rientrate nell vostre file! - gridò con collera Sablin. - Perché rientrare nelle file? Compagni, bisogna ancora sapere se anche il generale ha prestato giuramento. Essi son forse d’accordo; non vogliono servire sotto la bandiera rossa. - Vi è stato detto di rientrare nelle file; - ripetè Kozloff - volete dunque provocare un ammutinamento? - I rivoltosi sono quelli che non vogliono prestare giuramento; bisogna arrestarli. - Si arrestiamo il Generale! - Non più Zar, non più padroni; arrestiamo il Generale! Avanti compagni afferratelo! - La situazione divenne critica. Le prime file non si muovevano ancora, non osando levare le mani sul comandante del corpo d’armata; ma erano spinte dalla folla retrostante che rumoreggiava minacciosa. Sablin sentì che qualcosa di terribile stava per accadere»12. Il Generale Sablin viene arrestato, rilasciato ed infine, durante l’Affare Kornilov, di nuovo catturato – sul vagone appunto, dopo una breve fuga - per essere giustiziato in maniera tremenda da quel figlio perduto in gioventù, adottato e istruito all'odio dal suo antico nemico Korgikoff. Negli ultimi giorni di vita del protagonista, gli viene chiesto di servire l'Armata Rossa e di riacquisire il rango di Generale, con i conseguenti benefit provenienti dalla posizione, ma Sablin rifiuta categorico, ricordando sia al lettore, che a se stesso il suo antico giuramento di fede allo Zar. Dopo tremende sevizie da parte di suo figlio Korgikoff, appartenente alla Ceca, morirà senza un lamento. La sua uccisione è simile a quella del Cristo per l’autore. Dio è morto, è stato crocifisso dai bolscevichi, il male ha trionfato, la Russia così come la si era conosciuta – nella sua forma più europea – scompare per sempre. Sablin rappresenta la morte dell’ultimo figlio fedele di un mondo che stava entrando nell’oltretomba. Dunque perché leggere Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa? Perché è un libro autentico, scritto da una penna straordinaria con una tale ampiezza e facilità che molti dei nostri veri scrittori di narrativa non si sarebbero mai sognati; un libro vero, sublime e crudo nello stesso tempo: un mix che solo i grandi della letteratura riescono a fondere. Voglio concludere, così come ho iniziato con Volkoff, sul concetto di Rivoluzione Russa: «La Confraternita della verità dei popoli si chiama così in onore della Confraternita della verità russa, i cui membri furono arrestati e giudicati durante il terrore post-leniniano. Invece di umiliarsi, di prosternarsi, di accusarsi di tutti i delitti, come hanno fatto le canaglie comuniste che sfilavano davanti allo stesso tribunale, i fratelli della verità russa rispondevano a tutte le domande che venivano loro poste cantando in coro: “Dio salvi lo Zar”. Si può non condividere le loro opinioni; non si può non ammirare il loro martirio. [...] Il popolo russo è effettivamente il popolo porta-verità, come ho scritto. Gli stessi cattolici sanno, dopo l’apparizione di Fatima, che noi abbiamo un destino a parte. La Rivoluzione cosiddetta russa è un tentativo non russo per pareggiare questo destino. La Russia ha un cuore mistico, il cui nome vero è Monastero della Trinità-San Sergio. Quel luogo è stato ribattezzato Zagorsk in onore di un oscuro rivoluzionario il cui pseudonimo era Zagorski e il nome vero Krachman. Non è simbolico? Conoscete i nomi degli assassini che hanno massacrato lo zar, la zarina, lo zarevič, le zarevne e quattro dei loro fedeli in quel sotterraneo di Ekaterinburg, il 17 luglio 1918 all'1 e 15? Tre sono russi, ma sentite i nomi degli altri: Iurovski, Horvat, Fischer, Edelstein, Fekete, Nagy, Grünfeld, Vergazy. Il vero nome di Trotski era Bronštein; di Zinov'ev, Apfelbaum; di Kamenev, Rosenfeld. Non ha importanza che alcuni di questi siano nomi ebraici: Dzeržinskij era polacco, Stalin georgiano, Berija mingreliano, Lenin un po' svedese e molto tartaro. Dunque non c'è ragione di gridare all'antisemitismo, come fanno gli Usurai, ogni volta che si constata che la Rivoluzione russa in realtà è una rivoluzione antirussa»13. [caption id="attachment_16302" align="aligncenter" width="1000"] Monumento all’Atamano Krasnov, che dal 2007 si trova nel villaggio di Elanskaya, distretto di Sholokhov, in un museo privato dei cosacchi. Alcuni chiedono la demolizione del monumento, altri sono contrari. Inoltre, la proprietà privata in Russia è rispettata dalla legge. E a volte sono rispettati molto più del ricordo di coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica. Tuttavia, sembra che sia stato trovato un compromesso: il cartello che diceva che si trattava di Ataman Krasnov è stato rimosso dal monumento. Adesso è solo un cosacco. Il 17 gennaio 2008, l’Atamano dei cosacchi del Don, deputato della Duma di Stato della Russia Unita Viktor Vodolatsky, ha firmato un decreto sulla creazione di un gruppo di lavoro per la riabilitazione di Pyotr Krasnov in connessione con una richiesta ricevuta dall’organizzazione cosacchi all’estero. Il 28 gennaio 2008, il consiglio degli atamani dell’organizzazione “Great Don Army” ha preso una decisione in cui ha osservato: “i fatti storici indicano che fu un combattente attivo contro i bolscevichi durante la guerra civile, e lo scrittore Krasnov durante la Grande Guerra Patriottica collaborò con la Germania nazista. Attribuendo un’importanza eccezionale a quanto sopra, il Consiglio degli Atamani ha deciso: di rifiutare la richiesta della fondazione senza scopo di lucro “Cossack Abroad” di risolvere la questione della riabilitazione politica di P. N. Krasnov”. Lo stesso Viktor Vodolatsky sottolinea: “il fatto della sua collaborazione con Hitler durante la guerra rende per noi del tutto inaccettabile l’idea della sua riabilitazione”. L’iniziativa di riabilitazione è stata condannata dai veterani della Grande Guerra Patriottica e dai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa.[/caption]  
Per approfondimenti:
1 Nel maggio 1945, quando si arresero alla prigionia inglese, i cosacchi della Wehrmacht contavano 24mila militari e civili. Gli inglesi consegnarono al comando sovietico oltre duemila ufficiali cosacchi, incluso Krasnov; 
2 Pronipote del Maggiore Generale I. K. Krasnov, capo militare della scuola Suvorov, eroe della guerra del 1812; nipote del Tenente Generale I. I. Krasnov, storico e pubblicista del Don; figlio del Tenente Generale N. I. Krasnov, storico del Don, scrittore di prosa e pubblicista, scientifico, la cui opera “Cosacchi di Terek” è stata premiata con una medaglia d’oro dall’Accademia Imperiale delle Scienze; fratello minore del botanico e geografo prof. A. N. Krasnov e Platon N. Krasnov poeta e traduttore;
3 Nel maggio 1918, i cosacchi ribelli cacciarono i distaccamenti delle Guardie Rosse dal territorio della regione del Don. Il 16 maggio 1918, il “Circolo per il salvataggio del Don” elesse Krasnov Atamano dei cosacchi del Don. Avendo stabilito rapporti commerciali con la Germania e non obbedendo a A.I. Denikin, che era ancora concentrato sull’Intesa, guidò la lotta contro i bolscevichi a capo dell’esercito del Don. Krasnov annullò i decreti adottati dal governo sovietico e dal governo provvisorio e creò l'Esercito del Grande Don come stato indipendente. Tutto ciò portò al fatto che dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l'esercito del Don nel novembre 1918 si trovò sull'orlo della distruzione e Krasnov fu costretto a decidere di unirsi all’esercito volontario sotto il comando di Denikin. Il 15 febbraio 1919 Krasnov, sotto la pressione di Denikin, fu costretto a dimettersi e partire per la Germania;
4 Esce in Italia nel 1929 con l’Editore Adriano Salani. Attualmente il libro non è andato più in ristampa ed è acquistabile sui vari mercatini dell’usato online;
5 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 13-14;
6 Ibidem, pp.49-53;
7 Ibidem, p.39;
8 Ibidem, p.45;
9 Ibidem, pp. 457-58;
10 Yussupov F., Dalla Corte all’esilio - Memorie dell’uccisione di Rasputin - parte prima, capitolo decimo;
11 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 307-10;
12 Ibidem, pp. 479-80;
13 Volkoff V., Il Montaggio, Guida Editori, pp.304-05.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/03/2024

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Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius (1912 - 2011), noto come Otto d’Asburgo ha sicuramente ricoperto nella storia del secondo dopoguerra un ruolo di spicco all’interno della politica europea. Capo della Casa d’Asburgo dal 1922 al 2007, anno in cui abdicò in favore del figlio Karl Thomas Robert Maria Franziskus Georg Bahnam von Habsburg-Lothringen (1961), fu il primogenito maschio dell’imperatore austriaco e re d’Ungheria Karl I (1887 - 1922) e di sua moglie Zita di Borbone-Parma (1892 - 1989). L’educazione dell’arciduca Otto, nonostante le ristrettezze economiche dettate dall’esilio, non sarà trascurata. L’erede, di una delle più importanti famiglie europee, fu seguito dal precettore conte Henri de Degenfeld, che lo avvia verso un’istruzione portata avanti anche da ex-ministri e direttori della Monarchia Duale, i quali avranno il gravoso compito di elevarlo verso un livello d’istruzione corrispondente al diploma superiore. Coerente con la tradizione asburgica sviluppa, come il padre, un alto senso di responsabilità, che successivamente gli tornerà utile in vista delle sue battaglie politiche.

[caption id="attachment_16255" align="aligncenter" width="1000"] Otto von Habsburg-Lothringen in età giovanile.[/caption]

Ma come poteva essere la giornata di un arciduca? Sicuramente molto dura: ci si alzava alle 06:30 di mattina, seguiva la Santa messa, la prima colazione, una breve pausa e successivamente si praticava equitazione o scherma, secondo le tradizioni di famiglia. Dunque lezioni e compiti, fino a colazione, poi Ottone poteva avere una ricreazione per riprendere i suoi studi fino al pranzo serale. Incredibile ci appare oggi, anche la conoscenza delle lingue europee: oltre il francese e l’inglese, il tedesco e l’ungherese, si esprimeva correttamente in italiano, spagnolo, ceco, croato e serbo. La famiglia gli insegna presto che ogni sua azione è sempre sotto «gli occhi di Dio», istruendolo verso i temi della tradizione cristiana. Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Oltre al rigore, degno di un Imperatore, la sua infanzia doveva toccare anche la problematica delle ristrettezze economiche, dettate dalla condizione, sempre instabile, della famiglia soprattutto dopo la morte del padre nel 1922 nell’esilio portoghese di Madeira. Accade anche che Otto non possa uscire di casa per diversi giorni finché il calzolaio del villaggio spagnolo non gli ripari il suo unico paio di scarpe, o che il ragazzo veda piangere una delle dame di compagnia della madre Zita, perché non vi erano i soldi per la spesa. La famiglia imperiale, in esilio, sarà prima ospitata da Alfonso XIII de Borbón (1886 - 1941) che li trattò da vero signore e galantuomo dal 1922 al 1929, successivamente si trasferirono in Belgio in uno château vicino Louvain, dove l’arciduca ereditario d’Austria poté frequentare l’università nella medesima città. La madre nel suo primo giorno universitario gli disse: «È una gran cosa essere fino a questo punto nelle mani di Dio». Alcuni amici della famiglia imperiale, gli offrirono un’auto per spostarsi e all’età di 23 anni conseguirà il dottorato in scienze politiche sociali, bruciando i tempi: siamo agli inizi degli anni trenta.

