Luigi XVI e la perdita della «spada»

di Giuseppe Baiocchi del 25/04/2019

Parigi ha usato la ghigliottina, assurta a simbolo dei tumulti rivoluzionari, anche come forma d’intrattenimento: nell’istante in cui la lama inizia a scivolare, il popolo conosce il silenzio, poi lo sbigottimento e infine si desta e torna agli schiamazzi ubriachi e alla gioia scomposta. Nel 1791, la rivoluzione giacobina raggiunge anche il possedimento oltremarino francese di Côte française de Saint-Domingue (attuale Haiti): la popolazione nera, aiutata dai repubblicani, insorge contro il governo coloniale dell’Ancien Régime.

François-Auguste Biard – L’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi del 1848 (particolare) – dipinto del 1849. Anche se la rivoluzione francese abolì la schiavitù nel 1794, rimase ancora forte la superiorità repubblicana dei bianchi nei confronti dei neri, i quali erano considerati inferiori. Napoleone Bonaparte ristabilì la schiavitù nel 1802 nelle Antille. La schiavitù fu abolita definitivamente durante la seconda repubblica francese, per opera del Sottosegretario di Stato Victor Schoelcher (1804 – 1893) nel 1848. Il Regno Unito l’aveva abolita nel 1834, ma altre nazioni come Stati Uniti , Portogallo o Spagna avrebbero impiegato ancora molti anni.

Si da vita ad una Repubblica più effimera di quella francese e sicuramente più “colorata”. Chi la narra è sicuramente un esperto di rivoluzioni: Alejo Carpentier (1904 – 1980) autore de “Il secolo dei lumi”, un romanzo che narra il problema della Rivoluzione francese esportata, collegandola indissolubilmente alla “sua” Rivoluzione, quella cubana di Fidel Alejandro Castro Ruz (1926 – 2016), che ispirandosi alla Rivoluzione russa, porrà quest’ultima a modello della sua futura politica nazionale. Ma quando nasce il concetto di Rivoluzione? Di quale assetto auspica l’insorgenza? Quanto il programma di rinnovamento proposto nelle teorie, diverge dalle sue applicazioni? Esso è stato tratteggiato nel secolo “dei Lumi” o ha trovato formulazioni e tentativi di realizzazione anche in epoche precedenti? E soprattutto, quand’è che una rivoluzione può dirsi conclusa? L’uomo contemporaneo non può fuggire di fronte a tali interrogativi.
Per rispondere a tali domande, bisogna capire come era strutturata la società europea, ed in particolare quella francese, prima del 1789. Simbolo del potere regio nella Francia del XVIII secolo è certamente il Palazzo di Versailles, al cui interno viveva tutta la corte del Re di Francia Luigi XVI di Borbone (1754 – 1793) e di sua moglie Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena (1755 – 1793). I due personaggi, come testimonierà Charles Maurice Talleyrand (1754 – 1838), sono i due fulgidi esempi di quello che oggi è definito Ancien Régime (Antico Regime), ovvero il sistema governativo che caratterizzerà la monarchia assoluta francese delle casate dei Valois e dei Borbone (1328 – 1789). Il mondo prima della rivoluzione era dolce, nessun individuo post-rivoluzione può immaginare come fosse morbida la società di quell’epoca per i pochi eletti che la conducevano.
Un primo scivolamento dell’aristocrazia verso la rivoluzione è dato dal suo abbandono della terra: la nobiltà feudale possedeva durante tutto il periodo medievale e successivamente in quello rinascimentale (con ampia temporalità anche nel 1600) oneri e onori con la popolazione. L’incastellamento aveva certamente prodotto i suoi migliori frutti: vigeva un sistema gerarchico sociale, dettato da norme e convenzioni che portava l’aristocrazia ad essere rispettata e temuta dal popolo, avendo in cambio l’ordine giuridico e la difesa del territorio.
Il carattere assolutistico, sviluppatosi con l’abbandono della terra, per prediligere una vita cittadina “quasi alto-borghese” nei grandi centri urbani (come accadde nella Penisola italica) avevano allontanato la nobiltà dal rapporto stretto con la popolazione. In Francia, questo carattere, con la costruzione di Versailles (1623 – 1683) si accentua, traslando l’aristocrazia all’interno di un mondo parallelo, dove questa inizia gradualmente – poi più assiduamente – a disinteressarsi alla gerarchia statale. Centralizzando, disossando e disarticolando lo Stato, sostituendo una superstruttura burocratico-statale a forme virili e dirette di autorità, di responsabilità e di parziale, personale sovranità, essi crearono il vuoto intorno a sé, perché la vana aristocrazia cortigiana di palazzo nulla più poteva significare e quella militare (la Maison du Roi) era ormai priva di rapporti diretti con il paese: distrutta la struttura differenziata che faceva da medium fra la nazione e il sovrano, restò appunto la nazione disossata, cioè la nazione come massa, staccata dal sovrano e dalla sua sovranità. Con un sol colpo, la rivoluzione spazzò facilmente quella sovrastruttura e mise il potere fra le mani della pura massa. L’assolutismo aristocratico prepara dunque le vie alla demagogia e al collettivismo. Lungi dall’avere carattere di vero dominio, esso trova il suo equivalente solo nelle antiche tirannidi popolari e nel tribunato della plebe, forme parimenti collettivistiche.
In realtà la reggia di Versailles, fu edificata da Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole (1638 – 1715, Le Roi Soleil). Egli difatti traslando tutta la nobiltà a corte e costringendola ad un regime sfarzoso, avrebbe ottenuto un duplice risultato: impoverire l’aristocrazia, poiché da sempre i suoi Pari rappresentavano un pericolo per il suo stesso Trono; e parallelamente indebolirla nei suoi rapporti con i territori, poiché essendo una Monarchia feudale, la sua ricchezza e la sua forza politica derivavano esclusivamente dal suo essere radicata – appunto – alla terra. Così la nobiltà vivendo presso tale manufatto edilizio, veniva definitivamente subordinata al potere centrale, assolutistico, del Sovrano: non farne parte avrebbe significato essere abbandonata alle periferie di quello che all’epoca era il paese più popolato d’Europa.

