La rappresentazione di Dio nella storia dell’arte

di Michele Lasala 24-12-2019

Aristotele, nella Metafisica, afferma che l’essere si dice in molti modi. Ciò potrebbe andar bene anche per il Dio della tradizione cristiana, che – a ben guardare – può essere detto e espresso in molteplici maniere. Una di queste è senz’altro l’arte, che è in grado, per sua stessa natura, di farci vedere ciò che normalmente sfugge alla percezione dei sensi. Essa può essere considerata a buon diritto come il punto di congiunzione tra il particolare e l’universale. Se da un lato infatti è qualcosa di fisico e di contingente, concretizzandosi particolarmente in un quadro, in una scultura, in un’architettura; dall’altro lato essa esprime pur sempre un concetto, un’idea, cioè qualcosa di universale. Per questo, si può affermare che essa attraversi le epoche e travalichi i confini, unificando così le culture in un linguaggio comune.
Il Dio cristiano è stato espresso mirabilmente nell’arte, e ciò grazie alla storia di Cristo, suo figlio, che ha reso visibile l’invisibile, il Trascendente, e che sfugge agli occhi di tutti, credenti e non credenti, rimanendo – utilizzando un lessico heideggeriano – innanzitutto e per lo più celato, nasco-sto dietro la coltre dell’apparenza; offuscato dall’esperienza spazio-temporale. Dio si fa così storia, narrazione. E non solo mediante la vita di Cristo, ma anche attraverso le vite dei santi. Primo fra tutti San Francesco, raccontato per esempio nel ciclo di affreschi della basilica superiore di Assisi dipinto da Giotto.
Nella storia dell’arte, questo Dio ha però assunto molteplici significati; o meglio, è stato espresso lungo i secoli in maniera sempre diversa. Ora come luce e ora come perfezione del Creato, ora come meraviglia e ora come forza della Natura. Ma tutto questo sino al Settecento, e parte dell’Ottocento; poi, gradualmente, l’arte ha smesso di raccontare Dio, nel senso che gli artisti hanno abbandonato il genere dell’arte sacra, per dedicarsi di più ad altri generi, come può essere quello di storia, oppure il paesaggio, la natura morta. E nel Novecento, accanto alla negazione della storia di Cristo, si assiste addirittura a un sempre più massiccio rifiuto della figurazione, e ciò grazie alle avanguardie. In questo periodo, ciò che gli artisti vogliono è distruggere la tradizione, determinando una frattura quasi insanabile col passato, per poter fondare un mondo del tutto nuovo, con linguaggi e valori estetici altri. Perché in effetti la realtà si può sovvertire, e i parametri con cui valutiamo le cose essere rovesciati, sovvertiti, ribaltati o sostituiti. Tuttavia, alcuni artisti hanno sentito l’esigenza, quasi il bisogno, di un ritorno alla dimensione spirituale; di recuperare, in altri termini, la sfera forse più autentica dell’uomo. Lo dimostra Kandinskij che attraverso l’astrattismo cerca di giungere via via all’essenza dell’arte, che è allo stesso tempo l’essenza dell’anima. Oppure Gauguin, dotatissimo pittore simbolista, che va alla ricerca di una umanità genuina spostandosi da Parigi alle isole della Polinesia, nella speranza di ritrovare quel Dio che l’Occidente aveva quasi del tutto negato, rifiutato, anzi ucciso.
Quello che l’arte attraversa sul finire dell’Ottocento e poi in tutto il XX secolo è, in sostanza, l’espressione e la manifestazione più lampante di quello che Nietzsche già chiamava “trasvalutazione di tutti i valori”, formula con la quale egli preannunciava l’avvento di quell’ospite inquieto chiamato nichilismo, quel senso del nulla che in effetti avrebbe poi caratterizzato e innervato con la sua fitta ombra tutto il Novecento. Nell’aforisma 125 de La gaia scienza (1882), il filosofo tedesco immagina che in pieno giorno al mercato, un folle, con la lanterna in mano, urli alla folla: «Dio è morto! Dio re-sta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?
Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue?».
