Armando Diaz, il duca della vittoria

di Gianluigi Chiaserotti 28/02/2018

Armando Vittorio Diaz nacque in Napoli il 5 dicembre 1861 da Ludovico ed Irene Cecconi, in una famiglia – di lontana origine spagnola – di militari, di magistrati e di uomini di Legge.
L’avo Antonio era stato “ordinatore di guerra” durante il regno del Re Ferdinando II di Borbone (1810-1859); il padre fu ufficiale del genio navale nella marina borbonica e quindi italiana; la madre veniva da una famiglia di magistrati e di professionisti. Il padre, dopo aver lavorato negli arsenali di Genova e di Venezia (di quest’ultimo era stato direttore, con il grado di colonnello), morì nel 1871; la vedova con i quattro figli si stabilì in Napoli, sorretta dalle cure del fratello Luigi, avvocato, vivendo in modesta agiatezza.

Armando Vittorio Diaz (Napoli, 5 dicembre 1861 – Roma, 29 febbraio 1928) compì gli studi elementari in varie scuole private, poi, già orientato alla carriera militare, frequentò la scuola tecnica pubblica, quindi l’istituto tecnico, traendone una solida cultura scientifica e la capacità di scrivere in una lingua italiana sobria e corretta; molto tempo dedicò anche agli esercizi ginnici in palestra. Superati gli esami di ammissione all’Accademia Militare di Torino, vi prese servizio il 15 settembre 1879; sottotenente di artiglieria nel 1882, frequentò la scuola di applicazione di Artiglieria e Genio di Torino e, nel 1884, fu assegnato, con il grado di tenente, al 10º reggimento di artiglieria da campo di stanza a Caserta. Vi rimase fino al 1890, alternando studio e lavoro con la partecipazione alla vita della buona società napoletana. Nel marzo 1890, Armando Diaz fu promosso capitano e trasferito al 1º reggimento di artiglieria da campo stanziato a Foligno. Preparò e superò gli esami di ammissione alla Scuola di guerra, che frequentò nel 1893-95, classificandosi al primo posto della graduatoria finale del suo corso.

