17 Ago Alle radici del decisionismo novecentesco
di Amedeo Maddaluno 19-08-2019
È un libro potente quello di Orazio Maria Gnerre, studioso di storia del pensiero politico ormai da tempo impegnato nella ricerca di nuovi paradigmi di pensiero alternativi tanto al filone liberal-democratico occidentalista che a certo ribellismo della sinistra diritto-umanista e all’illiberalismo piccolo-borghese delle destre cosiddette “sovraniste”.
È un libro potente perché in così poche pagine riesce a restituire un affresco di ampio respiro del pensiero politico e metapolitico degli ultimi tre secoli. Scrivo degli ultimi tre secoli perché limitarsi a parlare di Novecento significherebbe non aver compreso a fondo la densità del saggio. De Maistre, Marx, Rousseau, Ortega Y Gasset, Juenger, Schmitt, Kelsen e tanti altri: i pensatori politici della modernità – intesa appunto come quella fase antropologica prima ancora che storia che inizia con il XVIII secolo della scienza, della tecnica e delle rivoluzioni politiche – sono tutti letti attraverso la filigrana del macrotema del “decisionismo”: del rapporto tra società di massa moderna e stato, diritto e polis in cui la società chiede alla polis cogente azione politica.
L’uomo moderno, l’uomo che ha abitato il pianeta negli ultimi duecentocinquanta anni, è antropologicamente – quindi spiritualmente e metapoliticamente – diverso dall’uomo che lo ha preceduto nel Rinascimento, nel Medio Evo, negli evi antichi. È per la prima volta – se escludiamo le poleis greche e la civitas romana repubblicana, fenomeni storico-politici comunque limitatissimi nel tempo e nello spazio – un “uomo società”, un uomo che è cosciente non solo del e nel rapporto con sé e con il Divino ma che è cosciente soprattutto del e nel rapporto con la complessità sociale e con i suoi prodotti – in primis la scienza, la tecnica, il capitalismo. Divenuto uomo-società, l’uomo moderno diviene quindi uomo-disagio, il disagio dell’incompletezza: è un uomo che non può e non sa più bastarsi e idealizzarsi come fece l’uomo greco o rinascimentale e che non può e non sa esaltarsi nel rapporto col Divino e il Sacro trascendente come l’uomo del Medio Evo e comunque come l’uomo della Tradizione.
Ecco il vero distillato dell’opera di Gnerre: l’uomo moderno presenta alla politica e alla polis, il proprio luogo sociale, il conto della propria insoddisfazione. Da qui l’eterno ritorno dei totalitarismi e degli autoritarismi letti – qui la vera rivoluzione copernicana insita nel pensiero dell’autore – non come errori della modernità, ma come suo sbocco naturale, come risultante dello smarrimento politico ma ancor più metapolitico e pre-politico dell’uomo moderno.
Cosa cerca quindi questo uomo della modernità, non trovandolo e volendolo quindi surrogato dal politico? Come accennavamo, il rapporto con il sé e il rapporto con il Divino: in una parola, il rapporto con il sacro, con il “Sacer” inteso come separato dalla polis, dalla civitas. L’uomo dell’agorà vive ogni giorno la nostalgia dello Spirito, la nostalgia dell’Acropoli a causa della “macchinalità” (indovinato termine che l’autore usa e ripete nel testo). Vi è nostalgia di sacro tanto nelle ideologie progressiste quanto in quelle reazionarie. La politica diviene, nel desiderio e nelle aspirazioni dell’uomo moderno, una teologia – che si scopre però sempre essere una teologia monca, secolarizzata, atea. Il sacro posticcio della modernità, il sacro surrogato, diviene quindi immancabilmente non un sacro religioso e presente, ma un sacro dell’altrove, un sacro teleologico, un sol dell’avvenire cui la politica dovrà condurci.
Non ha la pretesa di fornire soluzioni al disagio della modernità, Orazio Gnerre: compie già un immane lavoro intellettuale nel proporre la lettura davvero innovativa di cui parlavamo poc’anzi. Una cosa ci sentiamo di aggiungere e di chiederli, possibilmente da distillarsi in un prossimo studio: è possibile che allo smarrimento dell’uomo moderno sia succeduto l’ancor peggiore smarrimento dell’uomo postmoderno? Di un uomo che ha attraversato, sempre per causa della tecnica e del capitalismo (in una sua nuova fase), un’ulteriore rivoluzione antropologica che lo ha privato persino di quell’ultimo, imperfetto punto di riferimento e polo dialettico dell’umano – la società? Dall’uomo-società moderno all’uomo atomizzato e post-sociale post-moderno: questo è il personalissimo sospetto di chi scrive queste poche righe. Se l’uomo moderno ha perso il rapporto con il sacro, sia esso interiore o trascendente, per mantenere solo quello immanente con il sociale e il politico, all’individuo post-moderno non resta più nemmeno quella vita di relazioni, di società e di polis. Che resta quindi dell’Uomo, se lo priviamo persino dell’incontro, del confronto e dello scontro con i propri simili? L’uomo post-moderno ha persino smesso di invocare lo Stato ed il Politico. Non vorrei che la risposta sia che l’uomo post-moderno sia dunque anche post-umano, e che al disagio della modernità si sostituisca un disagio e un malessere ancora più profondo, aspro e angosciante: quello dell’assenza di ogni possibile punto di riferimento e appiglio, che produrrà mostri ancora peggiori di quelli della violenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mostri di cui non conosciamo ancora nemmeno il nome, mostri di un futuro che ci appare disperato, preda della solitudine, alienato di una nuova alienazione dopo quella dal sé, dal Divino e dal prodotto dell’opera. Una definitiva alienazione anche dal proprio simile, e quindi dall’ultimo contatto che l’uomo ha con l’umano: il volto del proprio prossimo.
Per approfondimenti:
_Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco – MIMESIS, 2018.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
No Comments