Una generazione di ex sudditi imperiali lo guardava, nonostante l'esilio, come punto di riferimento per un’eventuale restaurazione e in alternativa come leader politico. Uno di questi era lo scrittore Joseph Roth (1894 - 1939), afflitto dalla piaga dell’alcolismo. Alcuni suoi amici conoscendo l’infatuazione dello scrittore per gli Asburgo, ebbe l’idea di chiedere all’arciduca di intervenire. Il giovane, dopo aver convocato lo scrittore galiziano asserì: «Roth, in qualità di vostro imperatore, io vi ordino di smettere di bere». Roth, già ex soldato dell’Imperiale e regio esercito, in piedi sull’attenti, rispose una decisa esclamazione affermativa, prima di lasciare la stanza. Nel frattempo la Repubblica d’Austria, nel 1933, con il cancelliere austro-fascista Engelbert Dollfuss (1892 - 1934) – per scongiurare la presa del partito nazionalsocialista hitleriano in Austria -, rafforza il suo potere politico: viene sospeso il regime parlamentare creando un sistema corporativistico fascista a partito unico, con il Fronte Patriottico. L’arciduca Otto è inquieto per gli avvenimenti e riceve molti attestati di stima e sostegno da numerosi austriaci, sotto l’ala del cugino, il principe Maximilian Fürst von Hohenberg (1902 - 1962), figlio dell’arciduca assassinato a Sarajevo nel 1914, Franz Ferdinand.
[caption id="attachment_16254" align="aligncenter" width="1000"] Il Monumento di guerra sovietico di Vienna, più formalmente conosciuto come Heldendenkmal der Roten Armee si trova a Schwarzenbergplatz. Il colonnato semicircolare in marmo bianco che racchiude parzialmente una figura di dodici metri di un soldato dell'Armata Rossa è stato inaugurato nel 1945[/caption]
Tutto precipita un anno dopo, quando nel 1934 Dollfuss viene assassinato il 25 luglio a Vienna, durante un tentativo di Colpo di Stato nazionalsocialista. Sarà in tale periodo che avviene un evento alquanto particolare e portentoso, a simbolo dell’attaccamento della popolazione austriaca nei confronti della casata degli Asburgo: il 26 agosto il piccolo borgo di Kopfstetten ha il coraggio di nominare l’arciduca Otto, cittadino onorario – ricordando come l’asburgo fosse apolide in quel periodo. Da due anni, 269 comuni avevano già compiuto questo gesto di sfida di fronte alla minaccia di Adolf Hitler che amava affermare: «L’Austria? Sono cinque Asburgo e cento ebrei». Riconoscente, il giovane rampollo di Casa Asburgo e pretendente al trono, invia dal suo esilio belga una lettera aperta al sindaco di Kopfstetten, proprio l’ultima cittadina – come ci ricorda Zweig ne “Il Mondo di ieri” - da dove la famiglia imperiale aveva lasciato l’Austria: «Gli adii di Kopfstetten sono incisi per sempre nella mia memoria, anche se allora ero molto piccolo. Non dimenticherò mai l’angoscia che percepivo sul viso dei miei genitori nell’atto di separarsi da un popolo al quale avevano dedicato tutto se stessi […] Mi sembra sempre di sentire mio padre, l’Imperatore Karl, gridare “Arrivederci!” ai soldati che erano venuti alla stazione per portargli l’ultimo saluto. Purtroppo non ha più rivisto la sua patria, questo re della pace! E per quanto mi riguarda, con questa lettera conto di trovarmi già tra voi. So che i vostri cuori sono tutti in festa pronti ad accogliermi.. e per questo vi dico cordialmente a presto!». Successore di Dollfuss, il cancelliere Kurt Alois von Schuschnigg (1897 - 1977), da lui designato, nel 1935 riesce a far adottare dal parlamento alcune misure favorevoli alla dinastia il cui soggiorno in Austria era vietato. I decreti anti-Asburgo del 1919 sono parzialmente aboliti e due Burg, così come cinque case a Vienna, gli sono restituite. Possiamo pensare che Otto potesse cogliere il momento storico per una restaurazione nero-oro in Austria? Il cancelliere, viste le pressioni politiche si reca da Otto e nelle sue memorie scriverà: «dal pretendente al trono si diffondeva l’immagine di una personalità molto simpatica, cosciente delle sue responsabilità, sobrio nei modi, dotato di una intelligenza aperta, affinata dalle molteplici conoscenze e da una estrema gentilezza, una persona che sopportava a stento il suo destino di esiliato, con un impero giovanile che lo portava a non vedere gli effetti prospettici dovuti alla lontananza». Ancora tentativi, come quello avvenuto sempre tra il cancelliere, in lotta con l’estrema destra e l’estrema sinistra, e il capo del governo francese Pierre Laval (1883 - 1945). Ancora von Schuschnigg annoterà: «L’Austria e gli Asburgo sono concetti che, storicamente parlando, sono inseparabili come quello di Vienna dall’Austria o quello della Francia dai Borboni». Otto rappresentava l’uomo della tradizione e del legante culturale austriaco, colui che potrebbe garantire l’indipendenza d’Austria, nei confronti della Germania. Inoltre Otto d’Asburgo fu uno dei leader del tempo a opporsi nettamente alle lusinghe di Hitler, il quale prometteva all’interno del Mein Kampf, la restaurazione della monarchia asburgica in cambio del sostegno al nazionalsocialismo austriaco. La risposta di Otto mostra grande coraggio, quando senza ambiguità risponde su di una testata giornalistica: «Hitler è il solo uomo con cui ho sempre rifiutato di avere la benché minima relazione». Otto fin dall’inizio fu convinto, leggendo attentamente la sua opera, che il leader del partito nazionalsocialista voleva la guerra.
Intanto gli avvenimenti precipitano: nel 1936, in segno di riconoscenza verso il Führer per non essersi opposto alla campagna d’Etiopia del regime fascista (1935), Benito Mussolini ritira il suo appoggio al governo austriaco come “protettore dell’Austria” ritirando le truppe del Regio-esercito dal Brennero. Al fine di mantenere l’indipendenza, il cancelliere Schuschnigg è costretto a firmare un accordo con Hitler nel quale quest’ultimo prometteva di non invadere l’Austria in cambio della partecipazione dei “nazisti moderati” al governo di Vienna: ancora un’ultima illusione. È da affermare, di contro, che quasi la metà del Paese voleva ed ambiva all’annessione alla Germania, per ricreare quello che fu Il Sacro Romano Impero a lingua unicamente tedesca, dunque pangermanista. Addirittura anche i socialisti austriaci erano impegnati a sostenere l’Anschluss e così il 12 marzo del 1938, avveniva quello che passerà alla storia come Delenda Austria: la nazione veniva inglobata al Reich tedesco, con i blindati della Wehrmacht che supereranno la frontiera della Repubblica austriaca, senza incontrare resistenza dall’esercito. L’Austria si trasformava nella Ostmark (La Marca dell’Est), una provincia del Grande Reich. L’avversione di Otto al nazismo, fin dagli albori, lo pose come l’acerrimo nemico di Hitler, per quanto riguardava le posizioni del Führer sull’istituzione monarchica. È tristemente famosa la frase del nome in codice dell’Anschluss “Operazione Otto” e altrettanto forti furono le frasi di Hitler sprezzante sul passato dell’Austria-Ungheria, che definiva “impero meticcio”. Ancora due inviti da parte del cancelliere tedesco vengono rifiutate nettamente da Otto. Una posizione diversa, rispetto a quella presa dagli Hohenzollern, specialmente dal Kronprinz August Wilhelm Heinrich Günther Viktor Hohenzollern (1887 – 1949, il primogenito del Kaiser Guglielmo II) il quale aveva pubblicamente appoggiato Hitler durante la campagna elettorale, per avere in cambio una restaurazione della propria famiglia. L’arciduca ricorderà come una volta incontratosi con il principe prussiano, questi si presentò in camicia bruna delle SA, mettendolo «a forte disagio». Come in altri casi politici, Hitler sfruttò il nome della Casa reale per prendere voti, poi una volta al potere, scaricò gli Hohenzollern, non restituendo alcun “Trono e Altare”.
[caption id="attachment_16256" align="aligncenter" width="1000"] La vigilia del matrimonio una cena di gala si svolge all’hotel Excelsior. Otto indossa il collare dell’ordine del Toson d’Oro di cui è Gran Maestro; la regina esibisce un cerchietto di diamanti che apparteneva alla duchessa Maria Giuseppe, nonna del marito. A sua nuora Zita consegna le insegne in diamanti dell’ordine della Croce stellata che lei portava il giorno del suo matrimonio con Karl – onorificenza femminile in cui la sposa del capo del casato d’Austria è detentrice da quasi due secoli.[/caption]
Una settimana dopo l’annessione dell’Austria, il giorno di compleanno del Führer, il Ministro austriaco della Giustizia emette un mandato d’arresto contro Otto d’Asburgo e si legge nella nota «alto tradimento», poiché domandò aiuto alle Potenze straniere per impedire l’annessione. La stampa di lingua tedesca è dura, additandolo come «un reietto degenerato degli Asburgo» e un «criminale in fuga»: inizia la caccia all’uomo, che terminerà solo con la fine della seconda guerra mondiale. Il primo tentativo di rapimento da parte nazista, avviene nel 1939, quando un commando della Gestapo tenta di rapirlo: a Parigi, Otto soggiorna in un hotel di boulevard Raspail e, dopo l’armistizio del 1940, esso figura nella lista dei 76 nomi stabilità dall’alto comando come “elementi pericolosi e sovversivi”. Le autorità francesi hanno ordine espresso di arrestare tali individui; addirittura Walter Richard Rudolf Hess (1894 - 1987) voleva assassinarlo immediatamente dopo l’arresto avvenuto. L’arciduca si trovava in una situazione di immenso pericolo: la sera del 9 giugno 1940, quando il governo francese era già stato trasferito a Bordeaux, Otto è invitato ad un pranzo al Ritz da un ex ambasciatore americano presso il re dei belgi, per le 20:30. Una cena alquanto surreale se si pensa che cinque giorni dopo le truppe tedesche entravano trionfalmente a Parigi. La città è un deserto e gli uomini possono sentire il rumore dei loro passi che risuono nella sottostante piazza: «Eravamo i soli ospiti dell’albergo. Era incredibile quando ci penso… […] La cena era stata servita secondo le regole dell’albergo da camerati in frac come se niente fosse. La cena fu sontuosa, la discussione entusiasmante». Curioso che il libro degli ospiti del Grand Hotel veda, dopo la firma dell’arciduca, quella del feldmaresciallo Erwin Johannes Eugen Rommel (1891 - 1944), avvenuta pochi giorni dopo; qualche anno più tardi Otto d’Asburgo affermerà «di sicuro il mio nome non gli sarà sfuggito»! Il giorno dopo egli partirà per la Spagna ed il Portogallo, aiutando anche un centinaio di compatrioti austriaci alla frontiera con la Spagna franchista. A breve approda negli Stati Uniti, dove a Washington, convince l’amministrazione Roosevelt a dichiarare il 25 luglio “l’Austrian Day” e pubblica articoli per la rivista “The Voice of Austria”. Il prestigio della sua figura è tale che viene ricevuto anche presso la Casa Bianca dal presidente e sua moglie, incontrerà banchieri e industriali. Le sue conferenze affascinano il pubblico americano: le sue esposizioni sono chiare e precise, per un pubblico che conosce a malapena la Mitteleuropa. Sarà anche grazie al lavoro di Otto d’Asburgo, che alla conferenza dei ministri degli affari esteri che si era tenuta a Mosca il 19 ottobre 1943, gli alleati dichiararono che a conclusione del conflitto l’Austria sarebbe dovuta essere libera e indipendente, annullando, de facto, l’Anschluss. Infaticabile difensore dell’identità dell’Austria Otto d’Asburgo lavorerà a Washington fino al 1944, mentre la sua famiglia si era trasferita in Québec. Il suo ruolo negli Stati Uniti diviene essenziale, poiché egli si sforzò di far capire l’importanza dell’equilibrio geopolitico mitteleuropeo verso gli americani, ricordando loro molto spesso i gravi errori dei trattati post 1918, dove l’incoscienza, l’ignoranza e il disprezzo avevano regnato sovrane sui paesi sconfitti. Scoperto ben presto il piano egemonico comunista di Stalin nei confronti dell’Austria, che prese il nome di “Morghenthau” (dal nome di un segretario di Stato americano al Tesoro che l’aveva elaborato), vi si oppose con grande energia. Tale programma prevedeva la divisione dell’Austria in due parti: Vienna sarebbe andata sotto il controllo dell’Unione Sovietica (come poi avverrà per circa dieci anni) insieme a metà del territorio austriaco. I negoziati, quando Otto ne viene a conoscenza, sono già in uno stadio avanzato. Il presidente americano riferisce all’arciduca che è possibile ancora rivedere tale piano a condizione che lo richieda il Primo Ministro britannico, un certo Winston Churchill. L’inglese decretò, con molta semplicità che «la strada per l’India, vitale per l’Inghilterra, passava per Vienna e che quindi bisognava modificare il piano d’occupazione dell’Austria». Un lavoro oscuro e silenzioso quello dell’arciduca: se il piano Morgenthau fosse stato applicato l’Austria sarebbe scomparsa. L’armata Rossa entra in Vienna il 12 aprile 1945, presentandosi come “liberatrice” e facendo temere un trionfo bolscevico alle elezioni. Stalin ordinerà l’edificazione di un monumento alla loro gloria in piazza Schwarzenberg, ancora presente, inquadrato oggi da una fontana. L’Austria viene così “salvata” in quattro zone e non data interamente ai sovietici. La zona britannica controlla la Stiria, la Carinzia e il Tirolo orientale; la zona francese occupa il Tirolo settentrionale e il Vorarlberg; la porzione americana la parte sud dell’Alta Austria e Salisburgo; infine la Russia la Bassa Austria, il Burgenland e la parte dell’Alta Austria. Vienna stessa è scorporata in ben cinque zone, dove nel primo distretto era presente la sede amministrativa delle quattro potenze di occupazione e la capitale divenne dal 1948 il crocevia della guerra fredda.
L’esilio per Otto d’Asburgo sembra finire e dopo 25 anni può tornare nella sua terra (1945 - 1946): altra speranza effimera dopo tanti sforzi. Su richiesta del governo austriaco, gli Alleati ristabiliscono le leggi anti-Asburgo del 1919. L’accanimento ingiustificato porta la firma del presidente repubblicano Karl Renner (1870 - 1950), colui che nel 1938 aveva approvato l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. La famiglia è costretta a ripartire per l’esilio, mentre l’Europa andava trasformandosi in quel “campo di battaglia” tra le due ideologie imperialiste che si affrontavano. L’arciduca risiede in Francia, ma viaggia spesso come conferenziere. Per lui, l’evento più importante nell’immediato dopoguerra è il matrimonio: a 39 anni nel 1951, sposerà a Nancy, antica capitale del ducato della Lorena, la regina ventiseienne di Sassonia-Meiningen. L’atmosfera è particolare: oltre alle 80.000 persone presenti, è presente una scorta di soldati in uniforme ungherese e diversi dignitari sfilano con le uniformi dell’antico Impero. I due si conobbero nel 1950, dopo lo scoppio della guerra di Corea. I campi dei rifugiati ungheresi in Germania erano scossi dalla paura del vicino confine sovietico: «È così che ho incontrato la mia futura sposa. Lei cooperava con la caritas che si occupava degli ungheresi con i quali ne condivideva la sorte. I beni della sua famiglia che si trovavano in zona di occupazione sovietica, quella che sarebbe poi diventata la “Repubblica democratica tedesca”, erano stati confiscati integralmente. Questa giovane donna coraggiosa, esiliata come lo ero io e proveniente da una famiglia provata dalla sorte, mi ha subito attirato». Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce in Baviera, nella confortevole villa di Pöcking sul lago di Starnberg a sud di Monaco, romanticamente lo stesso luogo dove trovò la morte Ludwig II il 13 giugno del 1886. Le nascite si susseguono: Andrea (1953), le gemelle Monika e Michaela (1954), Gabriella (1956), Walburga (1958), Karl (l’erede tanto atteso nel 1961) e Georg (1964). Sulla moglie l’arciduca asserirà: «La favola non è mai terminata. Abbiamo avuto sette figli, cinque bambine e due bambini. Penso che le famiglie numerose siano una buona cosa, sia per i bambini come per il Paese». Dopo la liberazione da parte sovietica dell’Austria nel 1955 (Trattato di Belvedere), Otto ottiene nuovamente la nazionalità austriaca, senza il permesso di tornare sul suolo natio. Nel 1957 Otto dichiara di riconoscere apertamente la Repubblica d’Austria, ma ancora i socialisti si oppongo forzatamente al suo rientro. Ancora il 31 maggio del 1962, egli rinuncia “in conformità all’articolo 2 della legge del 3 aprile 1919 al suo ruolo di membro del casato degli Asburgo-Lorena e alle rivendicazioni di sovranità che ne derivano. Nonostante i suoi gesti di distensione, il “dottor Asburgo” fa ancora paura in Austria. Solo nel 1966, il 31 ottobre, potrà rimettere piede su suolo austriaco, ma continuerà sempre a risiedere in Baviera, ottenendo anche la cittadinanza tedesca nell’aprile de 1978: tale operazione gli permetterà di candidarsi alle elezioni del parlamento europeo del 1979. Il ministro presidente della Bassa Austria accetterà la doppia cittadinanza – vietata in Austria – poiché il dottor Asburgo-Lorena ha merito di aver fatto «ricomparire sulle carte geografiche del mondo l’Austria, dopo la seconda guerra mondiale».
[caption id="attachment_16257" align="aligncenter" width="1000"] Otto von Habsburg-Lothringen in età avanzata.[/caption]
Otto viaggia in molti Paesi d’Europa per cooperare politicamente alla sua ricostruzione: famosa la conferenza del 28 marzo 1968 al gran teatro di Le Mans, avente titolo “Austria tra est e ovest” organizzata dall’Accademia du Maine diretta da Guy des Cars. Recentemente, teneva ancora una conferenza “a braccio” al Circolo dell’Unione interalleata con “L’Europa degli anni 2000”, seducendo il numerosissimo pubblico presente. Possiamo capire come egli potesse essere ascoltato anche dai politici di primissima classe, in occasione della guerra di Jugoslavia (1991 - 2001). La famiglia Asburgo, perso il potere temporale, dopo essere sopravvissuta a tante rivoluzioni, persecuzioni e guerre, oggi si impegna con costanza – seguendo l’esempio di Otto – in numerose attività diplomatiche, caritative, amministrative e culturali, sempre in segno dei valori dell’Unità Europea. Certamente nel segno di un Vecchio Continente non asservito dall’attuale tecnocrazia economica e politica: Otto si sorprese nel vedere sulle banconote europee nessun personaggio storico celebre per il nostro continente, né nell’aver denotato alcun elemento del patrimonio artistico, architettonico, spirituale, scientifico e industriale, ma vuoti archi astratti che non conservano in sé nessun valore. La soppressione delle feste cristiane, figlio di un pretenzioso calendario europeo comparso nel 2011 rammaricò molto l’arciduca, che da sempre si era battuto per altri valori. Il complotto per far dimenticare le radici e l’identità “dell’Europa dei popoli”, oggi è ancora in atto. Un vero e proprio lavaggio della coscienza europeo. Come afferma anche il dott. Federico Nicolaci nei suoi studi: «Lo stupore con cui l’Europa scopre oggi di essere una “tecnocrazia senza radici” (Habermad 2014, p.21) e una costruzione “fondamentalmente vuota” (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, ricorda lo stupore del miope, giacché tale esito non è accidentale, ma è il risultato ultimo di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una “polity” sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna “energia” rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un’unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l’Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna». Ancora, proseguendo con le problematiche europee, ci sono voluti ben 92 anni per pagare i 269 miliardi di Reichmarks, ossia i 200 milioni di euro, dovuti alle riparazioni di guerra della Germania, estrapolate nel trattato di Versailles, saldato solo il 3 ottobre 2010. Il ritorno dell’Imperatrice Zita, con i suoi funerali di Stato in Austria sono stati oggetto di ampie discussioni da parte dell’opinione pubblica europea. Meno contestata, la beatificazione dell’Imperatore Karl I, avvenuta il 3 ottobre del 2004, per mano di Papa Giovanni Paolo II, che permise l’esposizione del ritratto del beato Imperatore sulle finestre di città del Vaticano, ricordate anche da Otto, il quale lascia un grande vuoto politico il 14 luglio del 2011 alla veneranda età di 99 anni, presso il suo domicilio di Pöcking in Baviera. L’arciduca si era molto indebolito, dopo essere caduto da una scalinata e soprattutto dopo la perdita della sua amata moglie un anno e mezzo prima. Lascia i famigliari in punta di piedi, addormentandosi nel sonno, con stile, così come aveva vissuto senza mai alzare la voce, per tutta la sua vita. I suoi funerali solenni a Vienna il 1°agosto sono stati accompagnati da 1 milione di austriaci (in un paese di 8,3 milioni di abitanti), ma anche da ungheresi, ruteni, galiziani, croati, italiani, boemi: il vecchio Impero scomparso, si riuniva per l’ultima volta. Nella cattedrale di Santo Stefano, la cerimonia si è svolta in presenza di numerosi monarchi e principi europei, del bel mondo, ma l’evento solenne ha visto anche alte personalità della politica europea e personaggi di rilievo religioso. Presenti tutti i cavalieri dell’Ordine del Toson D’Oro, ordine di cui l’Arciduca era stato Gran Maestro in Austria ed erano presenti anche un nutrito gruppo di quattrocento Kaiserjäger in gran tenuta tirolese, simbolo dell’attaccamento dell’ex contea del Tirolo all’erede al Trono. La televisione pubblica ORF ha trasmesso le esequie in diretta con diversi reportage storici e attuali, fino alla storica cerimonia di sepoltura presso la Cripta dei Cappuccini, che si apprestava ad accogliere ancora una volta “un semplice peccatore”.
 