Questo significa che l’uomo dell’età contemporanea vive in una dimensione che esclude Dio, esclude Cristo, e rifiuta tutti i vecchi valori. È infatti un uomo che crede nel profitto, nel guadagno, nello sviluppo economico e tecnologico; crede soltanto al dio danaro. In questa dimensione, l’anima fa fatica ad emergere, e conseguentemente l’arte – sua più diretta espressione – non può che rappresentare il nulla, la decadenza, la morte, il vuoto.
Con la fine degli anni Settanta del Novecento, poi, si assiste al tramonto di un’epoca, al tra-monto della modernità, grazie allo sgretolamento di quelle che Lyotard chiama “grandi narrazioni”, ovvero i grandi sistemi filosofici, come l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo. Lo smantellamento di questi grandi sistemi avrebbe fatto emergere via via la pluralità e le differenze, un tempo appiatti-te e annullate dalle filosofie onnicomprensive; e gli uomini, dal canto loro, avrebbero sostituito il mero “dato” al significato, al simbolo, al concetto. Si è così passati da una visione simbolica del mondo a una visione prettamente materialistica. I grandi racconti, in un modo o nell’altro, offrivano dei punti di riferimento saldi per orientarsi nel mondo, ma soprattutto garantivano un orizzonte di senso entro cui l’uomo poteva dare forma e struttura alla propria vita. Ma quella della post-modernità si presenta in effetti come l’epoca del disincanto, dove valgono non già i fatti ma soltanto le interpretazioni. E dove non esiste nessuna eterna Verità, ma solo un caos senza strutture chiamato mondo.
Nel Medioevo invece il senso religioso riempiva le vite degli uomini; e questa religiosità è stata espressa molto bene nell’arte. In questo periodo, Dio viene rappresentato come luce, la stessa che in origine rese possibile il mondo. Questa luce la si può vedere bene sia nella miniatura, dove le figure sembrano brillare di luce propria, e sia nelle vetrate, che sfruttano i raggi del sole per raccontare in immagini policrome le storie narrate nelle Scritture. Oppure nelle tavole dai fondi oro e nei mosaici, dove la luce naturale viene riflessa e trasfigurata in luminosità divina, paradisiaca.
Tommaso d’Aquino ricordava che alla bellezza sono necessari tre elementi: la proporzione, l’integrità e la claritas, ovvero la chiarezza, la luminosità. Tommaso infatti scrive nella Somma di Teologia: «Come si può rilevare dalle parole di Dionigi [l’Areopagita], il bello viene costituito e dal-lo splendore e dalle debite proporzioni: infatti egli afferma che Dio è bello “come causa dello splendore e dell’armonia di tutte le cose”. Perciò la bellezza del corpo consiste nell’avere le membra ben proporzionate, con la luminosità del colore dovuto».
L’origine dell’estetica della claritas, che nel Medioevo si diffonde, può comunque essere ricondotta al fatto che in numerose civiltà antiche Dio veniva identificato con la luce; ne è un esempio l’Ahura Mazda dei Persiani. Queste divinità sono infatti personificazioni del sole o dell’azione bene-fica della luce stessa.
Giovanni Scoto Eriugena, dal canto suo, nel Commento alla Gerarchia celeste scrive: «Perciò avviene che questa fabbrica universale del mondo è un grandissimo lume composto dalle molte parti come di molte luci per rivelare le pure specie delle cose intelligibili e intuirle con la vista della mente, cooperando nel cuore dei sapienti fedeli la divina grazia e l’aiuto della ragione. Bene pertanto il teologo chiama Dio il padre dei Lumi, poiché da Lui sono tutte le cose, per le quali e nelle quali Egli si manifesta e nella luce del lume della sua sapienza le unifica e le fa». Anche nel Paradiso dantesco appaiono visioni luminose. Beatrice è, nella sua luminosità, la manifestazione di Dio, della bellezza divina.
La religiosità del Medioevo porta gli uomini a credere che ogni cosa nell’universo abbia un significato soprannaturale, metafisico. Il mondo viene visto come un vero e proprio libro scritto direttamente da Dio. Ogni animale, per esempio, ha una significazione di carattere morale, così come ogni altra cosa, dalle pietre alle piante. Da qui la diffusione di bestiari, lapidari, erbari. Si arrivava così ad attribuire un significato, positivo o negativo, anche ai colori. Il blu, per esempio, agli inizi del Medioevo, era considerato di scarso valore, mentre già sul finire del Duecento questo colore assume una valenza positiva, diventando un colore pregiato. Ma tra tutti i colori, è l’oro quello che domina. Basterebbe guardare all’Incoronazione della Vergine di Beato Angelico (1435, Firenze, Uffizi).