Il 23 aprile 1895 Diaz sposò Sarah De Rosa, di una famiglia napoletana di avvocati e magistrati: un matrimonio nato all’interno dello stesso ambiente della buona borghesia napoletana, che si rivelò solido e felice, allietato dopo alcuni anni dalla nascita di tre figli.
Dal 1895 al 1916 la carriera del Diaz si svolse prevalentemente negli uffici del comando del Corpo dello Stato Maggiore, dove lavorò per un totale di circa sedici anni, lasciando Roma soltanto per diciotto mesi per comandare un battaglione del 26º reggimento di fanteria, quindi dopo la promozione a maggiore nel settembre 1899, e per poco più di tre anni, e precisamente dal 1909 al 1912.
A Roma prestò servizio soprattutto nella segreteria del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generali Tancredi Saletta (1840-1909) prima, eppoi Alberto Pollio (1852-1914). Un incarico che non lasciava spazio per studi personali o strategici, ma comportava un confronto quotidiano con la realtà dell’esercito (organici, bilanci, armamenti) e con il mondo politico romano.
Si rivelò, il Diaz un lavoratore preciso ed instancabile, capace di far funzionare al meglio i servizi dipendenti, affabile e diplomatico nei rapporti esterni; non ostentava interessi politici, ma era bene informato di quanto accadeva in Parlamento e nel paese ed in grado di destreggiarsi con gli uomini politici e con gli addetti militari stranieri.
Di statura medio bassa, tarchiato ma non pesante, con i capelli tagliati a spazzola e grandi baffi (più tardi ridotti a baffetti), elegante senza esibizioni, di poche e forbite parole, buon conoscitore del francese e sempre disposto a tornare al suo napoletano, autorevole ma non autoritario, esigente ma comprensivo, Armando era un ufficiale che lavorava molto e bene senza mettersi in mostra, sempre all’altezza della situazione, con una forza interna che si inseriva senza difficoltà nell’istituzione militare.
Tenente colonnello dal 1905, nell’ottobre 1909 il Nostro lasciò Roma perché nominato Capo di Stato Maggiore della divisione di Firenze.
Il giorno 1 luglio 1910 fu promosso colonnello ed assunse il comando del 21º reggimento di fanteria stanziato in quel di La Spezia, dove seppe accattivarsi l’affetto dei soldati con un regime disciplinare generoso ed un attivo interessamento alle loro condizioni di vita.
Nel maggio 1912 fu destinato in Libia a sostituire il comandante del 93º reggimento di fanteria, caduto ammalato; e subito ebbe per i suoi nuovi soldati dimostrazioni di affetto e di fiducia relativamente rare nell’esercito del tempo, ed anche immediatamente ricambiate.
Il 20 settembre 1912, nello scontro di Sidi Bilal nei pressi di Zanzūr, fu ferito da una fucilata alla spalla sinistra mentre conduceva le truppe all’attacco; prima di abbandonare il terreno volle assicurarsi del successo del suo reggimento e baciare la bandiera, lasciando poi ai soldati un ordine del giorno di elogio e ringraziamento. Armando Diaz fu quindi rimpatriato con la croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoia.
Nel gennaio 1913, appena guarito, riprese servizio al comando del corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, come capo della segreteria del generale Alberto Pollio.
Fu confermato in questa carica dal nuovo Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna (1850-1828), poi, nell’ottobre 1914, promosso maggior generale, assegnato al comando della brigata Siena e subito richiamato al comando del corpo di Stato Maggiore come generale addetto.
Nel maggio 1915, al momento della costituzione del Comando supremo dell’esercito mobilitato, in cui Armando Diaz era l’ufficiale più elevato in grado dopo il Cadorna, vi ebbe la responsabilità del reparto operazioni, che però, malgrado il nome, non si occupava di operazioni (la cui direzione era accentrata nelle mani di Cadorna e della sua piccola segreteria), ma dirigeva l’insieme degli uffici e servizi del Comando Supremo e quindi esigeva una visione complessiva della situazione dell’esercito.
Diresse l’ufficio con efficienza e piena soddisfazione di Cadorna per oltre un anno, poi chiese di andare al fronte; il 27 giugno 1916 fu nominato comandante della 49ª divisione di fanteria e subito dopo promosso tenente generale.
Tenne il comando della 49ª divisione per circa 10 mesi, sempre alle dipendenze della 3ª armata, sul Carso o nelle immediate retrovie.
Sin dall’inizio dimostrò notevoli capacità professionali e molto impegno nella ricerca dei maggiori risultati con le minori perdite, predisponendo con grande cura l’azione dell’artiglieria e gli assalti della fanteria; e guidò con energia le sue truppe nei sanguinosi combattimenti a nord del San Michele, nel settore di Veliki, conquistando nell’offensiva autunnale l’altura di San Grado di Merna e, nel marzo successivo, la dorsale di Voltkoniak con una manovra aggirante.
Per i soldati il Diaz ebbe sempre un’attenzione costante, controllando personalmente che fossero rispettati i turni tra trincea e riposo e nella concessione delle licenze, che tutto il possibile fosse fatto per assicurare un rancio adeguato e regolare, che nelle retrovie le truppe fruissero di qualche comodità. Non perdeva poi occasione di interrogare i soldati nelle sue frequenti ispezioni alle trincee e di incoraggiarli con poche e commosse parole. Dalla Libia aveva scritto che “tutto il segreto è nell’elemento uomo”; e ora ribadiva: “si comanda col cuore, con la persuasione, con l’esempio”.
Un atteggiamento che può parere retorico, come altri gesti del Diaz, ma che in lui era spontaneo, oltreché piuttosto raro sul Carso, così come la sua riluttanza a punire i soldati per piccole infrazioni (non transigeva invece sull’obbedienza in combattimento ed era severo, anche se sempre cortese, con gli ufficiali).

Nella foto il generale Luigi Cadorna. Il 25 ottobre 1917 il parlamento italiano negò la fiducia al governo presieduto da Paolo Boselli che fu costretto a dimettersi. Il giorno 30 ottobre il governo si ricostituì sotto la guida di Vittorio Emanuele Orlando, il quale già nei colloqui dei giorni precedenti aveva richiesto al Re la rimozione di Cadorna. Nel frattempo arrivarono a Treviso il comandante supremo dell’esercito francese generale Ferdinand Foch e il generale William Robertson, capo di stato maggiore dell’esercito britannico.

