De Sade, tra scandalo, perversione e letteratura

di Daniele Paolanti del 01-04-2020

Divin Marchese, così la storia lo avrebbe ribattezzato. Eppure, il personaggio più sfrontato, eccessivo e smodatamente perverso del XVIII secolo, di divino aveva davvero molto poco. Taluni autori si riferiscono ai suoi personaggi letterari (sovente la critica usa il più spregiativo appellativo creature) come autentici mostri; non da ultimo Pierre Klossowski, il quale in una sua opera – Sade prossimo mio, edito nel 1947 – riuscì ad offrire una lettura del suo pensiero tutt’altro che didascalica, proponendosi – tra i primi se non per primo – di denotare alcuni elementi di carattere antropologico, psichiatrico e, perché no, anche letterario, del noto nobile, scrittore, filosofo, poeta, rivoluzionario.. e  criminale francese: fu ristretto a lungo alla Bastiglia, come si riferirà in appresso.
Neppure Pier Paolo Pasolini rimase immune dalla fascinazione sadiana: Salò o le 120 giornate di Sodoma è la trasposizione cinematografica dell’omonima opera di De Sade –sebbene il corsaro friuliano scelga come ambientazione Salò durante l’occupazione. De Sade ha rappresentato oggetto di studio anche per psicoterapeuti, psicanalisti e psichiatri, tant’è che il termine “sadico” trova derivazione proprio dal nome di Sade ed è impiegato per ricalcare tutte quelle condotte violente, smodate, di una incresciosità tanto perniciosa quanto basta ad appagare il desiderio (anche sessuale) dell’aguzzino. Il vocabolo è entrato appieno nel nostro gergo, donde di sicura utilità potrebbe rivelarsi una disamina, senza pretesa di esaustività, della persona del letterato francese, che tanto portò scandalo ai suoi tempi.
Donatien-Alphonse-François de Sade, signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, marchese e conte de Sade, nacque a Parigi il 2 giugno 1740, in una famiglia di antica nobiltà (alla quale rinunciò agli inizi del XIX secolo, tant’è che finì col firmarsi come D.A.F. De Sade), una delle più antiche della Provenza; l’infante vide la luce nel Palazzo dei Condè a Parigi, residenza dei principi Borbone-Condè. Figlio di Jean-Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Elénore de Maillé de Carman, questa nipote del cardinale Richelieu, trascorse l’infanzia nel Palazzo Condè sino all’età di quattro anni, momento in cui deve spostarsi nel palazzo avignonese di famiglia, poiché sua madre fu costretta ad accompagnare il marito (noto diplomatico) impegnato al servizio del principe elettore di Colonia. Di lì si trasferì poi presso l’abitazione dello zio, Jacques-François-Paul-Alphonse de Sade, dove ricevette i primi rudimenti anche di letteratura. Si formò presso i gesuiti e, in ragione dei titoli di nobiltà posseduti a quattordici anni, frequentò una scuola preparatoria di cavalleria annessa al reggimento di Versailles – concorrente e speculare a quella dei moschettieri -, affrontando quindi un primo periodo di rigore e rigida disciplina militare, ma entrando anche in contatto con la classe nobiliare parigina. Nonostante fosse un militare non mancò di condurre una vita dissoluta, sino al momento del congedo avvenuto il 16 marzo 1763, al termine della guerra.

Il padre del giovane marchese riuscì a combinare il matrimonio del rampollo con la figlia di un ricco magistrato, dacché era sensibilmente preoccupato per le risorse economiche della famiglia. La moglie di de Sade fu quindi Renée-Pelagie Cordier de Launay de Montreuil. Tuttavia de Sade inizia a costruirsi una pessima fama per via della sua dissolutezza, essendo propenso al gioco d’azzardo ed a sperperare denaro frequentando camerini delle attrici e delle prostitute. Non manca comunque di vezzeggiare e rendere prosaico corteggiamento a mademoiselle Laure-Victoire-Adeline de Lauris, discendente da un casato provenzale, alla quale invia poesie in stile trobadorico da egli composte. Tuttavia il rapporto si interruppe, presumibilmente, per episodi di violenta gelosia esternati da D.A.F., quindi la storia si concluse. Non passa molto tempo da quando si sposò che il Marchese venne recluso nelle carceri di Vincennes in ragione di un comportamento ritenuto “oltraggioso” che questi avrebbe tenuto in un bordello. Ed è solo l’inizio della serie di guai con la giustizia nei quali incorse.

