Nello studio di ogni argomento esistono dei libri imprescindibili, se si vuole affrontare e comprendere fino in fondo la materia in oggetto. Per quanto riguarda l’ambito abbastanza settoriale della storia della diplomazia – branca ristretta dello studio delle relazioni internazionali, a sua volta parte della scienza politica – una delle opere che possono indiscutibilmente essere definite classiche, da doversi leggere per forza prima o poi, è senza dubbio la “Storia della diplomazia” di Harold Nicolson.
Pubblicata per la prima volta nel 1939 dalla Oxford University Press con il titolo “Diplomacy”, alla prima seguirono due ulteriori edizioni nel 1963 e nel 1988. Della seconda si fece una traduzione italiana nel 1995 per la casa editrice Corbaccio, intitolata “Storia della diplomazia” (nuovo, il libro è praticamente introvabile oggi, sicché al suo indubbio valore dal punto di vista del contenuto, si aggiunge anche un certo piacere per i bibliofili). Tradotta da Raniero Avogadro e con una prefazione scritta da Sergio Romano, l’opera di Nicolson affronta la diplomazia sotto ogni aspetto, dall’evoluzione storica alla teoria, dalle caratteristiche del diplomatico ideale all’analisi delle differenze tra le varie diplomazie europee, fino a tratteggiare una prospettiva futura. L’autore, d’altronde, aveva tutti i titoli per parlare di tale argomento.
Sir Harold Nicolson (Teheran, 21 novembre 1886 – Kent, 1 maggio 1968) è stato un politico, diplomatico e scrittore britannico.
Nato nel 1886 a Teheran, figlio di un ambasciatore britannico, Sir Harold Nicolson seguì le orme paterne intraprendendo anch’egli una carriera ventennale nel Foreign Office. Tuttavia, l’attività diplomatica non fu che una parte dell’esistenza di quest’uomo, definito uno dei protagonisti della vita intellettuale britannica dei primi del XX secolo. Assommando una copiosa produzione letteraria, le sue opere spaziano dal genere biografico (Verlaine, Byron) a quello letterario e giornalistico. Ad oggi, tra gli scritti più importanti si colloca la sua opera diaristica ed epistolare in tre volumi (“Diaries and lettres” pubblicata postuma), considerata unanimemente un preziosissimo documento della vita politico-sociale dagli anni Trenta agli anni Sessanta in Gran Bretagna, nonché per l’appunto Diplomacy.
Nelle prime pagine di “Storia della diplomazia” Nicolson spiega i motivi che l’hanno spinto a concepire l’opera: in passato – scrive – «il comune cittadino […] si interessava alle relazioni internazionali solo in casi di eccezionale gravità», ma l’avvento della Grande Guerra cambiò profondamente le cose. Le popolazioni impararono che anche i civili potevano essere toccati dalla guerra, e di conseguenza che era opportuno conoscere e giudicare a fondo le scelte dei governanti in materia di politica estera. In questo cambiamento di approccio, tuttavia, «il grande pubblico rimase confuso e disorientato; […] la sua vigile attenzione per i problemi internazionali divenne ansia; il suo intento critico si manifestò troppo spesso in forme di esagerato sospetto e la sua attenzione si fece spasmodica».
Una delle cause principali di questo problema fu un fraintendimento di fondo(che del resto permane significativamente al giorno d’oggi!): ossia quello tra “politica estera” e “negoziato”, cioè diplomazia.
Secondo la definizione ufficiale, usata nel libro e presa dall’Oxford English Dictionary, con diplomazia si intende «la trattazione degli affari internazionali per mezzo del negoziato; il metodo con il quale queste relazioni sono disciplinate e trattate da ambasciatori e inviati; il mestiere o l’arte del diplomatico», sicché risulta essenziale che essa sia distinta dalla politica estera stricto sensu, indicata non a caso come aspetto «legislativo» del problema, contrapposto appunto a quello «esecutivo», cioè la prassi diplomatica. Come è stato detto con una similitudine senza dubbio efficace, se il Ministro degli Esteri è lo “chef” della cucina, il diplomatico sarà insomma lo “sguattero”. Ma figure retoriche a parte, l’importanza di tale distinzione secondo Nicolson è capitale, soprattutto in seguito alla rivoluzione che non tanto la Grande Guerra, quanto più precisamente la dottrina wilsoniana della open diplomacy ha interessato la politica internazionale.