Pierre Patel, Chateau de Versailles (particolare) – 1668.

All’origine della Rivoluzione vi è il processo di accentramento politico, con il conseguente indebolimento del sistema feudale, che per secoli aveva garantito lo Stato di diritto e la difesa del Regno. Da sempre infatti i ci-devant (appellativo dato dai rivoluzionari agli aristocratici) avevano trattato il Re sempre alla pari, poiché nella storia francese, l’aristocrazia aveva combattuto le sue più cruenti battaglie, sempre al fianco del Sovrano, da pari appunto, avendo versato esattamente lo stesso quantitativo di sangue del Re.

La filosofia della parità diviene dunque essenziale per capire l’antropologia di sangue blu: le campagne belliche dei secoli precedenti avevano fatto sì, che lo sforzo dell’aristocrazia, doveva essere ripagato dal Sovrano, con l’esenzione dalla tassazione statale; i tributi non venivano pagati

dai nobili proprio a fronte di questo meccanismo storico ed atavico; il Re non pagando le tasse, acconsentiva alla nobiltà l’esenzione dei queste per i meriti militari e statali del passato.
Altrettanto interessante è l’analisi della società del tempo strutturata in forma piramidale ed imperniata sull’immagine triadica medievale degli orantes (il clero, anch’esso esentato dalle tasse poiché lavoravano per il passaggio delle anime nell’aldilà e i cui vertici erano anch’essi di lignaggio aristocratico), dei bellantes (la nobiltà) e dei laborantes (commercianti, banchieri o semplicemente contadini, i quali pagavano la tassazione). I primi due Stati, così come venivano denominati, possedevano un alto tasso economico per le casse dello Stato, sempre più appesantito dai ritmi crescenti di sfarzo della corte e del clero annesso, che aveva portato già per tre volte il Regno sull’orlo della bancarotta. Per cercare di risolvere la spinosa questione economica, il 25 agosto del 1788, viene chiamato a corte il banchiere svizzero di Ginevra Jacques Necker (1732 – 1804), che ricopre il ruolo del Contrôleur général des finances (Controllore generale delle finanze). La situazione per il ginevrino si presenta subito allarmante: i danari per il risanamento non ci sono, poiché la spesa pubblica per la nobiltà e il clero è altissima ed un aumento della tassazione al Terzo Stato, già provato dalle tasse, è impensabile.
In un celebre dipinto del pittore Jean Siffreid Duplessis (1725 – 1802) Necker viene raffigurato in abiti scuri: difatti non a caso viene chiamato da Luigi XVI un economista austero e parsimonioso, difatti possiamo denotare subito l’utilizzo del nero per i suoi abiti. Tale colore è sinonimo di sobrietà, i colori – tipici del 700 sfarzoso – vengono meno, per anticipare il gusto sartoriale tutto ottocentesco per l’utilizzo dell’abito scuro: sicuramente un indumento che si adattava bene a tutte le occasioni e che rimaneva comunque elegante. Difatti anche la storia dell’arte può aiutarci a capire il passaggio epocale che ci porterà alla Rivoluzione Francese, poiché nel Settecento l’uso dei colori per gli indumenti, nelle classi nobiliari, è imperante; così come nei quadri il colore vivace ne è il protagonista assoluto. Jacques Necker deve risolvere il problema del debito pubblico e lo svizzero sembra essere l’ultima carta che rimane al Sovrano Borbone per ristabilizzare una situazione economica oramai fuori-controllo. I suoi predecessori avevano optato una strategia economica oggi chiamata “finanza allegra”, cioè prestiti che coprivano altri prestiti, creazione di quelli che oggi chiameremo buoni del tesoro – che però poi non venivano coperti: vi erano troppi e inesorabili “castelli finanziari”. Necker asserisce al Re che tali pateracchi economici non riuscirebbero più neanche a mascherare la situazione, per via dell’altissimo debito presente nelle casse del Regno e propone a Luigi XVI la via della tassazione anche al Primo Stato (la nobiltà) e al Secondo Stato (il clero). Il Re Luigi XVI non è stato un pessimo Sovrano, come poi i vincitori hanno scritto successivamente con la conseguente vulgata storica: un Re dalla vita tranquilla, ma le giornate serene e assolate erano orami un lontano ricordo del passato. L’intraprendenza della moglie austriaca Maria Antonietta, uno Asburgo appunto, non lo aiutava certamente, poiché la consorte non poteva capire la motivazione economica che spinse Necker a convincere Luigi XVI verso una tassazione alla sua nobiltà d’armi. Difatti il Borbone capisce che l’economista ha ragione e tenta l’impossibile: avvicinare la Francia verso un modello di Monarchia Costituzionale, già in uso in Inghilterra, dopo la rivoluzione di Oliver Cromwell (1648) che portò alla Gloriosa Rivoluzione del 1688-89 a colpi di frase “Non c’è tassazione, se non c’è rappresentanza”.

