
05 Giu Emil Cioran, un pensatore antiaccademico
di Antonio Di Gennaro 05/06/2018
«L’Università è lo spirito in lutto. Si insegna la filosofia nell’agorà, in un giardino o a casa propria». Associare il nome di Cioran (1911-1995) al mondo accademico suona un po’ strano, una contraddizione di termini, un controsenso, un nonsenso. Di solito Cioran è osteggiato dai “filosofi di professione” e considerato un “filosofo secondario”: consultando i manuali di Storia della filosofia, Cioran non è nemmeno citato in qualche nota.

Emil Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno, naturalizzato francese, tra i più noti del XX secolo.
L’interrogativo sorge spontaneo: in virtù di che cosa un autore, uno scrittore, un poeta può essere considerato filosofo? In generale: chi è filosofo? Cosa determina l’appartenenza alla filosofia, quasi che la filosofia fosse una categoria o un “ordine professionale” come quello degli architetti, dei medici o degli ingegneri? La filosofia non è qualcosa di assolutamente altro e di imparagonabile?
Non vogliamo affermare “un più”, ovvero un sapere più alto – rispetto ai saperi positivi come la matematica, la fisica, la chimica -, ma “un meno”: una sottrazione che giunge al niente, al nulla, alla nullità di tutte le cose, ma è proprio in questo “niente”, in questo meno di niente, in questa assenza, in questa mancanza, in questa privazione di determinazione, in questa indeterminatezza che la filosofia rinviene la propria origine e la propria ragion d’essere, la propria essenza, perché la filosofia non ha a che fare solo con le cose, o con la nostra rappresentazione delle cose esterne, ma originariamente con il senso interno, intimo – ovverossia con la relazione patica – che di volta in volta istituiamo con il mondo, a partire dal fatto sconcertante, perturbante e assolutamente assurdo di essere stati gettati nel mondo.
La filosofia, prima ancora di essere una questione intellettiva – quindi riflessione, pensiero della vita -, è una questione di sentimento, di vissuto, di stati d’animo, di tonalità affettiva, soprattutto quando le nostre emozioni si orientano verso lo spettro del negativo (la solitudine, il dolore, la malinconia, l’angoscia, la noia, la morte). E quindi, per dirla con Heidegger: «la filosofia è il sapere dell’essenza delle cose, sapere immediatamente inutile, benché sovrano». La filosofia, in altre parole, è un sapere inutile perché non serve a niente, ma essa non vuole servire a qualche cosa, la filosofia semplicemente è una problematizzazione del niente, ossia di quel niente che ci abita, di quel niente di cui non sappiamo niente e che dimora in noi: la nostra anima, la psiche, l’inconscio, l’Ombra o come vogliamo chiamarla: ciò che noi siamo nella profondità del nostro essere, l’interiorità del soggetto, l’insondabilità, la misteriosità e l’ineffabilità dell’esistenza umana.
Ora, se c’è un autore che ha messo al centro della propria riflessione speculativa questa dimensione oscura dell’umano, se c’è un autore che ha posto al centro della propria interrogazione filosofica, l’inconveniente di essere nati, la tragicità della vita, la drammaticità dell’esistere, questi è Emil Cioran.

Se prendiamo le sue opere (sia quelle del periodo rumeno che quelle francesi), sulla scena, quindi sul palcoscenico, si muovono sempre gli stessi “demoni interiori”: la solitudine, il cafard, la noia, la disperazione. Cioran è un maestro perché è capace di descrivere tutte le sfumature di ogni stato emotivo, attraverso le “pennellate” della propria scrittura. Al centro della sua visione del mondo vi è un disagio, un dolore, un’angoscia. Cioran avverte il distacco dalla vita, la repulsione, la non-integrazione e in tutte le sue opere egli racconta di questa esperienza, di questo sentimento di scissione e di lacerazione, di questa inquietudine esistenziale, di questo “esilio metafisico”.
Ma non si limita a questo: in Cioran è decisivo il tema del corpo, della corporeità, poiché la sua filosofia è impensabile senza la fisiologia. Cioran non parla di un Io impersonale, dell’esistenza come categoria generale, ma chi parla è un Io in carne ed ossa, che sente, che si sente, che soffre, che patisce, che ricorda, che piange, che rimpiange. È un Io che ama, che vibra, che si emoziona, che si appassiona, che si commuove, che desidera, che vuole. La filosofia di Cioran è quindi una filosofia della carne, del cuore, dei nervi, del respiro, degli occhi, dello sguardo e del silenzio. Non è una filosofia della mente astratta, ma una filosofia del cuore pulsante, che palpita, una filosofia dei sentimenti, delle emozioni che accadono dentro di noi e che ci avvincono. Quella di Cioran è dunque un’anima straziata, un’anima lacerata, graffiata, squarciata come le tele di Lucio Fontana. Un’anima in pena, che ama profondamente la vita, ma che ha conosciuto ben presto l’echec, il fallimento, “il sentimento tragico della vita”.
Cioran, da apolide, inizia a girovagare per la Francia con una bicicletta d’occasione, conoscendo un mondo che a lui appariva più veritiero: non si avvale di libri teorico-accademici, o di conversazioni con filosofi e scrittori di successo o con critici letterari da adulare, ma con i mendicanti, i barboni e le prostitute, compagni ideali per cogliere, a suo modo di vedere, il vero volto della vita e non la sua farsa con le sue “maschere borghesi”. Sono questi i maestri ispiratori, i professori autorevoli, gli interlocutori privilegiati, i punti di riferimento imprescindibili, alla cui scuola si forma Emil Cioran: gli ultimi, gli emarginati, gli estromessi, i filosofi della strada, il mondo dei reietti.
Emblematico in tal senso il suo rapporto con l’intellighenzia parigina del dopoguerra. A Parigi, pur frequentando per anni il Cafè de Flore, sedendo praticamente l’uno accanto all’altro, Cioran e Jean Paul Sartre non scambieranno mai parola alcuna. Questa diffidenza è sintomatica rispetto a due diverse, opposte concezioni della filosofia: da un lato quella di Sartre, impegnata, anche da un punto di vista politico e riconosciuta quale una delle espressioni più alte dell’esistenzialismo contemporaneo, dall’altra, invece quella di Cioran, assolutamente privata, isolata, ritirata e al tempo stesso snobbata dai circuiti accademici, allora come oggi. E quando Albert Camus, altra autorevole voce dell’esistenzialismo francese, nello stesso caffè, gli consigliò amichevolmente di entrare “nella circolazione delle idee”, l’impassibile Cioran, laconicamente rispose: “Vai a farti fottere”.