Si tratta di uno dei temi principali che attraversano interamente il libro di Nicolson: propugnando l’abbandono del segreto nella condotta degli affari esteri tout court (“open covenants[…]openly arrived at”, dal primo dei Quattordici punti, 8/I/1918), la concezione del presidente Wilson è oggetto di forti critiche da parte del diplomatico inglese, essendo da questi ritenuta esiziale. Affrontando fin dalle prime pagine un tema che poi verrà più volte ripreso, vero e proprio fil rouge dell’opera, Nicolson precisa che la politica estera dovrebbe essere sì «materia riservata alle decisioni del governo con l’approvazione dei rappresentanti del popolo da questo eletti», ma è impossibile pensare che ciò valga anche per la diplomazia. In altri termini: «[il negoziato] dovrebbe in linea di massima essere lasciat[o] ad elementi professionisti provvisti di adeguata esperienza e discrezione». È una concezione tecnica della diplomazia, che si potrebbe anche definire “aristocratica”, nell’accezione migliore – cioè secondo l’etimo – del termine.
Fantastica scena del 1913. Da sinistra a destra: Harold Nicolson, Vita Sackville-West, Rosamund Grosvenor e Lionel Sackville-West.
La diplomazia, intesa come «condotta ordinata delle relazioni fra gruppi di esseri umani fra di loro estranei» è una pratica umana «più antica della storia», «un elemento essenziale in qualsiasi ragionevole relazione fra uomo e uomo». Fin dall’alba dei tempi, infatti, «vi furono probabilmente momenti nei quali un gruppo di selvaggi desiderò negoziare con un altro, se non altro allo scopo di far sapere che ne avevano abbastanza di combattere per quel giorno, e avrebbero desiderato una pausa per raccogliere i feriti e seppellire i morti»; e fin dalla Preistoria si comprese che «tali negoziati sarebbero stati seriamente ostacolati se l’emissario di una delle parti fosse stato ucciso e mangiato dagli avversari prima di aver avuto il tempo di comunicare o consegnare il suo messaggio».
Immediatamente, dunque, nacquero insieme le due caratteristiche sostanziali di qualunque diplomatico: la rappresentatività e l’immunità accordata.
Passando a fonti storiche, furono i Greci a concepire per primi una forma di diplomazia per certi versi simile a quella moderna, come racconta Tucidide. Se, in precedenza, il “diplomatico” era essenzialmente un araldo investito del compito di comunicare con gli stranieri, adesso nel tumulto politico dell’Età Classica, gli ambasciatori divennero dei valenti retori, inviati da una polis ad un’altra col mandato di usare la propria ars oratoria «a difesa della causa della loro città». Emersero già da allora altri due aspetti fondamentali che in ogni tempo – come si può osservare – sono stati direttamente proporzionali allo sviluppo della diplomazia: l’instabilità o “dinamicità” politica, e la debolezza militare. Per senso comune si comprende il senso dell’ultimo aspetto: quando non parla il diplomatico lo fa di solito la sua controparte, il suo gemello di segno opposto, cioè il soldato, e vice versa quanto più l’uno ha spazio di manovra tanto meno ne ha l’altro; allo stesso modo, in un sistema politico per così dire sclerotizzato e statico, non importa per quale ragione, non vi è molto di cui discutere, se appunto la vita di relazione è politicamente piatta.
La fioritura della diplomazia nel sistema delle poleis fu dunque dovuta proprio a queste due caratteristiche: bellicose ma deboli militarmente, incapaci per definizione di concepire una struttura uniforme, stabile ed estesa, come ad esempio un impero, esse avevano bisogno dell’ars diplomatica perché incapaci di usare efficacemente la forza. Così, gli ellenici “inventori” della diplomazia sperimentarono le tappe progressive di quel passaggio di cui parla Nicolson dagli «interessi tribali» alla «comunità degli interessi», ma l’ultimo stadio fu loro negato, poiché esso avvenne ironicamente solo quando era ormai troppo tardi. All’orizzonte si profilava già la loro decadenza, per mano della minaccia mortale ed imperiale di Filippo II ed Alessandro Magno, ed in seguito ovviamente di Roma.
Leo von Klenze, l’Acropoli di Atene – Olio su tela 1846
Stando a quanto si è detto finora non dovrebbe essere difficile comprendere che alla fioritura della diplomazia nella Grecia classica corrispose durante il periodo romano un declino della stessa. I Romani «non si distinsero per qualche particolare abilità nell’arte del negoziare, d’altronde non ne avevano bisogno: durante i lunghi secoli della loro supremazia i metodi da essi impiegati furono piuttosto quelli dei legionari e dei costruttori di strade»; ciò nondimeno, essi diedero indirettamente un enorme contributo alla diplomazia sviluppando, perfezionando e codificando il diritto, di cui secoli più avanti si sarebbe servita l’umanità intera, ivi compresi i diplomatici.
