Joseph Roth: un requiem per il suo Impero defunto

di Giuseppe Baiocchi del 13/01/2024

Joseph Roth è uno dei grandi sopravvissuti della civiltà ebraica dell’Impero danubiano.

L’autore nella sua opera più famosa Radetzkymarsch (La marcia di Radetzky del 1932), descrive con mirabile precisione la conclusione di una società fondata sulla tradizionale gerarchia della Monarchia Duale. Il filosofo e critico letterario ungherese György Lukács (1885 – 1971) nel 1939 affermò come il romanzo di Roth, potesse essere considerato di stampo storico-realistico: l’analisi della decadenza dissolutrice, si cela dietro il più palese «rimpianto» da parte dei protagonisti, in ottica soggettiva.

Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939) è stato uno scrittore e giornalista austriaco. Grande cantore della Finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse. Lui stesso era nato alla periferia dell’impero, nell’odierna Ucraina

L’autore ha il riflesso della solidità di una società – quella della generazione precedente la sua – che non esiste più, dopo la dissoluzione imperiale. Tale «mondo di ieri» trasuda di spirito epico, che porta l’autore a compiere un distacco tra i personaggi del romanzo, dove il vero protagonista non sarà il giovane von Trotta, ma suo padre, l’eroico funzionario statale che regge – nonostante il peso degli anni – un’intera nuova generazione. Il giovane Trotta , difatti, è troppo distaccato dalla tradizione per poter possedere lo spessore epico-nostalgico che Roth ricerca. Questo breve stralcio ne coglie pienamente l’essenza: «A ogni ritorno da Vienna e da altre parti del grande mondo, in cui scorrazzava come fosse di casa, era solito tenere una tetra concione che all’incirca sonava così: «Questo impero è destinato ad andare in rovina. Appena il nostro imperatore chiude gli occhi, noi ci sfasciamo in cento pezzi. I Balcani saranno più potenti di noi. Tutti i popoli costituiranno i loro piccoli luridi Stati, e persino gli ebrei proclameranno un re in Palestina. A Vienna si sente già il puzzo di sudore dei democratici, sulla Ringstrasse non ci resisto più. I lavoratori hanno bandiere rosse e non vogliono più lavorare. Il borgomastro di Vienna è un portinaio bigotto. I preti se la intendono col popolo, si predica il cèco nelle chiese. Al Burgtheater si recitano porcherie ebraiche e non passa settimana senza che un fabbricante ungherese di latrine diventi barone. Vi assicuro, signori miei, che se ora non si spara siamo spacciati. Ci toccherà vedere anche questa!». Gli ascoltatori del conte ridevano e ci bevevano sopra. Non lo capivano».

Il personaggio letterario si ispira al barone Andrej von Čehovin (1810 – 1885), verso il quale nel 1898 fu eretto un monumento a Dolanci, nel distretto di Sesana, appartenente alla Contea Principesca di Gorizia e Gradisca. Il progetto pensato dall’architetto Maximilian Fabiani, venne realizzato dallo scultore Anton Bitežnik, insieme allo scalpellino Franc Bitežnik. Nello stesso anno ricorreva il 50° anniversario di Regno dell’imperatore Franz Joseph I, il quale contribuì economicamente per l’opera. Il monumento, alto oltre 5 metri e in marmo di Carrara, raffigura l’eroe in piedi, con le braccia incrociate, in uniforme militare, con la spada al fianco e le spalle coperte da un pesante cappotto militare, mentre sul petto spiccano le decorazioni militari. Repressioni, violenze, umiliazioni e vandalismi di stampo squadrista imperversavano nei territori annessi dall’Italia nel 1921, ed in particolar modo nei territori abitati da sloveni. Nel 1926 il monumento, fu smontato e nascosto in un luogo sicuro. Solo nel 1987 fu possibile recuperare il monumento, restaurarlo e ricollocarlo sul luogo originale.