L’interesse per i suoi soldati e l’impegno con cui cercava di risparmiare le loro vite trovavano un limite nella sua convinta accettazione degli ordini superiori: un suo ufficiale di ordinanza, testimonia che Armando Diaz condusse l’offensiva autunnale verso il San Michele con inflessibile energia, pur ritenendola destinata all’insuccesso.
Le truppe in ogni caso risposero appieno alla sua fiducia, seguendolo senza cedimenti in tutta la sua azione di comando.
Il 12 aprile 1917 il Diaz fu promosso alla testa del XXIII Corpo d’Armata appena costituito e destinato ancora sul Carso con la 3ª Armata.
Le sue divisioni entrarono in linea ai primi di giugno nel settore di Castagnevizza e furono subito oggetto di un violento contrattacco austriaco, che respinsero; poi nei giorni dal 19 al 21 agosto, nel quadro dell’ultima offensiva italiana sul Carso, conseguirono buoni progressi a sud di Oppacchiasella, perdendo 8.800 uomini e facendo 4.400 prigionieri; infine in settembre mantennero le posizioni conquistate malgrado il ritorno offensivo degli Austriaci.
Il Comandante fu premiato con la croce di commendatore dell’Ordine militare di Savoia; una leggera ferita da palletta da shrapnel al braccio destro, nel corso di una ricognizione in prima linea il 3 ottobre, gli valse inoltre una medaglia d’argento, conferitagli sul campo dal Duca d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia (1869-1931), suo diretto superiore come Comandante della Invitta III Armata.
Il giorno 8 novembre 1917, il generale Armando Diaz fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in sostituzione del generale Luigi Cadorna. Codesta decisione il Re la prese “nel tratto compreso tra il ponte della ferrovia e quello della Strada Provinciale per Monselice” come precisa un’Aiutante di Campo del Sovrano.
Le modalità della scelta sono ben note nelle linee generali, anche se su singoli dettagli esistono versioni parzialmente contrastanti dei diversi protagonisti, mai del tutto composte.
A fine ottobre, al momento della costituzione del nuovo governo, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), il Re e il ministro della Guerra, generale Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918) avevano concordato sulla necessità di sostituire il Cadorna.
La designazione del generale Diaz come successore era stata fatta da Vittorio Emanuele III (1869-1947) e dal Ministro Alfieri, quindi accettata da Orlando, ma rinviata al momento della stabilizzazione del fronte.
Senonché il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, gli Anglo-Francesi subordinarono l’invio di loro truppe in Italia all’esonero immediato di Cadorna, cui addebitavano l’ampiezza della sconfitta italiana, il disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo.
Ed allora il Re e l’Orlando presero l’iniziativa di chiamare subito il Diaz alla testa dell’esercito, aggiungendogli come sottocapi i generali Gaetano Giardino (1864-1935) e Pietro Badoglio (1871-1956), su indicazione rispettivamente del Re, di Orlando e di Leonida Bissolati (1857-1920).
Artefice primo della sua designazione era stato il Re, come abbiamo di già detto, che nelle sue visite al fronte carsico aveva appreso a stimarlo per le sue doti di comandante e la capacità di avere rapporti positivi con i soldati e con i superiori.
Ma soprattutto gli Alleati si ritrovarono insieme in Italia, anche per l’occasione solidale del loro soccorso al nostro Esercito dopo la rotta di Caporetto. Gli Alleati (Capi politici e militari) si riunirono a Rapallo (6 e 7 novembre), quindi a Peschiera del Garda (8 novembre), dove furono gettate le basi per “[…] una miglior coordinazione dell’azione militare”.
Il Diaz apprese la notizia della sua alta nomina (del tutto inaspettata, per lui e per tutti) il pomeriggio del giorno 8 novembre 1917; non esitò e si presentò al Comando Supremo dicendo al tenente Paoletti: “Mi hanno dato una spada rotta, ma saprò riaffilarla”.
Immediatamente diramò un sobrio ordine del giorno all’esercito: “Assumo la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito e confido sulla fede e l’abnegazione di tutti”.
Il Nostro scrisse, tra l’altro, alla consorte: “[…] Il peso che grava sulle mie spalle è immenso, assai più pesante di quanto possa immaginare e come base non ho che la mia fede infinita e la fiducia in Dio che prego mi voglia dare la forza per affrontare il durissimo problema […]”. Un bilancio del suo operato come comandante in capo dell’esercito italiano nell’ultimo anno di guerra non è facile, perché la tradizione e la bibliografia offrono soprattutto contributi celebrativi, consolidati dalle esigenze propagandistiche del regime fascista.
Il Diaz ed i suoi diretti collaboratori non lasciarono testimonianze né studi su questo periodo, mentre generali illustri come Enrico Caviglia (1862-1945) e Gaetano Giardino rivendicarono la loro parte nella vittoria con polemiche forzatamente reticenti e cifrate.
I maggiori studiosi della guerra italiana, come Piero Pieri (1893-1979) e Roberto Bencivenga (1872-1949), hanno concentrato la loro attenzione sul periodo cadorniano; e la relazione dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito è giunta ad affrontare l’ultimo anno di guerra solo a cinquant’anni dai fatti.
In sostanza, mancano ancora studi di respiro sul Comando supremo del Diaz, anche se disponiamo di pagine e giudizi interessanti e di buoni contributi di sintesi su singoli problemi, in particolare sulle grandi battaglie.