Ancora una volta in modo inversamente proporzionale alla stabilità politica ed alla forza militare, la diplomazia prosperò alla corte di Costantinopoli, e gli imperatori bizantini portarono quest’arte «al livello della più consumata ingegnosità». In particolare, il fatto che spesso essi adottassero la tattica del divide et impera contro le popolazioni barbariche comportò che per la prima volta i diplomatici dovettero aggiungere un altro compito alle loro mansioni: «fornire rapporti dettagliati sulla situazione interna dei paesi stranieri» allo scopo di sfruttare al massimo «ambizioni […] debolezze [e] risorse di quelli con cui si intendeva trattare». Pertanto, come «la figura dell’oratore aveva sostituito il primitivo banditore, […] l’oratore lasciò il posto all’esperto osservatore».
Durante il Medioevo la diplomazia fu soprattutto questione di studio dei documenti conservati negli archivi reali (di cui si mantiene ancora un’eco quando si parla di “diplomatica”), i quali conferivano una massa di privilegi, immunità, o semplicemente riportavano per iscritto accordi con comunità straniere. La stessa parola “diplomazia” deriva da questo: in greco diploun, significa piegare, e diplomas erano i lasciapassare di epoca imperiale che si apponevano «su piastre di metallo doppie, piegate e cucite insieme in maniera particolare» sui bagagli; tale parola poi per estensione definì qualunque documento scritto che trattasse di accordi con comunità straniere. La conoscenza di tali archivi, necessaria per la condotta della politica estera, rese il “cancelliere” una delle massime autorità in materia, e tuttora conoscere il diritto internazionale pattizio (sono delle norme che due o più stati sovrani stabiliscono) è uno degli aspetti più importanti della formazione di qualunque diplomatico degno di tale nome.
Mancava però ancora un elemento centrale, affinché si potesse parlare di transizione alla modernità per il diplomatico: ovvero la residenza in pianta stabile in sede estera. Ciò si verificò per la prima volta solo in Italia, nel sistema delle Città-Stato rinascimentali. La prima missione diplomatica stabile di cui si abbia notizia è infatti quella «stabilita a Genova nel 1455 da Francesco Sforza, duca di Milano».
Le Città-Stato della penisola erano in tutto e per tutto simili alle poleis greche, non sorprende dunque che fu in un tale contesto che si perfezionò la diplomazia moderna. I signori rinascimentali erano guerrafondai, incapaci di acquisire l’egemonia e soprattutto desiderosi che nessuno di essi potesse prevalere sugli altri. Difatti il concetto di “equilibrio di potenza” fu teorizzato proprio in questo periodo, peraltro con conseguenze a dir poco nefaste per l’unificazione politica nazionale. Essi, inoltre, avevano bisogno appunto di inviati che risiedessero stabilmente presso le altre Città, per rappresentarli, informarli di ciò che avveniva in loco e spesso tramare ai danni della stessa Città di sede.
Gli ambasciatori dell’epoca erano aristocratici quasi sempre corrotti o alla ricerca di un proprio interesse personale, preoccupandosi solo di condurre la vita più fastosa possibile. Essi erano né più né meno che dei cortigiani. Quando si trattava di assolvere ai compiti che erano stati loro affidati, si limitavano a scegliere la via più breve, semplice e meno dispendiosa, non curandosi granché di morale, rispettabilità o altro: «essi corrompevano […], fomentavano rivolte, incoraggiavano i gruppi di opposizione, intervenivano nei modi più sovversivi negli affari interni dei Paesi in cui erano accreditati, mentivano, spiavano, rubavano». Quest’aura negativa, d’altronde, perpetuatasi per tutti i secoli XVI e XVII, sarebbe rimasta a lungo nella memoria collettiva (fino ad oggi) come inscindibilmente legata alla figura del diplomatico.
Scrive Nicolson, da Bisanzio passando per le Città-Stato rinascimentali italiane, soprattutto la Serenissima Repubblica, «la diplomazia divenne lo stimolo piuttosto che l’antidoto della cupidigia e della follia dell’umanità. In luogo della cooperazione si ebbe la disintegrazione; invece dell’unità la scissione; invece della ragione, l’astuzia; in luogo dei principi morali, ingegnosi sofismi». Eppure, se c’è una cosa che stupisce nell’opera del diplomatico inglese, è proprio la sua critica per nulla scontata a questo modo di fare, e di intendere, la diplomazia. Egli non può proprio essere definito un idealista, tuttavia il suo è un realismo politico ben particolare, dove il concetto di moralità funge da chiave di volta di tutto il discorso e costituisce un altro fil rouge che attraversa interamente il libro dall’inizio alla fine.
