Il romanzo destinale del Barry Lyndon di Thackeray

di Giuseppe Baiocchi del 19/05/2018

Le Memorie di Barry Lyndon vengono scritte dall’inglese William Makepeace Thackeray (1811 – 1863), influenzato dalla celebre «letteratura delle canaglie», ma soprattutto dal romanzo picaresco. Difatti Barry – protagonista del romanzo – in realtà è un guascone in buona fede: il termine pícaro, dallo spagnolo briccone, furfante, appare per la prima volta nella Farsa salamantina (1552) di Bartolomé Palau e successivamente sarà identificazione di una narrazione apparentemente autobiografica, fatta in prima persona e in cui il fittizio protagonista descrive le proprie avventure dalla nascita alla maturità. Lo sforzo interpretativo nel capire il protagonista da parte del lettore è molto alto, ed è uno dei motivi del successo di questo romanzo ottocentesco.

Samuel Laurence, William Makepeace Thackeray (particolare). Romanziere e autore britannico. È noto per le sue opere satiriche, in particolare Vanity Fair, un ritratto panoramico della società inglese.

 

Ma chi è Barry Lyndon? È un uomo nuovo per i tempi del Settecento, all’interno del quale l’autore non risparmia critiche delicatamente velate verso gli illuministi, i tories, i wits e l’intera corte di Giorgio III; un po’ romanzo gotico, con un discreto retrogusto rococò, unito a sprazzi di neoclassicismo. L’autore sembra difatti giudicare con distacco un’epoca considerata conclusa, ma ampiamente rimpianta. L’opera racconta essenzialmente una vita di solitudine, la stessa che lo scrittore assaporerà mentre completava il romanzo in antichi palazzi d’oriente, lontano dalla sua Inghilterra. L’immersione in un Settecento di sogno è presente per gran parte del romanzo: non a caso il nome originale dell’opera si intitolava «Un romanzo del secolo scorso».
Opera di difficile collocazione morale, Thackeray ci consegna Redmond Barry, membro della gentry irlandese, il quale cercherà per tutta la vita di farsi includere all’interno dell’aristocrazia inglese. Non è un personaggio malvagio, poiché durante la storia egli sarà coraggioso, generoso, pronto a mescolarsi a genti di ogni ceto, per via delle sue “decantate” origini aristocratiche, di cui non conosceremo mai a fondo la verità. Tutte queste virtù sono in parte manifestazioni di ambizione, vanità e snobismo, ma proprio per questo ci formano un uomo completo, pieno di pregi e difetti, che crea vere e proprie interpretazioni soggettive da parte di chi legge l’opera, consacrando le sue “Memorie” alla contemporaneità.
Originariamente pubblicato con il titolo «The Luck of Barry Lyndon: A Romance of the Last Century by Fitz-Boodle» sulla rivista inglese Fraser’s Magazine nel 1844 a puntate, il romanzo verrà tacciato come immorale dai suoi contemporanei: lo scozzese Theodore Martin (1816 – 1909) parla di un’esperienza soffocante attraverso una lettura piena di «libertini e truffatori, bari e ruffiani».
L’idea-forza del personaggio spesso può aver tralasciato qualche rifinitura o dettaglio all’interno del racconto, ma l’innovazione sotto il punto di vista letterario, per l’epoca, è certamente il recupero della narrazione in prima persona, usato successivamente solo con Dostoevskij, il quale si andava discostando dal romanzo vittoriano.