Per approfondimenti _Marie-Madaleine Martin, Othon de Habsbourg – Prince d’occident, edizione Du Conquistador, 1959; _Jean Des Cars, La storia degli Asburgo, Udine, Nuova editrice goriziana, 2018; _Flavia Foradini, Otto d’Asburgo. L’ultimo atto di una dinastia, Trieste, Mgs Press, 2004.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 11/02/2024

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I grandi cacciatori mitteleuropei, così come le grandi cacce della nostra recente antichità venatoria europea, trasmettono sempre un fascino romantico verso un’epoca passata gloriosa e piena di tradizioni. Il “cacciatore” di questi tempi prestigiosi, aveva un profilo molto diverso dal cacciatore odierno, poiché quella che appunto veniva definita “arte venatoria”, era in realtà l’essere votati completamente verso la caccia: una vera e propria professione. Questi uomini rappresentano la vera tradizione venatoria austriaca: per lo più proprietari terrieri, fungevano anche da veri e propri “ambientalisti” della conservazione, fungendo di rimando ovviamente anche da modelli per la società dell’epoca.

[caption id="attachment_16218" align="aligncenter" width="1000"] L'imperatore Franz Joseph I posa dopo aver abbattuto un cervo presso Karapancsa nel 1896. Foto originale dell'arciduchessa Isabella d'Austria.[/caption]
Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Sotto l’Impero dell’Austria-Ungheria vigeva l’antico motto A.E.I.O.U. «Alles Erdreich Ist Österreich Untertan», ovvero «Tutta la terra è soggetta all’Austria», ma con la caduta della monarchia danubiana le imprese dei grandi cacciatori erano concluse e le loro tenute – in grande quantità – confiscate dai nuovi Stati nazionali.
I frammenti e i racconti ci pervengono quando nel 1984 due aristocratici sono a dialogo fra loro: da una parte il conte László Szápáry e dall’altra il barone Ernst Edwin Offermann. Capitava spesso che i due discutessero fino al mattino degli incidenti della giornata di caccia nel loro Pavillon. Durante le conversazioni non veniva mai riprodotta alcuna cassetta né presi appunti scritti perché ciò distraeva i signori da ciò che avevano da dire! Tra gli svariati invitati lo scrittore Klaus Neuberger (1955) continuava spesso tali conversazioni ascoltando incredulo l’enorme quantità di storie e aneddoti; analoga situazione avveniva con il barone Offermann. Solo successivamente, ciò che veniva ascoltato fu richiamato dalla memoria e trascritto: con il conte Karl Draskovich, il conte Franz Meran e Hans von Kienast iniziarono le trascrizioni durante le conversazioni.
[caption id="attachment_16219" align="aligncenter" width="1000"] Pranzo propiziatorio di caccia agli inizi del secolo scorso a Vienna.[/caption]
Di conseguenza, molte storie emerse gradualmente e costantemente ascoltate, sono state scritte e sono state condotte molte interviste. Nel modo in cui venivano poste le domande, venivano ricordate e interrogate varie personalità, e i narratori rivelavano i loro personali ricordi, con lo scopo di creare un piccolo monumento scritto a queste persone e ai grandi della caccia, per salvare dall’oblio odierno le loro esperienze e alcuni aneddoti e per regalare al lettore alcuni momenti belli e interessanti mentre legge il grande e glorioso passato: un riflesso storico che vedrà le gesta venatorie dei Laszlo Szapary, Albrecht von Bayer, Carl Hugu Seilern, Feri Meran, Ernst Edwin Offermann ed altri. Dunque cos’era la caccia? Il grande cacciatore dei Carpazi Herbert Nadler (1883 - 1951) scrisse: «chi non ha mai visto l’alba dopo una partita mattutina e non ha mai visto il risveglio del giorno, non sa cosa sia la caccia». Per il famoso cacciatore e scrittore di caccia conte Zsigmond Széchényi (1898 - 1967), «la caccia è devozionale», e il filosofo José Ortega y Gasset (1883 - 1955) affermava: «Si uccide per aver cacciato […] ecco perché vai a caccia, quando sarai stanco di essere nel XX secolo, prendi la tua pistola, fischietta al tuo cane e vai nel bosco e concediti qualche ora di divertimento, per tornare ad essere un uomo dell’epoca antica».
“I bei vecchi tempi” a Vienna erano dunque un’epoca in cui era ancora possibile organizzare cacce di massa e lasciare che tutta la passione e la professione diventassero quasi religiose. Un tempo che non è più, con circostanze e condizioni che non esistono più. Proprio la società dell’epoca rese possibile tale pienezza atmosferica. C’erano ancora saloni e cocktail, séjour e pomeriggi a carte. Il biliardo era ancora di moda, nei club si giocava anche a bridge (St. Johann, Jockey Club), dopodiché di tanto in tanto si faceva visita al Red Bar dell’Hotel Sacher o al Bristol Bar. Il bacia mano alle dame era più di una semplice formalità galante, era ancora uno stile di vita, non una parola popolare. Si viveva ancora in castelli, ville, palazzi cittadini o in residenze feudali lungo la Ringstrasse o in grandi appartamenti nel terzo e quarto distretto. E non sono solo i rappresentanti dell’aristocrazia erano coloro che portavano avanti l’arte venatoria, ma anche la borghesia benestante dava il suo contributo: industriali che producevano mattoni, producevano birra o barbabietola da zucchero lavorata, così come costruttori, produttori tessili e di seta, avvocati e altri. Se uno dei signori del pomeriggio voleva premiarsi, o magari incontrare qualcuno con cui discutere di questioni di caccia, si recava al Cafe Demel, il tanto decantato tempio dei dolciumi sul Kohlmarkt. Dal K.u.K. Hofzuckerbacker si poteva inoltre portare un regalo alla moglie rimasta a casa e proprio lì, dal 1936 in poi, l’artista di alto livello conte Friedrich Berzeviczy-Pallavicini (1909 - 89) decorò magistralmente le vetrine con le sue famose e ineguagliabili decorazioni, dove molti curiosi si recavano periodicamente in pellegrinaggio per ammirare le sue ultime creazioni. Successivamente si recò a New York via Parigi. Allora la comunicazione, se non parlata di persona, si chiamava ancora “corrispondenza”. C’erano ancora spettacoli di varietà e locali notturni dignitosi. I protagonisti si incontravano nei club maschili e all’ippodromo e molti avevano la propria scuderia (ad esempio Stall Seilern e Stall Meran).
[caption id="attachment_16221" align="aligncenter" width="1000"] Casa Imperiale Austriaca per l'Esposizione internazionale della caccia - Padiglione della Bucovina, 1910.[/caption]
C’erano ancora maggiordomi, autisti e personale in livrea, cuochi propri – anche loro specializzati nella cucina di selvaggina – e gioiellieri specializzati in gioielli da caccia. Il titolo professionale del K.u.K, letteralmente “Imperiale e regio”. I fornitori della corte pagavano sempre qualcosa e ciò forniva grande pubblicità alle aziende. I negozi di armi avevano ancora un’ampia scelta di fucili nei calibri 12, 16 e 20, e talvolta 28 e 410. Era ancora di moda la località di villeggiatura estiva, dove naturalmente la popolare regione del Salkammergut offriva molte opportunità per la caccia al camoscio estivo. Questa zona era estremamente frequentata all'epoca grazie all’Imperatore Francesco Giuseppe. All’epoca e prima vi era rappresentata anche l’élite culturale, che vi svolse anche la sua opera creativa, dove i protagonisti ne trassero forza e ispirazione: Johann Nestroy, i pittori, poeti e musicisti Waldmüller, Bauernfeld, Nikolaus Lenau, Carl Millocker, Johann Strauss, gli attori Katherina Schratt e Alexander Girardi, e più tardi Franz Lehar e Ralph Benatzky. Oggi Klaus Maria Brandauer, il direttore d’orchestra Franz Welser Most e gli scrittori Barbara Frischmuth e Alfred Komarek sono i rappresentanti culturali di spicco della omonima regione. L’imperatore stesso amava molto il pittore e cacciatore Friedrich Gauermann (1807 - 12) e Franz von Pausinger (1839 - 1915), di cui conservò molti dipinti a Bad Ischl. In questo periodo, anche i “baroni del sale” e gli industriali del Greater Burgh tenevano i loro ricevimenti sociali nella zona. Il tempo in cui non si cacciava lo si trascorreva con la famiglia, rendendo omaggio, giocando a tennis, a carte e occasionalmente assistendo a concerti alle terme o dal pasticcere Zauner con il suo caffè annesso. Allo stesso tempo, si facevano trattamenti termali con salamoia in una delle numerose terme. Si organizzavano anche gli amori autunnali dei cervi di montagna e si affittavano battute di caccia all’interno dei latifondi. Si poteva addirittura far realizzare sul posto una tradizionale pelle di camoscio o ritirare le famose “barbe di camoscio” legate artisticamente l’anno precedente. Nei giorni in cui a Vienna non c’era la caccia, le persone si incontravano per caso mentre stavano aggiornando o ampliando la propria attrezzatura in uno dei numerosi e rinomati negozi di caccia della città, o anche semplicemente acquistando nuove munizioni. C’era il k.u.k. Springer, fornitore del tribunale del 1° distretto e di Josefstadt. Prima con Kalezky nella Babenbergerstrasse, poi con i maestri Denk, Mulacz, Kruschitz, Gschwantner e Brandeis. Il grande magazzino Groh in Kartnerstrasse aveva un proprio reparto di caccia: venivano acquistate grandi quantità di cartucce. Oppure le persone si incontravano nel 7° distretto presso il famoso tassidermista Hodek. Eduard Hodek (1827 - 1911) accompagnò il principe ereditario Rodolfo nelle battute di caccia e fu preferito dall’aristocrazia austroungarica per le sue abilità: il maestro Hodek lavorava con precisione e stile incomparabili. Lavorò anche per il Museo di Storia Naturale di Vienna e per la Haus der Natur di Salisburgo. Oppure si poteva acquistare armi con incastonature in argento presso l’argentiere di corte Halder – il padre fondatore dell’azienda era il gioielliere Franz Josef Halder (1884 - 1972) – in Michaelerplatz; ed ancora si poteva acquistare gioielli da caccia per donne. L’imperatore Francesco Giuseppe I fu il primo acquirente della leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Haldersau su marmo di Salisburgo fu composto – ed è ancora in produzione presso “Halder Juwelier und Silberschmied” con argento, granato, marmo di Salisburgo e la leggenda narra che porti fortuna al cacciatore. Così nel 1910 l’Imperatore, quando aprì in suo onore la prima esposizione mondiale della caccia, Franz Halder presentò questo gioiello speciale: Francesco Giuseppe, accompagnato dal suo seguito, chiese cosa fosse questo nuovo oggetto e Halder spiegò il simbolismo umoristico a Sua Maestà; così Sua Maestà Imperiale e Regia preso il gioiello, lo consegnò a uno dei suoi aiutanti, noto per la sua mancanza di precisione, con le succinte parole «guarda, principe; forse questo migliorerà le cose». Il disegno di questa produzione proviene dal professor Waldmüller, discendente diretto del famoso pittore Biedermeier.
[caption id="attachment_16220" align="aligncenter" width="1000"] La leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) creato nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Altra tradizione era rappresentata dai distintivi venatori della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4.[/caption]
Una tradizione dell’epoca d’oro della caccia era la presentazione del distintivo di caccia della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4. Le persone indossavano ancora copricapi individuali e i distintivi di caccia degli antichi maestri erano presentati sui copricapi venatori con grande orgoglio. I tessuti venivano acquistati o confezionati su misura al Loden Plankl, a pochi passi da Michaelerplatz, o da Turczynski a Wollzeile. La ditta Morz in Mariahilferstrasse ha risolto i problemi relativi alle scarpe. La già citata Esposizione Mondiale della Caccia fu un evento straordinario e un’opera d’arte in cui è stato presentato il meglio dell’arredamento e della cultura venatoria. Le officine viennesi e la ditta Thonet hanno lavorato e costruito falegnamerie appositamente per questa mostra. E i grandi detentori del territorio della monarchia hanno sfoggiato i loro trofei unici e prestigiosi. Questa è stata una parata di performance straordinaria e incomparabile. I cacciatori più famosi da ogni parte del mondo si sono riuniti. Non solo gli amministratori forestali ne hanno parlato, ma tutti i cacciatori furono molto orgogliosi di questo evento unico, che ha portato anche alti profitti. Alcune persone furono ispirate a intraprendere nuove battute di caccia, così furono stabiliti contatti e firmati contratti di tiro. Questa grande mostra ha avuto per molto tempo un’influenza duratura sulla scena della caccia e ha plasmato anche il lato dei produttori e persino l’intero settore della caccia. Fu eretto un monumento all’ego della caccia in quanto le foto venivano pubblicate in numerose riviste venatorie, quando i maestri cacciatori annunciavano i loro percorsi o, come fece ad esempio il conte Rudolf Chotek, il quale descriveva ogni giorno l’esperienza dell’amore del cervo in interi saggi che furono pubblicati insieme alle fotografie. La notizia dei grandi percorsi per la caccia-bassa di Totmegyer si diffuse all’epoca sulle riviste indiane. Durante la stagione autunnale la caccia-bassa, che proseguiva fino all’inverno, godeva di una buona reputazione e molti tiratori avevano tempo a disposizione e disponevano anche dei mezzi finanziari necessari e della relativa indipendenza, per trascorrere settimane venatorie. Tutti avevano dei buoni aiutanti con i quali si aveva già molta esperienza e routine. Il lavoro del cacciatore distrettuale, dell’allevatore di selvaggina, perfino dell’allevatore di cani, del boxmaker, del pastore e di altre professioni specializzate era molto stimato, e c’era anche la professione di maestro fagiano.
[caption id="attachment_16223" align="aligncenter" width="1000"] Gruppo di escursionisti: al centro Francesco Ferdinando, Alfonso XIII in piedi davanti a un albero a sinistra, l'arciduca Federico a destra, Halbturn, 1906.[/caption]
Grande rispetto è stato riservato al personale. Le grandi cacce si svolgevano durante la settimana, di solito martedì e giovedì, a volte per più giorni. I maestri di caccia preferivano i buoni tiratori e gli inviti arrivavano principalmente in base alla qualità di tiro dei partecipanti e non in previsione di inviti di ritorno. In alcuni casi, però, gli inviti si basavano anche sul talento dell’intrattenitore. Naturalmente qua e là il grande nome di un allevatore di piccioni di successo aggiungeva valore alle liste degli inviti. E sui percorsi e sui rifugi delle altre cacce si sapeva molto e quasi tutto, in parte pubblicato anche sulle riviste specializzate. C’erano ancora fumettisti venatori ed uno o due scrittori di caccia si univano spesso alle squadre per raccogliere esperienze e storie, raggiungendo un’alta reputazione letteraria. Di conseguenza, gentiluomini avventurosi e ben navigati stuzzicarono il loro appetito per l’Africa, il Canada e persino l’India, ed attraverso i cronisti, le loro storie di caccia attraversavano il globo tramite diverse pubblicazioni di successo. Il richiamo dell'Africa, era glorioso, ma pericoloso: Fritz Schindelar di Vienna, lavoro nel continente africano come cacciatore professionista; tuttavia, Schlinder rinomato per i suoi calzoni bianchi immacolati e gli stivali lucenti, per la sua audacia e il suo essere donnaiolo, fu ucciso intorno al 1912 mentre assisteva il miliardario regista americano Paul Rainey, nel fotografare un leone che caricava verso la telecamera. I viaggi tra le cacce individuali, alternate, tra Boemia, Moravia, Slovacchia, i paesi dei Carpazi, Vojvodina, Ungheria e Austria erano molto faticosi. E poi ci sono i viaggi all’estero. Si viaggiava molto in treno, anche con l’O.K.W., ma si verificavano comunque molti guasti, soprattutto danni ai pneumatici sulle cattive strade di campagna. Alcune persone arrivavano a caccia solo all’ultimo momento, quando si mettevano in fila, dopo aver viaggiato tutta la notte – provenendo da un’altra battuta di caccia il giorno prima. I Waidmanner e gli Schützen spesso avevano bisogno nella loro vita di diversi libri di caccia e di tiro per documentare i loro percorsi e le loro esperienze. Anche i medici partecipavano spesso alle battute di caccia, per ragioni di sicurezza e per rassicurare, così da poter intervenire tempestivamente e con competenza in situazioni di particolare importanza (colpi di rimbalzo) e in un possibile incidente di caccia. Le massaie servivano ancora il pranzo nel campo o curavano la degustazione. Ultime, ma non meno importanti, le varie mostre di caccia (come quella annuale di Budapest) mostravano agli appassionati cosa era stato ucciso da chi e dove e le persone potevano confrontare gli esemplari. I cacciatori professionisti che confermavano un determinato capriolo al loro capocaccia o l’ora della loro partenza seguivano il rintocco dell’orologio del campanile di una chiesa vicina, oppure utilizzavano il proprio orologio da tasca. In breve: era il tempo dei grandi gentiluomini, delle grandi cacce, delle grandi distanze, dei tiratori eleganti e bravi, il tempo del saper vivere e la gente amava la compagnia, soprattutto la battuta di caccia. Le persone cacciavano al massimo e si vivevano bene, nell’organicità del mondo. Oggi, coloro che ricordano quelle persone pensano ancora di poter “sentire” il suono delle loro parole e la melodia dei loro racconti: a venatione mihi salus.
 
Per approfondimenti:
_Frevert Heinke, Meine Waidmänner und ich, BLV Verlagsgesellschaft, Monaco, 1965; _Erste Internationale Jagd Austellung Wien 1910; _Nadler H., Spari nel bosco. Dal mio diario di caccia, Bietti, Milano, 1965; _Neuberger K., Tolle Zeiten & Grosse Jäger, Bernodorf, 2009.
 
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 

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di Giuseppe Baiocchi del 04/02/2024

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Uno dei massimi prodotti letterari forniti per il filone mitteleuropeo ce lo fornisce il grande scrittore Franz Werfel (1890 - 1945) il quale viene considerato l’emblema di questo conservatorismo spirituale. La sua dignità democratica unita al suo cosmopolitismo, traspare in quasi tutte le sue opere, consegnandoci degli scritti che ci trasmettono pienamente il disorientamento dell’autore, incapace di reagire alla fine di un’epoca e parallelamente non in grado di analizzarla criticamente. Fautore della rivista tedesca Der jüngste Tag (Il giorno del giudizio del 1913), insieme all’editore Kurt Wolff (1887 - 1963) e allo scrittore Max Brod (1884 - 1968), che si poneva come forum per nuove poesie, col tempo divenne uno dei più importanti luoghi di pubblicazione della letteratura espressionista.