Dissertando sulla moralità, è molto famosa la battuta di un ambasciatore inglese, Sir Henry Wotton, secondo cui «un diplomatico è un uomo onesto inviato all’estero a mentire per il bene del proprio Paese»; pochi sanno, però, che quando tale frase venne riferita al Re, Giacomo I, questi «rimase profondamente colpito dal cinismo del suo inviato […] e non volle più servirsi di lui».
Sir Henry Wotton (1568-1639) è stato un politico e un diplomatico inglese.
Lo stereotipo del diplomatico che muove i fili, conduce macchinazioni e ordisce congiure da dietro le quinte risponde probabilmente ad una visione forse in parte vera, ma di certo troppo semplicistica di questa professione. In fondo è facile osservare una verità, chiara e limpida: «un ambasciatore, per avere successo, deve essere in grado di guadagnarsi la fiducia e la simpatia di coloro che esercitano l’autorità nel Paese presso cui è accreditato». E per farlo, egli deve sforzarsi quanto più possibile di acquistare un’«influenza morale» agli occhi dei suoi interlocutori, come dice Nicolson citando l’ambasciatore francese Jules Cambon, poiché questo è il requisito più importante di ogni altro.
«Egli» insomma «deve essere un uomo d’onore nel senso più rigoroso se il governo presso cui è accreditato e il suo stesso governo devono riporre piena fiducia in ciò che egli dice». Nessuno esclude che in un negoziato si possano avere dei vantaggi immediati con un atto riprovevole come la menzogna, ma vanno inclusi nel conto finale anche i danni nel lungo termine, come «l’indignazione, il desiderio di vendetta e il risentimento» generati nella controparte e molto probabilmente nocivi per altre relazioni in futuro, al punto da poterle pregiudicare.
Secondo Nicolson, quando la politica internazionale viene vista come un gioco a somma zero, in cui una delle due parti vince e l’altra perde, si condivide la cosiddetta dottrina «guerriera» della diplomazia: in essa il negoziato è visto come una «guerra con altri mezzi»; gli scopi sono «predatori» ed i metodi con cui si perseguono i propri fini «sono ideati ed attuati secondo un punto di vista militare», ad esempio «l’attacco di sorpresa, spesso di notte; […] la Kraftprobe, per saggiare la forza della posizione nemica […], l’intimidazione, la spietatezza e la forza». L’obiettivo finale è ovviamente una vittoria ed è altresì «ovvio che in un tale sistema ci sia ben poco posto per la conciliazione, la fiducia e la lealtà».
Di contro, Nicolson sposa, e contrappone a questa visione, la concezione «mercantile» della diplomazia: in essa il «compromesso fra contendenti è generalmente più conveniente della completa distruzione del rivale» ed il negoziato è «un tentativo per raggiungere, mediante mutue concessioni, un qualche accordo durevole»; «si assume che vi sia qualche posizione intermedia fra i due negoziatori che, se scoperta, può condurre a una composizione dei loro interessi in conflitto; e per trovare questo punto d’incontro, tutto quel che si richiede è una discussione franca, che le carte siano poste sul tavolo e che vengano impiegati i normali procedimenti della ragione umana, la fiducia e la lealtà».
Entrambe queste concezioni hanno punti deboli: quello della teoria guerriera è «l’eccessivo affidamento sulla capacità intimidatoria della forza», mentre per la teoria mercantile è «un esagerato ottimismo circa l’idea che la stima e la fiducia possano suscitare nell’avversario analoghi sentimenti». Ma detto questo, tra le due per Nicolson è decisamente da preferirsi la seconda, aggiungendo il dettaglio che non a caso la diplomazia «sana» è stata una «creazione dei cittadini della classe media», ossia la borghesia, e che le «influenze che determinarono il progresso della diplomazia» furono il diritto e appunto il commercio.
