Joseph-Marie de Maistre nasce a Chambéry, in Savoia, il 1° aprile 1753, da François-Xavier (1705-1789), magistrato, e dalla nobile Christine Demotz (1722-1774). È primogenito di dieci figli. Joseph non è dunque nato nobile: il padre viene nobilitato soltanto nel 1778 per i servigi resi alla corona, e creato conte. Il giovane Joseph studia giurisprudenza a Torino e inizia l’attività di magistrato nella sonnolenta Chambéry, città periferica di un regno periferico, lontana dai fermenti della cultura e della politica del suo secolo.
Joseph-Marie, conte di Maistre (1753-1821) era un filosofo, scrittore, avvocato e diplomatico savoiardo di lingua francese che sosteneva la gerarchia sociale e la monarchia nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione francese.
Una delle rare forme di intrattenimento era la locale loggia massonica di rito inglese dei Trois Mortiers, della quale entrò a far parte nel 1774. Cattolico osservante e fedele, De Maistre entrò in massoneria un po’ per curiosità, ma soprattutto per cercare di ristabilire tramite il suo formidabile apparato una restaurazione cristiana nel mondo, concetto che ingenuamente esprime nella celebre Memoria al Duca di Brunswick del 1782.
Pochi anni dopo, nel 1786, sposa la nobile Françoise-Marguerite de Morand, che gli darà tre figli. Due anni dopo, nel 1788, entra a far parte del Senato. Allo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, ritiene che i prodromi del movimento in Francia facciano ben sperare per una riforma dell’Ancien Régime positiva; giudizio che egli stesso smentirà poco dopo, grazie anche alla lettura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, e delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, del 1790, di Edmund Burke (1729-1797). Da quella data, De Maistre comprese l’urgenza di schierarsi contro il mostro rivoluzionario; mostro che, nel 1792, invase la Savoia costringendolo all’esilio in Svizzera. Tutta la sua vita fu caratterizzata dallo scontro con la Rivoluzione, che scosse profondamente anche la sua famiglia: con l’occupazione francese egli riparò ad Aosta, intendendo offrire il proprio servizio a Vittorio Amedeo III. Ad Aosta fu raggiunto dalla notizia che, per mantenere i propri beni, sarebbe stato costretto a prestare giuramento a Chambéry alla Repubblica. Egli rifiutò. La moglie, incinta ed all’ottavo mese, pensò che se suo marito rifiutava, lei poteva comunque sperare di salvare qualcosa: si recò pertanto in Savoia valicando le Alpi pur nella sua condizione. Fu raggiunta dal marito, il quale temeva di trovarla morta; davanti al Consiglio municipale di Chambéry, chiese conto dei suoi beni rifiutando di prestare giuramento e di sottoscrivere una elargizione alla causa repubblicana per sostenere la guerra. Come è facile immaginare, non ottenne nulla; da ciò, ebbero origine molte delle traversie e delle difficoltà economiche della sua famiglia.
Povero, abbandonato ma fiero per essere rimasto fedele ai suoi ideali, De Maistre riparò a Losanna, dove visse tre anni. Qui, nel 1797, diede alla luce l’opera che gli diede fama internazionale: le Considerazioni sulla Francia. Val bene partire da questo testo famoso per analizzare il pensiero del Savoiardo. De Maistre è convinto del ruolo determinante giocato da Dio nella storia umana. Ne è una prova la Rivoluzione, che egli identifica come una necessaria “purga” attraverso la quale deve passare il mondo. «Non sono gli uomini che guidano la Rivoluzione, ma la Rivoluzione che guida gli uomini», sosteneva nelle Considerazioni sulla Francia. E la motivava: «Questa frase significa che la Divinità non si era mai chiaramente mostrata in alcun avvenimento umano. Se, invece, impiega i più vili strumenti, è perché punisce per generare». De Maistre affermerà ancora questo concetto anni dopo, in occasione della ritirata napoleonica dalla Russia: «Gli uomini più irreligiosi sono colpiti da questa spaventosa catastrofe. Quanto a me, credo che mai Dio abbia detto agli uomini con voce più alta e più chiara: SONO IO»1.