Nell’acquaforte vengono rappresentati i tre Stati che avrebbero composto il quadro degli Stati Generali. Da notare, ancora una volta, il colore degli abiti dell’aristocrazia, simbolo del 700, e il nero usato dalla classe borghese del Terzo Stato, simbolo dell’800.

Il Sovrano poteva infatti prendere delle decisioni di propria autonomia, dopo aver ascoltato il suo consiglio più ristretto, che dovevano essere vidimate, certificate, approvate dal Parlamento di Parigi: un’unione di forze sociali, tra cui l’aristocrazia era prevalente, ma dove era presente anche una buona dose di borghesia cittadina. Luigi XVI è un uomo prudente, ma inizia ad operare una serie di editti Sovrani, ovvero quelli che non hanno bisogno della registrazione del Parlamento di Parigi. Gli abbozzi di riforme per la tassazione dell’aristocrazia e del clero vengono prese malissimo dai due Stati che minacciano ritorsioni al Sovrano, rivendicando il loro supporto alla macchina statale, non certamente di stampo economico. Eppure contrariamente a quanto ci hanno raccontato gli storici allineati, Luigi XVI trova il suo coraggio interiore: non si intimidisce di fronte alla contrarietà della moglie, non ha paura di inimicarsi una parte dell’aristocrazia più tradizionalista, così come il clero pienamente contrario. Oggi non si può non apprezzare il suo sforzo, però non basta. Così si pensa alla convocazione degli Stati Generali il 5 maggio del 1789: un organo di rappresentanza dei tre ceti sociali esistenti in un’assemblea, di origine feudale (ultima convocazione era avvenuta nel 1614), che disponeva della funzione di limitare il potere monarchico, da convocare quando incombeva sul paese un pericolo imminente. De facto il Re convocava il Regno, per ascoltare tutti i componenti dello Stato, che lo avrebbero aiutato nell difficili decisioni da intraprendere.
Gli Stati Generali (1139 membri) sono un’altra trovata del geniale Necker: egli fece sì che, a differenza delle precedenti edizioni, Luigi XVI approvò la richiesta del Terzo Stato (borghesia e clero minore) di rappresentarsi con la metà dell’assemblea generale – mentre in passato le porzioni erano 1/3 nobiltà, 1/3 clero e 1/3 borghesia -, ovvero del 100% dei partecipanti, vi era il 50% appartenente al Terzo Stato, il 25% appartenente alla nobiltà e il 25% appartenente al clero. In questo modo il sistema di voto rimaneva immutato, perché per mutare era necessario il voto del singolo Stato e non per testa, che viene respinto, così come la riunione in un’unica camera. La voce della Francia “che lavora” asserì Necker, sarà certamente più evidente.
Delle richieste che perverranno al Sovrano possiamo già leggere una prima interpretazione per la costruzione delle origini della Rivoluzione Francese. Il Terzo Stato è in possesso di numerosi cahier (libretto) da far leggere, tra cui spicca quello dell’abate Emmanuel Joseph Sieyès (1748 – 1836) intitolato “Che cos’è il Terzo Stato?”. Nel pamphlet asserisce tra scrosci di applausi: «Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Chiede di essere qualcosa». In soldoni Sieyès, con coraggio, afferma a Luigi XVI che la Francia viveva al di sopra dei propri mezzi, e soprattutto sopravviveva sul lavoro del 90% della popolazione che lavorava per tutti, pagava per tutti e non aveva nessuna voce in capitolo. Dunque la vera questione degli Stati Generali sembra sempre essere riconducibile al già citato motto britannico «Non c’è tassazione, se non c’è rappresentanza».
Aprendo il consueto parallelismo con la storia dell’arte, nel celebre dipinto del pittore Louis-Charles-Auguste Couder (1789 – 1873), “Versailles, 5 maggio 1789, apertura degli Stati Generali” si possono evincere interessanti particolari: nella parte destra del dipinto vi sono dei signori vestiti in una certa maniera, più sobria dove predomina il colore nero, che dominerà tutto l’Ottocento; mentre nella parte sinistra degli individui che indossano dei vestiti di altra fattura, più sgargianti e colorati, simbolo del Settecento. I signori “in nero” sono i borghesi e il clero minore che non avendo la potenza economica per vestirsi in maniera costosa prediligono l’eleganza scura adatta per tutte le occasioni. Le due “Francie” nel dipinto si fronteggiano e non sembrano essere destinate a capirsi, poiché alcuni vivono in una Francia multi-colore e altri pensano che è arrivato il momento di vivere in una Francia più umile, assestata, monocromatica. A quest’ultima Francia, inoltre, si operano piccoli sgarbi sciocchi, ma significativi, come quello del copricapo: l’aristocrazia poteva indossare il cappello davanti al Sovrano, la borghesia doveva toglierselo; l’aristocrazia poteva uscire dall’assemblea volgendo le spalle al Re, la borghesia doveva fuoriuscire arretrando e non dando mai le spalle a Luigi XVI. La borghesia, dobbiamo asserirlo per precisione, entra agli Stati Generali con spirito riformatore e non rivoluzionario: ha discusso per mesi in ogni occasione, ha scritto, ha spiegato cosa si può fare per risanare lo Stato e lo ha spiegato con intelligenza, si è presentata in numero doppio rispetto agli altri due Stati, ma alla fin fine si vedono restituire le convenzioni di sempre, che fanno solo che aumentare lo strappo già avviato con la loro classe sociale, facendo tradire le attese e facendo vanificare i propri sforzi. In realtà il voto per testa e non per Stato, sarebbe stata un’innovazione devastante per i primi due Stati, sotto il punto di vista degli equilibri politici: oggi può apparirci chiaramente innocua.