Come afferma Tommaso Giartosio: «Barry Lyndon è dunque una foce attraverso cui il largo fiume del moralismo a sfondo sociale dell’epoca vittoriana sbocca paradossalmente nel rigagnolo fetido, ma profondissimo, dell’analisi etico psicologica moderna». Difatti la genialità del britannico risiede nell’aver liberato un generico “cattivo romanzato” dall’uso del moralistico e oggettivo “lui”, sempre simbolo di distacco e negatività da parte di chi ci scrive l’opera. Ripudio di una facciata estetica per prediligere una piacevole lettura.
William M. Thackeray stravolge nel suo romanzo alcune convenzioni che lo avevano legato, nelle sue precedenti opere, alla tradizione vittoriana incarnata nei personaggi, come il desiderio e il dovere. Difatti, tutto il capolavoro La fiera della vanità, è scandito tra bene e male, sancendo comunque il grande successo del britannico. In Barry Lyndon, di contro, ogni personaggio ha dentro di sé non più un unico valore prestabilito, ma una pluralità di sentimenti e azioni: in poche parole il bene e il male. Poche, pochissime le vere figure del dovere, come il generale Magny, il pastore protestante e il precettore Redmond Quin, sono spesso ai margini di questo racconto.
Per paradosso la scalata sociale del nobiluomo Redmond Barry, sembra avverarsi con il matrimonio con una Lyndon, di cui appunto prenderà il cognome. Ma lo sgambetto del destino è dietro l’angolo: difatti l’autore non “punisce” il protagonista analizzando l’etica e la morale delle sue azioni durante tutta la storia, ma per la sua natura stessa: Barry Lyndon, occorre nuovamente affermarlo, ci trasmette la sensazione che le sue “imprese” provengano da una energia intrinseca la personaggio, la quale gli avrebbe consentito di arrivare al successo, qualsiasi fosse stata la sua nascita sociale. Ma ciò che Dio dà, Dio toglie: difatti il protagonista soffre terribilmente le situazioni di stallo, che lo portano in breve tempo al suo scivolamento, come egli stesso afferma: «Sono proprio una di quelle persone nate per guadagnarsi una fortuna, ma non per tenersela» – raggiunto il vertice, gli scopi si concludono. Il suo rapporto con il denaro è parallelo all’unità temporale della famosa frase “il tempo è denaro”; dal “tesoro” Barry tornerà presto verso la miseria della “provincia”.
Tale binomio si accosta all’ambiguità del termine inglese luck ripreso sapientemente nel titolo “The Luck of Barry Lyndon” – (La fortuna di Barry Lyndon) -, poiché tale terminologia racchiude felicità e sventura, è ciò che è destinale, non ciò che deve essere, colpa e merito. Così la ruota della fortuna si acquisisce, ma difficilmente si conserva. Ma sarà proprio la sua “fortuna creata” a salvare il personaggio dal fallimento etico e morale, poiché questo rimarrà durante tutto il romanzo sempre unicamente se stesso, senza alterazioni, coerente con i suoi mutabili principi.
Proprio tali prerogative, saranno altro merito di Thackeray, difatti all’interno dei suoi romanzi i personaggi divengono sempre e unicamente individui flessibili e mai immutabili. Lo stesso protagonista è soldato nell’universale caserma prussiana, gentiluomo disertore, nobiluomo nel bel mondo dublinese, con un interessante innesco di giochi di pronomi personali: “lui” (Balibari) diventa “io” (Barry), un “io” (Barry) diventa “lui” (Fritz) e ogni volta il soggetto diviene controvertibile in oggettivo, mentre la voce narrante si trasforma in processo temporale del divenire.

Estratto fotografico del film del 1975. Il cast del film comprende Ryan O’Neal nel ruolo di Redmond Barry Lyndon (inizialmente assegnato a Robert Redford), Marisa Berenson nel ruolo di Lady Lyndon, Leon Vitali nel ruolo di Lord Bullingdon, Patrick Magee nel ruolo dello Chevalier de Balibari e Anthony Sharp nel ruolo di Lord Hallam.

 

A rafforzare la popolarità del romanzo nei tempi recenti, ci ha pensato il regista statunitense Stanley Kubrick (1928 – 1999). Barry Lyndon (1975) è sicuramente uno dei film più famosi di Kubrick, quello visivamente più affascinante, eppure la sua uscita fu un vero flop, che rischiò di mettere in crisi i rapporti tra il regista e la Worner, la quale aveva deciso di produrre Barry Lyndon per evitare una pellicola della quale si aveva grande timore per l’economia: il film su Napoleone Bonaparte, che Kubrick non riuscì mai a girare. Sono gli scherzi degli esperti degli incassi che spesso si dimostrano sbagliati e inattendibili. Per fortuna a non errare fu proprio Kubrick, che con Barry Lyndon ci lascia uno dei suoi film più belli e più densi. L’apporto più grande e geniale fu il punto visuale-scenografico: da una parte perché si ispirò alla grande tradizione della pittura inglese e parallelamente decise di girare tutto con una luce assolutamente naturale: per le celeberrime scene, illuminate unicamente dalle candele, utilizzò per la prima volta uno obiettivo Zeiss, realizzato per fini aerospaziali.
Scelse di utilizzare dei lentissimi zoom all’indietro, realizzando che un piccolo particolare – inquadrato nella prima immagine – pian piano mostrasse in che contesto e situazione i personaggi vivessero. Questa lentissima carrellata all’indietro permise al registra di collegare l’individuo e la realtà in cui si muoveva. Così riuscì a restituire quella speciale soffusa malinconia, quella situazione sospesa che è la chiave più vera e più interessante per capire la genialità di questo film. Barry Lyndon vinse quattro statuette: miglior adattamento musicale, la migliore fotografia, la migliore scenografia e i migliori costumi, ma non quella per il miglior film e miglior regia. Kubrick non ha mai vinto l’Oscar per il miglior registra, anche se probabilmente se lo meritava, ma questa è una storia lunga che ci condurrebbe altrove.

Per approfondimenti:
_William M.Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon – Fazi Editore;
_Tommaso Giartosio, Barry Lyndon: nascita, fortuna e (imprevista) innocenza del personaggio moderno – Fazi Editore.

 

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