De Maistre diventa allora il portavoce della Contro-Rivoluzione; che non è una “rivoluzione al contrario”, come si potrebbe facilmente pensare, ma “il contrario della Rivoluzione”. In lui, che ha compreso l’importante momento storico e il ruolo che l’uomo e Dio hanno nella storia, la Rivoluzione non sembra soltanto una mostruosità, ma anche un nemico da combattere con diversi canoni. Non con una Rivoluzione alla Rivoluzione, bensì con una ferma opposizione, basata sui princìpi che hanno, da sempre – e non soltanto nell’Antico Regime – guidato l’azione dell’uomo.
Joseph-François-Marie De Martinel, dipinto di Chambéry intorno all’anno 1780, a quel tempo città del Regno di Sardegna, oggi dipartimento della Savoia, Francia.
Si può dunque definire il filosofo sabaudo un sovranista? L’aggettivo è sicuramente fuori luogo, ma provocatorio: perché De Maistre è senza dubbio il più alto rappresentante dell’alleanza trono-altare. Ebbe a dire: «Ovunque vediate un altare, lì c’è una civiltà»2. Dunque, è la religione che legittima la sovranità: «Il sacro dei re si lega alla stessa radice»3. De Maistre è convinto che le grandi istituzioni politiche sono perfette e durevoli nella misura in cui l’unione della politica e della religione vi si trova più perfetta»4. È quindi questo che lui vede nella sovranità, che è data da Dio e per Dio; tanto più un popolo, come quello romano, si allontana dalla religione, tanto più esso perde la sua ragion d’essere e, naturalmente, si infiacchisce e scompare dalla storia. E quando un popolo manca di rispetto al re? Quando, addirittura, lo caccia o lo uccide?
Infatti dal suo “Considerazioni sulla Francia” si evince come: «Ora, tutti i delitti nazionali contro la sovranità sono puniti senza ritardo ed in una maniera terribile; è questa una legge che non ha mai avuto alcuna eccezione. Pochi giorni dopo l’esecuzione di Luigi XVI, qualcuno scrisse sul Mercure Universel: “Forse non sarebbe stato necessario idi andare tant’oltre; ma, poiché i nostri legislatori han preso l’avvenimento sotto la loro responsabilità, riuniamoci attorno ad essi: estinguiamo tutti gli odii, e più non se ne parli”. Benissimo: sarebbe stato forse meglio non assassinare il re, ma poiché ormai è cosa fatta, non se ne parli più e diventiamo tutti buoni amici. Che demenza! Shakespeare ne sapeva un po’ di più, quando diceva: “La vita di ogni individuo è preziosa per sé; ma la vita da cui tante vite dipendono, quella cioè dei sovrani, è preziosa per tutti. Un delitto fa forse sparire la maestà reale? Nel posto che ella occupava, si forma uno spaventevole abisso, e vi si precipita tutto ciò che lo circonda”. Ciascuna goccia del sangue di Luigi XVI ne costerà dei torrenti alla Francia; forse quattro milioni di francesi pagheranno con le loro teste il gran delitto nazionale di una insurrezione antireligiosa ed antisociale, coronata da un regicidio»5.
Sull’argomento religioso abbiamo già denotato l’importanza cruciale che De Maistre riserva alla religione. «Ogni istituzione immaginabile poggia su un’idea religiosa, altrimenti non è che transitoria», scrisse nell’Essai. La grande colpa del secolo XVIII è stata quella di frapporre la scienza a Dio, usandola contro l’autore della natura e contro la religione. Si affermò che non si poteva fare lavoro scientifico senza negare la religiosità, laddove invece la religione non esprime ostilità nei confronti della scienza6. De Maistre avverte il pericolo di essere abbruttiti dalla scienza, qualora questa prenda il sopravvento sulla religione, che deve essere necessariamente al primo posto: «se non si torna alle antiche massime, se l’educazione non è restituita al clero, se la scienza non è collocata da per tutto al secondo posto, i mali che ci aspettano sono incalcolabili: saremo abbruttiti dalla scienza, ed è l’ultimo grado dell’abbruttimento»7. Si può ben dire che il filosofo di Chambéry anticipi, con questa affermazione, quanto avvenuto realmente negli anni a venire.
Ernest Henri Dubois, Memoriale a Joseph e Xavier de Maistre in bronzo. In basso vi è la rappresentazione femminile della Savoia, terza statua andata perduta. Castello di Chambery, Francia, 1899.