Louis-Charles-Auguste Couder, Inaugurazione degli Stati Generali, 5 maggio 1789 (particolare), olio su tela, 400 x 715 cm, Versailles, Musée national du château et des Trianons.

Dopo sei settimane di stasi i rappresentanti del Terzo Stato abbandonano l’assemblea e si auto-proclamarono Assemblea nazionale, attribuendosi il potere esclusivo di legiferare in materia fiscale e riconoscendo in esso l’unico vero rappresentante della Francia, determinando la fine degli Stati Generali. Decisiva sarà la promessa, fatta da Necker, di far votare per testa e non per Stato. Un’iniziativa che non sarà attuata e che avrà il sapore della derisione per l’alto numero di rappresentanti presenti del Terzo Stato, pari al 50% dell’assemblea. Così 20 giugno 1789 il Re ordinò la chiusura della sala dove si riuniva abitualmente l’Assemblea (una sala dell’Hôtel des Menus-Plaisirs a Versailles) con il pretesto di eseguirvi dei lavori di manutenzione, cercando in questo modo di impedire qualsiasi riunione. Su proposta del deputato Joseph-Ignace Guillotin (1738 – 1814) tutti i membri si spostarono in una vicina sala adibita al gioco della pallacorda; mentre il presidente dell’assemblea, l’astronomo Jean Sylvain Bailly (1736 – 1793) si premunì di avvisare i colleghi di spostarsi. Da qui il giuramento successivo che viene appunto definito della “Palla Corda”. Qui l’importanza del tempo, che diviene strumento essenziale per capire le rivoluzioni: siamo passati dalla scala dei secoli, alla scala degli anni, poi dei mesi e infine ora a quella dei giorni, da tale data il calendario correrà come un orologio. Dal 5 maggio al 20 giugno passano 45 giorni e non sono pochi, ma sono pochissimi, rispetto al fatto che ci erano voluti due anni e mezzo per convocare gli Stati Generali (1787 – 1789), c’erano voluti almeno dieci anni per convincere Luigi XVI a prestare consiglio a Necker, c’era voluto un secolo per far capire al Regno di Francia che le leggi imposte da Luigi XIV avevano portato conseguenze economiche nefaste per il suo erede. Nella storia il tempo non è mai uniforme: a volte cammina più lentamente, altre più velocemente e in tutte le rivoluzioni corre ed è sempre molto spedito.
Dunque il Terzo Stato si riunisce qualche giorno prima del 20 giugno 1789 e inizia a prendere delle decisioni economiche senza più ascoltare l’altra frangia della società dirigente. Luigi XVI si sforza così di recuperare la situazione, già scivolata verso un punto di non ritorno, mandando il marchese Henri Evrard di Dreux-Brézéa (1762 – 1829) a parlamentare con i borghesi, per far ritornare quest’ultimi all’Hôtel des Menus-Plaisirs. Fu a questo punto che il già citato astronomo Bailly esclamò la famosa frase che racchiude storicamente la stessa Rivoluzione Francese: «La Nazione unita, non riceve ordini da nessuno». L’antico Regime viene scavalcato, superato: la borghesia ha rovesciato la piramide politica di Luigi XVI, non esistendo più la legittimità dall’alto, ma il Sovrano deve “scendere” all’interno della società, contrattando socialmente con essa. Ciò sta a significare che il contratto sociale fa nascere una nuova società, formata da individui singoli, tutti in condizioni di uguaglianza (il che ovviamente non corrispondeva a verità, poiché la rappresentanza borghese non rappresentava gli interessi di tutte le categorie sociali), che successivamente poteva dar vita alla forma di Stato istituzionale più idonea secondo “il popolo”. L’origine di questo processo è la carta Repubblicana, oggi in auge in tutte le repubbliche parlamentari, che nel primo articolo cita: «La Sovranità appartiene al popolo», dunque il popolo è Sovrano. Il Re non è Sovrano, ma eserciterebbe da adesso in avanti, la sua sovranità perché il popolo gli concede e ritiene utile, che egli rivesta tale carica. Da qui anche la famosa frase che si sussegue in tutte le Monarchie Costituzionali: «Per diritto di Dio e della Nazione» e non più solo «Per diritto di Dio» – il Trono e l’Altare si spezzano. Questa è la Rivoluzione Francese: il concetto umano, dove l’individuo si pone come fondamento del reale, vuole sostituirsi al carattere della Tradizione divina, vuole decidere al posto di Dio, perché tutto è frutto dell’intelletto e non della fede ultraterrena. Da qui l’importanza, sempre crescente, della scienza che deve risolvere per la borghesia, le domande ultime che la fede rispondeva all’uomo.