Tutto ciò premesso, cerchiamo ugualmente di delineare il suo contributo alla vittoria, dando per noto l’andamento delle operazioni, la battaglia d’arresto sul Grappa e sul Piave nel novembre-dicembre 1917, la riorganizzazione dell’esercito, quindi la vittoriosa resistenza sul Piave, che fu esclusivamente difensiva ma avendone rinnovato, ed in meglio, le forze.
Il 23 giugno 1918, appena conclusa tale battaglia, Vittorio Emanuele Orlando così telegrafò a Diaz: “Mi mancano gli elementi per valutare tutta la grandezza dell’avvenimento e soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale dell’esercito nemico da rendere consigliabile di non lasciargli prendere respiro”. Fu l’inizio dell’offensiva finale che culminerà in Vittorio Veneto.
Il primo merito del nuovo Comandante fu, senza alcun dubbio, la capacità di far funzionare il Comando supremo in modo adeguato alle esigenze e dimensioni della Grande Guerra.
Anche se non sono d’accordo in quanto diverse testimonianze, ma anche documenti affermano il contrario, Cadorna aveva accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi piani e l’esecuzione dei suoi ordini e di non riuscire a capire la gravità dei problemi che ricadevano sul governo.
Forte della sua lunga esperienza di ufficiale di stato maggiore e di una visione più aperta delle necessità del conflitto, il Diaz riorganizzò il Comando supremo, valorizzando il ruolo del sottocapo Badoglio e del generale addetto Scipione Scipioni (1867-1940), riordinando il lavoro degli uffici ed attribuendo ad ognuno di essi responsabilità definite e concrete; tutto ciò senza clamore né scosse, conservando anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la nascita di un clima di squadra nel rispetto dei diversi compiti. Il nuovo Comando Supremo curò particolarmente lo sviluppo dei servizi informativi e potenziò il ruolo degli ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie dirette sulla situazione dei vari fronti, senza però scavalcare i comandi d’armata, con cui furono curati rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione con Badoglio (dell’altro sottocapo, Giardino, il Diaz si era elegantemente liberato promuovendolo a comandare l’armata del Grappa), che si occupò soprattutto delle operazioni e del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo, alleggerendo il Diaz di buona parte del lavoro di routine e conquistandone la piena fiducia (tanto che, come è noto, Armando Diaz ottenne per lui un trattamento di assoluto privilegio dalla ministeriale commissione d’inchiesta sul ripiegamento al Piave, che dovette rinunciare ad approfondire l’esame della sua condotta a Caporetto).
Ciò non significa che egli abdicasse alle sue responsabilità di comandante in capo, ma che, come richiedeva la complessità della guerra, sapeva valorizzare l’opera dei suoi collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi, di preparazione e di controllo, riservandosi però la decisione finale e l’intervento personale nelle situazioni di emergenza.
Più che a Napoleone, modello inconfessato di tutti i comandanti della grande guerra, il Nostro può essere avvicinato a Dwight David Eisenhower (1890-1969), un altro comandante capace di affrontare la complessità della guerra moderna appoggiandosi sul lavoro del suo stato maggiore.
Sin dall’inizio del suo comando si era proposto di curare di persona i rapporti con il Re, il governo e il mondo politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza prebellica e la sua convinzione della necessità di una collaborazione di tutte le energie disponibili. Con il Re, il Nostro ebbe contatti frequentissimi: si recava da lui a pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più spesso quando c’erano novità.
Con Vittorio Emanuele Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, al Comando Supremo o a Roma, con lunghi colloqui che assicuravano unità d’azione nella difficile situazione.
Il Diaz aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un Comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato maggiore dell’esercito e della marina avevano soltanto voto consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a Roma, ministri e uomini politici influenti [in particolare Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Ministro del Tesoro, che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si dava da fare per appoggiarlo], senza intromettersi nei contrasti interni alla maggioranza governativa, ma per illustrare le esigenze dell’esercito e il suo operato. Tutta questa disponibilità non implicava una eccessiva arrendevolezza alle istanze politiche: egli non discuteva il primato del governo e la necessità di un’ampia e continua collaborazione, anche per migliorare l’immagine del Comando Supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con un’interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna, sulla distinzione di sfere tra potere politico e potere militare; come è noto, nel settembre 1918, egli respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare l’esercito austro-ungarico di cui si profilava la crisi, rivendicando a sé soltanto, la condotta delle operazioni, tanto da tenere inizialmente il governo all’oscuro della preparazione dell’offensiva cui si era infine deciso.
Anche con gli alleati franco-britannici ebbe buoni rapporti: non era sensibile come Cadorna alla necessità di una condotta unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre di sferrare offensive senza altro obiettivo che l’alleggerimento indiretto del fronte francese, ma seppe dare un’impressione positiva di sicurezza e volontà di collaborazione e stabilire proficui contatti a livello degli Stati Maggiori.
L’altro grande e indiscusso merito del Diaz comandante in capo fu il suo fattivo interesse per le condizioni dei soldati.