Dal punto di vista architettonico, possiamo dire che tra il secolo XI e il secolo XII comincia a svilupparsi e a diffondersi in maniera sempre più fitta in tutta Europa lo stile ‘romanico’. Lo storico francese Raoul Le Chauve (italianizzato come Rodolfo il Glabro), uno dei più importanti cronisti del Medioevo (nonché monaco di Cluny), descrive il fenomeno della massiccia attività edilizia che portò l’Europa medievale ad arricchirsi sempre più di chiese, cattedrali e monasteri, nelle sue Cronache dell’Anno Mille (1047). «Mentre si avvicinava il terzo anno dopo il Mille», egli scrive, «in quasi tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e in Gallia, le chiese furono rinnovate. Benchè la maggior parte di loro, di solida costruzione, non avesse bisogno di essere restaurata, tuttavia i cristiani sembravano rivaleggiare tra loro per edificare chiese che fossero le une più belle delle altre. Era come se il mondo si fosse scosso e, liberandosi dalla sua vecchiaia, si fosse rivestito di un candido manto di chiese. I fedeli, in effetti, non soltanto abbellirono quasi tutte le cattedrali e le chiese dei monasteri dedicate a diversi santi, ma anche le piccole cappelle situate nei villaggi».
La chiesa doveva, in un certo senso, rappresentare una sorta di enciclopedia dell’universo, del Creato, e, attraverso immagini dipinte o scolpite dal portale all’abside, doveva accompagnare l’uomo nel suo percorso di comprensione e conoscenza del divino. Accostandosi alla chiesa, il fedele – come scrive anche Salvatore Settis – doveva cogliere immediatamente il salto fra il mondo e lo spazio sacro. E la porta doveva essere intesa come una vera e propria porta coeli.
Il Cinquecento è un secolo drammatico dal punto di vista filosofico, politico, religioso, artistico. È un secolo pieno di contraddizioni e, con la trasformazione di tutti i valori, esso è il secolo delle riforme. La Riforma protestante costringe la Chiesa cattolica a rivedere le sue stesse strutture. La religione non è più rivelazione di verità eterne, ma ricerca affannosa e ansiosa di Dio all’interno dell’anima umana. L’uomo capisce che può cercare Dio in maniera autonoma. E, allo stesso modo, la nuova scienza non è più sapienza tramandata dalle Sacre Scritture, ma indagine empirica e problema sempre aperto.
Se Dio è dentro l’uomo, è inutile continuare a cercarlo nell’armonia del Creato. Dio è nella lotta dell’anima per la propria salvezza. Un’anima in bilico tra il tormento e l’estasi.
Le ansie e il senso della problematicità della vita non nascono però con la lotta religiosa del XVI secolo, perché sono già presenti nel neoplatonismo fiorentino della seconda metà del Quattro-cento. Ficino, dal canto suo, aveva opposto una filosofia dell’anima alla filosofia della natura. Aveva descritto l’ansia come condizione tipica dell’uomo; aveva inoltre scritto che la conoscenza di Dio comincia con la conoscenza di sé e che ciascuno è l’artefice della propria natura. E in questo Ficino vedeva il principio della libertà.
La filosofia della natura si riflette molto bene nell’opera di Leonardo; mentre la filosofia dell’anima ha i suoi riflessi nell’opera di Michelangelo. Per Michelangelo, tra le varie forme d’arte, è la scultura quella più nobile e più spirituale. E questo perché la scultura si fa levando o distruggendo la materia, piuttosto che aggiungendo. Togliere materia significa astrarre; significa, per Michelangelo, liberare sempre più la figura dal blocco di marmo che la imprigiona e la occulta. E la figura è già di per sé il concetto che l’artista ha in mente. Cioè l’dea cui lui vuole giungere per esprimere e dare concretezza alla Bellezza. E raggiungere la Bellezza ideale significa vedere Dio. Michelangelo non a caso, in una delle sue Rime, scriverà: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto».