In realtà tale concetto politico non si poneva ancora come un moto rivoluzionario, ma voleva imporsi come un cambio istituzionale, traslando da una Monarchia Assoluta, ad una Costituzionale (a sovranità popolare).
La convocazione degli Stati Generali animò nei mesi seguenti il dibattito politico che si estese fino ai salotti e alle piazze della capitale, a tal punto da indurre il Monarca a schierare i suoi soldati mercenari svizzeri e tedeschi attorno a Versailles, Parigi, Sèvres e Saint-Denis. Sabato 11 luglio il Ministro delle Finanze Jacques Necker venne destituito dal re, essendosi guadagnato l’inimicizia di parte della corte per aver manifestato in parecchie occasioni delle idee filo-borghesi.
Arriviamo così al primo atto violento – ampiamente trattato dal conte Joseph-Marie de Maistre (1753 – 1821) nel suo “Considerazioni sulla Francia” –, ovvero la presa della Fortezza denominata Bastiglia, oramai in disuso e simbolo del potere regio. In realtà la sollevazione popolare è frutto di false voci fatte circolare in città dalle sette massonico-borghesi, che avevano perfettamente capito che l’occasione per acquisire il potere, tramite il Terzo Stato, non si sarebbe ripetuta. Si vocifera per le strade della capitale che le truppe regie, composte dai soldati stranieri svizzeri e tedeschi, avrebbero massacrato ben presto la popolazione se i moti fossero proseguiti.
Il marchese Bernard-René Jourdan de Launay (1740 – 1789) è l’anziano governatore della prigione politica: un uomo legato alle antiche convenzioni e in piena sintonia con l’Assolutismo monarchico. Ai suoi ordini ci sono 82 invalidi di guerra e 32 Guardie svizzere comprensive di 30 cannoni, al comando dello svizzero Ludwig Ignaz von Flüe (1752 – 1817), capitano-luogotenente nel reggimento Salis-Samade. Dai ricordi dell’elvetico, il vecchio marchese era così descritto: «Era un uomo che non aveva né grandi conoscenze militari né esperienza, e aveva poco cuore. […] Fin dal primo giorno, imparai a conoscere quest’uomo da tutti i preparativi insensati che organizzava per sua difesa della sua posizione, e dalla sua continua inquietudine e irresolutezza. Vedo chiaramente che saremmo mal comandati se venissimo attaccati. Era talmente terrorizzato che la notte prendeva per nemici le ombre degli alberi e di altri oggetti circostanti. I capi dello Stato Maggiore, il luogotenente del re, il maggiore e io stesso gli facevamo molto stesso delle rappresentazioni, da una parte per tranquillizzarlo sulla debolezza della guarnigione della quale si lamentava continuamente, e dall’altra per non farlo preoccupare di dettagli insignificanti e di non trascurare le cose importanti. Ci ascoltava, sembrava approvare, dopo agiva in tutt’altro modo e in un istante cambiava opinione; in una parola, in tutti questi fatti e gesti, faceva prova della più grande irresolutezza».
Dunque il 14 luglio 1789, una guarnigione poco efficiente e poco numerosa, vede insorgere quasi 1000 rivoltosi, che vengono affiancati da 61 Guardie francesi disertrici e ben 5 cannoni. La fortezza, nonostante il coraggio delle Guardie svizzere (vi saranno 98 morti da parte dei ribelli), viene espugnata e la prima testa conficcata nella picca sarà quella del governatore della Bastiglia de Launay. È il primo gesto di una violenza esibita.