[caption id="attachment_16119" align="aligncenter" width="1000"] Franz Werfel (1890-1945).[/caption]
Esordì come lirico nell’ambito dell’espressionismo, con i volumi Der Weltfreund (L’amico del mondo del 1911), Wir sind (Noi siamo del 1913) in cui effonde l’umanitarismo e l’appassionata religiosità della sua natura, divisa fra sangue ebraico e aspirazioni cristiane. Nonostante la sua indole votata al pacifismo, allo scoppio della Grande Guerra, si arruolò nell’Imperiale e regio esercito e fu inviato sul fronte orientale come scrittore dell’ufficio stampa austriaco. Alla costante ricerca di umanità e grazia, il suo percorso fu camaleontico e mutevole, poiché intraprese e con successo, diverse correnti: dal suo essere mistico e simbolista inquadrato in Bocksgesang (1922) e Schweiger (1923); passando successivamente all’ermetico Beschwörungen (Incantesimi del 1923); per leggerlo in chiave epica con Die vierzig Tage des Mussa Dagh (I quaranta giorni di Musa Dagh del 1933), dove viene narrata l’epopea armena nei confronti delle repressioni dei Giovani turchi; concludendo con il Werfel narratore fantascientifico Stern der Ungeborenen (La stella degli uomini futuri del 1946).

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di Giuseppe Baiocchi del 13/01/2024

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1708007109264{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Joseph Roth è uno dei grandi sopravvissuti della civiltà ebraica dell’Impero danubiano.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

72°incontro Das Andere

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1704753168643{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 14/10/2023, dalle ore 18:00/20:00, presso la Sala dei Savi del Palazzo dei Capitani, si è svolto il 72°incontro dell'associazione culturale Das Andere. Ha dissertato l'incontro l'architetto Giuseppe Baiocchi, professionista specializzato nel restauro architettonico di arte sacra e beni culturali, il quale ha parlato della tematica "Progettare l'architettura sacra. Casi studio di progetto, restauro, ripristino".
La problematica della perdita del sacro all'interno dei manufatti edilizi di carattere religioso, è nel tempo odierno una questione di importante riflessione accademica e pratica. Tale perdita, si unisce - di concerto - a quella tipologica, metrica e stilistica che per secoli le Chiese di tutto il mondo hanno sempre posseduto.
Eppure questa crisi ha radici profonde che non spaziano solo nell'architettura, ma vanno ad inquadrarsi all'interno di una complessa krisis sul rinnovamento teologico e liturgico di Santa Romana Chiesa.
La conferenza pertanto, dopo un primo inquadramento storico, legato strettamente alle innovazioni e relativi sventramenti dei luoghi di culto in nome e per conto della Riforma Conciliare vaticana, ha indagato sulla necessità di ritrovare la tradizione architettonica che ha sempre contraddistinto una Chiesa, da un Centro Commerciale, fino a spaziare sul decoro architettonico, inteso come parte integrante non solo della stessa struttura architettonica, ma come elemento che riconcilia l'elemento del sacro all'interno di un luogo di culto.
       

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a cura di Stefano Scalella
11 febbraio 2023 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Arch. Marica Rella
Modera: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene:  Arch. Stefano Emanuele Fera
 
Sabato 11-02-2023 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo – 63100 Ascoli Piceno) il 66°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite l'architetto Stefano Emanuele Fera, il quale ha dissertato sul concetto dell'invenzione degli Ordini Architettonici - Perchè gli ordini greci e romani non esistono. L’evento è stato presentato dall'architetto Marica Rella e moderato dall’arch. e presidente Giuseppe Baiocchi. L’incontro ha visto la presenza del consigliere comunale avv. Micaela Girardi. Ordini Architettonici, Ordini Classici, o Ordini Classicisti? Ordini Greci, Ordini Romani, o Ordini Vitruviani? E quanti sono gli Ordini? Tre come i presunti Ordini Greci? Quattro come i genera di cui tratta Vitruvio? Cinque come le "maniere" di Serlio, o come gli "ordini" finalmente canonizzati dal Vignola? Il solo insorgere di queste domande e le relative contraddittorie risposte, la dice lunga sullo stato dell'arte, ossia sul "disordine" che regna incontrastato sul concetto di Ordine Architettonico. Non un tentativo di mettervi ordine, ma la proposta di un sintetico excursus storico volto a illustrare le vicende che hanno portato alla definizione quest’idea fondante della cultura architettonica mondiale che in Italia, tra XV e XVI secolo, ha avuta genesi e maggiore fioritura grazie al diffondersi e affinarsi delle teorie neoplatoniche cui, inoltre, si deve l’origine del pensiero sistematico moderno.

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a cura di Stefano Scalella
23 aprile 2022 – Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Giacomo De Angelis
Modera: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Dott.ssa Federica Cammarota
 
Sabato 23-04-2022 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo – 63100 Ascoli Piceno) il 63°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite la dott.ssa Federica Cammarota, la quale ha dissertato sul significato tecnico e valoriale della progettazione riguardante l’illuminazione. L’evento “Luce e Architettura. L’illuminazione dello spazio architettonico” è stato presentato da Giacomo De Angelis e moderato dall’arch. e presidente Giuseppe Baiocchi. L’incontro ha visto la presenza del consigliere comunale avv. Emidio Premici.
La lezione si è incentrata sulle tematiche della tecnologia LED, degli scenari luminosi, delle modalità di progettazione della luce e sul consumo energetico. Gli esempi dei lavori effettuati dalla lighting designer Cammarota hanno infine consolidato la discussione che ha suscitato un bellissimo dibattito finale. L’associazione Das Andere, ringrazia l’Ordine degli Architetti per il patrocinio all’evento.
Come la Cammarota ha rimarcato durante la sua Lectio Magistralis: «La progettazione della luce negli ultimi anni, e in particolare con l’avvento dell’illuminazione LED, ha subito una profonda trasformazione con la specializzazione della disciplina che sempre più gestisce la creazione di atmosfere luminose più che dei punti luce, e lo sta facendo attraverso la creazione di vere e proprie esperienze, e con l’utilizzo di dettagli luminosi sempre più minuziosi e di nuove tecnologie. L’uomo, come visitatore e fruitore dello spazio, è sempre al centro del progetto della luce, sia in riferimento alla luce funzionale che in riferimento all’illuminazione emotiva, quindi progettata per avere effetto sulla percezione degli spazi, anche quando la luce va a celebrare prevalentemente l’architettura, il visitatore resta comunque al centro della scena: stupore, curiosità, raccoglimento, entusiasmo o esaltazione, sono tutte emozioni che vengono provocate nel visitatore attraverso la narrazione e la valorizzazione di un concept luminoso che può riprendere, enfatizzandolo, o ampliare, arricchendolo, il concept architettonico.
Contemporaneamente, quella stessa tecnologia LED che permette la creazione di scenari luminosi anche estremamente complessi, viene oggi utilizzata al fine di ridurre il consumo energetico. I consumi LED sono infatti talmente bassi rispetto alle fonti luminose alogene e precedenti, che oggi è possibile incrementare di molto gli effetti luminosi e le atmosfere negli spazi – spesso molteplici e programmabili – mantenendo comunque un notevole risparmio energetico, come può avvenire ad esempio convertendo uno spazio architettonico datato o creandone uno nuovo.
Così come con tutte le tecnologie, anche nel caso dell’illuminazione la vera arte non sta nello sfrenato utilizzo delle nuove fonti di illuminazione, né in termini quantitativi che qualitativi, ma nel saperle usare con il fine di comunicare e di esprimere delle identità architettoniche e culturali mai uguali tra loro».
Per approfondimenti: https://it.federicacammarota.com/

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di Jessica A. Liliane Tami e G. Baiocchi del 25-04-2023