In sintesi, per il diplomatico inglese, la diplomazia “morale” è più efficace della diplomazia “immorale”, poichè finisce per frustrare i suoi stessi scopi. Non bisogna comunque esagerare ritenendo la diplomazia un sistema di filosofia etica, perché non lo è. Essa è piuttosto, citando Ernest Satow, «l’applicazione dell’intelligenza e del tatto alla condotta delle relazioni ufficiali tra i governi di Stati indipendenti», sicché per l’autore di Diplomacy «la peggior specie di ambasciatori è costituita da missionari, fanatici e giuristi; la migliore quella formata dagli scettici dotati di una natura ragionevole e umana». È stato il buon senso ad esercitare l’influenza più formativa sulla diplomazia, «e fu in primo luogo attraverso i traffici commerciali che le genti dei diversi paesi impararono ad applicare il buon senso nel trattare reciprocamente i loro affari».
Il diplomatico, insignito dell’Ordine Cav. di S.Michele e S.Giorgio, Ernest Mason Satow (1843-1929). Fu ministro britannico a Tokyo dal 1895 al 1900.
Da queste premesse consegue la figura del «diplomatico ideale», le cui caratteristiche – proprio in virtù di quanto detto sopra – potrebbero facilmente essere estese in senso stretto a qualunque tipologia ideale di uomo: veridicità, precisione, calma, buon temperamento, pazienza, modestia, lealtà, e per concludere Nicolson aggiunge: «Il lettore potrebbe a questo punto obiettare che non ho accennato all’intelligenza, alla cultura, al discernimento, alla prudenza, all’ospitalità, al fascino, alla laboriosità, al coraggio ed al tatto. In realtà non li ho dimenticati: li ho dati per scontati».
Proseguendo, Nicolson ci introduce verso la diplomazia nazionale di un paese. Le Grandi Potenze dell’epoca, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia (gli Stati Uniti vengono omessi a causa dello spoils system, ovvero “sistema del bottino“, che aveva impedito la nascita di un vero e proprio servizio diplomatico professionale). Così come nel capitolo precedente l’autore si era speso per tratteggiare i caratteri essenziali – e positivi – del diplomatico ideale, adesso egli si rivolge a definire gli aspetti basilari – e non solo positivi – delle diplomazie europee, mettendone in luce appunto la diversa sostanza, i vizi e le virtù, dovuti a differenze «del carattere, delle tradizioni e dei bisogni nazionali».
La prima ad essere analizzata è ovviamente la diplomazia britannica, ben conosciuta dall’autore. I diplomatici britannici, da buoni sudditi di Sua Maestà, sono visti dagli stranieri come flemmatici, «amorfi, letargici e lenti», ma in realtà sotto tale maschera si cela la più alta professionalità. Il diplomatico britannico «è eccezionalmente ben informato, si sforza di acquistarsi e di mantenere a fiducia dei governi stranieri, è imperturbabile nei momenti di crisi e ha quasi sempre successo (sic!!)». Non a caso, secondo Nicolson, i Britannici riconoscono che il negoziato è «essenzialmente un’attività mercantile» e basano dunque il loro successo sui sani principi propri di tale attività come «moderazione, comportamento leale, ragionevolezza, fiducia, atteggiamento conciliante e diffidenza verso tutte le mosse a sorpresa o a sensazione».
A sinistra un dipinto di George Hayter, La regina Vittoria nel giorno della sua incoronazione, 1838. A destra mappa dell’Inghilterra vittoriana.
Dal punto di vista geopolitico, la politica estera dell’Inghilterra non può prescindere dal dato di fondo del suo isolamento, nel senso etimologico del termine. Suo primario interesse sarà dunque «acquisire una potenza preponderante sul mare contro qualsiasi nemico», ma per evitare di suscitare «risentimenti e gelosie in tutto il mondo», tale scopo dovrà essere velato e traslato nel principio della libertà dei mari e, soprattutto, in quello dell’equilibrio di potenza, di cui già si è avuto modo di parlare. La Gran Bretagna sarà insomma «il naturale nemico di qualsiasi nazione che minacci l’indipendenza dei piccoli Paesi». Grazie a questa impostazione di fondo, assai chiara ma al contempo generale, il sistema britannico si rivela – a detta di Nicolson – il migliore di tutti, grazie alla flessibilità che lo caratterizza e che permette di adattarsi a qualunque circostanza o sfida (si pensi alla celeberrima frase pronunciata dal Primo Ministro Palmerston, nel 1844: “We have no eternal allies, and we have no perpetual enemies. Our interests are eternal and perpetual, and those interests it is our duty to follow”).
