Il modernismo reazionario tedesco

di Giuseppe Baiocchi del 07-10-2021

La Rivoluzione conservatrice tedesca (Konservative Revolution) è stato quel movimento politico-filosofico, alquanto variegato, sviluppatosi in Germania dalla conclusione della Grande Guerra (1918) all’avvento del nazionalsocialismo (1933). Siamo negli anni della nota Weimarer Republik (1918-33) di stampo socialista-liberale, che vide inizialmente l’opposizione del mero Mittelstand tedesco: piccoli e medi coltivatori, bottegai, artigiani, industriali, architetti, professori, fino ad arrivare ai Wandervögel e alle confraternite delle Burschenschaft.
Il minimo comun denominatore di questo coacervo intellettuale possiamo esprimerlo con l’opposizione alla modernità, intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-franco-americano (quelle plutocrazie decantate qualche anno dopo dallo stesso Benito Mussolini); si pensava anche ad una nuova Heimat unita e si stavano gettando le basi per un nuovo corso dell’idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca.
Lo stesso scrittore Thomas Mann (1875 – 1955), esponente di spicco dei letterati della rivoluzione conservatrice, si esprimeva su quella società non certo in maniera leggera: «Ma cos’è poi questo sviluppo, questo progresso di cui parlavo? Bisogna ricorrere a una masnada di parole maledettamente odiose e artificiose per dare un’idea di quello che vuol dire. Si tratta della politicizzazione, della letterarizzazione della Germania, della sua intellettualizzazione e radicalizzazione, della sua umanizzazione in senso politico.. si tratta della democratizzazione della Germania, o meglio di sgermanizzare la Germania».
Altri eminenti intellettuali – delle più svariate discipline – completavano uno scacchiere molto particolare: Oswald Arnold Gottfried Spengler (1880 – 1936), Ernst Jünger (1895 – 1998), Hans Freyer (1887 – 1969), Carl Schmitt (1888 – 1985), Werner Sombart (1863 – 1941) e Martin Heidegger (1889 – 1976).
Ciascuno di essi, provò ad unire la l’anima del popolo tedesco con la tecnica: ne furono esempio calzante le autostrade progettate dagli ingegneri tedeschi che si sforzarono di unire l’impianto tecnologico con uno adattamento ambientale sostenibile.
Una peculiarità di questo movimento rimane comunque l’essere molto variegato nell’elemento politico-ideologico. Intellettuali come Arthur Wilhelm Ernst Victor Moeller van den Bruck (1876 – 1925) da sempre contro la tecnologia, poiché vi era il rischio (oggi molto presente) di trasportare il popolo tedesco verso una deriva interiore, nichilista e priva di anima. Difatti la sua Germania che sarebbe succeduta al II Reich guglielmino sarebbe stata il nuovo pilastro contro il capitale anglosassone e il Comunismo russo. Oggi potremo, incappando anche in qualche errore dottrinale, inquadrarlo nel movimento dei “rossi-bruni”. Unito al pensiero di Bruck, vi era anche il giornalista Ernst Niekisch (1889 – 1967), per il quale la techne avrebbe logorato l’uomo tramite la corsa agli armamenti e successivamente questo sarebbe stato distrutto dalle future guerre moderne. Entrembi questi autori etichettavano la tecnica come il nuovo demone dell’umanità.
Questi autori furono certamente una cerchia ristretta, poiché la stragrande maggioranza difendeva la tecnica come utile al piano di sviluppo per una patria forte ed unita.
Ad esempio per Ernst Jünger, eroe della Prima Guerra Mondiale, la guerra diviene per l’uomo non divoratrice, ma «esperienza creatrice» che avrebbe creato nell’individuo temprato una nuova «forma d’acciaio». Il filosofo tedesco, in parte nichilista, amava sovente ripetere il binomio vita-morte, ovvero «vivere significa uccidere»: l’esaltazione dell’esperienza del fronte, di quella Fronterlebnis, servivano come reunion di tutti gli ex combattenti che non riuscivano più – dopo gli sconvolgimenti della Grande Guerra – a riadattarsi ad una vita civile normalizzata. Il suo letterario «realismo magico» del fronte, pieno di descrizioni mozzafiato e splendide metafore evocative e di impatto, lo fecero entrare del ghota della letteratura, con l’appellativo di “letteratura jüngheriana”.
L’esaltazione – e non la dimenticanza (come accadde invece in Italia) – dei “Titani”, ovvero di questo uomo forgiato dalle “tempeste d’acciaio” rendevano per Jünger l’uomo alemanno-tedesco simile ai figli ribelli degli Dèi, chiamato a compiere imprese che avranno (ed hanno avuto) dello straordinario. Per il tedesco la Geistgemainschaft, questa comunità liberale che prendeva vita era insufficiente: occorreva bensì la creazione di una comunità di sangue o Blutgemainschaft: da qui nasce quella figura chiave, tanto cara a Jünger, del soldato-operaio. Quest’ultimo è forte e viene paragonato alla Patria stessa, poiché lo racchiude e per la quale bisogna vivere e morire – sacrificarlo sull’altare della Patria in sostanza.