Tutte le opere del Buonarroti, dalla Madonna della Scala sino al David, dalla Pietà sino alla volta della Sistina, dal Giudizio universale sino alla estrema e tormentata Pietà Rondanini, sono l’esempio di questa ricerca affannosa di Verità, di Bellezza ideale; espressione di un’anima sempre tesa verso il Trascendente. Questo potrebbe spiegare il perché molte opere di Michelangelo sono non-finite. “Finire” un’opera significava per lui porre fine alla ricerca del Bello, e siccome il Bello in sé è assoluto, nessuna forma compiuta e de-finita avrebbe mai potuto esprimerlo e racchiuderlo. Nessun marmo perfettissimo avrebbe mai potuto essere l’immagine dell’Infinito, né dare la misura dell’Eterno.
Se, come si è visto, Michelangelo voleva esprimere col marmo l’universale; Leonardo, labirinti-ca mente da scienziato, voleva rappresentare, attraverso la pittura, la natura in quanto tale, in tutti i suoi particolari. Per Leonardo, Dio è già nelle cose, è già nella natura, nel miracolo della sua esistenza. Ogni fenomeno fisico per lui esprime la grandezza e il mistero di Dio. Anzi, si potrebbe perfino dire che la natura è essa stessa Dio, Deus sive Natura, esattamente come la Natura di cui parlerà Spinoza nel Seicento, cioè puro meccanicismo, mera concatenazione necessaria di cause ed effetti.
Per Leonardo, l’artista prende il posto del Dio della tradizione, in un certo qual senso, perché crea, anzi è capace di ricreare la natura, e di dare e conferire anima ai personaggi che ritrae. Se guardiamo la Gioconda, capiamo subito di non essere davanti a un semplice ritratto. Leonardo ha voluto esprimere infatti il mistero della esistenza, dalle cose naturali (il paesaggio sullo sfondo) alla donna in primo piano, che per lui rappresenta evidentemente il vertice nella scala ontologica degli enti mondani. Lo stupore e la meraviglia delle cose esistenti affiora anche nelle opere più prettamente sacre di Leonardo. L’Adorazione dei Magi, l’Annunciazione, la Vergine delle rocce, l’Ultima Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, ne sono la dimostrazione più evidente. In tutte queste opere le figure sono immerse nella natura e sono parte integrante di essa. Nell’Ultima Cena colpisce non solo la psicologia dei personaggi che animano la scena, quegli apostoli che si agitano non appena i loro orecchi percepiscono la frase “uno di voi mi tradirà”, ma colpisce soprattutto la figura di Cristo stesso, inscritta in un triangolo ideale, simbolo della Trinità. Un’apparizione, un corpo che è allo stesso tempo spirito, anima; un uomo che dubita e riflette è questo Gesù solitario. La sua figura è al centro della composizione, e rappresenta non solo il vertice della piramide prospettica dell’intera scena, ma anche il centro del mondo e del creato, così come l’uomo è, per i rinascimentali, un micro-cosmo che riflette e porta nella sua stessa anima la complessità dell’universo. L’uomo, punto di giuntura tra materiale e spirituale, particolare e universale; esattamente come l’arte. E Leonardo così in-tendeva la pittura: una finestra che ci consente di cogliere l’essenza delle cose attraverso la loro fenomenica presenza.
Nell’Europa del Seicento, soprattutto attraverso le vite dei santi, gli artisti realizzano rappresentazioni in grado di suscitare il senso del sacrificio, e nello stesso tempo l’importanza del penti-mento. Con l’esperienza esemplare dei martiri, e la loro raffigurazione, sembrava si volesse offrire una nuova visione della religione. Questa doveva essere basata sul dolore e sulla mortificazione e ciò doveva quindi riflettersi anche e soprattutto nell’arte. Federico Borromeo (1564 – 1631) arriverà in-fatti a scrivere De pictura sacra (1624), dove – seguendo i precetti in materia, dettati da suo cugino Carlo Borromeo – cercava di suggerire regole precise per la produzione di immagini sacre. Il concetto base, qui, era quello di decoro; le immagini dovevano persuadere, essere fonte di ispirazione e in-durre alla meditazione e alla preghiera. Le opere d’arte dovevano avere un forte impatto psicologico e poi dovevano coinvolgere emotivamente. Attraverso le immagini, dunque, la Chiesa poteva diffondere la sua dottrina, ma soprattutto poteva penetrare nel cuore dell’uomo.
