29 Nov Lineamenti di storia musicale medievale
di Carlotta Travaglini 30/11/2018
La scrittura si presta di per sé ad essere inserita fra gli elementi del divino, in quella dimensione dove le facoltà intellettive non hanno patrocinio. Il collegamento istantaneo con qualcosa di immateriale è palesato ancora di più dalla musica: «La musica non rappresenta “cose” ma “ciò che noi conosciamo” delle cose in quanto “oggetti elaborati” e in quanto “contenuti mentali”». Così lo studioso Franco Vaccaroni riassume il ponte immediato che la musica crea con le cose, pur essendo essa, un’entità sonora, afemica, incapace di trovare espressione nella parola.
Anche dopo un ascolto passivo, tuttavia, un qualsiasi fruitore può essersi trovato a conferire alla melodia un contenuto emotivo.
Siamo soliti avvertire reminiscenze suggeriteci in qualche modo dalla musica per mezzo di quella che è, in realtà, una metafora. Se si pone come esempio il temporale estivo dall’ultimo movimento dell’Estate di Vivaldi, all’ascolto avviene la percezione stessa della pioggia scrosciante nei percussivi staccati degli archi. Non a caso Vivaldi intitolò il concerto L’estate: poiché la mente umana crea sempre un’associazione tra quanto è evocato dall’ascolto, così il titolo e la metafora suggeriscono indirettamente la data immagine.
È inscindibile il legame tra l’apprendimento e l’esperienza emotiva di una melodia, poiché i due enti si simbolizzano in un unicum. Innescando, per sua natura, meccanismi allusivi ‘involontari’, la musica ha una potenzialità comunicativa infinita e si presta a correlazioni ed interrelazioni. Una melodia può, di volta in volta, variare nell’ascoltatore il contenuto emotivo da suggerire, cosicché, pur rimanendo immantinente nella forma, continui senza sosta ad evolversi nel tempo.
Lo spartito resta lo stesso, ma ogni nota sonda una voragine complessa, evocando, suggerendo, resuscitando. La relazione con un qualcosa di esterno pone dei vantaggi non indifferenti: nell’apprendimento di una melodia, ad esempio, è utile associare quanto si deve apprendere ad un qualcosa di esterno, come in una qualsiasi mnemotecnica. Di qui, l’associazione con il testo.
Immergendoci all’interno della storiografia, la comparsa della canzone profana in lingua d’oc ci incuriosisce, nella mancanza di suoi precedenti storici. Quale ruolo avesse una musica extra- e para-liturgica nella vita di un uomo del Medioevo non ci è dato saperlo da testimonianze dirette, ma solo da lasciti di teologi, cronisti, scrittori e poeti. Basiamo la presenza di un repertorio profano nell’Alto Medioevo sull’accanita persecuzione mossagli contro dalla Chiesa. Gli histriones del mondo latino continuarono, tuttavia, la loro attività, mescendo il lato più ludico della teatralità con il canto.
Sondarne il repertorio significa toccare con mano una nenia familiare, non solo perché nota al pubblico ma perché portata a suggerirgli affettatamente qualcosa.
Inizialmente cantato in latino, questo repertorio proviene da varie aree europee legate al Sacro Romano Impero o in qualche modo all’area carolingia, oppure appartiene a tradizioni di clerici itineranti, noti come clerici vagantes. Questi, perlopiù studenti, dedicano la propria vita ai viaggi ed ai piaceri, e la portata della loro cultura si evince dal frequente ricorso al contrafactum, costume di adattare un nuovo testo ad una melodia preesistente. Sono noti per aver diffuso i Carmina Burana, raccolta di canti goliardici di argomento satirico e lascivo. Tuttavia questi canti risalgono già al 1230: dei 228 componimenti 47 di essi sono già in alto tedesco, e nel complesso risentono probabilmente dell’influenza della monodia trobadorica, che già vantava di almeno tre generazioni di cantori.
