20 Apr Il matrimonio Henry-Meghan: sul concetto di aristocrazia
di Giuseppe Baiocchi del 21/04/2018
Per capire i principi di non condivisione di tale unione anglicana bisogna inizialmente possedere conoscenza dei rudimenti basici della tradizione e delle radici dell’aristocrazia (Nota 1): elementi fondamentali per non trascendere nella confusione e nel gossip generato da telecronisti e giornalisti che con grande evidenza erano sprovvisti di ogni conoscenza nella disciplina dell’istituzione monarchica.
Per una serie di atteggiamenti e usi, pare evidente come questo matrimonio per etichetta e tradizione non sia stato educativo e d’ispirazione per i tanti che vogliano migliorarsi o ambire ad un uso della convenzione tradizionale.
Partendo dai vestiti degli invitati, completamenti fuori luogo – soprattutto in alcuni capi sgargianti da uomo -, fino ad arrivare ai calzini dei musicisti – in particolare del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason – che spiccavano decisamente dagli abiti, come fosse stato un matrimonio di un “nuovo ricco” americano.
Uno degli aspetti principali della decadenza del mondo moderno occidentale si manifesta nella perdita del significato, della forza e della tradizione originaria dell’aristocrazia. Questa si è sempre posta come un valore spirituale, corrisponde a quella funzione di mediazione – uomini che sono centro o modello per le attività inferiori e, simultaneamente, supporto, preparazione e via ad una realizzazione superiore. Essa deve costituire il modo di una superiorità virile, libera, personalizzata, orientata verso l’immanente (Nota 4).
Dove è finita la qualità, il dettaglio, la tradizione, la perfezione? Per i matrimoni normali vi sono già le persone normali. Non si avvertiva il bisogno di ostentare, in Inghilterra, la celebrità e l’orgoglio nero: adeguatamente rappresentati con il gospel – che si poneva a sfida del secolare canto gregoriano e completamente fuori luogo nella St. George’s Chapel del Castello di Windsor -, così come i grandi gesti plateali e proletari dell’emotivo vescovo di Chicago, Michael Curry (1953) da sempre a favore dei matrimoni omosessuali, all’interno della Chiesa anglicana.
Nella sua omelia, coprendosi attraverso il concetto vuoto di “amore”, ha platealmente annunciato lo smantellamento del “vecchio mondo” con il “nuovo”: «Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore. E quando lo scopriremo, saremo in grado di trasformare questo vecchio mondo in un nuovo mondo. L’amore è l’unica via». A tale proposito non posso non citare il filosofo Massimo Cacciari: «Alla vigilia della fine dei tempi, a satana è data un’estrema opportunità per sedurre l’umanità, ed ora egli s’impegna con sincero entusiasmo e dedizione a garantire a tutti, pane quotidiano, giustizia e pace, e corona questo evento del benessere con un programma di suprema pax religiosa. Convoca a Gerusalemme un grande concilio universale, nel quale inaugura un perfetto ordine tra le religioni finalmente riconciliate. Il successo arride talmente attorno al grande benefattore, e il consenso è talmente forte, che diventa intensa e immensa genuflessione. Solo pochi non ne accettano l’autorità (…). Ed allora essi vengono cacciati dal concilio, e tornano nel deserto, e là si ritrovano dalla parte di Cristo, che il grande inquisitore satana aveva già accusato: “tu hai consegnato gli uomini ad un insopportabile libertà!” E mentre a Gerusalemme risuona l’inno al benefattore, al supremo Re, nel deserto, questo misero resto di umanità, si prepara paradossalmente ed angosciosamente, nel nome del Cristo che li ha destinati ad essere liberi, si prepara all’ultima grande libertà di ogni uomo, a quell’insopportabile grazia di decidere in solitudine ed in libertà, l’evento dell’ascolto e della preghiera. Ascolto e preghiera, sono soltanto scelta che fiorisce dalla libertà dell’uomo».
Verso il discorso propriamente razziale bisogna soffermarsi per capire la vera entità del razzismo aristocratico, il quale non si pone – come il pensiero progressista, ci ha insegnato – in uno stato di superiorità con l’altro, ma di riservatezza e conservazione. Ecco perché tale matrimonio è un tentativo di formalizzare l’irrealizzabile, inteso in concetti filosofici e di protocollo.
