In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda articolata ed efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz medesimo, il quale fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e regolare, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un’assistenza morale e politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta l’effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con l’ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l’ordinamento gerarchico dell’esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu l’accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle riserve a disposizione del Comando Supremo che negli anni precedenti erano state vietate dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui il Nostro fruì, ossia la forte produzione dell’industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore.
Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell’esercito italiano era molto più delicata (mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone” al cavallo di razza in difficoltà.
Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere con relativa larghezza: il Diaz non avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del 1919.
In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); ed infatti l’asprezza dei contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra (1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo Boselli (1838-1932) di condividere e appoggiare l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il Diaz, dopo dieci mesi di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull’opportunità dell’offensiva autunnale.
In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918.
Merito del Nostro fu di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente positiva la proclamazione dell’inscindibilità della divisione, pedina base della condotta del combattimento (così come il battaglione ad un livello inferiore); semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai pesante).
Positive furono anche la redistribuzione dell’esercito in sei armate di medie proporzioni e l’emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive dimostrative (anche se poi Armando Diaz permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe, anche perché all’efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e inesperti.
Deludente infine l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati del generale Cadorna e la gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra felice.
Indubbiamente il primo non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità innegabile ed i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati non furono pochi, anche se meglio accolti dall’opinione pubblica.
In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.
Un giudizio complessivo dell’operato del generale Armando Diaz come comandante in capo è certamente positivo.
Al riguardo cito volentieri due giudizi sul nostro, uno del generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta sotto la guida di una mente sempre in equilibrio e sempre presente a sé stessa”. L’altro è del Sonnino: “Diaz è un uomo che ragiona e con cui si puo’ ragionare”.
Non aveva l’inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Luigi Cadorna, ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un’immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l’uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una guerra pressocché logorante.
Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito di aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell’impiego delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel settembre 1918, quando un’offensiva italiana diventava così necessaria da un punto di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo momento utile contro un nemico sull’orlo del collasso, ma ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo bisogno.
Successo consacrato nel famoso “Bollettino della Vittoria”, steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani (1879-1938), e dal Diaz aggiustato, corretto, integrato e sottoscritto.
Il Generale Armando Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno ancora dopo l’armistizio. Non fu un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull’Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull’esercito e dentro l’esercito.
Nella primavera 1919 il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Parigi, appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico non comportava difficoltà militari nell’immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi l’arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in giugno del governo del Nitti con un programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e collaborò pienamente alla smobilitazione dell’esercito condotta quasi a termine nell’estate.
Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell’inchiesta ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della guerra.
Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva approvare l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che metteva in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la spedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e in seguito, alle polemiche sull’amnistia che nel settembre 1919, che cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee dell’opinione pubblica a spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al di sopra delle parti.
In occasione dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio dell’esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito, improntato a economie di gestione e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale.
Il generale Armando Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a titolo di riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell’alto comando dell’esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo di Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio dell’esercito, di cui il Diaz assunse la vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali della “vittoria”).
Il Consiglio dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l’esercito sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico, ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non ne fu scalfito e, nell’autunno 1921, compì una trionfale missione di propaganda negli Stati Uniti.
Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma ed un piccolo ufficio al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.
Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento fascista.
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