La monodia profana resta la prassi più frequentata: diversa dalle complesse forme d’arte di ambito strettamente ecclesiastico e funzionale alle esigenze della società feudale dell’epoca, è in latino come nelle lingue volgari, e per la sua portata raggiunge i più disparati strati sociali. Gli scambi commerciali, l’economia monetaria e l’ordinamento feudale hanno aperto le strade ad una nuova visione laica dell’espressività artistica. Non sono più soltanto i monasteri a godere del ruolo di “guida universale” di cui li aveva insigniti il Medioevo: nelle scuole delle grandi città insegnano laici e trovano spazio le lingue volgari, annullando l’ultracentenario monopolio religioso e determinando un inizio di secolarizzazione della cultura.
I generi apicali della monodia profana latina si fanno risalire al conductus, diverso dall’omonima forma polifonica, e al rondellus, genere basato sulla sovrapposizione di diversi schemi melodici, sulla scia della rota medievale, costruita su un canone circolare perpetuo.
La reiterazione e la circolarità sono elementi basilari per l’apprendimento di un canto che non conosce una trascrizione grafica. I testi vengono intonati, cantati agli altri e nuovamente intonati-cantati sul momento dai fruitori: l’apprendimento avviene in praesentia, tutto è correlato alla contingenza.
Il bisogno di annotare, appuntare, sorge dall’evoluzione di queste forme, che raggiungono virtuosismi difficilmente ripetibili senza. Il carattere dei primi testi profani è inizialmente parodistico, gaio – come è usuale, nel mondo popolare, che qualcosa che abbia un seguito sfoci nell’ambito del grottesco, della satira mordace e grossolana. Quando assumerà un certo riconoscimento, inserendosi, cioè, in un preciso contesto socio-culturale, il canto profano troverà una diversa risoluzione, e salirà di grado rispetto alla sua originale destinazione.
Nel Medioevo la prassi musicale fu soprattutto destinata alla liturgia, e si sviluppò per esigenze di organizzazione ecclesiale. Ai primordi del canto liturgico si distinguono due diverse prassi, l’accentus ed il concentus, simili alle moderne accezioni di recitativo ed aria. L’accentus, che probabilmente trovò spazio per primo, consiste nella recitazione intonata delle preghiere: ad ogni sillaba corrisponde una nota, salvo per le lunghe cadenze finali, che marcano la chiusura del verso.
Esisteva, tuttavia, una maniera più ammaliante di cantare in un repertorio di testi estranei alle Sacre Scritture, gli inni. Questi, contrariamente ai normali testi liturgici, sono scritti in versi, e si basano non più sulla severa metrica quantitativa della poesia classica ma sulla moderna distribuzione degli accenti e sulle rime. Le melodie si improntano su di essi e raggiungono una maggiore indipendenza sonora: “nasce”, così – come afferma Massimo Mila: «la misura del suono, che apre le porte dell’irrazionale, comunica con esso e apre nuovi canali comunicativi».
La prima forma adottata dalla Chiesa d’Occidente prende il nome di Canto Gregoriano, dal nome di Papa Gregorio Magno che, secondo la tradizione, raccolse tutti i canti liturgici esistenti nella raccolta Antiphonarium Cento o, come riferisce il suo biografo Giovanni Diacono, si occupò della prima collezione di canti liturgici. Sono scritti in latino, lingua ufficiale della chiesa e della liturgia.
Fondamentale fu l’apporto di Severino Boezio, che nel suo De Istitutione Musicae riprese le principali nozioni di teoria musicale greca, desunte dagli scritti di Tolomeo, e le ampliò, creando de facto una teoria musicale latina.
La pratica dell’accentus, la lettura intonata di passi della liturgia, derivava dall’antica salmodia ebraica, ancora largamente eseguita nella liturgia delle ore e, “frammentata”, anche nella liturgia della messa: fu San Gerolamo ad occuparsi della traduzione in latino di 150 salmi ebraici.
Della liturgia delle ore facevano parte anche gli inni, che avevano un eco più popolare per le melodie di facile apprendimento, la ritmica del testo in versi e la melodia stessa, che procedeva sillabicamente.