Jean-Baptiste Lallemand – L’arresto del comandante della Bastiglia (particolare) – 1790.

Un anno dopo, il 14 luglio del 1790, la Francia pare essere riconciliata: siamo allo Champ-de-Mars (Campo di Marte), dove avviene la Fête de la Fédération (Festa della Federazione) una cerimonia festosa che celebra la Monarchia Costituzionale: è presente un’Assemblea Legislativa che funge da Parlamento.
Una messa fu celebrata da Talleyrand, già vescovo di Autun sotto l’Ancien régime. A quel tempo, la prima Costituzione francese non era ancora stata completata, e non sarebbe stata ufficialmente ratificata fino al settembre 1791. Ma il succo di ciò, era compreso da tutti e nessuno era disposto ad aspettare. Marie-Joseph Paul Yves Roch Gilbert du Motier, Marquis de La Fayette (1757 – 1834) guidò il presidente dell’Assemblea nazionale e tutti i deputati in un solenne giuramento alla Costituzione in arrivo: «giuriamo di essere sempre fedeli alla Nazione, alla Legge e al Re, di sostenere con tutte le nostre forze la Costituzione decisa dall’Assemblea Nazionale e accettata dal Re, e di rimanere unita a tutti i francesi dai legami indissolubili di fratellanza». In seguito, Luigi XVI affermò: «Io, re dei francesi, giuro di usare il potere che mi è stato dato dall’atto costituzionale dello Stato, di mantenere la Costituzione come decretata dall’Assemblea nazionale e accettata da me stesso». Il titolo “Re dei Francesi”, usato qui per la prima volta al posto di “Re di Francia (e Navarra)”, era un’innovazione destinata a inaugurare una monarchia popolare che collegava il titolo del monarca al popolo piuttosto che al territorio della Francia.
La Rivoluzione sembra cessare, concludersi con una decina di morti dell’anno prima, ma non sarà così, poiché Luigi XVI non aveva “scelto” tale tipo di Istituzione Statale, ma gli era stata imposta. Il suo bisnonno, il Re Sole, aveva avviato un procedimento sociale irreversibile per il Regno di Francia; come detto pocanzi, per depotenziare la stessa aristocrazia, aveva fatto emergere la nuova classe della borghesia, verso la quale la nobiltà si affidava. Tale meccanismo, dopo essersi oliato per un secolo, non poteva arrestarsi bruscamente, ma Luigi XVI non comprende la portata degli eventi.
Il 21 giugno del 1791, dopo una serie di avvenimenti che non saranno trattati nel dettaglio, Luigi XVI decide di andarsene: dopo aver giurato, dopo aver creato le condizioni democratiche, dopo aver approvato i governi e aver avviato la vita parlamentare in Francia cerca di portare la sua persona, insieme alla sua famiglia, a Varennes con la speranza di giungere alla piazzaforte monarchica di Montmédy. Il piano però fallisce e la famiglia reale viene catturata al confine di Varennes-en-Argonne dalla Guardia nazionale comandata da La Fayette.
Quando la famiglia reale deve tornare a Parigi, si intuisce che l’Istituzione di una Monarchia Costituzionale in Francia sarà di breve durata. Il Re a Varennes chiude una stagione, perché tutto ciò che accadrà successivamente sarà un precipitare degli eventi storici: il 16 luglio l’Assemblea sospende il Re dalle sue funzioni fino alla nuova Costituzione. Difatti sul ritorno di Luigi XVI a Parigi, si innestano le preoccupazioni di tutte le Monarchie europee di Antico Regime.
La situazione politico-sociale disastrosa della Francia favorì un forte incremento dell’emigrazione (in gran parte nobili), confermando la progressiva radicalizzazione della Rivoluzione francese. Per cercare di contenere questa espansione rivoluzionaria entro i confini francesi, il 27 agosto 1791 Leopoldo II (imperatore del Sacro Romano Impero) e Federico Guglielmo II (re di Prussia), al termine di un incontro avvenuto a Pillnitz (dal 25 al 27 agosto) rilasciarono la Dichiarazione di Pillnitz, con la quale invitarono le potenze europee a intervenire contro la Rivoluzione francese per restituire i pieni poteri a Luigi XVI.
L’indignazione della popolazione dovuta alla maldestra fuga e successivamente per la dichiarazione di guerra di due Stati stranieri è al culmine. Per la popolazione francese, se un Re doveva essere mantenuto sul Trono da armate straniere, quel Sovrano perdeva completamente la sua legittimità. Dunque il Regno di Francia, che per secoli si era mantenuto forte e aveva espanso i propri domini nel mondo grazie alla Monarchia, nel 1792 perde completamente la propria autorevolezza.
Sarà in tale contesto che sorgerà la Repubblica: il 10 agosto 1792, 25.000 dimostranti muovono verso il Municipio, situato all’Hotel de la Ville, e sollevano dal potere il consiglio comunale per instaurare la Commune insurrezionale. Il primo obiettivo è quello di assaltare il Palazzo delle Tuileries, residenza del Re difesa dai migliori soldati di sempre della Maison du Roy: 1330 guardie svizzere, i militari più affidabili e fedeli di Luigi XVI ai comandi del marchese e tenente-colonnello Jean-Roch-Frédéric, di Maillardoz (1727 – 1792) . L’ordine è chiaro per la massa sanguinaria: «assediare il castello, sterminare tutti coloro che ivi si trovano, in particolare gli svizzeri e condurre il Re e la sua famiglia a Vincennes». La situazione dalle prime ore del mattino appare disperata: il Sovrano insieme alla famiglia si fa scortare alla Sala del Maneggio, chiedendo protezione all’Assemblea Legislativa, mentre nel palazzo avviene la più cruenta battaglia della Rivoluzione Francese. Le Tuileries è presieduto oltre che dagli svizzeri, anche da nobili della corte armati che respingono con prontezza quattrocento assalitori. La massa degli insorti si ingrossa e per i difensori non ci sarà quartiere: 600 uomini e 15 ufficiali vengono trucidati, ma il corrispettivo per gli assalitori è impressionante, con 3000 uomini lasciati sul campo.