Teatro delle operazioni della disfatta di Caporetto.

In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda articolata ed efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz medesimo, il quale fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e regolare, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un’assistenza morale e politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta l’effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con l’ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l’ordinamento gerarchico dell’esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu l’accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle riserve a disposizione del Comando Supremo che negli anni precedenti erano state vietate dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui il Nostro fruì, ossia la forte produzione dell’industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore.
Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell’esercito italiano era molto più delicata (mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone” al cavallo di razza in difficoltà.
Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere con relativa larghezza: il Diaz non avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del 1919.
In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); ed infatti l’asprezza dei contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra (1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo Boselli (1838-1932) di condividere e appoggiare l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il Diaz, dopo dieci mesi di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull’opportunità dell’offensiva autunnale.
In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918.
Merito del Nostro fu di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente positiva la proclamazione dell’inscindibilità della divisione, pedina base della condotta del combattimento (così come il battaglione ad un livello inferiore); semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai pesante).
Positive furono anche la redistribuzione dell’esercito in sei armate di medie proporzioni e l’emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive dimostrative (anche se poi Armando Diaz permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe, anche perché all’efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e inesperti.
Deludente infine l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati del generale Cadorna e la gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra felice.
Indubbiamente il primo non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità innegabile ed i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati non furono pochi, anche se meglio accolti dall’opinione pubblica.
In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.
Un giudizio complessivo dell’operato del generale Armando Diaz come comandante in capo è certamente positivo.
Al riguardo cito volentieri due giudizi sul nostro, uno del generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta sotto la guida di una mente sempre in equilibrio e sempre presente a sé stessa”. L’altro è del Sonnino: “Diaz è un uomo che ragiona e con cui si puo’ ragionare”.
Non aveva l’inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Luigi Cadorna, ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un’immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l’uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una guerra pressocché logorante.
Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito di aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell’impiego delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel settembre 1918, quando un’offensiva italiana diventava così necessaria da un punto di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo momento utile contro un nemico sull’orlo del collasso, ma ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo bisogno.
Successo consacrato nel famoso “Bollettino della Vittoria”, steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani (1879-1938), e dal Diaz aggiustato, corretto, integrato e sottoscritto.
Il Generale Armando Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno ancora dopo l’armistizio. Non fu un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull’Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull’esercito e dentro l’esercito.
Nella primavera 1919 il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Parigi, appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico non comportava difficoltà militari nell’immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi l’arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in giugno del governo del Nitti con un programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e collaborò pienamente alla smobilitazione dell’esercito condotta quasi a termine nell’estate.
Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell’inchiesta ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della guerra.
Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva approvare l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che metteva in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la spedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e in seguito, alle polemiche sull’amnistia che nel settembre 1919, che cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee dell’opinione pubblica a spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al di sopra delle parti.
In occasione dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio dell’esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito, improntato a economie di gestione e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale.
Il generale Armando Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a titolo di riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell’alto comando dell’esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo di Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio dell’esercito, di cui il Diaz assunse la vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali della “vittoria”).
Il Consiglio dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l’esercito sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico, ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non ne fu scalfito e, nell’autunno 1921, compì una trionfale missione di propaganda negli Stati Uniti.
Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma ed un piccolo ufficio al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.
Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento fascista.