Il repertorio gregoriano si basa sui cosiddetti modi, scale eptafoniche di genere diatonico e di senso ascendente. I modi si suddividono in autentici e plagali, i quali sono sempre una quarta sotto il relativo modo autentico. Ogni modo autentico ha in comune col corrispettivo plagale la finalis, chiamata così perché è la nota su cui termina di solito il brano. Le finalis sono quattro: re, mi, fa, sol. Un’altra nota caratteristica all’interno del modo è la repercussio, chiamata così perché è intorno ad essa che si muove la melodia. Si trova una quinta sopra la finalis nei modi autentici ed una terza sopra ad essa nei modi plagali (eccetto per: III modo – una sesta sopra; IV – una quarta sopra; VIII – una quarta sopra). I modi sono in tutto otto, e ad essi vengono applicati gli stessi nomi dei modi greci.
Lo stile è omofonico: un canto può essere eseguito da un solista o da tutti i cantori insieme. Non c’è alcun accompagnamento musicale, il ritmo è libero, scandito dalla sola cadenza delle parole. Tuttavia l’esecuzione poteva avvenire in maniera diretta (omofonia, omoritmia, o esecuzione solistica), responsoriale (canto del solista praeceptor a cui rispondeva poi il coro), antifonica (esecuzione alternata da parte di due gruppi). Gli esecutori sono i monaci della schola cantorum, i fedeli, gli officianti. Quando nel corso del tempo la liturgia delle ore comincia a perdere d’importanza cresce di prestigio la messa, nella quale l’espressione vocale prevalente è quella del concentus, cioé del canto melodico libero, affidato quasi sempre a cantori professionisti, lasciando così ai fedeli l’intonazione di salmi. L’esecuzione del concentus poteva avvenire in forma sillabica (una nota, raramente 2/3/4, per ogni sillaba), semisillabica (per ogni sillaba ci sono due, tre o quattro note), melismatica (le melodie sono riccamente fiorite, ad ogni sillaba corrispondono una molteplicità di note eseguite in maniera libera). Quest’ultima deriva dalla prassi ebraica di eseguire vocalizzi più o meno estesi su parole significative o rituali, e nella prassi liturgica cristiana si stabilizza in alcuni canti.
Passando gradualmente da un’organizzazione democratica, qual era quella dei monasteri, all’accentramento autoritario della curia papale, sorge, infatti, nei piccoli gruppi di cantori-ecclesiastici, un’ambizione virtuosistica spontaneamente sentita nei testi di giubilo. Notoriamente, l’Alleluia, espressione massima di gioia, comprendeva degli ampi e difficili passaggi melismatici nelle sillabe finali, e le loro arditezze col passare del tempo affaticavano la prassi mnemonica fino all’impossibile. Si iniziò a riempire le lunghe jubilationes con versi appositamente composti, che facevano corrispondere ad ogni sillaba una nota: l’apprendimento era facilitato dal riuso di una prassi già nota, come se al termine di un canto se ne dovesse imparare un’altro complementare ad esso.
Così gli interminabili vocalizzi alleluiatici danno alla luce la sequentia, forma di farcitura scritta appositamente. Il monaco Tutilone, del monastero di San Gallo, crea invece il tropo, corrispettivo prosastico della sequenza, che consiste in un’aggiunta o inserzione ai canti liturgici. Questi scorci di inventiva sorgono in un panorama di canti codificati, frustrati dalla rigorosa prassi della liturgia.
Nel XII secolo ha inizio la cosiddetta Ars Antiqua, con cui si afferma compiutamente la prassi polifonica, dapprima soltanto sperimentata, e si ratificano le conquiste fondamentali della notazione su rigo, che consente di stabilire l’altezza dei suoni da eseguire, e l’assunzione di figure di valori convenzionali per stabilire il ritmo delle note. Inizialmente il problema dell’amensuralità si era risolto estendendo i modi, che circoscrivevano i ‘range’ delle varie melodie, agli infiniti valori ritmici: la scuola di Notre-Dame inventa i modi ritmici.
In seguito nasce la notazione mensurale. La scrittura dell’altezza delle note è, a quest’epoca, un campo in continua evoluzione, non solo per occorrenze teoriche ma soprattutto per un uso pratico e funzionale a diretta disposizione delle persone del mestiere.
