Nelle cittadine italiane, negli ultimi anni, si è sviluppato un nuovo tipo di arredo urbano temporaneo, che ha preso il nome di Cracking art (Arte incrinata). Questo stile nasce con i monumenti permanenti dell’americano Claes Oldenburg (1929) proprio del periodo artistico del secondo dopo-guerra definito “Pop”, spesso in bronzo e di qualità tecnica più che eccellente, niente a che vedere con le attuali stampe in plastica.

Claes Oldenburg, Nelson-Atkins Museo d’arte, Kansas City (Stati Uniti).
Successivamente ha avuto uno sviluppo, positivo per la critica, con il californiano Paul Mccarthy (1945), in cui l’immaginario Pop diventa pieno di allusioni carnali, feticiste e macabre; infine con il britannico Marc Quinn (1964), in cui l’artista affronta tale stile in maniera sia concettuale che figurativa. Dunque propriamente una forma d’artigianato anglosassone e soprattutto atlantica, che poteva ben adattarsi a spazi urbani moderni. Lo scivolamento concettuale di tale corrente si è palesato nel momento in cui si è voluto imporre al grande pubblico l’installazione di tale idea all’interno di antichi centri storici di media-grande capienza, il tutto alterando la materia delle installazioni che si è tramutata in semplice plastica.
Dunque si è pensato di installare nei centri storici italiani, animali fuori scala interamente prodotti con plastica definita “rigenerata”. Francamente la cultura “pop”, simbolo di un mondo in cui il divino è stato volutamente ucciso (Nietzsche docet – “Dio è morto e l’abbiamo ucciso noi”) rimanda esplicitamente alla teoria del vuoto nichilistico contemporaneo.
Per capire il pensiero intrinseco dietro l’opera bisogna smontarla come un giocattolo (tale è la sua forma) pezzo per pezzo, per sviscerare il vuoto che è dietro un’idea che ci consegna al grande abisso del “non senso”.
Come primo punto, tale arte proclama la “sostenibilità” materica, ma secondo il mio modo di vedere – che rispecchia la cultura Occidentale – l’arte non deve essere materica, non deve ostentare, ma deve unicamente creare pathos. L’arte è interiorità, sempre: qualsiasi forma diversamente concepibile, semplicemente non è arte, ma altro da questa.
La consapevolezza dell’avvento di un mondo sempre più artificiale ha spinto tale corrente ad essere diffidente, verso le criticità della nostra epoca, ma contrariamente sono proprio i nostri monumenti e la nostra arte tradizionale a fungere da baluardo alla deriva: non serve un orpello ulteriore, una epidermide, un ulteriore velo di Maya per constatare il già noto, che rimane sempre sotto gli occhi di tutti.
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