Gli scrittori e gli intellettuali rumeni che, dopo la seconda guerra mondiale, scelsero l’esilio, non cessarono di fare domande sulla pertinenza della loro scelta. Così come quelli che avrebbero potuto andarsene, ma non l’hanno fatto, considerando che uno scrittore rumeno deve difendere il rumeno a casa sua. Nella foto: Emil Cioran, Eugen Ionescu e Mircea Eliade, Place Fürstenberg, Parigi 1986.
Come aveva già confidato all’amico Bucur Ţincu in una lettera del 23 novembre 1930: «All’università si discute di cose così noiose che a pensarci ti prende la disperazione». E ancora, in una missiva inviata a Petre Comarnescu il 1 giugno del 1934, quando Cioran frequenta i corsi di filosofia a Monaco, risulta ancora più categorico e sprezzante: «L’università mi interessa meno di una vecchia matrona».
Ecco il filo conduttore dell’intera produzione filosofica di Cioran: la tematica dell’addio alla filosofia. Cioran in altre parole è “al di là della filosofia”, se per questa intendiamo lo studio critico, rigoroso, ma assolutamente sterile e autoreferenziale (se si riduce solo a questo) dei pensatori del passato. Nei Quaderni, opera pubblicata postuma, scrive: «Uno dei rari vantaggi che ho avuto è stato di aver capito a vent’anni che la filosofia non dà nessuna risposta, e che perfino le sue domande sono inessenziali».
La strada che sceglie Cioran è quella antiaccademica. Una via che lo porterà a concentrare la propria attenzione su di sé, in quanto pensatore privato, non esistenzialista, ma pensatore esistenziale: «Tutti parlano di teorie, di dottrine di religioni; insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto, di diretto. La filosofia e il resto sono attività derivate, astratte nel peggior senso della parola. Qui tutto è esangue. Il tempo si converte in temporalità, ecc. Un ammasso di sottoprodotti. D’altro canto gli uomini non cercano più il senso della vita partendo dalle loro esperienze, ma muovendo dai dati della storia o di una qualche religione. Se in me non c’è niente che mi spinga a parlare del dolore o del nulla, perché perdere tempo a studiare il buddhismo? Bisogna cercare tutto in se stessi, e se non si trova ciò che si cerca, ebbene, si deve lasciar perdere. Quello che mi interessa è la mia vita, non le dottrine sulla vita. Per quanti libri sfogli, non trovo niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico» (Quaderni, pp. 148-149).
Per approfondimenti:
_Emil Cioran, L’intellettuale senza patria (Intervista con Jason Weiss), a cura di A. Di Gennaro, Mimesis, Milano-Udine, 2014;
_Emil Cioran, Vivere contro l’evidenza (Intervista con Christian Bussy), a cura di A. Di Gennaro, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2014;
_Emil Cioran, I miei paradossi (Intervista con Leonhard Reinisch), a cura di A. Di Gennaro, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2017;
_Di Gennaro, Metafisica dell’addio. Studi su Emil Cioran, Aracne, Roma, 2011;
_G. Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita, a cura di A. Di Gennaro, Mimesis, Milano-Udine, 2018;
_V. Fiore, Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, Nulla Die, Piazza Armerina (EN), 2018.
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