Jean Duplessis-Bertaux, Presa del palazzo delle Tuileries (particolare), 1793.

Con la presa delle Tuileries, si dichiara decaduta la monarchia costituzionale e si convoca una nuova assemblea costituente, con Luigi XVI sospeso dalle sue funzioni e imprigionato con i suoi familiari nella Torre del Tempio, antico complesso fortificato medievale. Fu così che il 21 settembre la Convenzione proclamò la Repubblica.
L’anno successivo vedrà inesorabilmente inasprirsi il comportamento dei rivoluzionari, che introdussero la micidiale arma di decapitazione chiamata ghigliottina. La scrittrice ungherese, naturalizzata britannica, Emma Magdalena Rosalia Maria Josefa Barbara Orczy (1865 – 1947) ce ne fornisce una inquietante descrizione: «Era formata da due supporti paralleli in legno in quercia dell’altezza di poco più che tre metri, uniti in alto da una sbarra trasversale e ben fissati su una base sorretta da solidi contrafforti nella parte posteriore ai due lati. Era ben visibile, via via che ci si avvicinava al luogo angoscioso, la mannaia costituita da una lama di otto pollici sorretta da una corda a due capi che il boia pilotava, lasciandola andare quando la vittima, sdraiata sul ventre, stentava a muoversi con il collo impigliato nella cavità del ceppo. Tutt’intorno, la folla dei curiosi e dei vendicatori a stento trattenuta dalle guardie; mai più agitati, e soddisfatti, erano quei personaggi chiamati le “furie della ghigliottina”, che in gran parte si raccoglievano sotto il nome un po’ ironico di Società Fraterna». 
Con i primi eccidi la società tutta, reazionaria e rivoluzionaria, inizia a percepire che avviene in Francia un qualcosa di superiore ad un semplice cambiamento: sono stati tutti scivolamenti, non vi è stato momento nel quale, la società dell’epoca comprendesse l’attuazione di un vero e proprio progetto rivoluzionario e tanto meno chiamare tutta questa carneficina “Rivoluzione”. Passo dopo passo, il calendario diventa un orologio, accelerazioni, speranze che vengono bruscamente frenate e generano altrettante impennate. Nel gennaio del 1793, possiamo certamente annunciare quello che, Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre (1758 – 1794) definirà come il periodo del Terrore rivoluzionario. A farne le spese il 21 gennaio sarà proprio Luigi XVI di Borbone dopo una condanna quanto mai combattuta da parte dell’Assemblea Nazionale Costituente (17 gennaio) che si impose solamente con 387 voti contro i 334 degli oppositori.
Un eroico tentativo di difendere il Sovrano era compiuto dal barone Jean-Pierre de Batz (1754 – 1822) con il marchese Amable-Charles de La Guiche (1747 – 1794) al grido: «A nous, ceux qui veulent sauver leur roi»! Ma venivano subito aggrediti dalla folla inferocita e costretti alla fuga.