Dunque avviene il recupero della forma chiusa, che parallelamente svela un tentativo di ottenere un’oggettività, la quale si unisce – in parallelo – ad una scala di valori che si oppone eroicamente al disordine del dopoguerra. Ponendoci il quesito della motivazione per cui la totalità degli autori mitteleuropei ha sempre rimpianto l’Impero, dopo la sua dissoluzione – chi con un pizzico di ironia bonaria, chi con vera e propria consapevolezza –, dobbiamo compiere lo sforzo di osservare il mutamento geopolitico che accade sui paesi dell’ex Austria-Ungheria dopo il cataclisma del 1918: furono ridimensionati a livello politico e caddero tutti quanti sotto dittature militari. Non vi è dunque da stupirsi che, nonostante l’imperfetto funzionamento imperiale, questo sia stato visto dai letterati con grande rimpianto. Sándor Márai, in Volevo tacere ci ricorda come: «Non era una libertà neppure lontanamente paragonabile a quella dell’epoca liberale antecedente la prima guerra mondiale».
La gerarchia dei padri abolisce così il confronto con il presente, sostituendo quest’ultimo in una esperienza già vissuta che si permea di una ricostruzione storica reliquaria: ulteriore elemento che ci fa comprendere come Roth rifiuti l’epoca post-bellica che sta attraversando. Non a caso l’autore si perderà in un alcolismo che lo porterà alla morte parigina nel 1939, dove braccato dalla Germania nazista, era fuggito da Vienna, per le sue origine ebraiche. La vera essenza di questo classico della letteratura occidentale, oltre la sua descrizione particolareggiata dei dettagli, risiede nella percezione della fine della sacralità ed il conseguente passaggio istituzionale, che nel caso dell’Austria si trasforma in una Repubblica, senza aver permesso neanche il referendum costituzionale. Per paradosso tale declino inizia proprio all’inizio del primo capitolo del romanzo, dove il vero protagonista della storia il capostipite della famiglia Trotta, salva la vita all’Imperatore Franz Joseph a Solferino durante la terza guerra di Indipendenza italiana. Con grande maestria Roth ci pone davanti l’atto più alto del romanzo, che contrariamente può apparirci come «normale», per poi far proseguire la storia in un costante, onorevole depauperamento della forza vitale di una intera generazione successiva.
Tale indebolimento – sintomo della fine imminente – viene concretizzato allo scoppio della guerra, dove l’incerto e problematico Carl Joseph von Trotta viene ucciso e spazzato via, come una foglia secca da un ramo autunnale, all’inizio dei primi scontri del conflitto, come fosse passata la prima forte folata di vento. L’Impero viene visto come il guardiano dei valori tradizionali che garantiscono in primis l’individualità dell’uomo. Di contro la borghesia industriale che si sostituirà all’Imperatore – figura quasi mitologica, come lo era per Musil – rappresenta l’annientamento della stessa individualità, tramite la bramosia di potere. Dunque possiamo affermare come la tecnica “aliena” e nello stesso tempo distrugge il pensiero e la manualità artigiana dell’uomo mitteleuropeo, privandolo del suo daimon. L’individualità diventa proprietà di una massa informe e inconsistente, senza valori, né pensiero personale, che attraverso la mercificazione del consumo e un’improbabile nazionalismo conclude la sua ascesa. Joseph Roth ci propone un romanzo che ambisce a rendere valida una autorità patriarcale, che nel contempo già mostra, egli stessa, un vuoto dei propri stessi ideali e si rende perfettamente conto della conclusione imminente di un mondo. Il cambiamento storico, che con violenza scuote l’Impero, è il vero antagonista del romanzo: l’Austria-Ungheria gli si oppone come può, come fosse una magione nel mezzo di un assedio storico.

Joseph Roth, negli anni Trenta del Novecento si stava distruggendo con l’alcool. I suoi amici avevano tentato di tutto per curarlo, ma senza successo. Poi uno di loro, sapendo dell’infatuazione di Roth per gli Asburgo, ebbe l’idea di chiedere a Otto d’Asburgo di intervenire. Il giovane principe, nella migliore tradizione di Francesco Giuseppe, esclamò: «Roth, in qualità di vostro imperatore, io vi ordino di smettere di bere». Lo scrittore, in piedi sull’attenti, da ex soldato dell’impero asburgico, rimase alquanto scioccato, ma balbettò il proprio assenso e lasciò la stanza.