De Maistre nutre, infine, una forte sfiducia nei confronti delle costituzioni scritte. È necessario, secondo il Savoiardo, un elemento di santità e di immutabilità che le leggi scritte non danno: serve in altre parole, constatare che il diritto è «già dato» all’uomo, e non è l’uomo che lo crea8. Lo si osserva dal momento che si constata che più leggi si scrivono, più le istituzioni sono deboli: l’elefantiasi legislativa nuoce grandemente tanto al diritto pubblico quanto alle tradizioni religiose. L’esempio, nuovamente, si trova nella Rivoluzione: «Il legislatore somiglia al Creatore: non lavora tutto il tempo; mette al mondo e poi si riposa […]. Se la perfezione fosse alla portata della natura umana, ogni legislatore parlerebbe una volta sola; ma benché tutte le nostre opere siano imperfette, e benché il sovrano sia obbligato, man mano che le istituzioni politiche si corrompono, a venire in loro soccorso con nuove leggi, pur tuttavia la legislazione umana può avvicinarsi al suo modello grazie a quell’intermittenza di cui ho appena parlato. […] Osservate i lavori delle tre assemblee nazionali di Francia, che numero prodigioso di leggi! Dal primo luglio 1789 all’ottobre 1791, l’Assemblea nazionale ne ha fatte 2557; L’assemblea legislativa, in undici mesi e mezzo, ne ha fatte 1712. La Convenzione nazionale, dal primo giorno della repubblica al IV brumaio dell’anno IV (26 ottobre 1795) ne ha fatte, in 57 mesi, 11210. Totale 15479. Dubito che le tre dinastie dei re di Francia abbiano mai prodotto una collezione così abbondante. […] Perché tante leggi? Perché non c’è nessun legislatore. Che hanno fatto da sei anni a questa parte i pretesi legislatori? Niente, giacché distruggere non è fare9.
Tra il 1797 al 1798, De Maistre visse a Torino. Fu un soggiorno breve: nel dicembre 1798 le truppe francesi occuparono la capitale sabauda e il conte dovette trasferirsi momentaneamente a Venezia. Vi arrivò dopo una perigliosa traversata sul Po, nella quale l’imbarcazione rischiò più volte di affondare. Giunto a Venezia salvo ma povero, vendette tutti gli oggetti d’oro per sostenere la sua famiglia10. Vi rimase poco: quando giunse notizia, nella primavera 1799, che Suvorov stava sconfiggendo i francesi in Piemonte, De Maistre tornò in patria ma non vi trovò il suo re, Carlo Emanuele IV, che si era fermato a Firenze per ordine dell’esercito austriaco. Carlo Emanuele, dal suo soggiorno fiorentino, decise di sollevare il conte della sua situazione di misero esule assegnandogli il compito di reggente di Sardegna, vale a dire primo magistrato dell’isola, con il non disprezzabile appannaggio di 20mila lire11. Alla fine del 1799 l’arrivo della corte sabauda a Cagliari rese il suo ruolo più importante (ed ingombrante) che mai. Va premesso: De Maistre detestava la Sardegna, così come non ebbe particolare amore per la sua natia Savoia. Scrisse, anni dopo: «Nulla può togliermi dalla testa l’idea fatale di non essere affatto l’uomo giusto per Sua Maestà, in qualunque modo io mi comporti. Qualche volta, nei miei sogni poetici, immagino che la Natura mi abbia un tempo portato nel suo grembo, da Nizza in Francia, che abbia fatto un passo falso sulle Alpi (ben scusabile da parte di una donna anziana) e che io sia caduto dritto su Chambéry. Bisognava spingersi fino a Parigi o almeno fermarsi a Torino, dove io mi sarei formato. Ma l’irreparabile sciocchezza risale al 1° aprile 1754. Riconosco in me stesso non so quale elemento gallico che non mi mette in armonia con il nostro Gabinetto, verso cui nutro il dovuto rispetto»12.
In Sardegna egli si sentì come un recluso. I costumi e gli abitanti dell’isola gli risultarono insopportabili. «Nessuna razza umana è più estranea a tutti i sentimenti, a tutti i gusti, a tutti i talenti che onorano l’umanità. Sono vili senza essere obbedienti e ribelli senza essere coraggiosi […]. Il Sardo è più selvaggio del selvaggio, perché il selvaggio si limita a ignorare i lumi, il Sardo li odia. Egli è sprovvisto del più bell’attributo dell’uomo, la perfettibilità»13. A cavarlo dall’impiccio e da quel luogo da lui aborrito ci pensò Carlo Felice, che convinse il re suo fratello a destinarlo all’ambasciata sarda a Pietroburgo, rimasta vacante. Era il 7 settembre 180014.