Carl Schmitt – Con Ernst Jünger a Parigi (Rambouillet), 1941. 

Da qui anche il binomio del soldato-operaio/Grande Guerra, poiché in nome di questa, furono sacrificati migliaia di uomini, rendendola una guerra delle masse. Sempre lucido precursore Jünger aveva anticipato nei suoi scritti la Blitzkrieg hitleriana o guerra lampo: l’innovativa tattica bellica – di potenza di fuoco e velocità – che avrà il suo battesimo di fuoco in Polonia (1939) e si concluderà qualche anno dopo in Russia (1942). Infine il filosofo di Heidelberg concludeva le sue dissertazioni con la speciale missione – tutta tedesca – di salvare il mondo dalla perdita di spiritualità: quella chance storica che fu ripresa dallo stesso Heidegger.
Certamente – di tutto il periodo – il saggio “Il tramonto dell’Occidente” rappresenta il culmine di questo pensiero socio-politico. A scriverlo è Oswald Spengler, storico e filosofo tedesco.
Per il bavarese il male è rappresentato dal denaro, dall’economia e non dalla tecnica in quanto tale. Era proprio il conio artefice di questo mercantilismo, ad essere la principale causa della paralizzazione della “macchina tedesca”. Il mercato non doveva essere regolato dal valore di scambio merce, ma dal valore d’uso d’opposto. Chiaramente qui, la figura dell’ebreo emerge con forza: elemento che praticava da secoli lo strozzinaggio, spesso perché costretto da una società verso la quale non volevano amalgamarsi in quanto “popolo eletto”.
Il nuovo mondo ipotizzato e tanto più sperato della sua massima opera citata pocanzi, egli immagina un mondo “faustiano” abitato da un «uomo nuovo» che sappia coniugare la sfera dell’anima e quella della tecnica in un tutt’uno inscindibile. Importante, quasi vitale, per compiere questo progetto sarebbe stato per Spengler, quello di non far confluire la tecnica all’interno dell’elemento culturale: solo così si potevano raggiungere e successivamente “battere” le culture legate al liberalismo e alla democraticizzazione. Al pacifismo ipocrita, si contrapponeva quello dello slancio vitale della guerra, vista in matrice positiva, in quanto avrebbe creato proprio questo nuovo mondo, distruggendo chiaramente il vecchio: dunque la distruzione non era più inquadrata come matrice negativa.
A differenza di questi “modernisti reazionari” il filosofo Martin Heidegger, era convinto dell’inconciliabilità tra tecnica moderna e anima tedesca. Temeva certamente la potenza Sovietica russa e parallelamente era preoccupatissimo del modello statunitense americano dove vigeva quella che lui definiva la “tecnica demoniaca”. Per questo la sua adesione iniziale al nazionalsocialismo – fu molto vicino alle Camicie brune (Sturmabteilung – S.A.) –, rappresentò quella sua speranza ideologica che vedeva la Germania cogliere quella chance storica di guidare l’occidente, di intravvedere nell’uomo tedesco le caratteristiche elleniche dell’uomo greco, capace di plasmare la storia europea e di guidarla. Il partito di Hitler significava coniugare l’anima dell’uomo tedesco con la tecnica per il giusto fine – sia in chiave morale, che in chiave etica, ma come spesso accade, chi pensa in grande, è destinato a sbagliare in grande. Solo più tardi Heidegger si rese conto che il cuore del nazionalsocialismo era “meccanico”, che la sua volontà si basava unicamente sulla tecnica tanto odiata. Non sono un caso le sue dimissioni dalla Cattedra di Friburgo, dove era rettore (ed al cui posto entrò un certo Alfred Ernst Rosenberg, 1893 – 1946). Heidegger aveva chiaramente compreso quello scivolamento ideologico che stava compiendo il partito nazionalsocialista in Germania, poiché comprese con lucidità come i colori bianco-rosso-neri non erano dalla parte dell’Essere, né da quella del Volk tedesco, ma unicamente da quella volontà di potenza, nemica di Heidegger e correlata invece ad Hitler.