La seconda diplomazia nazionale sotto la lente di Nicolson è quella tedesca. Diversamente dall’Inghilterra, se quest’ultima era il classico esempio di diplomazia «mercantile» (si pensi a Napoleone che parlava in modo dispregiativo di “nation de boutiquiers”), la Germania è – prevedibilmente – indicata come l’esempio principe della teoria “guerriera” della diplomazia. Originantesi dalla «mancanza di qualsiasi ben definita delimitazione geografica, razziale o storica», la concezione geopolitica tedesca e figlia dell’incertezza e nutre la politica estera di Berlino, dunque anche la sua diplomazia, essenzialmente di Machtpolitik, politica di potenza. «Da un lato vi è la convinzione che la forza o la minaccia della forza siano i principali strumenti del negoziato; dall’altro vi è la teoria che la “ragion di Stato” [abbia] la precedenza su tutte le religioni o filosofie individuali».
«I tedeschi», continua l’autore, «sono convinti che sia più importante ispirare paura che non suscitare fiducia; e allorché, come accade invariabilmente, le nazioni minacciate si uniscono per proteggersi vicendevolmente, essi gridano all’Einkreisung o “accerchiamento”, ignorando totalmente il fatto che sono i loro stessi metodi e minacce a produrre quella reazione». Per spiegare questo fenomeno, Nicolson cita il fatto che in Germania il Ministero degli Esteri abbia scarso potere di contro all’onnipotente Stato Maggiore (e anche qui, sulla scia delle precedenti citazioni, valgano le parole di Mirabeau: «La Prussia non è uno Stato che possiede un esercito, ma un esercito che possiede uno Stato»).
Continuando in quest’analisi delle diplomazie europee tocca alla Francia, la quale, dal canto suo, è quella che forse – dopo l’Inghilterra – risponde più delle altre ad uno schema chiaro e ben definito: «difendersi dalla minaccia tedesca». Il sistema diplomatico e geopolitico francese risulta dunque tanto semplice quanto, tuttavia, rigido. Nicolson scrivendo non può celare l’ammirazione ch’egli ha per la diplomazia del Quai d’Orsay (celeberrima sede del Ministero degli Esteri francese), ma ciò non gli vieta di notare anche i difetti insiti nel carattere transalpino.
Quai d’Orsay, sede del Ministero degli Esteri francese
«I diplomatici francesi uniscono all’acutezza dell’osservazione il dono di una speciale capacità di persuadere»; sono uomini d’onore e precisi, «ma difettano in fatto di tolleranza» e sono anche così convinti «della propria preminenza intellettuale», e sicuri della superiorità della propria cultura, da risultare spesso impazienti e finanche offensivi «di fronte ai barbari che abitano gli altri Paesi».
Ed infine, l’autore arriva a trattare per quarta la diplomazia italiana, acer in fundo purtroppo per noi. Alla politica estera del nostro paese viene sì riconosciuta, di contro alla rigidità francese, una grande duttilità, ma tristemente tale caratteristica non è che il frutto della nebulosità strategica di Roma. Il sistema italiano, d’altronde, è derivato da quello degli Stati italiani rinascimentali, e «non è basato né su una sana concezione mercantile, né sulla politica di potenza, né sul logico perseguimento di determinati fini». Sinteticamente: esso si basa su «un’incessante manovra». Vale davvero la pena di leggere per intero la parte in cui Nicolson analizza la politica estera italiana, sia perché raramente si sono avute parole talmente impietose ed allo stesso tempo fondate, sia perché con somma tristezza si può osservare che tale giudizio non è così lontano dalla situazione attuale.
«Lo scopo della politica estera italiana è l’acquisizione sul terreno diplomatico di un’importanza maggiore di quella che possa esserle assicurata dalla sua potenza reale. Essa è pertanto l’antitesi del sistema tedesco, poiché invece di basare la diplomazia sulla potenza, basa la potenza sulla diplomazia. È l’antitesi del sistema francese, poiché invece di sforzarsi di assicurarsi degli alleati stabili contro un nemico permanente, considera i suoi alleati e i suoi nemici intercambiabili. È l’antitesi del sistema britannico, poiché ciò che intende assicurarsi non è un credito durevole, ma un vantaggio immediato. La sua concezione dell’equilibrio di potenza soprattutto non è identica a quella britannica; infatti, mentre in Gran Bretagna tale dottrina è interpretata come opposizione a qualsiasi Paese cerchi di dominare l’Europa, in Italia essa è intesa come quel particolare equilibrio di forze che le consenta di far inclinare con il proprio peso l’ago della bilancia. […] La diplomazia italiana […] assomma, da un lato, le ambizioni e le pretese di una grande potenza con, dall’altro, i metodi di una piccola potenza. La sua politica è così non solo volubile, ma essenzialmente transitoria».
