Sul concetto di Cracking art

di Giuseppe Baiocchi del 25/12/2018

Nelle cittadine italiane, negli ultimi anni, si è sviluppato un nuovo tipo di arredo urbano temporaneo, che ha preso il nome di Cracking art (Arte incrinata). Questo stile nasce con i monumenti permanenti dell’americano Claes Oldenburg (1929) proprio del periodo artistico del secondo dopo-guerra definito “Pop”, spesso in bronzo e di qualità tecnica più che eccellente, niente a che vedere con le attuali stampe in plastica.

Claes Oldenburg, Nelson-Atkins Museo d’arte, Kansas City (Stati Uniti). 

Successivamente ha avuto uno sviluppo, positivo per la critica, con il californiano Paul Mccarthy (1945), in cui l’immaginario Pop diventa pieno di allusioni carnali, feticiste e macabre; infine con il britannico Marc Quinn (1964), in cui l’artista affronta tale stile in maniera sia concettuale che figurativa. Dunque propriamente una forma d’artigianato anglosassone e soprattutto atlantica, che poteva ben adattarsi a spazi urbani moderni. Lo scivolamento concettuale di tale corrente si è palesato nel momento in cui si è voluto imporre al grande pubblico l’installazione di tale idea all’interno di antichi centri storici di media-grande capienza, il tutto alterando la materia delle installazioni che si è tramutata in semplice plastica.
Dunque si è pensato di installare nei centri storici italiani, animali fuori scala interamente prodotti con plastica definita “rigenerata”. Francamente la cultura “pop”, simbolo di un mondo in cui il divino è stato volutamente ucciso (Nietzsche docet – “Dio è morto e l’abbiamo ucciso noi”) rimanda esplicitamente alla teoria del vuoto nichilistico contemporaneo.
Per capire il pensiero intrinseco dietro l’opera bisogna smontarla come un giocattolo (tale è la sua forma) pezzo per pezzo, per sviscerare il vuoto che è dietro un’idea che ci consegna al grande abisso del “non senso”.
Come primo punto, tale arte proclama la “sostenibilità” materica, ma secondo il mio modo di vedere – che rispecchia la cultura Occidentale – l’arte non deve essere materica, non deve ostentare, ma deve unicamente creare pathos. L’arte è interiorità, sempre: qualsiasi forma diversamente concepibile, semplicemente non è arte, ma altro da questa.
La consapevolezza dell’avvento di un mondo sempre più artificiale ha spinto tale corrente ad essere diffidente, verso le criticità della nostra epoca, ma contrariamente sono proprio i nostri monumenti e la nostra arte tradizionale a fungere da baluardo alla deriva: non serve un orpello ulteriore, una epidermide, un ulteriore velo di Maya per constatare il già noto, che rimane sempre sotto gli occhi di tutti.

Un esempio di Cracking art (Arte incrinata) in una villa cinquecentesca italiana. Da notare come la visuale ed il conseguente giardino siano stati oggettivamente imbruttiti da tali installazioni. 