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Steglitz-Zehlendorf, periferia di Berlino: un giorno uguale agli altri in una estate di guerra. Ai vespri, un uomo attraversa il sagrato, poi si raccoglie lungamente in preghiera. È la sera del 19 luglio del 1944, tra poche ore, quest’uomo sarà protagonista di un avvenimento che cambierà la storia della seconda guerra mondiale: il suo nome è quello di Claus Philipp Maria Schenk conte von Stauffenberg e la sua missione è quella di uccidere Adolf Hitler. Ricorda così l’ufficiale di Stato Maggiore, il conte Ulich de Maiziere (1912 - 2006): «per Stauffenberg deve essere stata una decisione molto difficile, poiché era un uomo profondamente religioso e inoltre sapeva che nell’attentato oltre ad Hitler sarebbero morti anche tutti quelli che erano con lui in quella stanza». La morte di un uomo, per evitare la morte di milioni, per abbattere il tiranno, per liberare la Germania dalla dittatura nazista, per porre fine alla guerra. Ma c’è un dilemma di fronte al quale l’attentatore è solo, solo di fronte alla sua coscienza: quando per un cristiano è lecito uccidere? Non c’è una risposta, neanche nei dieci comandamenti, il quinto afferma “non uccidere” neppure il tiranno, senza eccezioni.
[caption id="attachment_12861" align="aligncenter" width="1000"] Conte Claus Philipp Maria Schenk von Stauffenberg (Jettingen-Scheppach, 15 novembre 1907 – Berlino, 21 luglio 1944) è stato un militare tedesco che svolse un ruolo di primo piano nella progettazione e successiva esecuzione dell'attentato del 20 luglio 1944 contro Adolf Hitler (noto anche come operazione Valchiria), e nel successivo tentativo di colpo di Stato. Il suo cognome completo era Schenk Graf von Stauffenberg, in quanto la famiglia Stauffenberg aveva aggiunto il termine Graf (conte), come parte del cognome, dopo l'abolizione dei titoli nobiliari da parte della Repubblica di Weimar.[/caption] L’arma per uccidere consisteva in due chili di esplosivo. Stauffenberg è un mutilato, un grande invalido di guerra, ma nella resistenza tedesca contro Hitler, nessuno è determinato quanto lui. Philipp von Boeselager, uno dei congiunti del 20 luglio del 44 ricorda come ammirava molto Stauffenberg: «aveva solo tre dita, ma era deciso a compiere un attentato per il quale aveva un impedimento fisico e nessuno era più indicato di lui. Non poteva togliere le sicure alle bombe, non era in grado di attivare l’innesco e così via, eppure era l’unico ad avere sufficiente coraggio e la possibilità di avvicinare Hitler, tutti gli altri non avevano così tanto fegato, oppure erano nazisti convinti». La bomba, nascosta in una borsa porta documenti deve esplodere durante una riunione dell’Alto Comando Strategico. Così il 20 luglio del 1944 a Rastenburg (oggi Ketrzyn) nella Polonia occupata, nella famosa Tana del lupo (Wolfsschanze), oggi completamente abbandonata, Stauffenberg deve riuscire laddove altri hanno fallito, poiché i precedenti attentati al Führer sono andati falliti. Il dittatore sembra irraggiungibile e soprattutto invulnerabile. Secondo lo storico Matthew Fforde, Hitler aveva l’abitudine di cambiare continuamente le date dei suoi incontri e questo fatto l’aveva salvato in diverse occasioni di attentato. Tale “fortuna del diavolo” aveva addirittura dato convinzione ad Hitler, di essere “protetto” dalla provvidenza, anche se essendo ateo, nonché anti-cristiano, aveva una concezione molto “particolare” della provvidenza. Il Führer nella sua residenza bavarese di Berchtesgaden sembra vivere in un mondo irreale: a vigilare sulla sua incolumità sono una scorta speciale delle Leibstandarte Schutzstaffel (SS), (le SS-Begleitkommando des Führers), le quali hanno l’unico compito di proteggerlo. Ricorda Kurt Larson una delle guardie del corpo di Hitler: «eravamo responsabili dell’incolumità del Führer, controllavamo la zona più vicina fino a 50, 100 metri, soprattutto quando si trovava in grandi spazi o nelle piazze, in quei casi però c’erano anche molti agenti in borghese». Avvicinarsi ad Hitler ed eliminarlo, è questo l’addestramento che viene impartito, nel segreto più assoluto, negli altipiani delle Highlands scozzesi ad un’unità speciale dei servizi segreti britannici. L’operazione Foxley dal giugno del 1944 prepara degli agenti per l’attentato e il piano prevede anche la partecipazione di alcune donne. I ricognitori inglesi hanno deciso che il luogo migliore per agire è la residenza privata del tedesco, il Berghof: gli agenti progettano di contaminare l’acqua potabile e di cospargere i vestiti del dittatore di sostanze velenose. Ad Obersalzberg, durante la sua passeggiata quotidiana, Hitler diventa un bersaglio facile, ma i tiratori scelti non entreranno mai in azione, poiché non solo risultò impossibile far entrare un uomo armato all’interno della zona di sicurezza, che veniva predisposta intorno al fiume; ma il comando britannico ritenne che oramai, a quel punto della guerra, Hitler sarebbe servito più da vivo che da morto, poiché se lo avessero ucciso, gli alleati avrebbero perso il vantaggio degli errori strategici che Hitler, dal 1943 in avanti, iniziava a commettere, imponendoli ai generali.
Qualche mese prima dell’Operazione Valchiria, nome in codice dell’attentato organizzato da Stauffenberg, un memorandum del governo britannico dichiarava come non era necessario instaurare rapporti con i gruppi di resistenza tedeschi poiché gli inglesi e gli americani non volevano cambiare la situazione in Germania, ma l’idea centrale rimaneva quella di portare avanti lo sforzo bellico e di distruggere la Germania il più presto possibile. Intanto, vicino Salisburgo, in Austria, presso il Castello di Klessheim avviene la presentazione di nuove uniformi ed armi, da parte di alcuni progettisti militari, al dittatore tedesco: è il 7 luglio del 1944. Uno degli alti ufficiali si comporta in un modo inconsueto, è il Generale di Brigata Hellmuth Stieff (1901 - 44) e sta progettando un attentato a Hitler: nel suo zaino è contenuta una bomba, ma al momento dell’attentato il generale non ha il coraggio di concludere l’atto e di lì a 14 giorni verrà arrestato. Uccidere Hitler: ad alcuni manca la determinazione, ad altri l’occasione propizia o la lucidità per capire che è necessario porre fine al massacro, che nel 1944 la guerra è irrimediabilmente perduta. Determinazione e possibilità di avvicinare Hitler, Stauffenberg le possiede entrambe. Ancora von Boeselager ricorda: «Stauffenberg che era un brillante ufficiale dello Stato Maggiore, era certamente consapevole del fatto, peraltro evidente, che dal punto di vista militare Hitler avrebbe condotto la Germania alla rovina. Era ovvio che, una volta persa la guerra, la Germania sarebbe stata annientata, era chiaro fin dall’inizio; e poi Stauffenberg era anche a conoscenza dei crimini nazisti e come chiunque avesse una coscienza non poteva da un punto di vista morale, far finta di niente, sentiva l’obbligo morale di cercare di porre fine alla dittatura nazista. Chiunque fosse a conoscenza dell’esistenza dei campi di concentramento avrebbe dovuto lottare per far cadere quel regime scellerato». Il conte infatti non era il tipico “sicario”, ma proveniva da una famiglia aristocratica cattolica bavarese, poi diviene ufficiale avendo una carriera militare florida; non ha un temperamento violento, inoltre dopo la campagna africana è invalido, perdendo un occhio e una mano. Dunque non si tratta di un profilo addestrato per un attentato, ma è fuori dubbio un uomo d’azione e con grande capacità organizzativa e crede fortemente che i dettami della coscienza debbano prevalere sul giuramento di fedeltà a Hitler. Ma la strada che ha condotto von Stauffenberg fino all’attentato è lunga e difficile.
Bamberg è in Franconia e nel 1926, Claus entra nel 17° reggimento di cavalleria a 19 anni. Come a Berlino anche Bamberg nel 1933, l’ascesa al potere di Hitler viene salutata con una fiaccolata. Stauffenberg guarda con interesse alla sua ascesa e all’inizio è perfino ottimista. Segue il 26 settembre del 1933 Claus sposa la baronessa Magdalena Elisabeth Vera Lydia Herta von Lerchenfeld, una donna degna del suo rango.
[caption id="attachment_12863" align="aligncenter" width="1000"] La moglie di von Stauffenberg: Magdalena Elisabeth Vera Lydia Herta von Lerchenfeld (1913 - 2006). A sinistra uno scatto del matrimonio cattolico. Al centro la lapide della moglie dopo la morte nel 2006.[/caption]
Stauffenberg accoglie favorevolmente il riarmo, premessa per un radioso futuro in chiave militare, vuole servire la Patria nella Wehrmacht di Hitler. Non sarà mai un acceso sostenitore del partito nazionalsocialista, ma il nuovo corso gli piace, come a circa il 95% dei tedeschi; egli viene affascinato sicuramente dal partito e certamente oggi, tutto quel periodo, viene liquidato senza troppe discussioni, poiché non ci si immerge più nel contesto etico-culturale dell’epoca, che vedeva la Germania, un  paese sconfitto inflitto dalle sanzioni e con un alto tasso di inflazione, con il pericolo comunista alle porte.
Nel 1938, con l’Anschluss – l’annessione dell’Austria al Reich tedesco – Hitler torna a riunire sotto un unico Stato tutti i popoli di lingua tedesca: un’impresa che era riuscita solo a Carlo Magno secoli prima. Ad ogni modo, solo un anno dopo, nel settembre 1939, il giovane ufficiale bavarese giudica pericolosa l’aggressione di Hitler alla Polonia «quel pazzo, vuole fare la guerra». Da quel momento Stauffenberg immagina di rovesciare il regime con un’azione che dovrà essere necessariamente violenta e pianificata nelle alte gerarchie. Nell’ambiente militare è un soldato modello, un punto di riferimento, un esempio. I giovani ufficiali lo consideravano un personaggio di grande carisma e sono convinti che sarà destinato a ricoprire incarichi di grande importanza nelle forze armate. Il giovane ufficiale partecipa, nel 1940, alla campagna contro la Francia con grande euforia e scrive alla moglie Lydia a maggio: «è una avanzata incredibile, una vera e propria invasione, una marcia inarrestabile che i francesi non hanno nemmeno provato a contrastare, a migliaia si arrendono e quando non si sentono sorvegliati scappano, ognuno di loro porta a cuore unicamente la propria sorte: stiamo assistendo allo sconvolgente inizio del crollo di una grande nazione, una disfatta non solo militare, ma soprattutto psicologica». La vittoria fulminea della Francia fa esultare il popolo tedesco: la prima guerra mondiale è stata vendicata. Stauffenberg dirà: «Hitler ha compiuto un unico errore: Dunkerque, li stanno convergendo le truppe britanniche, un errore che certamente il Führer non ripeterà (…) quell’uomo ha fiuto per le cose militari, a differenza dei suoi generali, aveva capito che la linea Maginot doveva essere travolta». Un “piccolo borghese”, così una volta lo aveva definito, ma ora di lui dice: «il padre di questo uomo non era un piccolo borghese, il padre di questo uomo è la guerra». In Unione Sovietica, il giovane ufficiale sperimenta quanto sia criminale la guerra di Hitler, ma malgrado ciò continua a fare il suo dovere servendo la Patria, come hanno fatto i suoi antenati, poiché nelle sue scelte contava anzitutto l’educazione di famiglia e la coscienza del servitore dello Stato: questi due elementi hanno orientato le sue decisioni professionali; chi proveniva da una famiglia nobile o da una famiglia di funzionari, diventava poi un servitore dello Stato: un concetto all’epoca molto sentito. Stauffenberg si considera il rampollo di una antichissima e nobile stirpe, gli Schenk von Stauffenberg: da sei secoli nel Duomo di Bamberga è costudita la statua di un principe svevo, il cavaliere di Bamberga (Bamberger Reiter), simbolo di dedizione al Sovrano e per il nostro protagonista la dedizione diventa uno stile di vita. Lui stesso si considera un personaggio storico, un autentico aristocratico, scelto per assumere una grande responsabilità verso il proprio casato e la propria terra. Cos’è dunque che lo indurrà a non seguire più il suo Sovrano, come esige la tradizione di famiglia? Claus viene educato in Svevia e qui viene iniziato al mondo della musica, della poesia e dell’arte: un mondo che continuerà ad affascinarlo anche quando sarà un militare di carriera. Così lo ricorda suo nipote Otto Philipp Schenk von Stauffenberg: «fece un’ottima carriera e uscì con il massimo dei voti dalla scuola militare e a 36 anni era il colonnello più giovane dell’esercito, ma di certo non era il tipico militare, poiché aveva tanti altri interessi, un orizzonte di vedute estremamente ampio; ad esempio era dotato di una sensibilità musicale davvero straordinaria».
[caption id="attachment_12864" align="aligncenter" width="1000"] Il Cavaliere di Bamberga (Bamberger Reiter), o Cavaliere di pietra (steinerner Reiter), è una famosa statua equestre che si trova nella cattedrale di Bamberga, in Germania. La statua fu realizzata nella prima metà del XIII secolo, probabilmente prima della consacrazione della cattedrale (1237). Si trova su una mensola che decora un pilastro del coro orientale. È una statua a grandezza naturale che raffigura un cavaliere senza barba, con la corona, senza armi, il capo eretto, lo sguardo rivolto in avanti. La corona e la posizione sul cavallo indicano che si tratta di un nobile di alto lignaggio, che incarna tutte le virtù della cavalleria medievale tedesca.[/caption] Coraggioso, brillante, nobile, il giovane colonnello tedesco pensa di essere un prescelto. Nella sua città natale in Svevia si appassiona al mondo ideale di un poeta che canta la nascita di un nuovo uomo tedesco: quel poeta è Stefan Anton George (1868 - 1933) e Claus lo chiama “il mio maestro”. George definisce Stauffenberg un giovane regale, un vero e proprio ragazzo prodigio e saranno per il Nostro, gli anni dell’entusiasmo e della passione. Spesso si rifugia in un luogo segreto, nelle alture del Giura di Svevia per riflettere sui versi di George e ritiene che nella Germania segreta, si nasconda un genio creatore che egli ha il compito di risvegliare.. un genio che proviene dall’antica Grecia, poiché l’uomo tedesco è diventato (o forse lo è sempre stato) il suo erede.