Édouard-Louis Dubufe, Il Congresso di Parigi – 1856 da sinistra a destra: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour (Regno di Piemonte e Sardegna), Henry Wellesley I Conte di Cowley (Gran Bretagna), Karl Ferdinand von Buol (Impero Asburgico), Alexey Fyodorovich Orlov (Russia), François-Adolphe de Bourqueney (Francia), Otto Theodor von Manteuffel (Prussia), Alexander von Hübner (Impero Asburgico), Alexandre Colonna-Walewski (a sedere in primo piano-Francia), Mehemmed Djemil Bey (Impero Ottomano), Benedetti (Segretario), George Villiers, IV Conte di Clarendon (Gran Bretagna), Philipp von Brunnow (Russia), Mehmed Emin Aali Pasha (Impero Ottomano), Maximilian Graf von Hatzfeldt-Trachenberg (Prussia), Pes di Villamarina (Piemonte e Sardegna).
Nel capitolo sui tipi di diplomazia europea Nicolson di certo provoca più volte un certo sorriso sarcastico nel lettore per il suo modo un po’ troppo disinvolto, stereotipato ed estremizzato di affrontare l’argomento: così, ad esempio, non stupisce che proprio la diplomazia britannica – it goes without saying – venga dipinta come la migliore, con tratti quasi superlativi che è più che lecito dubitare corrispondano alla realtà; i francesi sono arroganti e boriosi, i tedeschi hanno una mentalità militaresca e gli italiani … vengono come al solito ricordati più per le loro ambizioni ingiustificate che per altro. Pur tuttavia, rimane il fondo di tale analisi, che anche oggi, a distanza di circa ottant’anni, non possiamo che riconoscere veritiero.
Ai primi del Novecento si può dire che la diplomazia si sia ormai stabilizzata da più di un secolo; le Grandi Potenze hanno tutte i propri rappresentanti permanenti presso le capitali sia europee sia extra-europee, e le relazioni diplomatiche vengono grosso modo gestite secondo un insieme di norme e principi sedimentatisi nel corso degli anni. Il 1918 segna una data spartiacque con la comparsa della open diplomacy, detta anche «diplomazia democratica».
Nicolson giudica “l’avvento delle masse” in politica, e quindi anche in diplomazia, il principale cambiamento avvenuto nell’intera storia millenaria degli ambasciatori. Tuttavia, tale processo raggiunge in realtà solo il suo apogeo sul finire della Grande Guerra, cominciando però tempo addietro. Per spiegare la diplomazia democratica è infatti necessario partire dal Diciannovesimo secolo, epoca del passaggio dalla cosiddetta “vecchia” alla “nuova” diplomazia.
Durante l’Ottocento la politica internazionale, ed anche il negoziato, cessarono di essere appannaggio esclusivo del monarca – abbandonando dunque in modo progressivo la segretezza che velava le relazioni internazionali – per diventare sempre più oggetto del controllo del Governo. Da una diplomazia «di boudoir», come la definisce Nicolson, si passò ad un corpo più o meno omogeneo di funzionari dello Stato, così come tutti noi oggi lo conosciamo. Tale passaggio, secondo l’autore di “Storia della diplomazia” fu il riflesso della transizione dalla Monarchia assoluta alla Monarchia costituzionale, e fu causato altresì da fattori quali il rapido sviluppo delle comunicazioni e soprattutto l’importanza sempre più grande dell’opinione pubblica.
In modo analogo, la “nuova” diplomazia cambiò leggermente pelle, all’indomani del 1918, per diventare “democratica” a tutti gli effetti. Secondo Nicolson, la “dottrina” del presidente Wilson non fu infatti che una logica conseguenza, portata agli estremi, di quanto già iniziato con la “nuova” diplomazia. Da un lato, l’autore di Diplomacy non manca di mettere in luce l’aspetto positivo di un maggiore controllo della politica estera da parte della sovranità popolare, ma dall’altro si dimostra molto più incline a vederne i vizi: il primo è di certo l’irresponsabilità del popolo sovrano, che controlla la politica estera restando però «totalmente ignaro delle responsabilità che ciò comporta»; un altro grande problema è l’ignoranza del popolo stesso, che fa stridente contrasto con la prudenza con cui il diplomatico di professione si guarda «dal fare delle generalizzazioni basate su una frettolosa osservazione dei fenomeni»; la terza difficoltà è data dalla lentezza d’azione, dovuta anche qui sempre alla ricerca del «consenso del comune elettore»; infine, il quarto difetto capitale è l’imprecisione, apertamente ricercata dalle democrazie che aborrono gli impegni chiari e vincolanti, per ottenere così facendo maggiore libertà di azione, ma cozzando contro l’assioma che vuole che «l’efficacia di qualunque diplomazia dipenda dalla misura in cui essa ispira fiducia e certezza».