Sopra Armando Diaz con il capo indiano Crow a Washington nel 1921.

All’inizio dell’ottobre 1922, mentre la crisi politica precipitava, il presidente del Consiglio, Luigi Facta (1861-1930), lo convocò con Badoglio per essere informato dell’orientamento dell’esercito e rassicurato sulla sua obbedienza in caso di gravi disordini. “Diaz e Badoglio “- telegrafò Facta al Re il 7 ottobre – “assicurano che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti, farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma”; il che significava che il Diaz, pur rivendicando l’unità e l’obbedienza dell’esercito, aveva consigliato una soluzione politica della crisi e non la repressione dello squadrismo fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a dirigere).
Secondo testimonianze lacunose, ma nella sostanza attendibili, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre il Diaz ribadì questo atteggiamento direttamente al Re (non sappiamo se per telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna a Roma in automobile), sconsigliando la proclamazione dello stato d’assedio con la nota frase: “l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Subito dopo accettò di entrare nel primo governo Mussolini come ministro della Guerra [con l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel (1859-1948) come Ministro della Marina]: un avallo fondamentale per il governo fascista dinanzi all’opinione pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per la monarchia e per l’esercito, come fu sottolineato nelle prime uscite pubbliche del governo, in cui Mussolini cedette al Diaz il primo posto e i maggiori applausi.
La principale preoccupazione del Diaz, come ministro della Guerra, nei primi diciotto mesi del Governo Mussolini, fu il riordinamento dell’esercito, in modo da porre fine alla confusa situazione creata dal sovrapporsi della smobilitazione, dei tentativi di riforma e modernizzazione e della resistenza passiva delle alte gerarchie.
Il nuovo ordinamento dell’esercito, che il Diaz varò nel gennaio 1923 con una celerità permessa dai pieni poteri ottenuti dal governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di un anno, rappresentava un sostanziale ritorno all’anteguerra.
L’ordinamento del Diaz ebbe indubbiamente il merito di porre fine ad una situazione di incertezze e di dare soddisfazione alle aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe però tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e delle aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che auspicavano un maggiore coinvolgimento del paese nella preparazione bellica, e invece conservò organici troppo ampi per le disponibilità finanziarie, tanto che al giorno 1 aprile 1924 l’esercito contava solo 125.000 uomini, con compagnie di 69 uomini assorbiti per tre quarti da servizi e presidi caratteristici di un esercito di caserma.
Altre decisioni del Diaz come Ministro della Guerra meritano di essere ricordate.
Innanzi tutto l’avallo concesso alla costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che raccolse tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini, rompendo il monopolio della forza armata e il ruolo di tutore dell’ordine che l’esercito aveva tradizionalmente avuto e difeso.
Secondo ogni evidenza, il Diaz accettò la Milizia come un prezzo da pagare al fascismo e manovrò per diminuirne il ruolo militare, rifiutando l’equiparazione dei suoi ufficiali a quelli dell’esercito e l’impiego bellico dei suoi reparti; negli anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e militare, pur continuando a esercitare un’influenza negativa sulla preparazione bellica nazionale.
Concesse inoltre a Mussolini una drastica riduzione del bilancio dell’esercito per favorire il conseguimento del pareggio anche a scapito dell’efficienza dell’ordinamento da lui varato; e non si oppose alla costituzione di un’aeronautica indipendente, che pure nasceva non da una meditata scelta di politica militare, bensì dalla ricerca di successi propagandistici del regime fascista.