Questo pessimismo «religioso» rothiano – unito alla già citata autorevolezza “dei vecchi” – lo ritroveremo anche nel suo secondo romanzo inerente la saga dei von Trotta, ovvero Die Kapuzinergruft (La Cripta dei Cappuccini del 1938): «Io ero miscredente, come i miei amici, come tutti i miei amici. Non andavo mai alla messa. […] Per la verità, oggi sono credente, non so più perché l’odiassi. Era di moda, per così dire. Mi sarei vergognato se avessi dovuto dire ai miei amici che ero andato in chiesa. Non c’era in loro una vera ostilità verso la religione, bensì una specie di orgoglio nel non riconoscere la tradizione nella quale erano cresciuti. Non è che volessero rinunciare alla sostanza della loro tradizione; ma essi, anzi noi – io ero dei loro – ci ribellavamo alle forme della tradizione, perché non sapevamo che la vera forma è identica alla sostanza e che era puerile scindere l’una dall’altra. Era puerile, come ho detto: e infatti noi allora eravamo puerili. La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili. Noi non la sentivamo la morte. Non la sentivamo perché non sentivamo Dio. Fra di noi il conte Chojnicki era l’unico che si attenesse ancora alle formalità religiose, ma anche lui non già per fede, bensì per il sentimento che la nobiltà lo obbligasse a seguire i precetti della religione. Noialtri che li trascuravamo, ci considerava semianarchici. «La Chiesa romana» usava dire «in questo mondo marcio è l’unica ormai in grado di dare, di conservare una forma. In quanto racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi figli tutt’intorno, fuori da questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e spazio vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce dei peccati, già li perdona. Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo ammette implicitamente l’imperfezione degli uomini. Anzi, ammette l’inclinazione al peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla remissione. Non esiste più nobile propensione del perdono. Considerate che non ne esiste di più volgare della vendetta. Non c’è nobiltà senza generosità, come non c’è brama di vendetta senza volgarità». Era il più vecchio e il più saggio fra noi, il conte Chojnicki; ma noi eravamo troppo giovani e troppo sciocchi per tributare alla sua superiorità quell’omaggio che essa certamente meritava. Lo ascoltavamo più per compiacenza che per convinzione e, per giunta, c’immaginavamo anche di fargli una gentilezza a starlo ad ascoltare. Per noi, cosidetti giovani, era un uomo maturo. Solo più tardi in guerra, ci fu dato di vedere quanto fosse veramente più giovane di noi. Ma solo troppo tardi, troppo tardi, ci accorgemmo che in realtà noi non eravamo più giovani di lui, bensì semplicemente senza età, per così dire ‘innaturalmente’ senza età. Mentre lui era naturale, degno dei suoi anni, autentico e benedetto da Dio»

Joseph Roth seduto in un bar di Amsterdam con amici e colleghi, Fritz Hannemann, Charles Nypels, Otto B. de Kat, Joop Sjollema e Maurits Mok.

Il nazionalismo ambiva – come ci hanno tristemente descritto i regimi totalitari – alla perfezione umana. Lo Stato asburgico affidandosi alla fede cattolica – di contro – mirava al perdono umano, dato dall’imperfezione naturale dell’uomo. Un impero che perdonava il suo suddito – in quanto imperfetto – era una potenza tollerante, ma le regole erano rigide, proprio a protezione di quei valori cattolici che rappresentavano le fondamenta dell’Austria-Ungheria. L’auto-privazione d’ogni significato religioso da parte della inetta e larvale nuova generazione, contribuirà ad accelerare l’implosione della Monarchia. In tutto questo complesso sistema, il tempo è un altro nemico da combattere. Ce lo dimostrerà l’attempata signora von Taussig che userà circuire uomini molto più giovani di lei per «combattere» il tempo che inesorabilmente passa e dal quale si può solo cerare una fuga effimera. L’elemento ambientale e naturale ci appare distaccato, silenzioso, a tratti anche ostile dove – specie ai margini imperiali – si avverte già il mutamento negativo della delenda Austria, con la metafora dell’avvoltoio, avvistato al posto della gloriosa aquila bicefala. Negli ambienti, l’elemento slavo è molto presente, con la stessa famiglia romanzata di origine slovene: difatti Roth – come l’arciduca Franz Ferdinand – aveva la visione austro-slava, ovvero una de-germanizzazione a favore di una Triplice Monarchia. Una visione che strideva fortemente con la storia antropologica degli Asburgo, i quali avevano visto il mondo slavo – anche giustamente – come una minaccia per i fini imperiali.
Per lo scrittore di Brody (oggi Ucraina), proprio l’assenza della storicità, nella nazione slava, costituiva l’elemento positivo in chiave di purezza spirituale, poiché non era stata intaccata dalle «avventure del progresso». Proprio il progresso letto in chiave borghese-industriale, oltre a distruggere l’esperienza privata, aveva annientato anche la memoria del racconto: ecco perché quando avviene la piacevole descrizione di Vienna, egli ci disserta sul come nell’Austria felix, «tutto lasciava una traccia» e si «aveva bisogno di molto tempo per venire dimenticato». Ma la bravura di questo autore continua a sorprenderci nel fattore che nonostante tutte le figure del romanzo siano sempre proiettate al passato glorioso, esse stesse si sentono imprigionate all’interno di quel dato contesto sociale o militare. Peggio i protagonisti si illudono nella ricerca di un passato migliore, che non è mai esistito nella realtà. Essere a conoscenza delle barbarie che fecero seguito alla dissoluzione imperiale e che coinvolsero, in un tragico destino, tutti i sudditi dell’ex-impero, pone una necessaria rivalutazione in forme positive e innovative della parte amministrativa, tollerante e per certi versi democratica, dell’Impero. La fine «dei padri» sarà l’eclissi più nera: svaniranno i rapporti umani e nascerà il germe totalitario, che l’autore denuncerà in altri romanzi. Sarà così che – nella Cripta dei Cappuccini – l’ultimo dei Trotta opterà per il silenzio, rifugiandosi negli «annali dispersi» di una armata scomparsa, che continuerà a vivere nel suo coerente immaginario reazionario, capace di non far accettare all’autore nessun compromesso con la storia moderna, che porterà Roth al suo personalissimo nichilismo – che si tradurrà nell’alcolismo – descritto magistralmente nel romanzo Die Legende vom heiligen Trinker (La leggenda del santo bevitore del 1939).