Esisteva da sempre una notazione alfabetica, che indicava le sette note con le prime sette lettere dell’alfabeto, dall’A (la) al G (sol), e che utilizzava le lettere maiuscole e minuscole per differenziare le ottave. In seguito fa la sua comparsa la notazione neumatica, usata in particolare nelle scholae cantorum, che indicava con dei segni grafici l’altezza dei suoni e la natura degli intervalli: segni che, appunto, prendono il nome di neumi.
Con Guido D’arezzo (XI sec.) si stabilizza definitivamente la notazione su rigo: si utilizza un tetragramma, composto da quattro linee e tre spazi su cui venivano collocati i neumi, di segno quadrato (notazione quadrata). Con l’epistola “ad Michaelem de ignoto cantu” e il “Prologus in Antiphonarium” stabilizza il nuovo sistema di scrittura inventando le rispettive posizioni delle note sulle righe e negli spazi, fissando così l’intervallo esatto tra le varie note e codificandone i valori nella forma di un quadrato o un rombo.
Il tutto doveva essere di grande aiuto ai cantori, che dovevano eseguire ed imparare a memoria un enorme numero di canti. I neumi nascono da esperimenti sui segni convenzionali della metrica classica. Gli accenti acuto, grave e circonflesso collocati sopra i testi, che prima indicavano soltanto una direzione da far seguire alla voce, vengono prima ripresi dalla gestualità delle mani del praecentor in una sorta di prima chironomia, poi vengono elaborati e rielaborati nella pratica scritta assumendo specifiche forme tese ad indicare note o gruppi di note.
Dunque, una melodia conchiusa in un ambito modale viene regolarizzata nella norma mensurale della musica scritta.
È dopo l’anno mille che i canti a destinazione profana conquistano la propria autonomia. I modi gregoriani sono come tante ottave inizianti ognuna su un grado successivo della scala, ma senza intervento di diesis o bemolli. Dunque in ogni modo gli intervalli tra le note cambiano, non ci sono le polarizzazioni dell’armonia classica, “le frasi non concludono ponendo un limite, ma lasciando una larga prospettiva aperta al pensiero” (Combarieu) . La frase musicale si sviluppa indipendentemente da ogni coerenza raziocinante .
Il gregoriano afferma una sua incrollabile unità, che non è l’unità di conquista della musica romantica: è un’unità eternamente posseduta, senza alcuno sforzo. Non il divenire ma l’essere, sempre totale e sempre uno. Come afferma Bellaigue: «È l’unità dell’uomo con se stesso, unità spirituale e interiore; l’unità che l’uomo godeva prima della colpa originale».
L’ultimo periodo del gregoriano subisce lo smottamento delle rovine dell’impero romano, con conseguente sgretolamento del latino e germogliare delle lingue romanze – la poesia ritmica si forma parallelamente al materiale stesso del canto, la lingua. Gli inni e le sequenze suggeriscono già una cultura moderna, non improntata all’alterità della cultura di chiesa ma partecipe dell’afflato umano, il canto dell’individualità che parla a molti.
«È l’affermazione della nazione nuova nella concreta individualità regionale contro l’astrazione retorica delle antiche memorie romane».
La nascita della monodia profana appare tanto più strabiliante perché non possiede precedenti locali. Da una tradizione latina austera e rigorosa vediamo per la prima volta adottata una lingua nazionale per cantare ed eseguire testo e musica contemporaneamente. È qui che si manifesta l’orientamento più laico della cultura: la società cortese e cavalleresca apre le porte alla storia della poesia moderna più spiccatamente individuale e soggettiva.
L’adozione insperata della mutevole lingua neonata è straordinaria: nascono caratteri nuovi, ritmati, che la accompagnano pedissequamente. Legata alla danza, la monodia profana assume quel taglio netto, incisivo che ha un passo, un movimento, uno scatto, e la melodia sembra gradevole alle orecchie di un moderno e non più del tutto estranea alla propria abitudine sonora.
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay, Storia della musica, Torino, Einaudi;
_Elvidio Surian, Manuale di storia della musica, vol.1, Rugginenti (6°);
_Massimo Mila – Breve Storia della musica – Torino, Einaudi, 2005.
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