All’inizio del 1924 il Diaz maturò la decisione di lasciare il governo, perché pensava di avere ormai portato a termine il riordinamento dell’esercito e perché il lavoro d’ufficio (cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava pesante per la sua salute.
Rinviò le dimissioni a dopo le elezioni di aprile per non indebolire il governo, poi il 30 aprile 1924 lasciò il ministero della Guerra al generale Antonio Di Giorgio (1867-1932), scelto con il suo consenso. Fu subito nominato vicepresidente del comitato deliberativo della Commissione suprema di difesa. con compiti vasti quanto indeterminati (e in definitiva non mai esercitati) di impulso e coordinamento della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica fino alla morte.
Negli anni seguenti il Diaz continuò a dividere il suo tempo tra l’ufficio romano, la villa di Napoli e le vacanze a Capri.
Nella primavera 1925 si schierò con gli altri “generali della vittoria” nella battaglia senatoriale contro il riordinamento dell’esercito proposto dal suo successore Di Giorgio, risoltasi con il ritiro del provvedimento e le dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul Carso.
Il generale Armando Diaz fu creato Senatore del Regno il 24 febbraio 1918 ai sensi della categoria 14 dell’art. 33 dello Statuto Albertino e la sua creazione fu convalidata il giorno 1 marzo.
Ad un anno esatto dalla “Vittoria” fu insignito anche dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, quale creazione n. 747 dalla fondazione dell’ordine medesimo. Quindi con R. D. “motu proprio” del 24 dicembre 1921 e RR. LL. PP. del giorno 11 febbraio 1923 (riconosciuto poi con D. M. 21 novembre 1940), Armando Diaz ebbe anche il titolo di Duca della Vittoria, nonchè il 4 novembre 1924 quello di Maresciallo d’Italia.
Morì a Roma il 29 febbraio 1928.
I tre protagonisti della Vittoria Italiana nella I Guerra Mondiale, il Nostro, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Duca del Mare, ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’insigne giurista Vittorio Emanuele Orlando, sono tutti sepolti nella chiesa romana di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alla piazza dell’Esedra.
Concludo con il ricordo della friulana Maria Bergamas (1867-1952), il cui figlio volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato dall’esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato. A lei toccò il compito di scegliere il Milite Ignoto.
La solenne cerimonia ebbe luogo il 28 ottobre 1921, nella Basilica Romana di Aquileia, e Maria scelse il corpo di un soldato tra le undici salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. La donna venne posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione, e, gridando il nome del figlio, si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull’affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d’oro al Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato.
Le Sacre spoglie prescelte vennero portate a Roma con uno speciale convoglio ferroviario sul quale era visibile il feretro che nelle principali stazioni ferroviarie ricevette gli onori dei picchetti militari in armi e delle popolazioni commosse.
Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, la bara, portata a spalla da dodici decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma dell’Altare della Patria in Roma.
Al Milite Ignoto fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
“Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”.

 

 Per approfondimenti:

_Luigi Gratton “Armando Diaz Duca della Vittoria”, Bastogi Editrice Italiana S.r.l., Foggia 2001, passim;

_Alberto Lumbroso “Cinque Capi nella tormenta e dopo Cadorna – Diaz – Emanuele Filiberto – Giardino – Thaon di Revel visti da vicino”, Casa Editrice Giacomo Agnelli, Milano 1932, pagg. 179-217, passim;
_Amedeo Tosti “Condottieri dei nostri tempi”, Istituto per gli studi di politica internazionale, Milano 1939, pagg. 223-238, passim;
_Gioacchino Volpe “Italia Moderna 1910-1914″, Sansoni, Firenze 1973, passim, Caporetto”, Gherardo Casini Editore, Roma 1966, passim.

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