Non a caso la Cracking art si lega al termine di “invasione”, poiché deriva dalla caratteristica dei prodotti in plastica, che essendo ri-producibili in grandissime quantità, creano un effetto di vera e propria occupazione degli spazi. Pensiamo alle buste della spesa o alle microplastiche che creano continenti sottomarini. Inoltre la plastica viene utilizzata anche in medicina, come protesi da inserire nel corpo umano, invadendo di fatto sia l’ambiente che il singolo essere umano. Ebbene i nostri spazi devono cessare di essere invasi dal superfluo: quasi 100 anni fa Adolf Loos (1870 – 1933) proferì profetiche parabole “L’ornamento è delitto” e “la città è tatuata dall’orpello”. Solo una incomprensione di tali semplici fondamentali idiomi può portare oggi a compiere quel passo indietro che in natura solo i gamberi osano operare.
Altro pilastro di tale pensiero è l’elemento demografico: si vuole fare riferimento all’esplosione delle nascite di questi ultimi decenni e agli squilibri che ciò comporta (quali nascite se l’Italia è in recessione in tale campo?). È l’arte più sbagliata, quella che vuole consegnarsi direttamente all’individuo, attraverso “l’immagine imposta” – l’arte è l’esatto contrario: è scoperta, studio, intromissione in un mondo segreto, emozione intima – tale evento artistico, non emoziona, semplicemente incuriosisce.
Infine spazio alla materia: la plastica. L’arroganza di definire un materiale industriale “nobile” tanto quanto la pietra, il marmo, la creta, il bronzo è intollerabile. Diamo dignità alla plastica per la funzione di cui essa è stata resa celebre: la comodità funzionale. Traslare questa ad opera d’arte è invenzione.
Il primo prototipo dal quale viene poi ottenuto lo stampo adatto a questi sistemi di produzione, pone l’interesse meramente verso la serialità, simbolo della velocità che ci ha corroso tutti, verso le grandi opere e i grandi numeri.
Non si può amare la possibilità di riutilizzare molte volte la stessa plastica: infatti questa dopo qualche utilizzo per le installazioni, viene triturata e utilizzata per realizzare nuove opere. La grandezza dell’opera d’arte è la sua eternità e la sua capacità di emozionare “per sempre” – come cita Vittorio Sgarbi “l’opera d’arte deve emozionare sempre, non ha età” –, dunque non si può distruggere.
Mi impressiona e preoccupa il labile pensiero filosofico che vi è dietro: la teoria dell’universo infinito, l’internazionalizzazione, la fine delle identità dei popoli, poiché una “lumaca” (astratto simbolo zoomorfo) sta bene ovunque. Il bello delle etnie consiste nella propria diversità, soprattutto nel campo artistico. Semplicistica anche la teoria della rigenerazione e del mutamento: ogni opera d’arte, conservandosi, si ri-genera in ogni epoca, provocando un’emozione all’interno del cuore di ogni uomo “contemporaneo”.

Cracking Art: installazione sulle terrazze del Duomo di Milano. Osservare la stocasticità delle installazioni, completamente fuori contesto con l’ambiente storico e soprattutto la mancanza di rispetto verso l’elemento religioso. 

In conclusione il pensiero va all’oggetto protagonista: l’animale. L’uomo non c’è, poiché non solo si è barbarizzato, ma è evaporato nell’istinto animale. Tutto il contrario di tutto: avviene uno svuotamento valoriale, dove gli animali vengono posizionati come pedine in una scacchiera astratta, senza minimamente studiare il luogo – ma quale animale, finto e di plastica, starebbe bene in una piazza storica? Per secoli il valore culturale e antropologico che l’elemento zoomorfo ha contraddistinto nei dipinti e nelle sculture, viene meno per consegnare un astratto simbolo della bestia. La fiera diviene messaggera di pensieri adeguati alla nostra contemporaneità. Ogni rappresentazione di una nuova opera viene quindi valutata in base al compito di messaggero che gli si vuole affidare: chiamasi semplificazione massimale dello svuotamento concettuale del pensiero umano, che banalizza tutto, anche l’animale (la teologia aiuta).
Il desiderio di questi pseudo-artisti è quello di generare quello stupore che sia in grado di far emergere in ogni persona una sensazione di piacere e felicità, ma l’arte non è certamente questa: essa, come affermato pocanzi è pathos.
Credo che Arte incrinata – termine anglofono a parte – sia il giusto compimento della deriva che ci circonda: dal Grande Fratello ai programmi delle coppie anziane trasmesse al pomeriggio sui canali nazionali. Ma c’è ancora chi, in silenzio, si erge, crea vera arte, costruisce la sacralità, con il vero talento dell’artista: gli scogli di marmo della contemporaneità.

 

Per approfondimenti:
_Philippe Daverio, Domenico Pertocoli, Arte stupefacente: da dada al cracking art, Mazzotta 2004;
_Luca Beatrice, Tommasi Trini, Cracking Art, Adriano Parise, 1993;
_Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, 1992;
_Gianelli, Ida and Beccaria, Marcella (editors) Claes Oldenburg Coosje van Bruggen: Sculpture by the Way Fundació Joan Miró 2007.

 

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