Già Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna, nel 1582, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, in pieno clima controriformistico seguito al Concilio di Trento (1545 – 1563), scriveva che le immagini sono «istrumenti per unire gli uomini a Dio […] per persuadere il popolo e tirarlo col mezzo della pittura ad abbracciare alcuna cosa pertinente alla religione».
Ad essere rappresentata è l’esperienza mistica dei santi, come quella di santa Teresa d’Ávila, scolpita da Bernini (Transverberazione di santa Teresa d’Avila, Roma, Santa Maria della Vittoria, 1647-1652); e nella pittura – in modo particolare – abbondano le immagini di santi a cui appare la Vergine.
L’arte ha quindi una vera e propria funzione pedagogica e diventa a tutti gli effetti strumento per avvicinare l’uomo a Dio; un modo – in altri termini – per educare alla bellezza e alla virtù.
«Le nuove chiese», scrive Rudolf Wittkower, «imponevano, specie ai pittori, un compito immane. Essi dovevano non soltanto coprire di affreschi enormi superfici murali, ma dovevano soprattutto creare una nuova tradizione iconografica.

Rudolf Wittkower (Berlino, 22 giugno 1901 – New York, 11 ottobre 1971) è stato uno storico dell’architettura, storico dell’arte e saggista tedesco. 

Santi quali san Carlo Borromeo, sant’Ignazio, san Francesco Saverio e santa Teresa, dovevano essere glorificati: la loro vita, i loro miracoli, la loro missione terrena e spirituale, doveva essere solennizzata. Inoltre, di fronte alla sfida della religione pro-testante, i dogmi della Chiesa cattolica dovevano essere riaffermati in dipinti che rafforzassero la fede del credente e facessero presa sulla sua emotività. Infine, per quello che riguarda molte scene dell’Antico e Nuovo Testamento e della vita dei santi, fu avvertita la necessità di un cambiamento nella tradizione, per porre l’accento su soggetti eroici (Davide e Golia, Giuditta e Oloferne), su esempi di pentimento (San Pietro, il figliol prodigo), sulla gloria del martirio e su visioni ed estasi mistiche, oppure su particolari avvenimenti dell’infanzia di Cristo, finora sconosciuti» (Arte e architettura in Italia. 1600-1750).
Un’iconografia della controriforma, dunque, che poi si ritrova anche in Caravaggio. Il realismo brutale e spietato di Caravaggio, autore antiaccademico, è servito a far comprendere che Dio in fon-do è umano, vive nella quotidianità, così come nella miseria dell’uomo. La luce, nelle opere del Me-risi, è una luce naturale, non soprannaturale – come quella del Medioevo – e serve a descrivere e a far vedere la realtà per quello che essa è, senza reticenze, né stucchevoli abbellimenti. Le drammatiche figure che emergono dal buio, nei suoi dipinti, a cominciare dalla prima opera pubblica, la Vocazione di san Matteo (1599) nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, sono santi, Madonne e Cristi; uomini e donne che mettono a nudo una verità umana, troppo umana. Basterebbe pensare alla Morte della Vergine (1605, Parigi, Louvre) o alla Madonna dei pellegrini (1604, Roma, Sant’Agostino), dove la figura e il volto della Madonna sono quelli di una prostituta.
Ma è proprio in questa misera umanità, con tutte le sue oscure inquietudini, sofferenze, miserie e contraddizioni, che, per Caravaggio, si annida la verità di Dio. Dio, per lui, non è qualcosa di tra-scendente, di distaccato dall’uomo, ma è dentro la storia, nella carne e nelle ossa degli uomini. Nel loro stesso sangue. E il superbo gioco di luci e di ombre, nelle sue teatrali composizioni, è un modo per esprimere le inquietudini dell’uomo sempre in lotta con se stesso, sempre in bilico tra il dubbio e la verità, tra il tormento e l’estasi; tra il visibile e l’invisibile.

 

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