Insomma, si sarà ormai ben compresa l’opinione del diplomatico inglese, che del resto è stata citata già all’inizio di questo scritto: se è giusto che la politica estera sia sotto il controllo del popolo sovrano, non può dirsi lo stesso del negoziato, cioè
della diplomazia. La storia non può andare a ritroso, e d’altronde non bisogna prendere Nicolson per un banale reazionario: secondo il diplomatico inglese bisogna dunque accettare la diplomazia democratica per quello che è, anche perché – come egli scrive – lungi dal giudicarla in toto come «
meno efficiente o più pericolosa di quanto fosse la diplomazia di una volta», essa è al contrario «
infinitamente preferibile a qualsiasi altro sistema», a patto però che esca dallo «
stato di confusione» in cui versa e sappia «
trovare la sua formula». Si tratterà insomma, con una stupenda metafora, solo di «
adattare questa tastiera estremamente delicata alle rozze dita delle masse popolari».
In conclusione, siamo ormai arrivati a gettare uno sguardo sull’oggi, sulla diplomazia contemporanea come noi la conosciamo, avendo visto tutti i cambiamenti che il mondo degli ambasciatori ha subito. In definitiva, è giunto il momento di provare a rispondere alla consueta domanda con cui da decenni termina qualunque scritto abbia trattato l’argomento di cui ci siamo occupati: la domanda sulla fine della diplomazia. La diplomazia è ormai destinata a scomparire in quanto strumento obsoleto ed inutile? Oggi più che mai sembra lecito interrogarsi sulla morte della diplomazia, oggi che i cambiamenti alla base del passaggio dalla “vecchia” alla “nuova” sono divenuti dirompenti e connaturati al nostro tempo (si pensi alla distorsione dell’opinione pubblica da parte del populismo o alla iper-velocità della comunicazione grazie a smartphone e social network). Oggi più che mai è dunque necessario trovare una risposta.
Per iniziare, ad onor del vero, bisogna dire che questa disputa non è affatto recente come potrebbe apparire, bensì risale a circa due secoli fa, ancor prima che Nicolson ne parlasse, fin da quando fu inventato il telegrafo. Se ne parla da così tanto tempo, eppure i diplomatici come abbiamo visto sono rimasti al loro posto e, come vediamo, continuano a farlo anche ai giorni nostri, sicché una probabile risposta alla domanda non è difficile da immaginare. Nondimeno il punto della questione resta: cosa porta un ambasciatore ad essere necessario, nel secondo decennio del XXI secolo, quando due capi di Stato, se ne hanno intenzione, possono benissimo parlarsi anche dai due angoli più remoti del globo, in modo immediato e addirittura guardandosi reciprocamente “de visu” su Skype?
La risposta la dà già Harold Nicolson nel suo Diplomacy riprendendo il passaggio dalla vecchia alla nuova diplomazia. A ben guardare, sostiene il diplomatico inglese, tale transizione fu solo «apparente», ma non andò ad intaccare la «sostanza» del fenomeno. Ciò che si verificò fu semplicemente che «l’arte del negoziato si [adattò] gradualmente ai cambiamenti delle condizioni politiche», giacché «un determinato sistema politico si riflette inevitabilmente in un certo tipo di diplomazia»; oppure, detto in altri termini, la diplomazia è «costretta ad adottare le idee e le abitudini dei sistemi che [rappresenta]», e quando questi cambiano, essa cambia con loro. Citando ancora Cambon: oggi come ieri «la sostanza [della diplomazia] rimarrà, innanzitutto perché la natura umana non cambia mai; secondariamente perché vi è un solo modo di risolvere le controversie internazionali; e infine perché il metodo più persuasivo a disposizione di un governo è la parola di un uomo onesto».
_Harold Nicolson, “A margine”,Bologna, Il Mulino, 1996
_Enrico Serra, “Là diplomazia. Strumenti e metodi”, Firenze, Le Lettere, 2011
_Daniele Varè, “Il diplomatico sorridente” Milano, Mondadori, 1941
_Enrico Guastone Belcredi, “La carriera“, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006
_Sergio Romano, “Memorie di un conservatore“, Milano, Longanesi, 2002
_Boris Biancheri, “Accordare il mondo. La diplomazia nell’età globale“, Bari, Laterza, 1999
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