Emil Cioran: l’orgoglio del fallimento

di Paolo Vanini del 25-05-2021

Meglio in fondo a una fogna che su un piedistallo”, scrive Cioran nei Cahiers, metaforizzando per l’ennesima volta una delle ossessioni della sua esistenza: per capire, bisogna toccare il fondo. E per toccare il fondo, bisogna fallire.
In fondo, l’idea stessa di “modernità”, con il suo implicito culto del progresso e la sua fatale predisposizione alle infatuazioni utopiche, non è altro che una titanica dichiarazione di guerra contro la pura e semplice possibilità del “fallimento”. Possibilità che Cioran ha, invece e paradossalmente, idolatrato, fino a diventare autore anti-moderno e inattuale per antonomasia, perché ci si può costruire un’opera, e quasi una reputazione, sul fatto di fallire. E qualcuno potrebbe pure trovarla compromettente, questa faccenda di perseverare contro se stessi e malgrado se stessi, continuando a scrivere libri sul niente, sul nulla e sul male. Al che Cioran ci avrebbe potuto ricordare che poteva fare come gli altri e impiastrare centinaia di pagine sul bene – e forse ci sarebbe andata peggio.

Emil Cioran (1911-95) è stato un filosofo e saggista di origine rumena, che ha pubblicato opere sia in lingua rumena che francese. I suoi lavori, in prosa e aforismi, sono caratterizzati da un pervasivo pessimismo filosofico e da un costante tono nichilista. Le sue opere trattano infatti questioni personali come la solitudine, la sofferenza, l’inquietudine, la disperazione. Nel 1937, Cioran si trasferisce nel Quartiere Latino di Parigi, dove soggiornerà in modesti alberghi, e successivamente in una mansarda in rue de l’Odéon 21, dove vivrà con la compagna di una vita, Simone Boué (1919-97).

Ad ogni modo, se fallire è alla portata di tutti, accettare il fallimento su di sé e farne una sorta di vocazione al contrario, prevede una certa dose di tracotanza. E Cioran, che al pari di Flaubert, si considerava “un mistico, che non crede in nulla”, vedeva nel fallimento una specie di rinuncia mistica a questo mondo, dato che bisogna trascendere i vincoli e gli obblighi mondani per naufragare in ogni dove nell’aldiquà. Da cui il suo autoritratto, non privo di ironia, in cui si immaginava nei panni di “un Ecclesiaste da marciapiede”, il quale porta oziosamente “la sua inutilità come una corona” (Sommario di decomposizione).
Cito questa frase non casualmente, dato che mi sembra evocare nel modo migliore il titolo di una recente e importante pubblicazione curata da Antonio Di Gennaro per la casa editrice Mimesis: L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian. Si tratta di una corrispondenza inedita in italiano, che testimonia della profonda e preziosa amicizia tra Cioran e i fratelli Arșavir a Jeni Acterian, due affascinanti figure intellettuali che hanno svolto un ruolo non secondario nella vita del pensatore di Sibiu.
Lo scrittore e giornalista Arșavir Nazaret Acterian (1907-1997) è stato infatti colui che, all’inizio degli anni Trenta, non solo ha introdotto Cioran nel circolo della “generazione del ‘27” – di cui egli faceva parta insieme ai vari Mircea Eliade, Constantin Noica ed Eugen Ionesco – ma grazie a cui Cioran avrebbe trovato una voce di conforto nei tormentati anni universitari. Un periodo che lo porterà a pubblicare, nel 1937, Lacrime e santi, opera la cui presunta blasfemia avrebbe provocato una reazione di condanna e indignazione pressoché unanime in Romania, sia da parte del pubblico e delle istituzioni che da quella dei conoscenti più intimi di Cioran. Ci sarà solo una voce a dissentire dal coro, e sarà proprio quella di Jeni Acterian (1916-1958), la sorella più giovane di Arșavir, una delle poche persone con cui Cioran si riconoscerà spiritualmente affine, considerandola forse l’unica a essere altrettanto disillusa e disincanta quanto lui.
Scrive Jeni il 25 marzo 1938: “Caro Emil, mi rendo conto di aver divagato, e me ne dispiaccio. Questa lettera aveva un solo scopo: confessarti che ho amato Lacrime e santi, dalla prima all’ultima pagina, più di qualsiasi altro libro. Ogni riga esprime una sofferenza infernale e, per coloro i quali la sofferenza è divenuta una ʻcondizione permanenteʼ, puoi comprendere la bizzarra e amara gioia [che esso dona]”. Un’amarezza che Cioran doveva ancora provare a distanza di trent’anni, quando, in memoria dell’amica scomparsa, scrive ad Arșavir: “[tua sorella] è stata l’unica a intuire il dramma che si celava dietro alla mia dimostrazione di impertinenza e di provocazione” consustanziali al suo libro.

Eugenia Maria Acterian, per matrimonio Georgescu, è conosciuta in ambito teatrale come Jeni Arnotă, (nata il 22 giugno 1916, a Constanța, Romania – morta il 29 aprile 1958, presso Bucarest, Romania), fu una regista rumena, di origine armena, drammaturga e autrice di un intimo diario. È la sorella degli scrittori Arșavir Acterian (1907 – 97) e Haig Acterian (1904-43). Ha lasciato quasi mille pagine del Journal: scritte con talento, mostrano l’indubbia dotazione di scrittura

E basterebbe ciò, in effetti, per mostrare l’importanza di questo scambio epistolare, grazie a cui il lettore può osservare Cioran e la vita culturale rumena da una prospettiva differente. Inoltre, ma questo accade sempre con Cioran, sono lettere estremamente belle, in cui la voce dello scettico funesto si confonde con quella, più vulnerabile e umoristica, dell’amico a cui ogni confessione e incongruenza è concessa.
Basti pensare che il ventenne Cioran, convinto che mai sarebbe invecchiato, si lamentava con Arșavir per la sua tragica ossessione dell’essenziale, grazie a cui soltanto i poeti avrebbero avuto “qualcosa da imparare” da lui, l’ultimo degli ultimi. Eppure, contro ogni pronostico, Cioran invecchia e, quando Arșavir festeggia il sessantesimo compleanno, il nostro gli scriverà con scanzonata onestà: “Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato esposto al “complesso” dell’invecchiamento, alle offerte del Tempo Ritrovato. Dopo un giro laggiù, non mi resterebbe che la scelta tra il Nirvana e l’elettroshock”. Un modo come un altro per ammettere: “Non sono buddhista, sono solo un simpatizzante”.
Eventualità confermata in una missiva del 1969, poco dopo che Cioran aveva inviato ad Arșavir una copia del Funesto Demiurgo, in cui i due amici fanno i conti col proprio passato: “La nostra generazione ha conosciuto tutte le forme di sconfitta: come non esserne orgogliosi? Inoltre, detto tra noi, senza l’orgoglio del fallimento, la vita sarebbe a stento tollerabile”.
Epilogo che non avrebbe certo trovato l’approvazione del Buddha, il quale, però, avrebbe forse pensato, come pensava e scriveva Cioran, che c’è una qualche “dolcezza nello svanire delle nostre illusioni”. E nello sfogliare queste pagine.
 
Per approfondimenti:
_Emil Cioran, L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine: Mimesis, 2021

 

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