Tradizionalmente, nelle nobiltà sta anzitutto in risalto il valore riconosciuto dal sangue e la subordinazione della persona rispetto ad una casata e ad un principio. Il singolo qui non vale individualisticamente o «umanisticamente», bensì in relazione al suo sangue, alle sue origini e alla sua famiglia di cui deve tenere alto il nome, l’onore, la fede. Un ugual risalto viene dato alla ereditarietà e al principio di escludere gli incroci contaminatori. Le differenze col razzismo qui sono evidentissime. Per millenni il razzismo è stato in atto nella nobiltà gentilizia di ogni popolo, ed anzi nella sua forma più alta, perché si è mantenuto aderente all’idea di tradizione ed ha evitato di materializzarsi in una specie di zoologismo. Prima che il concetto di razza si generalizzasse, come secondo le vedute attuali, «aver della razza» è stato sempre sinonimo di aristocrazia. Le qualità di razza sempre significarono qualità di élite, riferentisi non a doti di genialità, di cultura o di intellettualità, ma essenzialmente di carattere e di stile di vita. Esse si opponevano alle qualità dell’uomo comune perché apparivano, in buona misura, innate: le qualità di razza si hanno o non si hanno, non si possono creare, costruire, improvvisare o imparare. L’aristocratico, a questa stregua, è l’esatta antitesi del parvenu, dell’arrivato, dell’uomo che «si fa», che è divenuto quello che «non era». All’ideale borghese della «cultura» e del «progresso» si oppone quello aristocratico e conservatore della tradizione e del sangue. Questo è un punto fondamentale e l’unico vero superamento dei surrogati borghesi e protestantici dell’aristocrazia.
L’unico che sembra reggere in Inghilterra la fede e la tradizione rimane il principe di Galles Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor (1948), uscito distrutto mediaticamente con la popolare, anch’essa amata dal popolo per la sua stravaganza e impudenza, Diana Frances Spencer. Anch’egli ha dovuto tacere per non alimentare polemiche, accompagnando all’altare una persona che avrà visto cinque, sei volte nella vita. Il principe Charles non ama l’architettura moderna, ritenendola un involucro senza anima, ama la campagna inglese, retaggio di una monarchia feudale ancora viva e indossa abiti sartoriali proseguendo la tradizione dei Windsor legati all’eleganza. Anche tale prerogativa sembra venire meno con il primogenito William che ama acquistare abiti commerciali da Zara o altre marche di rilievo, per poi venderle all’asta. Appare chiaro il rovesciamento di tutti i valori del bello, del giusto e della sopravvivenza di tutto ciò che è autentico, vero, sudato, personalizzato. La globalizzazione ha toccato anche l’aristocrazia britannica, lì dove era più forte: nell’eleganza.
La prima vera spallata al sistema aristocratico, oltre alla Rivoluzione Francese, la diede anche Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il quale nel 1814 si proclamava Re dei francesi “per volontà di Dio e della nazione”, inserendo sullo stesso piano Dio e l’uomo.
Non più dunque per diritto divino: che l’uomo non sia sempre all’altezza del principio dell’ascesi della potenza, non importa, la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all’uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell’orgoglio nel servire, quella prontezza all’azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di organismo politico. La retorica giacobina mise in primo piano, non più il Sovrano, ma la «Patria», la «Nazione», il «Popolo». È in tal senso che si realizzarono le prime fasi del franamento collettivistico che, secondo una inesorabile concatenazione, dovevano condurre per gradi dal ciclo delle grandi monarchie europee, sino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il ricorso a simili entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del popolo, ma in alto, ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: «Dove è l’Imperatore è Roma».
Gli antichi simboli, rappresentanti la «regalità divina» in tutte le grandi civiltà tradizionali, sono diventati insegne della demagogia grazie al socialismo e al comunismo, ideologie che hanno dato nuova vita all’ideale promiscuo del meticciato: il «sole trionfale» dell’antichità è divenuto il «sole dell’avvenire» dell’utopia socialista; il rosso «imperiale» è stato rubato dalla bandiera rossa del marxismo; lo stesso segno occulto del «microcosmo», uomo dominatore «composto da tutti i poteri», cioè la stella a cinque punte, è divenuto l’emblema di satana, della «civiltà proletaria» bolscevica, associandosi ai rozzi segni di falce e martello. Tutti ciò dovrebbe parlare chiare parole a chi voglia cogliere il senso vero della storia; non quello fittizio, supposto dall’ideologia plebeo-giacobina del «progresso», che è venuta insensibilmente a dominare in tutti i trivii della «cultura moderna.
Perché con l’idealismo e con la sostituzione dell’uomo a Dio, il primo vuole ambire alla sua volontà di potenza assoluta: vuole che il Re o presidente della Repubblica (come in Italia) sia un amico, vuole candidare persone impreparate a governare, solo perché sono giovani, si arroga il diritto di criticare tutto e tutti, senza possederne meriti speciali o pregi particolari; insomma in poche parole tutto può essere concesso e tutto ciò che è stravagante e alternativo è visto con bontà e massima apertura al cambiamento. Ma dove ci sta portando ciò? All’annientamento spirituale e umano della nostra identità di europei e poi di italiani.
Ma tutto ciò, oggi, che cosa è, se non un curioso ragionamento? A questo titolo dunque la prendano coloro, che non possono capirne di più.
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