Il 21 aprile 1933 Heidegger viene eletto rettore alla Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, prendendo il posto del dimissionario Wilhelm von Möllendorff (1887-1944), il quale, eletto l’anno precedente, aveva tentato senza successo di ritardare l’attuazione della legge del 7 aprile che metteva in congedo tutti i professori di origine ebraica. Heidegger viene proposto da un gruppo di docenti nazionalsocialisti guidati da Wolfgang Aly (1881-1962) e Wolfgang Schadewaldt (1900-1974). Il voto a favore di Heidegger è pressoché unanime: gli unici 13 voti che non lo appoggiano, su 93 disponibili, sono proprio i voti dei professori “ebrei” che in virtù del decreto attuato dal Gauleiter per il Baden, Robert Wagner, non possono essere conteggiati. Va attestato che dei restanti 80, solo 56 presero parte alla votazione. Il 1º maggio dello stesso anno, in quanto condizione prevista per assumere ufficialmente l’incarico, si iscrive al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Il 27 maggio si insedia ufficialmente al rettorato, tenendo il famoso discorso Die Selbstbehauptung der deutschen Universität (“L’autoaffermazione dell’università tedesca”). Si dimetterà un anno dopo, nel 1934. 

Per quanto concerne l’economista Carl Schmitt il decisionismo politico rappresentò il superamento di un certo romanticismo in chiave politica. Decisionismo che doveva però poi portare verso una stabilizzazione del Paese, che sarebbe rimasto unito e forte. Anche per questo l’avvento di Hitler rappresentò per il teorico di Plettenberg un’occasione che si rivelò presto sbagliata. Difatti il decisionismo e la concretezza nazista iniziale furono ben accolte da Schmitt per far tornare la Germania un Paese non più indebitato e sconfitto con un alto tasso di inflazione, ma unito e forte. Contrariamente a Heidegger, la tecnica rappresentava uno strumento importante per la buona riuscita di questa nuova società, la quale sarebbe dovuta poi essere guidata con una politica di parsimoniosa neutralità, la quale sarebbe poi servita per consolidare l’aspetto unificato di politica, economia e filosofia. Schmitt poneva l’accento sull’autonomia, nonché il predominio della politica su tutte le altre sfere. Chiaramente le ideologie schittiane erano molto diverse da quelle che aveva in testa Hitler, il quale contrariamente – una volta raggiunto il potere (1933) – ambiva sempre nel non dare mai nessun punto di riferimento, sia politico che militare sulle proprie intenzioni venture: eterno mutamento e stato perenne di provvisorietà. Ciò contrastava fortemente con le convinzioni di Schmitt, di quella neutralità e stabilità tanto ambiti che vedranno nell’inizio del Secondo conflitto mondiale il suo tramonto ideologico.
L’importanza di Freyer si deve alla scintilla ideologica di aver voluto fortemente l’unione inscindibile – all’interno del movimento – della tecnica con l’anima. Tale corrente fece superare le antinomie tra romanticismo e positivismo. Per rendere accettabile al popolo tedesco la tecnica, Freyer iniziò una meticolosa ricerca sulle origini di un pre-capitalismo della Germania, così da unire la tecnica stessa al sentimento di repulsione al capitalismo. Nasce la «reificazione» del sociologo di Lipsia, ovvero la capacità interiore di re-introdurre antiche e archetipe convinzioni sotto forma di nuove e stimolanti ideologie. Il Volk (popolo) diviene così il nuovo protagonista principale di questo nuovo spirito creativo. Esso si opponeva con tutte le sue forze ai processi d’industrializzazione della Germania e voleva pertanto riaffermare il predominio della politica sull’economia. Come scrive Marco Apolloni «Se nell’ideologia della sinistra l’emancipazione dal campo economico si concretizzava con la rivoluzione proletaria, nell’ideologia della destra questo superamento si manifestava con l’affermazione di uno Stato autocratico e verticistico – Volk e Stato, perciò, divennero una cosa sola». Freyer divenne così un “modernista reazionario” ostile di certo alla società che governava allora la Germania.