La sua adesione alla resistenza maturò lentamente, all’inizio Claus era diverso. Dicembre 1941, sfuma la speranza di una vittoria rapida e i tedeschi vengono fermati alle porte di Mosca. Stauffenberg è un ufficiale di Stato Maggiore ed è perfettamente a conoscenza dell’alto numero di perdite e per la prima volta dichiara che per fermare Hitler c’è un’unica soluzione: ucciderlo, ma egli stesso non è pronto ad un passo del genere, non ancora. L’ufficiale viene messo a conoscenza dei crimini compiuti dalle truppe tedesche nelle retrovie e parla sempre più spesso del possibile tirannicidio «è giunto il momento che un ufficiale tiri fuori la pistola e faccia secco quel maiale di Hitler». Il cambio repentino proviene sicuramente per la conoscenza delle fucilazioni di massa di ebrei in Ucraina e quell’occasione si convinse del nuovo percorso da congiurato. Molti mesi prima della catastrofe di Stalingrado, Stauffenberg è pronto a portare a termine il progetto «un cambiamento radicale sarà possibile solo con l’eliminazione di Hitler ed io sono pronto a farlo». Così il 26 gennaio del 1943 si reca da Fritz Erich G. E. von Manstein (1887 - 1973) il miglior generale di Hitler, il quale potrebbe portare la Wehrmacht dalla parte della resistenza. I due uomini sono uno di fronte all’altro, il colloquio è riservato, ma sincero e alla fine Stauffenberg non otterrà l’appoggio tanto agognato: è deluso, von Manstein non vuole un suo coinvolgimento e spiga le sue motivazioni, asserendo al Colonnello come un Comandante che occupava una così grande posizione di responsabilità, non poteva in alcun modo intimare alle sue truppe di disobbedire agli ordini, perché questo avrebbe inevitabilmente portato alla disfatta del fronte e poiché i tempi non sono maturi, neanche il popolo è pronto. I generali dello Stato Maggiore dunque, erano perfettamente consapevoli della situazione, ma erano pochi quelli pronti all’azione. Famoso il detto “i Feldmarescialli prussiani non si ribellano”. Corre il primo Gennaio 1943 e Stauffenberg viene promosso Tenente-Colonnello e trasferito come ufficiale di Stato Maggiore alla Divisione Panzer che combatte sul fronte libico. Il suo nuovo comandante è Johannes Erwin E. Rommel (1891 - 1944) una leggenda vivente e rappresenta anche una fonte di speranza per la resistenza, ma per Claus l’avventura militare in Africa durerà solo pochi mesi: 7 aprile 1943 un attacco aereo britannico a bassa quota lo ferisce in maniera seria mutilandolo. Così ricorda Klaus Burk, sottotenente del 10° Panzer Divisien «d’un tratto vedemmo l’auto di Stauffenberg crivellata di colpi, lui non c’era più, non si vedeva più nessuno; il rottame era in mezzo al deserto in una distesa pianeggiante e abbiamo proseguito fino al centro di comando tattico, dove era stabilito che ci saremmo incontrati e lì seppi che Stauffenberg era rimasto gravemente ferito e che era stato portato all’ospedale militare». Dunque l’incidente parrebbe essere la fine di tutti i suoi progetti, di tutte le sue speranze? Gli viene amputata la mano destra, ha perso l’occhio sinistro e gli restano solo tre dita alla mano sinistra, ma incredibilmente vuole andare avanti lo stesso, uscire dall’ospedale militare e uccidere Hitler. Invalido, ma più ostinato di prima: tornato in famiglia affronta prima una rapida convalescenza e poi la guarigione e sempre più spesso dichiara che bisogna “salvare la Germania” e che come ufficiale dello Stato Maggiore è ancora corresponsabile di quello che accade. Le prospettive belliche tedesche oramai sono ben poche relative ad una vittoria: lo scacchiere africano è perso, è iniziata la ritirata di Russia, sono anche iniziati i bombardamenti sulle città tedesche e soprattutto un secondo fronte si è aperto con lo sbarco in Normandia da parte degli americani ed inglesi. Certamente è lecito pensare che se Hitler fosse stato ucciso, rimanevano tutti gli altri uomini del regime: Hermann W. Göring, Heinrich L. Himmler, P. Joseph Goebbels, Alfred E. Rosenberg e gli altri elementi di spicco, senza contare le Waffen SS, la Gestapo, i Gauleiter – insomma il regime nazista nell’estate del 44 è ancora ben saldo. Sicuramente il nazismo sarebbe proseguito con un altro leader. Questo problema viene posto tra gli ufficiali militari della resistenza ed è per questo che l’eventuale attentato avrebbe dovuto colpire tutti i gerarchi in un solo colpo: un’operazione difficilissima.
Così al Bendlerblock di Berlino nella sede del comando generale delle forze armate, Stauffenberg diventa Capo di Stato Maggiore delle forze armate territoriali della riserva e d’ora in poi avrà accesso diretto al Führer, diventando così il punto di riferimento della resistenza ad Hitler e sarà lui l’esecutore materiale dell’attentato. Gli uomini raccolti intorno a Stauffenberg intendono rovesciare il nazismo utilizzando un vecchio piano creato per la repressione di disordini interni con il nome in codice Operazione Valchiria (Walküre). Il copione del golpe è stato ideato dalla mente più esperta della resistenza militare, il generale Henning von Tresckow (1901 - 44), capo di Stato Maggiore del gruppo d’armate di centro sul fronte orientale. Il piano prevede i seguenti passaggi: la responsabilità del colpo di Stato sarà addossata alle SS, al partito e alla polizia, con l’esercito della riserva che li disarmerà e terrà in scacco il regime, fino a quando la Wehrmacht non assumerà il totale controllo della situazione. Nei boschi intorno a Berlino, al sicuro da spie e informatori della Gestapo i congiurati possono discutere indisturbati del golpe: soltanto la cerchia più stretta è al corrente di tutti i dettagli e tutto si basata sulla conoscenza e fiducia reciproca, poiché il tradimento di uno solo dei congiurati, avrebbe significato la morte di tutti gli altri. Ai primi significativi dissensi al regime hitleriano in ambito militare si andarono ad affiancare altri di tipo religioso, quali quelli del cardinale Clemens August von Galen e del vescovo Theophil Wurm, che protestarono contro l’attuazione del cosiddetto programma eutanasia. Anche alcuni movimenti, quali l’Orchestra Rossa e la Rosa Bianca, iniziarono sommessamente a manifestarsi nel 1938, quando gruppi dell’Abwehr e dello Heer cominciarono a pianificare un rovesciamento del regime di Hitler; i primi che ipotizzarono tale opzione furono i generali Hans Oster e Ludwig Beck ed il feldmaresciallo Erwin von Witzleben, che stabilirono in seguito contatti con numerose autorità politiche, come Carl Goerdeler e il conte Helmuth James von Moltke. Ma i militari non sono gli unici ad attuare una resistenza contro Hitler; nel 1940 a Kreisau nella Slesia un gruppo di civili di estrazione sociale molto diversa si riunisce per discutere sul futuro della Germania. Sono avvocati, religiosi, sindacalisti, politici socialdemocratici e anche aristocratici. I loro nomi: il conte Helmuth James von Moltke (1907 - 45), il conte Peter Yorck von Wartenburg (1904 - 44), Adam von Trott zu Solz (1909 - 44), il filosofo ed eroe di guerra Ernst Jünger (1895 - 1998), Julius Leber (1891 - 1945), Carl Friedrich Goerdeler (1884 - 1945), il gesuita Alfred Delp (1907 - 45), Adolf Reichwein (1898 - 1944), Hans Bernd von Haeften (1905 - 44), Nikolaus-Christoph von Halem (1905 - 44). Saranno i membri del circolo Kreisau, completamente annientato tra l’anno del 1944 e quello del 1945. Erano alleati contro la dittatura e contro i crimini dei nazisti, ma non erano legati da una comune fede politica. Volevano far rinascere la democrazia e lo stato di diritto in Germania, dove la dignità dell’uomo fosse rispettata senza differenza di razze. Il circolo cercò di accreditarsi presso gli Alleati, affinché questi appoggino il loro temerario progetto, ma il circolo non verrà preso mai in seria considerazione dagli inglesi. Gli Alleati non volevano far capire all’opinione pubblica che anche all’interno della Germania, c’era una buona Germania, una coalizione che poteva e doveva essere rispettata, se non lodata.
[caption id="attachment_12865" align="aligncenter" width="1000"] Alcuni membri del circolo Kreisau (da sinistra a destra): il conte Helmuth James von Moltke (1907 - 45), il conte Peter Yorck von Wartenburg (1904 - 44), il conte Ulrich Wilhelm Schwerin von Schwanenfeld (1902 - 44) il filosofo ed eroe di guerra Ernst Jünger (1895 - 1998) e Carl Dietrich von Trotha (1907 - 52).[/caption] Altra resistenza tedesca al partito avvenne con i membri intellettuali della “Rosa bianca”. All’inizio dell’estate del 1942, Hans Scholl e Alexander Schmorell formarono un gruppo di studenti dell’Università di Monaco che volevano eludere la cooptazione nazista e mantenere la loro indipendenza intellettuale. Includono Sophie Scholl, Christoph Probst e Willi Graf. Sono formati dal loro professore universitario Kurt Huber, con il quale discutono questioni fondamentali della riorganizzazione politica. Nell’estate del 1942, i primi volantini della Rosa Bianca invitavano alla resistenza contro la dittatura criminale. Seguono altri due volantini nell’inverno 1942/43. Gli studenti cercano anche di stabilire contatti in altre città. A Ulm, attorno a Hans Hirzel si formò un gruppo di studenti che rimase in contatto con Hans e Sophie Scholl. Il 18 febbraio 1943, Hans e Sophie Scholl pubblicarono il sesto volantino all’Università di Monaco e furono arrestati durante il processo. I fratelli Scholl e Christoph Probst furono condannati a morte il 22 febbraio 1943 e assassinati lo stesso giorno. Nell’aprile 1943, il “Tribunale del popolo” condannò a morte Alexander Schmorell, Willi Graf e Kurt Huber e altri aiutanti e complici, inclusi membri del gruppo di Ulm, a lunghe pene detentive. Nel 1942 si formò anche ad Amburgo un gruppo che ebbe contatti con gli studenti di Monaco tramite Traute Lafrenz e Hans Leipelt. Nell’autunno del 1943, la Gestapo scoprì le attività di questo gruppo di Amburgo e arrestò più di 20 persone. Negli anni che seguirono, altri dieci oppositori del regime associati ai rami di Monaco e Amburgo della Rosa Bianca furono assassinati o portati alla morte.
Anche il generale Rommel, rientrato in Francia dall’Africa, già nel 1944 non crede più in una vittoria, e sa che la sconfitta di sta avvicinando, spera in un accordo di pace con gli inglesi e gli americani, ma non pensa ad un attentato a Hitler. Agli inizi del luglio del 1944, due membri del circolo di Kreisau vengono arrestati: sono Adolf Reichwein e Julius Leber. Continua l’eccidio degli ebrei e per la resistenza tedesca, la vergogna di non aver fatto nulla, diventa peggiore del disonore per un attentato fallito. Bisogna costruire dalle ceneri del nazismo una nuova Germania, ma nella resistenza non c’è accordo su come bisogna procedere. Una sorta di costituzione destinata non solo all’opinione pubblica, ma solo ad una cerchia ristretta di persone: una costituzione che quasi esprime un’ultima volontà per un’altra Germania. Obbedienza, silenzio e fedeltà sono i cardini di tale ordine di pensiero in cui il futuro della Germania è visto sull’ispirazione e nel segno della tradizione di Goethe, Schiller, Hölderlin, Beethoven, non di Hitler. A questo progetto è giusto sacrificare molto di più della vita. Nascosto nel complesso della Wolfsschanze, la “tana del lupo”, Hitler si appresta alla sua ennesima riunione ed è qui che Stauffenberg si appresta ad ucciderlo insieme a tutti gli altri gerarchi, tra cui vi è anche Benito Mussolini, nuovo Capo di Stato dell’auto-proclamatosi Repubblica di Salò. Il mattino del 20 luglio 1944 von Stauffenberg si recò nuovamente alla Wolfsschanze, dove era stato convocato allo scopo di riferire sulle divisioni che la milizia territoriale stava creando in previsione dell'avanzata sovietica e avrebbe dovuto presentare il suo rapporto ad Hitler durante la riunione quotidiana che questi teneva insieme al suo stato maggiore. In compagnia del colonnello vi erano il tenente Werner von Haeften e il generale Hellmuth Stieff; sia von Stauffenberg che von Haeften portavano una bomba nelle rispettive borse; ognuno dei due ordigni, preparati da Wessel Freytag von Loringhoven, era composto da circa un chilogrammo di esplosivo al plastico, avvolto in una carta di colore marrone; questi avrebbero dovuto essere innescati a tempo, attraverso un detonatore formato da una sottile molla di rame che sarebbe stata progressivamente corrosa da un acido. Una volta giunto a Rastenburg, von Haeften ordinò al pilota di tenersi pronto a ripartire per la capitale da mezzogiorno in avanti e, lasciato l'aeroporto, i tre si diressero in automobile alla Wolfsschanze; il dispositivo di sorveglianza del quartier generale di Hitler era formato da tre anelli, difesi da campi minati, casematte e barriere di filo spinato, superabili attraverso tre posti di blocco; ogni ufficiale aveva a disposizione un lasciapassare, valido una sola volta, e tutti dovevano essere soggetti alla perquisizione da parte di un ufficiale delle SS; i due cospiratori, convocati personalmente da Hitler, riuscirono facilmente a oltrepassare il dispositivo, presentandosi all'interno della "tana del lupo" intorno alle ore 11.00. La riunione in cui avrebbe dovuto essere presente il Führer era in programma per le 13.00 e i due ufficiali, dopo una breve colazione, si recarono dal generale Fellgiebel che, insieme al generale Stieff, avrebbe dovuto trasmettere la notizia della morte di Hitler e quindi bloccare qualunque comunicazione verso l'esterno, per dare tempo ai cospiratori di avviare l'operazione Valchiria. Poco dopo le ore 12:00, insieme ai generali Walther Buhle ed Henning von Thadden, von Stauffenberg si recò dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel per sottoporgli il contenuto della sua relazione e, dopo averne ottenuto l'approvazione, venne informato dell'anticipo della riunione alle 12.30 a causa dell'arrivo di Benito Mussolini, che sarebbe giunto in visita nel pomeriggio.
[caption id="attachment_12866" align="aligncenter" width="1000"] Posizioni approssimative dei partecipanti alla riunione in relazione alla bomba della valigetta quando è esplosa: 1. Adolf Hitler, 2. Adolf Heusinger, 3. Günther Korten, 4. Heinz Brandt, 5. Karl Bodenschatz, 6. Heinz Waizenegger, 7. Rudolf Schmundt, 8. Heinrich Borgmann, 9. Walther Buhle, 10. Karl-Jesko von Puttkamer, 11. Heinrich Berger, 12. Heinz Assmann, 13. Ernst John von Freyend, 14. Walter Scherff, 15. Hans-Erich Voss, 16. Otto Günsche, 17. Nicolaus von Below, 18. Hermann Fegelein, 19. Heinz Buchholz, 20. Herbert Büchs, 21. Franz von Sonnleithner, 22. Walter Warlimont, 23. Alfred Jodl, 24. Wilhelm Keitel. Foto a destra: Stauffenberg a Rastenburg, il 15 luglio 1944, sulla sinistra, con Hitler (al centro) e Wilhelm Keitel (a destra). Stauffenberg stava trasportando una bomba a tempo, che poi decise di non far esplodere.[/caption]