La seconda incarcerazione la subisce nel 1768, quando viene arrestato e fatto recludere per sei mesi poiché accusato di aver rapito e torturato una donna. Il Marchese venne liberato per ordine del re e riprese immediatamente la sua vita dissoluta. Organizza feste e balli nella sua tenuta di La Coste e, nel frattempo, dà inizio anche ad una serie di viaggi ed intrattenimenti con la sorella della moglie, Anne, con la quale (così risulta agli storici) ha anche un’intesa sessuale.
Altri problemi giudiziari sopravvengono per il nostro nel 1772, nel corso della rappresentazione di una sua opera teatrale. In quell’occasione sarebbe stato accusato di avvelenamento. Risulta difatti che nel corso di un’orgia cui partecipò in compagnia del suo domestico e quattro prostitute, distribuì a costoro dolci adulterati con delle droghe, con la speranza producessero un effetto afrodisiaco. I dolci avvelenati, invece, provocarono alle donne forti malori.
Il Marchese scappò in Italia, venne arrestato a Milano dalle milizie del Re di Sardegna e rinchiuso nel locale carcere con condanna a morte. Dopo soli cinque mesi evade di prigione e trascorre i successivi cinque anni trastullandosi in orge e viaggi, dando vita a numerosi scandali. Fu arrestato nuovamente nel 1777 a Parigi e condotto nella prigione di Vincennes, dove cominciò a comporre opere teatrali e romanzi. Di lì venne trasferito alla Bastiglia, ove compose Le 120 giornate di Sodoma oltre ad un’altra opera altrettanto celeberrima, ovvero Justine, le disgrazie della virtù. Dalla Bastiglia è poi trasferito in un manicomio, a luglio del 1789, pochi giorni prima della presa del forte carcerario. Con il trasferimento abbandonò la sua voluminosa biblioteca e tantissimi manoscritti andati perduti. Ottenne nuovamente la libertà nel 1790, tentò di riconciliarsi con la moglie che, però, lo abbandonò a causa delle sue violenze (i figli invece emigrarono).
Rotto il rapporto con sua moglie intrattenne quindi una relazione amorosa con un’attrice, con la quale visse sino al resto dei suoi giorni, Marie Constance Quesnet.
La sua vita si trovò posta di nuovo a rischio poiché visse in un quartiere rivoluzionario e cercò quindi di dissimulare le sue nobili origini. Venne però riconosciuto, arrestato e condannato a morte. Ma la fortuna non abbandonò mai il divin marchese che, per puro caso fortuito, venne dimenticato nella sua cella. Fu liberato nel 1793.
Seguirono le sue pubblicazioni (alcune già concepite ai tempi della detenzione nella Bastiglia). Infatti nel 1795 vide la luce La filosofia nel boudoir, La nuova Justine e Juliette. Il romanzo Justine fu però considerato una pubblicazione oscena ed infame, donde l’autore, senza alcun processo, venne internato presso il manicomio di Charenton. Malgrado le sue rimostranze e doglianze venne ritenuto pazzo e trascorse nel manicomio gli ultimi anni della sua vita. Donatien-Alphonse-François de Sade morì il 2 dicembre 1814, all’età di 74 anni. Un dato desta particolare impressione: dei suoi settantaquattro anni di vita de Sade ne trascorse ben trenta in carcere. Per lungo tempo il suo nome fu oggetto di biasimo e con esso tutte le sue opere, bandite e ritenute oggetto di scandalo. La produzione di De Sade ottenne la riabilitazione solo nel Novecento, nel secolo dove tutto è relativo, anche il male.

Quills è un film del 2000 diretto da Philip Kaufman e adattato dalla commedia vincitrice del premio Obie di Doug Wright, che ha anche scritto la sceneggiatura originale. Ispirato alla vita e all’opera del Marchese de Sade, Quills reinventa gli ultimi anni di incarcerazione del Marchese nel folle manicomio di Charenton.