Forse, nell’antisemitismo che vigeva chiaramente in tutta Europa, negli autori della Rivoluzione Conservatrice, possiamo inquadrare in Sombart il più fiero oppositore del popolo ebraico. Si impone tra i pensatori politici per la denuncia al parassitismo degli ebrei, trovando in essi un autentico capro espiatorio. Il “popolo eletto” secondo l’autore di Falkenstein, aveva dato vita ad un regime economico di strozzinaggio, infiltrandosi capillarmente nei diversi strati della società, paralizzarono l’operosa vita del tedesco. Se per Spengler la colpa dei mali della Germania era del denaro e per Heidegger invece delle macchine, per Sombart non c’era alcun dubbio: tutta la colpa era degli ebrei, i quali divengono i fondatori del capitalismo moderno, il cui risultato più evidente è stato lo sviluppo di una civiltà nichilista, senz’anima. La costrizione secolare ad occuparsi solo di finanza e all’interno di ghetti controllati, per la loro difficile assimilazione nella società, fece sì che potessero essere inquadrati, da tale pensiero, come i veri inventori delle banche e il loro giro d’affari arrivò ad essere tale da estendersi anche ai non ebrei, che sempre più si rivolsero loro per chiedere ingenti somme di denaro, che dovevano poi essere rese con gli interessi raddoppiati.
Il popolo ebraico diviene inoltre molto pericoloso per via della loro teologia disincantata in cui l’uomo è costretto a lottare strenuamente contro le potenze ostili della natura e dove viene posto di continuo l’accento sull’eccezionalità del popolo ebraico in quanto «popolo eletto» dal Signore; per un iper-intellettualismo razionalizzante, che li porta ad eccellere nelle professioni in cui viene premiata l’astuzia – la giurisprudenza, il giornalismo, il teatro e per via anche dell’origine «orientale» del popolo ebraico conteneva già in sé, secondo Sombart, il loro destino è il mercantilismo: il loro nomadismo di creature del deserto li portò a raggiungere terre come la Germania, dove invece vi erano creature della foresta. Mentre le prime erano assai pragmatiche, inclini al mercanteggiare e per ciò stesso prediligevano la quantità alla qualità; viceversa le seconde erano naturalmente predisposte alla speculazione astratta, vivevano in una dimensione magico-onirica e pertanto prediligevano altresì la qualità alla quantità. La loro provenienza dal deserto e la loro notevole dimestichezza col denaro davano al lettore un’idea piuttosto chiara degli ebrei: creature fortemente instabili come il deserto e impalpabili come il denaro. Essi, privilegiando gli aspetti astratto-quantitativi, sostituirono al valore d’uso dei tedeschi per la merce il loro ben più effimero valore di scambio. Perciò ecco qua come per Sombart tra ebrei e tedeschi si stendeva un abisso incolmabile e per ciò stesso lui dirottò gli indistinti sentimenti anti-capitalistici in ben più precisi sentimenti di vero e proprio odio contro gli ebrei. Per Sombart dunque: non la tecnica, bensì il bieco capitalismo ebraico doveva essere sconfitto per assicurare un radioso futuro alla Germania. Il suo auspicio trovò fertile terreno d’incontro con l’ideologia nazionalsocialista. Questa, infatti, tra i suoi piani si prefiggeva: quello di assestare un colpo decisivo al capitalismo mondiale, coltivando al contempo il potente strumento della tecnica moderna: la quale avrebbe fatto rimanere la Germania al passo degli altri paesi, portandola cosicché alla vittoria finale.
Quando arrivò la guerra, dunque, questo movimento ideologico confluì all’interno del nazionalsocialismo e quando anche gli ultimi reticenti, capirono che in qualche modo Adolf Hitler aveva ingannato i loro buoni propositi, l’operazione Valchiria (1944) fu in qualche modo l’ultimo tentativo di questo movimento scomparso di imporsi nuovamente nella storia.