Mentre von Stauffenberg stava percorrendo a piedi i circa 300 metri che lo separavano dall’automobile, guidata dal tenente Erich Kretz, che lo attendeva, il generale Heusinger stava terminando la sua relazione e la sua frase «Se non facciamo ritirare immediatamente il nostro gruppo di armate che si trova accanto al lago Peipus, una catastrofe...» fu interrotta dall’esplosione che avvenne alle 12.42. Il colonnello, insieme al tenente von Haeften, salì in macchina e ordinò all’autista di partire; egli ritenne che l’attentato fosse riuscito ma, nella confusione e nella fretta, non era riuscito a vedere nulla di quanto fosse realmente accaduto, mentre il generale Fellgiebel vide un uomo barcollante uscire dall’edificio distrutto, appoggiato al braccio di Keitel; quell’uomo era Adolf Hitler, sopravvissuto quasi incolume all’attentato, riportando infatti solo alcune bruciature alla gambe e la perforazione del timpano destro. Lo scoppio della bomba aveva invece ferito a morte tre ufficiali, tra cui il colonnello Brandt, e lo stenografo. A testimonianza del suo medico Erwin Giesing, Hitler accusò un costante dolore all’orecchio destro, con sporadiche e copiose uscite di sangue dallo stesso. Tuttavia le lesioni ai timpani avrebbero potuto essergli fatali: uscendo dalla sala riunioni qualcuno aveva voluto pulirgli le orecchie con dell’acqua, ma all’ultimo momento gli era stato impedito di farlo; consultato in seguito per una cura, il professor Carl Otto von Eicken, stimato otorinolaringoiatra dell’ospedale della Charité di Berlino, aveva spiegato a Hitler che introdurre acqua, per di più sporca, non sterile, nei canali uditivi avrebbe sicuramente causato la sua morte. L’allarme generale non scattò subito perché le mine nella foresta erano spesso innescate dai cervi. Alle 12:44 von Stauffenberg uscì dalla tana del lupo telefonando a un conoscente, ritenuto membro della cospirazione, il capitano di cavalleria della riserva Leonhard von Möllendorf, con cui aveva fatto colazione, per convincere il sottufficiale di guardia, il sergente Kolbe della Führer-Begleit-Division, a lasciarlo passare al posto di controllo esterno e a recarsi all’aeroporto. Durante il tragitto von Haeften riuscì a liberarsi della seconda bomba, che fu in seguito ritrovata dalla Gestapo, ed entrambi s'imbarcarono sull’aereo messogli a disposizione dal generale Eduard Wagner per fare ritorno a Berlino. Dopo l’esplosione, da Rastenburg il generale Fellgiebel doveva informare Berlino dell’accaduto, ma i segnali a sua disposizione erano solo due, ossia quello di avvio dell’operazione Valchiria e quello di arresto; non era stata presa in considerazione l’ipotesi che la bomba scoppiasse dando quindi avvio al colpo di Stato, ma che Hitler potesse comunque sopravvivere all’attentato. Nell’impossibilità di contattare von Stauffenberg, le comunicazioni con l’ufficio del generale Olbricht furono confuse e il generale, per non compromettere definitivamente il colonnello, parlando con il generale Fritz Thiele disse semplicemente «è successa una cosa terribile, il Führer è vivo». La confusione delle informazioni fu tale che la milizia territoriale non venne messa in movimento fino all’arrivo a Berlino di von Stauffenberg. Questi diede il via al piano, comunicando a tutti i distretti la morte del Führer, nonostante il rifiuto del generale Fromm a collaborare. Fromm infatti aveva parlato personalmente con il feldmaresciallo Keitel, il quale gli aveva riferito che il Führer era vivo e che aveva ripreso il controllo della situazione. Nonostante il ritardo nell’avvio delle operazioni, riprese solo alle 16.00, furono diramate per radio le nomine per il nuovo regime, ma queste comunicazioni iniziarono a essere smentite dai messaggi provenienti da Rastenburg: la lentezza e le esitazioni nell’attuazione delle operazioni, unite al fallimento dell’attentato, furono fatali ai cospiratori.

