30 Mag L’insonnia dello spirito: le lettere di E. Cioran a P. Ţuţea
di Paolo Vanini 02-06-2019
Del suo amico Petre Ţuţea (1902 – 1991) – «il solo vero genio che abbia mai incontrato» – Cioran ammirava l’acume intellettuale e l’irriverenza spirituale. Al riguardo è famoso l’aneddoto, raccontato in Confessioni e anatemi, di Cioran che paragona Ţuţea a un miscuglio di Dio e Don Chisciotte: «Al momento ne fu lusingato, ma la mattina dopo, prestissimo, venne a notificarmi: Quella storia di Don Chisciotte non mi piace».
A Cioran – come testimoniano numerose lettere, articoli e interviste sparse nel tempo – piaceva invece raccontare delle uscite folgoranti del suo compare rumeno, di dieci anni più vecchio, con il quale aveva però condiviso una parte importante della vita universitaria e con cui avrebbe sempre mantenuto una profonda amicizia, nonostante i due, dopo la fine della Seconda Guerra, non avrebbero più avuto modo di frequentarsi. Perseguitato dal regime comunista per la sua precedente militanza politica– fu un funzionario del Ministero dell’Economia Nazionale dal 1940 al 1947 –, Ţuţea trascorse più di tredici anni in carcere e visse poi in povertà e solitudine, fino alla morte, in un monolocale di Bucarest; Cioran, che dalla fine degli anni Trenta esiliò in Francia, era nondimeno considerato dalla Securitate rumena un intellettuale pericoloso, le cui relazioni personali dovevano essere tenute sotto stretta sorveglianza. Soprattutto quelle con i suoi vecchi amici rimasti in patria.
In questo contesto, non stupisce la difficoltà di recuperare gli eventuali scambi epistolari tra i due intellettuali né il fatto che essi non avessero potuto scriversi liberamente. Per questo motivo, è davvero opportuno segnalare la recente pubblicazione, da parte dell’editore Mimesis, de L’insonnia dello spirito: un volume curato da Antonio Di Gennaro e composto da una dozzina di lettere che Cioran e Ţuţea si spedirono nella seconda metà degli anni Trenta e tra gli anni Settanta e Novanta (oltre a un’intervista che Ţuţea concesse a Gabriel Liiceanu nel 1990, dedicata proprio a Cioran).
A dispetto delle dimensioni ridotte, questo prezioso scambio epistolare copre un arco temporale molto ampio e riesce a restituire al lettore l’intensità di un rapporto che sopravvisse non solo alla drammaticità degli eventi storici, ma anche a una serie di stravolgimenti interiori che avrebbero apparentemente potuto compromettere una tale amicizia. Quando Cioran conosce Ţuţea, infatti, sia il giovane studente universitario che il già affermato uomo politico condividono una medesima visione dissacrante, pessimistica e solitaria dell’esistenza: una visione dove la fede naufraga contro i mulini a vento del nichilismo, dove l’epifania procede a colpi di disgusto e misantropia, dove la “verità ultima” è un nulla da cercare “ai crocevia” e non in mezzo ai libri, e dove l’imperativo dell’indifferenza cede soltanto al miraggio di una rivoluzione. Tuttavia, quando per i due amici la rivoluzione diventerà sinonimo di esilio e prigionia, essi intraprenderanno strade diverse: dopo le torture e la segregazione subite in carcere, Ţuţea si convertirà alla fede cristiana e si dichiarerà apologeta della religione (pubblicando anche un Trattato di antropologia cristiana), mentre Cioran, consacratosi nel frattempo alla lingua francese, maturerà una concezione sempre più scettica e disincanta della vita, in cui persino la blasfemia subisce il fascino del fallimento e le calunnie della noia. Eppure, i due continueranno a non tradire il loro antico sodalizio e a riconoscere nelle disfatte dell’altro il segno sia della loro elezione spirituale che del destino che unisce entrambi.
Se Cioran vedrà sempre in Ţuţea “un Socrate oceanico” dei Carpazi – che preferì “fallire” in silenzio piuttosto che umiliarsi lasciando ai posteri “un’opera” –, Ţuţea vedrà sempre in Cioran l’unico uomo capace “di praticare una sincerità assoluta, […] l’unica immagine pura nella mia memoria”. In un caso come nell’altro, e in modo reciproco, lo scetticismo dell’uno non si configura mai come sconfessione della fede dell’altro; ed è proprio questo aspetto a rendere così commovente lo scambio epistolario tra Cioran e Ţuţea, perché ci rivela come un amico possa essere migliore sia dei nostri dubbi che delle nostre certezze.
Nel luglio del 1937, commentando un’istantanea che li ritraeva insieme, Cioran scrive a Ţuţea che «quella foto, dove qualcuno potrebbe scambiarci per venditori delusi o profeti dementi, smarriti nella zoologia rumena, mi ha persuaso del fatto che condividiamo la stessa sorte». Nel novembre dello stesso anno, quando è già a Parigi, Cioran aggiunge: «Io sono forse l’unico ad aver compreso la dimensione shakespeariana del tuo essere, così pure mi piace credere che tu sia il solo ad aver penetrato l’incurabilità del mio passaggio tra le bestie. Ti scrivo dalla città dove tutti i dubbi sono ammessi, e questo dona alle mie ombre un profumo di cancrena. Sono felice di poter essere qui da solo, terribilmente solo, e di essere lontano dai Balcani, dove soltanto tu giustifichi il sorgere del sole».
Passano più di cinquant’anni, con tutto quel che è accaduto nel mezzo, e in una mattina primaverile del 1990 Ţuţea ripensa al proprio passato, alla sua fede attuale e al suo amico Emil, che non crede in nulla ma che è forse il solo che lo possa ascoltare: «Caro Emil, ho nostalgia di vederti e abbracciarti. Mi piacerebbe incontrarti […] in uno spazio disabitato dagli uomini e sentire per alcuni attimi la gioia dell’orizzonte visivo vissuto da santi e bambini. […] Consentimi di affermare che sono simile a te, con la differenza che tu pratichi una sincerità illimitata, mentre il mio osare è limitato da credenze da cui non posso separarmi».
Alla fine di questa lettera, veniamo a sapere che il piccolo appartamento in cui Petre abita dal momento della sua scarcerazione è un appartamento in affitto; un appartamento, cioè, che non gli appartiene e in cui sarebbe costretto a congedarsi come un estraneo. Per questo motivo, e considerando i prezzi ridotti del mercato immobiliare rumeno, egli confida all’amico un suo desiderio: «che tu compra il mio monolocale, poiché non voglio morire inquilino. […] E in una proprietà di Cioran, non mi sentirei inquilino».
In realtà, anche Cioran sarebbe morto da inquilino nella sua mansarda di Rue de l’Odéon. Ciononostante, e ben prima che Petre gli facesse questa proposta, il giovane filosofo gli aveva forse già risposto, quando, nel 1937, gli confidò: «Io sono un Diogene che ha spento la sua lanterna, dopo averti incontrato. Un uomo, finalmente! E per abbracciarti, abbandono anche la botte». Perché non sempre la botte è un posto sicuro.
Per approfondimenti:
_E. Cioran, L’insonnia dello spirito, a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di I. M. Chelariu, Milano, Mimesis, 2019.
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