L’invenzione degli Ordine Architettonici greci e romani

di Stefano Emanuele Fera del 11-02-2023

Ordini Architettonici, Ordini Classici, o Ordini Classicisti? Ordini Greci, Ordini Romani, o Ordini Vitruviani? E quanti sono gli Ordini? Tre come i presunti Ordini Greci? Quattro come i genera di cui tratta Vitruvio? Cinque come le maniere di Serlio, o come gli ordini finalmente canonizzati dal Vignola? Il solo insorgere di queste domande e le relative contraddittorie risposte, la dice lunga sullo stato dell’arte, ossia sul “disordine” che regna incontrastato sul concetto di Ordine Architettonico.
Non un tentativo di mettervi ordine, ma la proposta di un sintetico excursus storico volto a illustrare le vicende che hanno portato alla definizione quest’idea fondante della cultura architettonica mondiale che in Italia, tra XV e XVI secolo, ha avuta genesi e maggiore fioritura grazie al diffondersi e affinarsi delle teorie neoplatoniche cui, inoltre, si deve l’origine del pensiero sistematico moderno

Veduta di Palazzo Farnese a Caprarola (VT).

Nell’opinione comune, diffusa sia tra gli architetti, sia tra gli archeologi, sia tra chiunque abbia un minimo interesse interesse per la storia dell’arte, è ben radicata la seguente credenza. «Nel periodo arcaico dell’architettura greca, gli ordini architettonici presero una forma definitiva, nelle loro linee generali, polarizzandosi fin da principio in due sistemi che si dicono dorico e ionico, ai quali si aggiunsero poi il corinzio, che fu dapprima una varietà dello ionico, e presso i Romani il toscano e il composito» (Enciclopedia Treccani).
Come ha, invece, evidenziato Chistof Thoenes (1928 – 2018), uno dei massimi esperti di trattatistica d’architettura, durante il Rinascimento, «quel che si presume un momento di riscoperta, a ben guardarlo si rivela una serie di tentativi, faticosi e lunghi, di ricostruire un sistema che come tale non era mai esistito; sicché in fondo si tratta di una costruzione ex novo, moderna, sebbene eretta con materiali antichi». Così pure è da ritenersi infondata la credenza che l’idea e il sistema degli ordini fosse già presente in Vitruvio, dal momento che nel De Architectura «non si trova né la parola, né una perifrasi del concetto di ordine come noi lo intendiamo» (Gli ordini architettonici: rinascita o invenzione?).
L’estetica rinascimentale impiega, inoltre, molto tempo per liberarsi del principio fondante dell’estetica medievale: la docta varietas, ossia il gusto per la variazione, la bizzarria, il capriccio, la stravaganza, la singolarità e l’irregolarità che si osserva in tutte le realizzazioni medievali, sia romaniche, sia gotiche. È dal gusto per la docta varietas, infatti, che discendono i molti portali e colonnati quattro-cinquecenteschi con capitelli variati. Lo stesso Michelangelo è ancora un uomo del Medioevo, per cui non è vero quel che ha scritto James Ackerman (1919 – 2017), cioè che contravvenga alle regole e ai canoni dell’antico, semplicemente perché durante la sua vita quelle regole e quei canoni sono ancora in via d’elaborazione, quindi non ancora definiti.
Un ruolo fondamentale, nel passaggio dal gusto della docta varietas al gusto per la regolarità, è occupato dall’invenzione della prospettiva in cui gli edifici, con le loro teorie di colonne e capitelli, non sono più rappresentati in due, bensì in tre dimensioni. Non a caso, tutti gli architetti che hanno un ruolo principale nella definizione del canone degli ordini hanno un tratto comune: sono tutti grandi esperti di prospettiva. A partire dal Brunelleschi, che a torto o a ragione è considerato l’inventore della prospettiva, per continuare con Bramante, Peruzzi e Vignola, il quale oltre alla sua famosissima Regola, scrive appunto un trattato sulla prospettiva.
Il passaggio dal gusto per la docta varietas al gusto per la regolarità risente, inoltre, di un importantissimo e lungo dibattito riguardante la lingua che ha luogo in campo letterario sul tema dell’imitazione, sulla differenza tra i concetti di imitatio e di aemulatio. Dibattito che vede contrapposti dapprima Angelo Poliziano (1454 – 94) e Paolo Cortesi (o Cortese, 1465 – 1510), poi Pietro Bembo (1470 – 1547) ed infine Gianfrancesco II Pico della Mirandola (1469 – 1533).
Tuttavia, il passaggio definitivo dal gusto medievale per la docta varietas a quello rinascimentale per la regolarità si deve al trionfo, in ambito romano, dell’idea neoplatonica di Bello Ideale. Ciò avviene a cavallo del Sacco (1527) con la toscanizzazione di Roma conseguente ai pontificati dei due Papi de’ Medici Leone X (1513 – 21) e Clemente VII (1523 – 34). I due grandi Papi fiorentini favoriscono la ripopolazione di Roma dopo le devastazioni dei lanzichenecchi di Carlo V attirando un grande numero di artisti e intellettuali toscani cui si deve il diffondersi e l’affermarsi del Neoplatonismo, in aperta contrapposizione al Neoaristotelismo fiorente nell’università di Padova e negli studia settentrionali.
Il Neoplatonismo informa soprattutto l’attività delle accademie romane incentrata sull’esegesi del trattato vitruviano. Di particolare rilievo sono le iniziative promosse dall’Accademia della Virtù, anche detta Accademia Vitruviana, fondata nella prima metà del Cinquecento a Roma dall’umanista senese Claudio Tolomei (1492 – 1556) sotto il patrocinio del cardinale Ippolito de’ Medici, nipote di Papa Leone X. L’Accademia Vitruviana, presieduta da Marcello Cervini degli Spannocchi, futuro Papa Marcello II, si riunisce due volte la settimana nel palazzo dell’arcivescovo Francesco Colonna e ha lo scopo di offrire una spiegazione del De Architectura raffrontandolo coi resti dei monumenti antichi. A questo scopo è di decisiva importanza l’incarico conferito al Vignola di effettuare rilievi dei principali monumenti romani.