Francia: Lo scrittore austriaco Joseph Roth a Parigi. Fotografia. Intorno al 1925.

E anche l’eccitazione dei miei amici, quello stesso venerdì sera, mi sembrò di troppo; fino al momento in cui la porta del caffè fu spalancata e sulla soglia apparve un giovane stranamente abbigliato. Portava gambali neri di cuoio, una camicia bianca e un tipo di berretto militare che mi faceva pensare insieme a un vaso da notte e a una caricatura dei nostri vecchi berretti austriaci; insomma: non era neanche un copricapo prussiano (perchè i prussiani non portano in testa né cappellli né berretti, bensì copricapi). Io, lontano dal mondo e dall’inferno che per me rappresentava, non ero affatto idoneo a distinguere i nuovi berretti e le nuovi uniformi, tanto meno a riconoscerli. […] Ma l’uomo disse: «Compatrioti! Il governo è caduto. Abbiamo un nuovo governo popolare tedesco»! Da quando ero rimpatriato dalla guerra mondiale, rimpatriato in un paese pieno di rughe, mai avevo avuto fiducia in un governo; figuriamoci poi, in un governo popolare. Io appartengo ancora oggi – nell’imminenza della mia probabile ultima ora, io, un uomo, posso dire la verità – a un mondo palesemente tramontato, nel quale pareva naturale che un popolo venisse governato e che dunque, se non voleva cessare di essere popolo, non poteva governarsi da solo. Ai miei orecchi sordi – spesso avevo sentito che li chiamavano ‘reazionari’ – suonò come se una donna amata mi avesse detto che non aveva affatto bisogno di me, che poteva fare l’amore con sé sola, e che anzi doveva farlo, e invero al solo scopo di avere un bambino. Proprio per questo mi sorprese lo spavento che colse tutti i miei amici all’arrivo dell’uomo bizzarramente calzato e al suo bizzarro annuncio. […] Io non amo le bestie e ancor meno quelle persone che amano le bestie. In tutta la mia vita mi è sembrato che le persone che amano le bestie sottraggano una parte dell’amore agli uomini, e particolarmente giustificato mi è apparso il mio punto di vista quando per caso ho saputo che i tedeschi del Terzo Reich amano i cani lupo, i cani da pastore tedeschi. Povere pecore! – mi dissi a quel punto. […] La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e chiese: «Che cosa desidera»? «Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe» risposi. «Dio la benedica»! Disse il frate, e fece sopra di me il segno della croce. «Dio conservi»! Gridai. «Zitto»! Disse il frate. Dove devo andare, ora io, un Trotta ?

 

Per approfondimenti:
_Roth J., La Cripta dei Cappuccini, Adelphi, Milano, 1989;
_Roth J., La Marcia di Radetzky, Adelphi, Milano, 1987;
_Verrecchia A., Rapsodia viennese: luoghi e personaggi celebri della capitale danubiana, Donzelli, Roma, 2003;
_Coaloa R., Carlo d’Asburgo – L’ultimo Imperatore, Il Canneto Editore, 2012.

 

 

 

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