Il 29 aprile 1803, dopo un disastrato viaggio durato oltre due mesi, Joseph de Maistre entrava in Russia passando il confine a Brest Litovsk. Era accompagnato da un solo domestico ed era diretto a Pietroburgo, città che lo avrebbe ospitato forse più a lungo di ogni altra nel corso della sua vita (ben 14 anni). La capitale del Nord fu per De Maistre una prigione. A mandarlo in Russia era stato il governo sabaudo, nella fattispecie Carlo Felice, fratello del re Vittorio Emanuele I, che detestava De Maistre e che intendeva levarselo dalle scatole.
Egli giunse a Pietroburgo il 13 maggio. Città d’arte, europea in mezzo all’ultimo avamposto dell’Asia, doveva suscitare poche emozioni nel filosofo sabaudo, che vi soggiornò povero e triste, al freddo in un appartamento di second’ordine (passò un inverno senza nemmeno una pelliccia15), costretto a licenziare anche il domestico per le sue ristrettezze economiche. Egli sopportò tutto questo in nome del suo re, che pure non lo aveva in stima, e per la sua famiglia, che egli poteva sostenere soltanto accettando questo ingrato incarico. «Io non so – scrisse – io non so cosa sia la vita di uno scellerato: non lo sono mai stato; ma la vita di un onest’uomo è abominevole»16.
In patria lasciava la sua famiglia, tanto amata. «Io leggo, scrivo, impiego ogni sforzo per stordirmi, per stancarmi, se fosse possibile. Terminando le mie monotone giornate, mi getto sopra un letto, ove il sonno che invoco non è sempre compiacente. Allora, pensieri strazianti sulla mia famiglia vengono a lacerarmi. Mi pare di sentir piangere a Torino: faccio mille sforzi per raffigurarmi la fisionomia di questa fanciulla di dodici anni, che non conosco. Vedo quest’orfanella di un padre vivente. Chiedo a me stesso se un giorno dovrò conoscerla»17. De Maistre si riferiva a Costanza, la figlia ultimogenita, che egli conobbe soltanto nel 1814, al suo ritorno in patria.
A Pietroburgo De Maistre scalpitava. Si sentiva ingiustamente isolato e, consapevole del suo genio, credeva di essere penalizzato oltremodo nel rimanere in una città sì capitale di un grande impero, ma anche periferica, scomoda, lontana dalla Storia con la S maiuscola. Proprio quella Storia gli offrì, nel 1812, l’incredibile occasione di essere spettatore diretto di uno degli avvenimenti più tragici della sua epoca: l’invasione napoleonica della Russia. Ma, nell’attesa di ciò, De Maistre non perse tempo e arrivò a scrivere a Napoleone avendo l’ardire di chiedergli un abboccamento. Per maggior gloria della Casa di Savoia, si capisce, al fine di sostenere la causa del suo re a Parigi (ed uscire dalla “prigionia” russa). A Cagliari, non appena si seppe del memoriale che egli aveva scritto al Bonaparte, la reazione non fu di gratitudine, bensì di piccato risentimento. De Maistre, già insopportabile agli occhi di Carlo Felice e poco amato da Vittorio Emanuele I, venne etichettato con l’antipatica definizione di traditore.
Traditore no, ma smanioso di mostrare al mondo il suo genio, questo sì. E smanioso, soprattutto, di servire la causa della contro-rivoluzione. Già ammirato nei salotti di Pietroburgo e capace di ammaliare il pubblico, specialmente quello femminile, Joseph de Maistre riuscì ad essere finalmente ascoltato dallo zar Alessandro I. Carezzò il sogno di diventare una sorta di “eminenza grigia” della Russia. L’entourage dello zar, però, guardava con sospetto il conte, fiero esponente della cattolicità ed accusato di aver convertito alcuni dei beni nomi della nobiltà russa. Alessandro I lo sfruttò, assegnandogli una rendita di 20mila rubli, speranzoso che avere dalla sua il più noto esponente della reazione cattolica gli valesse l’appoggio del papa. Poi, vinto Napoleone, avrebbe in fretta disconosciuto i rapporti con l’ambasciatore sardo, già per altro messo in un angolo dal suo stesso governo con l’infamante ed esagerata accusa di tradimento.
