Giovanni Della Casa: educazione dell’animo e del corpo

di Liliane Jessica Tami del 26/03/2018

Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nel suo saggio «La condizione post-moderna» affermava che la nuova società libera e post-moderna – sorta dalle macerie della seconda guerra mondiale -, grazie alla fluidità del capitalismo, alle nuove tecnologie e all’abbattimento di ogni gerarchia, è estranea alle certezze ed alla coerenza. Tale posizione, agli antipodi del rigore severo e neoclassico che ha caratterizzato gli albori della filosofia occidentale e il Rinascimento italiano, ha creato quella scissione tra forma e sostanza che oggi tanto sembra degradare le masse.

Jean-François Lyotard (1924 – 1998) è stato un filosofo francese, generalmente associato al post-strutturalismo e conosciuto soprattutto per la sua teoria della postmodernità. Fu assistente alla Sorbona, professore all’università di Paris-Vincennes e insegnò anche in alcuni atenei statunitensi.

Dopo l’epoca triviale medioevale, la buona educazione etico-spirituale dell’uomo è stata fondamentale per redimerlo dallo stato di caotica bestialità in cui per secoli s’era inabissato. Nell’epoca post-moderna, in cui il decostruito, l’informe e il vizioso sono assurti a stati normali dell’essere, la coerenza greca – tale per cui un’anima buona dovesse dimorare in un corpo bello – sembra essersi smarrita. Andando a ritroso, il monsignor fiorentino Giovanni della Casa si preoccupò di redimere gli animi dalla perdizione, stilando l’indice dei libri proibiti, e i corpi dalla bestialità, pubblicando il celebre libello sul buon costume, Il Galateo.
Paradossalmente oggi il mondo necessiterebbe propriamente di personaggi influenti in grado di censurare il degrado televisivo-letterario che corrompe gli animi; così come di un salubre ritorno all’uso delle buone maniere, del ben vestire e del ben parlare. Come Giovanni della Casa, nel suo fanatismo cattolico, si impegnò a purificare molti presunti eretici sul rogo e a condannare coloro che si comportavano da zotici e bifolchi, oggigiorno non dovremmo esitare a «gettare tra le fiamme» di una pacata censura, tutti coloro che sfruttano e utilizzano i mass-media propugnando valori immorali e contro-natura.
Dagli scritti di Giovanni della Casa, e in particolare dalle sue Rime, s’evince ch’egli abbia sempre vissuto idealizzando un’età dell’oro oramai smarrita per sempre. Da giovane non conobbe mai una donna in grado di farlo innamorare perché idealizzò eccessivamente la figura femminile, e da anziano visse la spiritualità in modo estremamente politico e violento perché desideroso di far coincidere la sua idea di società perfetta con la realtà circostante. Della Casa, uomo molto rigido, inflessibile e severo, si preoccupò parecchio della buona educazione dei suoi nipoti e in particolare di Annibale Rucellai, suo favorito.
Traendo spunto dal suo impegno svolto in qualità di zio ed educatore scrisse, in prosa e nella forma d’un dialogo platonico tra un anziano (sé stesso in versione analfabeta) ed un giovane a volte un po’ lento a capire il testo intitolato “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de’ costumi”.

Giovanni Della Casa, nato il 28 giugno 1503 al Mugello , figlio di Pandolfo e Lisabetta Giovanfrancesco Tornabuoi, si è sempre definito fiorentino. Fin da giovane venne introdotto negli ambienti più raffinati della Firenze rinascimentale e strinse ottimi rapporti, oltre che di parentela, con la famiglia Rucellai, la quale ebbe un ruolo fondamentale nel finanziare i grandi artisti della pregevole città. All’età di 21 anni si trasferisce a Bologna per seguirvi gli studi di legge, ma la sua grande passione resterà per tutta la vita la poesia. Frequentò il circolo letterario di Girolamo Casio de’Medici si appassionò di greco e latino seguendo le lezioni di retorica e poetica. Frequentò il sodalizio culturale dei Vignaiuoli, in cui personaggi illustri, come la sorella di Baldassarre Castiglione, si dilettavano a vergare verso satirici e divertenti.