Sade fu sicuramente – rectius: dichiaratamente – ateo. La religione rappresenta un vincolo che imbriglia la pulsione libertina, la costringe in un paradigma di contegno e decenza che mal si conciliavano con la sua indole perversa e proclive allo scandalo. Dio è amore: questo credono i fedeli delle religioni monoteiste. Per de Sade Dio, ammesso che egli potesse anche solo concepirne l’esistenza, è un carceriere, colui che traccia i termini, il marcatore del limes tra lecito ed illecito, tra morale e immorale. In sintesi la demarcazione tra fas e nefas. Non a caso le punizioni inflitte alle vittime del libro Le 120 giornate di Sodoma, sono particolarmente crudeli laddove uno dei fanciulli o delle fanciulle rapite dovesse nominare il nome di Dio o alludere a temi di natura religiosa, ascetica, teologica. Per Sade non esiste limite al piacere ed al godimento, un godimento che supera anche i margini della Legge, sia divina che umana. Lacan, tra i progenitori della psicanalisi, riteneva che la vita umana oscillasse tra legge e desiderio. L’adeguato equilibrio dovrebbe risiedere nella ricerca del senso dell’esistenza, nel riconoscere la propria identità calibrandola ad un sistema composto dai simili, dall’altro. Per de Sade il desiderio è piacere, godimento, una continua copula dimentica dei vincoli normativi del sistema sociale. Lo stesso marchese si pone sovente al di là della legge stessa, violandola reiteratamente, manifestando sprezzante insubordinazione, capovolgendo la moralità invertendone le fondamenta. Nelle sue opere sono presenti numerose postille (glosse?), con le quali addirittura si rivolge a sé stesso – con reverenza ed in seconda persona, (es. Abbiate cura di evidenziare…et similia) – e in cui si propone di rimarcare concetti scabrosi, osceni, difficilmente tollerabili. Non di rado è capitato che i lettori dovessero distogliere gli occhi dalle pagine o che riferissero di provare sensazioni strane nel sorreggere quei volumi tra le mani, come se stessero toccando qualcosa di…empio.
Nella produzione letteraria sadiana un tema ricorrente è quello della scatologia. “La scatologia è politica?” chiese un giornalista a Pasolini, nel corso della sua ultima intervista. E lui “assolutamente!”. Eppure in quasi tutti gli scritti di de Sade la componente escrementizia è citata con una ricorrenza quasi ossessiva, maniacale, forse anche per l’inclinazione indiscutibilmente perversa dell’autoproclamato filosofo. La ragione per cui in de Sade la scatologia è indispensabile è strettamente interconnessa con la pratica della sessualità, vissuta ovviamente nelle declinazioni più estreme: per il marchese la base diventa il vertice e viceversa. Il libertino è prodigo nei banchetti, non limita l’assunzione di cibarie e bevande raffinate ed in proporzioni sconsiderate (Dante, solo per questo, lo taccerebbe per mancanza di continenza). Di conseguenza l’espulsione – esteriorizzazione di quanto ab origine assunto –, ha condotto alla traslazione dell’apologia genitale, che il marchese ritiene forse troppo conformista o di scarsa attitudine ad accelerare la voluttà, verso quella del culto di altri organi del corpo umano, proprio perché in ciò che viene espulso si sostanzia l’ebbrezza che conduce quindi a riassumere (interiorizzazione di quanto esteriorizzato) lo scarto. Questa è, in effetti, la logica del consumismo: la società dei consumi impone quotidie di pretendere quanto non è necessario. Quindi, così come i mostri di Sade consumano i propri escrementi, al pari nella lettura pasoliniana su Sade, il consumatore cerca il superfluo, l’eccedenza necessaria, quasi come se la lotta per la sopravvivenza si fosse posta in antitesi ex se: per sopravvivere l’uomo ha bisogno del superfluo.

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Per de Sade, come riferito supra, non esiste limite alcuno al piacere. Piacere corporeo, fisico, materiale, epicureo (forse anche oltre la prospettiva di Epicuro). Il poeta massimizza il suo godimento nella condotta sfrenata e libertina che assunse nel corso della sua intera esistenza. Perché quindi, il piacere sadiano è così osceno? Alcuni autori ne hanno rinvenuto la motivazione nella dialettica condotta dal poeta/filosofo sull’orgasmo. I protagonisti delle sue opere difficilmente culminano, questo perché l’autore vuole enfatizzare taluni aspetti del suo desiderio: il perdurare del coito sadiano, se da un lato ha una lunga durata che acuisce il vizio ed il godimento, dall’altro specularmente provoca nella vittima (la sessualità sadiana non è quella ordinaria, ma è spietata, violenta, perversa ai limiti del patologico, valicando quasi sempre la linea di demarcazione con la legalità) dolore inimmaginabile, sofferenza fisica e psicologica, potendo facilmente essere qualificata come una forma di tortura. Ecco perché, nel vocabolario moderno, si impiega il termine sadico: in riferimento proprio a Sade, alla sua vita ed ai suoi comportamenti, oltre al modo pernicioso di leggere la vita. Parlare di filosofia, in de Sade, a giudizio dello scrivente, è impresa ardua se non inverosimile. Il marchese non trasmette alcuna logica teoretica nella sua vita, se non il macabro desiderio di godimento assoluto che lo condusse alla reclusione nei vari penitenziari che lo ospitarono per gran parte della sua vita. Tantissimi studiosi hanno riservato attenzione a de Sade: perché nell’oscuro, nei mostri sadiani, noi comprendiamo a cosa debba ispirare, al contrario di quanto sostenuto dal nobile parigino, l’essere umano. L’individuo nasce in un sistema al quale deferisce parte della propria libertà riconoscendo l’altro come suo prossimo, l’altro come oggetto del desiderio, ma desiderio inteso come ricerca della propria individualità e identità. L’utilità di Sade è quella che Pierre Klossowski individua in Sade prossimo mio: i mostri delle sue opere rappresentano la negazione della moralità, della pietà, del razionalismo etico e della cura del prossimo. Invero il prossimo, per parafrasare la letteratura evangelica cristiana, e tale a se stessi.

 

Per approfondimenti:
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Les 120 journées de Sodome, ou l’École du libertinage, manoscritto datato 1785;
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Justine o le disavventure della virtù (Justine ou les Malheurs de la vertu), manoscritto datato 1788;
_1795: La filosofia nel boudoir (La Philosophie dans le boudoir);
_1799: La nuova Justine, ovvero Le sciagure della virtù (La Nouvelle Justine, ou les Malheurs de la vertu), continuazione di Justine ou les Malheurs de la vertu;
_Pierre Klossowski, Sade prossimo mio preceduto da Il filosofo scellerato, trad. di Aurelio Valesi, SugarCo, Milano, 1970, Garzanti, Milano, 1975.

 

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