In Russia, De Maistre lavorò al suo più corposo e celebre lavoro, le Serate di San Pietroburgo, opera filosofica scritta in forma di dialogo tra tre personaggi, poderosa prova di dialettica e di capacità retorica. Sullo sfondo, una Pietroburgo che guardava con il cannocchiale gli avvenimenti del mondo e il genio distruttore di Napoleone. Genio che De Maistre conobbe in prima persona nel 1812, quando l’imperatore dei francesi invase la Russia zarista. Inizialmente, il filosofo savoiardo ritenne folle la ritirata del generale Kutuzov. Quando Napoleone entrò in Mosca, lanciò il suo più alto grido di dolore: «Da venti anni vedo gli imperi cadere uno dopo l’altro, senza avere neppure l’idea di ciò che bisognerebbe fare per salvarsi»18. La caduta della Russia significava la fine dell’ultimo baluardo del mondo di Ancien Régime. Ma, ripresa la sua lucidità, De Maistre osservava che Napoleone era in grande pericolo a Mosca: «[…] sono molto lontano dal credere che la situazione sia così disperata. Napoleone ha creduto di poter firmare la pace a Mosca ma si è sbagliato; la Russia tiene bene, la sua armata cresce di giorno in giorno, alcune armate minori, ma tuttavia consistenti, si gettano sulle linee di collegamento dei francesi; diventa quindi molto pericolosa, e secondo tutte le leggi della probabilità, bisogna scommettere contro di lui. So bene che anche un grande giocatore di dadi deve immancabilmente, in un momento come questo, tirar fuori dal fondo del suo bussolotto qualche tiro straordinario, perciò non garantisco niente; ma dico che è in grandissimo pericolo»19. L’implosione dell’esercito francese, letteralmente scomparso nel terribile inverno russo, non poté non suscitare una viva impressione nel filosofo sabaudo che, come a suo tempo aveva letto nella Rivoluzione qualcosa di satanico – e di “purga” divina – così adesso leggeva nell’incredibile evento una chiara firma di Dio. Il passo è già stato citato e val bene ripeterlo, perché ferma era la convinzione di De Maistre dell’azione di Dio nella Storia: «Gli uomini più irreligiosi sono colpiti da questa spaventosa catastrofe. Quanto a me, credo che mai Dio abbia detto agli uomini con voce più alta e più chiara: SONO IO»20.
La fine di Napoleone significò anche la fine dell’ambasciata di De Maistre a Pietroburgo. Il governo di Torino lo richiamò in patria. Nonostante tutto, in Russia il Savoiardo si era trovato bene; aveva avuto un momento di gloria presso la corte di Alessandro I, suo fratello Xavier aveva avuto un importante incarico nell’ammiragliato, suo figlio Rodolfo aveva servito lo zar nell’esercito. Lui stesso si era fatto naturalizzare russo, benché non avesse mai visitato il paese (del quale conosceva la sola capitale) e nonostante il fatto non avesse imparato una parola di russo. Tutto questo, il governo sabaudo gli aveva perdonato; ma a Torino, ora tornata capitale del Regno di Sardegna, non potevano digerire il sogno malcelato del conte di diventare esponente della Reazione europea. Sapevano che De Maistre scalpitava, che aveva intrattenuto rapporti con la Francia e con lo zar, allo scopo di diventare il nume della contro-rivoluzione cattolica. Sapevano che il Savoiardo detestava l’isolamento nel quale era tenuto, e che alla prima occasione buona avrebbe fatto le valigie e se la Francia di Luigi XVIII – come lui sperava – lo avesse chiamato ad essere plenipotenziario e demiurgo della Reazione, lui sarebbe stato pronto. Per la placida monarchia di Savoia, avere un ministro del genere era troppo: il 27 marzo 1817 De Maistre si imbarcò sulla Neva diretto a Torino. aveva finito la sua missione, sostituito quando la Russia aveva vinto e si apprestava a diventare attore di primo piano sulla scena mondiale.
Messo da parte dal suo governo che non lo mandò al Congresso di Vienna, De Maistre soffrì negli ultimi anni constatando che, in tutta la sua carriera, non gli era riuscito altro che diventare l’ambasciatore di un regno di secondaria importanza in una capitale periferica, ingiustamente dimenticato. Cercò comunque di portare giovamento alla Casa Savoia, evidenziando come il suo destino dovesse essere legato a quello dei popoli italiani. Scrisse al segretario del re: «Io non cesserò di ripeterlo, signore, le sciagure di Casa Savoia non saranno mai deplorate abbastanza; ma poiché la Provvidenza ha voluto che ciò avvenisse, bisogna desiderare che in una rifusione generale degli Stati europei questa sovranità piemontese sia interamente dimenticata, e che non si occupino più che dell’idea più vasta di una sovranità italiana fra la Francia e l’Austria»21.