Veduta del prospetto interno al patio di Palazzo Colonna a Roma.

È proprio da tale attività svolta in preparazione dell’ambizioso e incompiuto progetto enciclopedico concepito dall’Accademia Vitruviana che trae origine La Regola delli Cinque Ordini di Architettura pubblicata a Roma nel 1562. In tale opera, destinata a diventare il primo best & long seller della letteratura architettonica di tutti i tempi, il Vignola codifica in forma definitiva il canone dei cinque ordini.
È dunque solo da questo momento in poi che si può iniziare a parlare di ordini architettonici, proprio perché si è di fronte a un concetto nuovo, inesistente prima. Si tratta, infatti, di un’astrazione cui si perviene solo attraverso la nuova idea di bellezza ideale introdotta dalla cultura neoplatonica fiorentina. Tale bellezza ideale è ottenuta per via di analisi e sintesi proprio secondo quanto illustra il famoso esempio riportato da Plinio di Zeusi che dovendo dipingere Giunone come la più bella di tutte le donne, nel tempio di Crotone a lei dedicato, sceglie cinque tra le più belle vergini della città e di ognuna raffigura la parte più bella per sintetizzarla poi nel ritratto idealizzato della dea.
Il Vignola opera nello stesso modo: sebbene in alcuni casi dichiari il riferimento a monumenti esistenti, come il Teatro di Marcello per il dorico, il Tempio della Fortuna Virile (negli anni Trenta identificato come Tempio di Portuno) per lo Ionico, il Pantheon per il Corinzio, pure introduce elementi e proporzioni dedotte dalla lettura di Vitruvio. Egli cioè astrae il dato reale e ne opera una sintesi sulla scorta delle prescrizioni vitruviane, ma alla fine il risultato non è di perfetta aderenza né al monumento, né al testo antico.
Quando si parla di ordine si fa dunque riferimento a un’idea cinquecentesca italiana che rimanda a una forma chiusa, che non ammette varianti. Perché l’ordine ha valore di modello, non di tipo. Per capire la differenza tra modello e tipo è utile ricorrere alla nota definizione data da Quatremère de Quincy. «Il modello, inteso secondo l’esecuzione pratica dell’arte, è un oggetto che si deve riprodurre tal qual è; il tipo, al contrario, è un oggetto secondo il quale ognuno può concepire delle opere che non si rassomiglieranno affatto tra loro. Tutto è preciso e dato nel modello, tutto è più o meno vago nel tipo».


Pertanto, quando si parla di dorico, ionico e corinzio greco non si può parlare di ordine ma di tipo. Ciò, del resto, è ben evidente se, per esempio, si raffrontano i caratteri e le proporzioni delle colonne di vari templi ionici greci. Si vede, infatti, che ogni esempio ha un sistema proporzionale a sé stante che non può essere astratto per trarne una regola generale.
Per l’architettura greca antica, le uniche regole generali sono quelle introdotte dalla trattatistica nord europea, in particolare inglese e francese, a partire dalla metà del Settecento, ossia dopo che Stuart e Revett pubblicano i loro famosi volumi sulle Antiquities of Athens, aprendo così la strada all’architettura neoclassica e al cosiddetto Grecian Style, oggi noto come Greek Revival.
Del resto è proprio in ambito anglosassone che nasce la distinzione tra ordini greci e ordini romani, che pertanto a mio avviso dovrebbero invece essere detti “ordini inglesi”, perché è solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e in Gran Bretagna, che tale distinzione viene operata, trasformano in modelli quelli che nell’antichità sono, invece, solo tipi.

 

© Stefano Fera – Riproduzione riservata

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