L’opera, il cui lungo titolo è sintetizzato con “Galateo”, venne scritta tra il 1550 e il 1555, periodo in cui il Della Casa divenne padre di Quirinetto. Probabilmente desiderava che suo figlio, fatto educare dalla famiglia Quirini, crescesse bene e in modo morale seguendo le regole ivi descritte, a differenza dei suoi nipoti che a parer suo sembravano dei bifolchi. Questo libro è nato grazie alle conversazioni sulla buona educazione avute dall’autore con Galeazzo (in latino Galateo) Florimonte, vescovo di Sessa. In quegli anni Giovanni Della Casa iniziava a patire i primi tormenti della gota e si rifugiò presso la badia dei conti di Collalto, a Nervesa, nel trevigiano, i quali appartenevano a quella raffinata cerchia di nobili e colti, amanti del buon costume del ben vestire, tanto graditi a Della Casa in quanto contrapposti alla rozzezza medievale che ancora non s’era riusciti ad estirpare dalle masse.
Il fatto che ad impartire le lezioni di buon costume al giovane sia un illetterato, è fondamentale: Giovanni Della Casa intende così mostrare che il buon comportamento è accessibile a chiunque, a prescindere dalla classe sociale e dalla ricchezza. Per ottenere un miglioramento dell’intera società non serve avere pochi nobili eruditi e ben educati, bensì è necessario provvedere alla diffusione delle buone usanze anche presso gli strati più disagiati della popolazione.
Quest’opera è infatti ben diversa dal libro di Baldassarre Castiglione dal titolo Il cortigiano, pubblicato nel 1528, in cui offre consigli su come, mediante il ben parlare, si possa entrare a far parte della cerchia degli amici intimi del principe. Della Casa non vuole insegnare a sedurre l’interlocutore e compiacere gli astanti medianti giochi ingegnosi di parole e conversazioni amabili, bensì desidera che il lettore possa interiorizzare i precetti della buona educazione divenendo un cittadino, e un uomo, migliore e più buono. Il libro è suddiviso in 30 piccoli capitoli, ognuno dei quali tratta di un tema differente, sempre inerente il corretto comportarsi in società. Mediante una trasposizione delle tesi architettoniche vitruviane nell’ambito comportamentale, Della Casa asserisce che la bellezza, la grazia e la proporzione si ritrovano non solo nei corpi e nella natura, ma in ogni favellare e operare umano. Avendo studiato retorica latina e stilistica poetica, l’autore ha molto a cuore il ben parlare, sia per ciò che riguarda i toni, che devono essere dolci e pacati, che ciò che riguarda le parole, che non devono essere né rozze né sconce.

In seguito a questo periodo giocoso e dionisiaco, in cui produsse le sue prime opere letterarie, pentito della sua condotta amorosa eccessivamente lasciva, Giovanni della Casa si avvicinò al clero e, nel 1934, all’età di 31 anni, venne eletto Chierico della Camera apostolica da papa Paolo III. In quegli anni pubblicò anche un libricino, dal titolo An uxor sit ducenda, in cui s’interroga se s’abbia da prender moglie o meno. Giunto alla conclusione d’esser nato sfortunato in amore decise di guadagnarsi, mediante l’impegno religioso e letterario, fortuna sociale. Ben presto entrò nelle grazie della famiglia Fernese e presto assurse alle maggiori cariche ecclesiastiche: divenne tesoriere vaticano e, nel 1544, venne mandato a Venezia in veste di Nunzio pontificio. Iniziò un’assidua lotta contro le eresie e contro la riforma protestante che stava sconvolgendo l’Europa. Ben presto il ruolo religioso divenne anche politico, e si impegnò a promuovere l’alleanza della repubblica di Venezia col Re di Francia contro agli spagnoli e Carlo V, ma ebbe scarsi successi. Di fatto, nelle sue poesie, la spiritualità appare pagana e neoclassica, ossia in contrapposizione al suo personaggio politico e sociale. Se ne può evincere che la sua adesione al clero sia stata un atto politico e razionale anziché una scelta mossa da genuini sentimenti religiosi e irrazionali nei confronti di dogmi del monoteismo biblico. In quegli anni si inaugurò anche il concilio di Trento, per arginare l’eresia dilagante, e Della Casa si adoperò per far mettere sul rogo molti presunti eretici, la cui accusa principale era quella di nuocere al buon funzionamento della società con le loro teorie. Non li fece bruciare per la fede che nutrivano nel loro intimo, bensì per lo squilibrio sociale che andavano creando.

In più capitoli ribadisce che il parlare debba essere sottoposto a un buon uso, giacché è inutile sapersi tenere bene a tavola se si adopera il turpiloquio o se ci si mostra eccessivamente verbosi impedendo agli altri di esprimersi. Gli interlocutori, infatti, annoverano tra loro i troppo verbosi, i pomposi, i vacui e i troppo silenziosi. Al fine di evitare questi eccessi, o queste mancanze, è fondamentale esercitare la virtù del discernimento, che permette di scovare il giusto mezzo aristotelico, ossia la virtù dell’equilibrio tra le parti. Nel settimo paragrafo si concentra invece sulla questione del ben vestire, e celebre è l’inizio che recita “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente”.
Fondamentale, infatti, è la cura dell’abito, adeguata all’età, al contesto e alla condizione di chi lo porta, al fine di mostrare rispetto nei confronti del prossimo. Sia l’eccessivo sfarzo che l’eccessiva trascuratezza vengono infatti condannati, così come lo spogliarsi in pubblico o l’allacciarsi le calze in mezzo alle altre persone. Nel capitolo 26 il Della Casa dice che gli uomini differiscono dagli animali proprio per via della loro capacità di riconoscere il bello e la giusta misura, quindi è proprio affinando il gusto e la sensibilità che l’individuo riesce ad elevarsi allontanandosi il più possibile dallo stadio bestiale. Il trattato si chiude con le norme per stare a tavola e con la condanna dell’intemperanza nel bere, divenute poi la base della buona creanza di un’Europa finalmente liberata dallo stato di rozzezza, disordine, immoralità, eccessiva libertà e diseducazione. Non resta che augurarsi che anche questa attuale Europa fatiscente, iperconsumistica, rozza e capitalista possa essere rieducata in fretta!

 

Per approfondimenti:
_Giovanni della Casa, Rime, Bur edizioni, 1993, Milano;
_Giovanni Della Casa, Galateo, edizioni Einaudi, 2006.

 

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