Un resoconto di quei drammatici istanti venne descritto dalla rivista Magicien républicain: «La carrozza arrivò alle dieci e un quarto ai piedi del patibolo eretto in Place de la Révolution, già Place Louis XV, di fronte al piedistallo su cui era stata innalzata e poi abbattuta la statua del tiranno di tal nome. Le strade di accesso erano difese da numerosi pezzi d’artiglieria. Arrivato a quel luogo terribile, Luigi Capeto fu consegnato ai carnefici. Questi si impadronirono di lui, gli tagliarono i capelli, lo spogliarono e gli legarono le mani dietro la schiena. Poi gli domandarono per tre volte consecutive se avesse ancora qualcosa da dire o da dichiarare al suo confessore. Poiché continuava a rispondere di no, l’abate lo abbracciò e, lasciandolo, gli disse: “Andate, figlio di San Luigi, il Cielo vi attende”».

Unico privilegio che venne concesso all’oramai ex-Sovrano fu la concessione di una carrozza che lo scortò sul luogo dell’esecuzione in Piazza della Rivoluzione, oggi Place de la Concorde. Libro dei salmi alla mano, vestito bianco, Luigi Capeto – come era stata ribattezzato dai rivoluzionari – giunto ai piedi della ghigliottina, mostrandosi estremamente calmo proferì le sue ultime parole: «Muoio innocente dei delitti di cui mi si accusa. Perdono coloro che mi uccidono. Che il mio sangue non ricada mai sulla Francia»! Avrebbe forse voluto pronunciare un’ultima arringa, ma i gendarmi non gli permisero oltre modo nulla. La situazione si era fatta concitata e la ghigliottina venne fatta calare prima che il collo del Re fosse nella giusta posizione: così più che una decapitazione fu uno smembramento. La testa maciullata di Luigi XVI fu comunque raccolta da un giovane membro della Guardia Nazionale che la mostrò alla folla in delirio, facendo un intero giro del patibolo.
Ucciso il Re, la Francia sarà in mano agli “ottimi avvocati di provincia” Robespierre, Georges Jacques Danton (1759 – 1794) e al medico Jean-Paul Marat (1743 – 1793): inutile dire che ben presto il Terrore rivoluzionario avrebbe travolto anche i propri paladini giustizialisti.
Arriviamo infine alla battaglia storica di Valmy del 1792. Perché storica? Ebbene la sua importanza fu di carattere filosofico. Difatti fu la prima decisiva vittoria degli eserciti rivoluzionari francesi contro le armate europee della conservazione austriache, prussiane e dell’Assia comandante dal duca di Karl Wilhelm Ferdinand di Brunswick-Wolfenbüttel (1735 – 1806), che avevano dichiarato guerra alla Rivoluzione.

Jean-Baptiste Mauzaisse, La battaglia di Valmy (particolare) – 1792.

Tale trionfo repubblicano, scardinò per la prima volta la tesi atavica riguardante l’aristocrazia dell’ex Regno di Francia, per la quale le tasse erano esentate: da questa battaglia decisiva il popolo si fa carico della difesa della Nazione (non più, appunto, del Regno). Avviene quella che lo storico francese Alphonse Dupront (1905 – 1990) definì «l’appropriazione della spada»: la spada era stato il segno del privilegio e anche naturalmente il segno dell’onore per il mondo nobiliare, ma adesso «la spada» appartiene all’intero popolo di Francia, che è pronto a morire per se stesso, per la Patria, dopo “aver ucciso” la Patria stessa.

 

Per approfondimenti:

_Giorgia Penzo, I processi a Luigi XVI e Maria Antonietta. Dal trono al patibolo – Genesis Publishing, 2017;
_Antonio Spinosa, Luigi XVI: L’ultimo sole di Versailles – Mondadori, 2010;
_Cesare Giardini, Varennes. La fuga di Luigi XVI. (1791) – Mondadori, 1932;
_Daria Galateria, L’etichetta alla corte di Versailles. Dizionario dei privilegi nell’età del Re Sole – Sellerio, 2016;
_Gabriele Mendella, La Maison du Roi 1690-1792 – Catalogo Mostra Milano;
_B.Buongiovanni, L.Guerci, L’Albero della rivoluzione: Le interpretazioni della Rivoluzione francese – Einaudi, 1989;
_François-René de Chateaubriand, Memorie d’oltretomba – Einaudi, 2015;
_Federico Chabod, Alle origini della Rivoluzione Francese – Passigli Editore, 1998;
_Orczy E. M. R. M. J. B., La primula rossa, Newton, 1997.
_Giuseppe Baiocchi, La crisi rivoluzionaria a partire da Joseph de Maistre – dasandere.it, 2018;
_Giuseppe Baiocchi, Talleyrand: un animale politico per tutte le stagioni – dasandere.it, 2018.

 

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