In un dispaccio del 1804, negli anni di maggior fulgore dell’astro napoleonico, egli sapeva già vedere che per la Casa Savoia il maggior pericolo veniva dagli Asburgo e non dai Bonaparte. «La dinastia di Savoia non ha altro nemico essenziale e naturale che Casa d’Austria; noi dobbiamo dunque cercare principalmente un appoggio contro l’Austria, e non possiamo trovarlo che nella Francia»22. Sembra l’anticipo dell’esperienza risorgimentale di mezzo secolo dopo.
Avvertì il cambiamento in arrivo? Si può rispondere, affermando che comprese senza dubbio che il “suo” mondo era finito. E, con esso, il senso stesso della storia. Per De Maistre, il senso della storia deve essere cercato nella continuità. Continuità tra passato e presente, spezzata dall’esperienza demoniaca della Rivoluzione. «Il compimento dell’atto sacrilego della Rivoluzione significa la fine dell’Europa»23. «Muoio con l’Europa», avrebbe scritto De Maistre, prima di morire, all’amico Louis de Bonald; aggiungendo, però, con amara soddisfazione «ma sono in buona compagnia»24.
Note:
1 J. DE MAISTRE, Napoleone, la Russia, l’Europa, dispacci da Pietroburgo 1811-1813, Donzelli, Roma, 1994; Lettera da S. Pietroburgo 17-29 dicembre 1812, p. 196.
2 J. DE MAISTRE, Le Serate di San Pietroburgo, Fede&Cultura, Verona 2014, p.86.
3 J. DE MAISTRE, Scritti politici (Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche; Studio sulla sovranità), Cantagalli, Siena, 2000, XXXI, pp. 69.
4 J. DE MAISTRE, Scritti politici, op. cit., p. 158.
5 J. DE MAISTRE, Considerazioni sulla Francia, Napoli 1828, II.
6 D. FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Bari, 2015, p. 32.
7 J. DE MAISTRE, Scritti politici, op. cit. p. 77.
8 D. FISICHELLA, op. cit., p. 84.
9 J. DE MAISTRE , Considerazioni, op. cit., VII.
10 G. SAREDO, Giuseppe de Maistre, Torino, Utet, 1860, p. 27.
11 Prefazione di E. GALLI DELLA LOGGIA, in: J. DE MAISTRE, Napoleone ecc., op. cit., p. XIV.
12 J. DE MAISTRE, Napoleone ecc., op. cit., Dispaccio 1-13 ottobre 1812, p. 123.
13 Cit. in. GALLI DELLA LOGGIA, Napoleone ecc., op. cit., p. XIV.
14 Galli della Loggia, p. XIV.
15 G. Saredo, op. cit. p. 66.
16 G. Saredo, op. cit. p. 67.
17 G. Saredo, op. cit. p. 65.
18 J. DE MAISTRE, Napoleone ecc., op. cit., Dispaccio 11-23 settembre 1812, p. 116.
19 J. DE MAISTRE, Napoleone ecc., op. cit., Dispaccio 1-13 ottobre 1812, p. 121.
20 J. DE MAISTRE, Napoleone ecc., op. cit., Lettera da S. Pietroburgo 17-29 dicembre 1812, p. 196.
21 G. Saredo, op. cit. p. 48-49.
22 G. Saredo, op. cit. p. 53.
23 Fisichella, p. 145.
24 Fisichella, p. 145.
Per approfondimenti:
_D. FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Bari, 2015;
_J. DE MAISTRE, Considerazioni sulla Francia, Napoli 1828;
_J. DE MAISTRE, Napoleone, la Russia, l’Europa, dispacci da Pietroburgo 1811-1813, Donzelli, Roma, 1994;
_J. DE MAISTRE, Scritti politici (Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche; Studio sulla sovranità), Cantagalli, Siena, 2000;
_J. DE MAISTRE, Le Serate di San Pietroburgo, Fede&Cultura, Verona 2014;
_G. SAREDO, Giuseppe de Maistre, Torino, Utet, 1860.
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