Due dei principali volumi sull’argomento. Il primo (Herf) traccia una linea storica e antropologica del periodo; il secondo (Gnerre) reinterpreta tale movimento, traslandolo su princìpi contemporanei. 

La Rivoluzione Conservatrice dunque è stata una corrente di pensiero nata per continuare il risanamento degli errori irrisolti provenienti dalla Rivoluzione francese e parallelamente un tentativo di rinnovare l’ideologia legata all’industria. L’irrazionalismo e la tecnica formavano per l’ideologia nazionalsocialista un unicum, diversamente dal pensiero degli autori. Quindi si era smarrito il confine tra ideologo e tecnocrate, tant’è che non si comprendeva più il confine tra l’uno e l’altro.
Chiaramente la tecnica, usata ampiamente dai loro “avversari ideologici” anglosassoni, era per così dire giustificata – sotto il nazismo – poiché funzionale al cambio del mondo tanto caro al movimento, ma il mero asservimento alla téchne da parte del partito, e la disillusione militare faranno fuoriuscire i membri della Rivoluzione conservatrice dal sistema politico tedesco degli anni Trenta e Quaranta, forse però, troppo tardi.
Oggi, dunque, nella pienezza di quella crisi del soggetto che fa «splendere di sventura» l’uomo occidentale, cosa rimane? Il nuovo saggio Materiali della rivoluzione conservatrice (2021), scritto dal filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, è stato il tentativo di donare una nuova interpretazione a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”.
I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx. Ai concetti già espressi in precedenza sul filone anti-moderno per eccellenza, Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio – tanto controverso nei termini – di “rivoluzione” e “conservazione”, ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall’eternità della storia occidentale, come la natura fondamentale dell’uomo; la preservazione del senso, propriamente inteso umano e l’analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma.
Questi pochi concetti elencati sono espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre definisce “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».
Per approfondimenti
_Herf Jeffrey, Il modernismo reazionario – Tecnologia, cultura, politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Il Mulino, Bologna, 1988;
_Mann Thomas, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997;
_Jünger Ernst , L’operaio – Dominio e forma, Guanda, Parma, 2020;
_Spengler Oswald, Il tramonto dell’occidente – Lineamenti di un morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano, 1957;
_Gnerre Orazio, Materiali – Reinterpretare la rivoluzione conservatrice, Editoriale Librai, Napoli, 2021.
_Benoist Alain de, Quattro figure della Rivoluzione Conservatrice tedesca. W. Sombart, A. M. van den Bruck, E. Niekisch, O. Spengler, Controcorrente, Napoli, 2016;
_Feinmann José Pablo, L’ombra di Heidegger, Neri Pozza, 2007;
_Sombart Werner, Gli ebrei e la vita economica, AR, Avellino, 1989.

 

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