[caption id="attachment_12867" align="aligncenter" width="1000"] I principali golpisti del 1944 nell'Operazione Valchiria oltre a Stauffenberg Da sinistra a destra - prima riga): Albrecht Cavaliere Mertz di Quirnheim (1905 - 44), Albrecht von Hagen (1904 - 44), Bernhard Klamrot (1910 - 44), Berthold Schenk Graf von Stauffenberg (1905 - 44), Cäsar von Hofacker (1896 - 1944), Eric Fellgiebel (1886 - 1944); (da sinistra a destra - seconda riga) Friedrich Karl Klausing (1920 - 44), Friedrich Olbricht (1888 - 1944), Fritz von der Lancken (1890 - 1944), Werner von Haeften (1908 - 44), Hans Ulrich von Oertzen (1915 - 44) e Henning von Tresckow (1901 - 44).[/caption]

Verso le 18.00 il comandante del III gruppo della difesa, generale Joachim von Kortzfleisch, fu convocato al Bendlerblock, ma si rifiutò di obbedire agli ordini di Olbricht, sostenendo che il Führer non era morto. Venne così arrestato e tenuto sotto sorveglianza e al suo posto venne nominato il generale Karl Freiherr von Thüngen, che tuttavia non fu in grado di mobilitare le sue truppe. Il generale Fritz Lindemann, che avrebbe dovuto leggere alla radio un proclama al popolo tedesco, non si presentò, né la radio né il quartier generale della Gestapo vennero occupati, e alle 18.45 la radio tedesca iniziò a diffondere ripetutamente un messaggio che spiegava che il Führer era stato oggetto di un attentato che l’aveva però lasciato illeso e che era in atto un colpo di stato. Inutilmente von Stauffenberg cercò di smentire la notizia; a Praga e Vienna i comandanti territoriali che avevano iniziato ad arrestare le SS liberarono i prigionieri, ristabilendo l’ordine. Alle 19:00 circa Hitler effettuò diverse telefonate, mentre il ministro della propaganda Joseph Goebbels si attivò per smentire la notizia della sua morte. Il maggiore Otto Ernst Remer, che si era presentato per arrestare lo stesso Goebbels, dallo stesso ministro fu messo in contatto con Hitler, che lo rassicurò sulle sue condizioni, lo promosse colonnello e gli ordinò di fermare il colpo di stato e arrestare i cospiratori. Remer, prima di assolvere il suo compito, ricevette la notizia che un’unità corazzata, allertata dai cospiratori, si era radunata nella Fehrbelliner Platz. Remer si mise immediatamente in contatto con questi e, nonostante l’autorità di comando su tutte le forze armate disponibili nella capitale che Hitler gli aveva conferito, ricevette risposta che l’unità avrebbe obbedito solo agli ordini di Heinz Guderian. L’eventuale intervento di un’unità corazzata avrebbe messo i cospiratori in una condizione di vantaggio rispetto ai reparti della divisione Großdeutschland che lui comandava; tuttavia la situazione venne risolta dal tenente colonnello Gehrke, che convinse gli equipaggi dei panzer della stabilità della situazione, richiamando la loro fedeltà al Führer. Il colonnello Remer ordinò alle sue truppe di circondare ed isolare il Bendlerblock, senza entrare nell'edificio. Alle ore 20:00 Witzleben arrivò al Bendlerblock, dove discusse con Stauffenberg che insisteva ancora sul proseguimento del colpo di stato. Nello stesso momento, il sequestro del governo di Parigi venne interrotto quando il feldmaresciallo Günther von Kluge venne a sapere che Hitler era vivo. Alle 20.30 il feldmaresciallo Keitel diffuse un messaggio in cui si affermava che Heinrich Himmler era stato nominato comandante dell'esercito territoriale al posto di Fromm e che da quel momento si sarebbe dovuto obbedire solo agli ordini che provenivano da lui. Alle 22.30, dopo una breve sparatoria all'interno del Bendlerblock, i principali congiurati vennero arrestati dal generale Fromm. Poco dopo la mezzanotte del 21 luglio, il colonnello Claus von Stauffenberg, il generale Friedrich Olbricht, il colonnello Albrecht Mertz von Quirnheim ed il tenente Werner von Haeften, su ordine del generale Fromm, vennero arrestati e fucilati nel cortile del Bendlerblock. Pochi minuti dopo lo Standartenführer Otto Skorzeny arrivò con una squadra di SS e, dopo aver vietato altre esecuzioni, arrestò i congiurati rimasti e li consegnò alla Gestapo, che immediatamente si attivò per scoprire tutte le persone coinvolte nell’attentato. Remer, prima di assolvere il suo compito, ricevette la notizia che un'unità corazzata, allertata dai cospiratori, si era radunata nella Fehrbelliner Platz. Remer si mise immediatamente in contatto con questi e, nonostante l’autorità di comando su tutte le forze armate disponibili nella capitale che Hitler gli aveva conferito, ricevette risposta che l’unità avrebbe obbedito solo agli ordini di Heinz Guderian. L’eventuale intervento di un’unità corazzata avrebbe messo i cospiratori in una condizione di vantaggio rispetto ai reparti della divisione Großdeutschland che lui comandava; tuttavia la situazione venne risolta dal tenente colonnello Gehrke, che convinse gli equipaggi dei panzer della stabilità della situazione, richiamando la loro fedeltà al Führer. Pochissimi riuscirono a sfuggire al Tribunale del Popolo: von Stauffenberg fu arrestato e fucilato alla schiena, assieme al conte Claus Schenk von Stauffenberg, il suo aiutante Werner von Haeften, al cavalier Albrecht Mertz von Quirnheim e Friedrich Olbricht nella stessa notte del 20 luglio 1944, nel cortile del Bendlerblock, sede del Comando Supremo dell’Esercito, a Berlino. Prima che la raffica lo falciasse ebbe il tempo di gridare al plotone di esecuzione: «Lunga vita alla nostra sacra Germania»!

Successivamente le ceneri dei congiurati furono sparse nelle fogne cittadine su ordine di Hitler affinché «i resti dei traditori non contaminassero il suolo tedesco». Su ordine del Führer tutti i membri delle famiglie dei colpevoli dovevano essere eliminati. Questo portò anche all’arresto, alla deportazione e uccisione di molti innocenti, che avevano la disgrazia di condividere il nome, anche senza essere parenti, dei congiurati. Per quanto riguarda la famiglia Stauffenberg, il fratello maggiore, Berthold, fu giustiziato. La moglie di Stauffenberg, Nina, e i suoi quattro figli (la donna era incinta della quinta figlia, Konstanze, che sarebbe nata il 17 gennaio 1945, a Francoforte sull’Oder, durante la prigionia), furono arrestati dalle SS. I quattro figli furono messi sotto falso nome in un orfanotrofio in Bassa Sassonia. Successivamente e fino alla fine della guerra Nina venne tenuta prigioniera per futuri scambi presso il lago di Braies in provincia di Bolzano. Liberati dall’arrivo delle truppe alleate, tutti i membri della famiglia poterono finalmente riunirsi dopo la fine della guerra. Nina è morta il 2 aprile 2006. Appena un mese dopo, il 19 agosto, altre vittime di rilievo le troviamo nel feldmaresciallo von Kluge ed i generali Wagner e von Tresckow, che si suicidarono; quest’ultimo prima della sua morte disse a Fabian von Schlabrendorff: «Il mondo intero ora ci diffamerà, ma io sono ancora del tutto convinto che abbiamo fatto la cosa giusta. Hitler è l’acerrimo nemico non solo della Germania, ma del mondo intero». Durante un interrogatorio, Karl-Heinrich von Stülpnagel fece il nome del feldmaresciallo Erwin Rommel; pochi giorni dopo, il consigliere personale di Stülpnagel, Cesare von Hofacker ammise sotto tortura che Rommel era un membro attivo della cospirazione e, nonostante non vi fosse stata alcuna partecipazione diretta da parte sua, il feldmaresciallo fu costretto a togliersi la vita il 14 ottobre 1944.

[caption id="attachment_12868" align="aligncenter" width="1000"] Nella cultura tedesca del ricordo, il 20 luglio è principalmente associato all'anno 1944. Oggi è visto dal pubblico come un simbolo della resistenza militare contro il nazionalsocialismo ed è per questo che il Governo tedesco pone ogni anno una corona di fiori sul posto dove i militari furono fucilati: Il German Resistance Memorial Center che si trova nel Bendler Block nel quartiere Mitte di Berlino.[/caption]  

Altri congiurati, tra cui l’ammiraglio Wilhelm Canaris, ex capo dell’Abwehr, e il generale Hans Oster, furono arrestati e giustiziati il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg.. Oggi a Berlino, nella prigione di Plötzensee dove furono eseguite le sentenze di morte, c’è un museo commemorativo per le vittime del processo. A distanza di tanti anni, un anziano Jünger, unico scampato (per volontà di Hitler) al processo successivo all’attentato, ricorderà il valore di una Germania diversa, una Germania non nazista e che ha dato la vita per tentare quel colpo di mano che avrebbe consentito al paese di avere un immediato futuro diverso e salvare molte vite: «esistono situazioni nelle quali non bisogna badare al successo, anche se con questo ci si mette naturalmente fuori del terreno politico. Fu il loro caso: vinsero moralmente, dove storicamente naufragarono. Il loro coraggio, il loro sacrificio, non furono il coraggio e il sacrificio che s’incontrano sul campo di battaglia, ma di natura superiore; non tali da essere coronati dalla vittoria, ma dalla poesia». Nel dopoguerra, a Berlino, la Bendlerstrasse fu ribattezzata Stauffenbergstrasse. Vi è stato eretto un monumento alla Resistenza tedesca e nelle vicinanze un museo, aperto nel 1994, onora tutti i partecipanti al “complotto del 20 luglio”, insieme ad altri oppositori al nazismo.

Per approfondimenti: _Ian Kershaw, Operazione Valchiria, Bompiani, 2016; _Enzo Biagi, La seconda guerra mondiale - Parlano i protagonisti, Rizzoli, 1992; _Enzo Biagi, La seconda guerra mondiale, sesto volume, Fabbri Editori, 1995; _David Fraser, Rommel - l'ambiguità di un soldato, Mondadori, 1993; _Daniel Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Mondadori, 1997; _Peter Hoffmann, Tedeschi contro il nazismo, il Mulino, 1994; _Ian Kershaw, Hitler. 1936-1945, Bompiani, 2001; _Salmaggi e Pallavisini, La seconda guerra mondiale, Mondadori, 1989.
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