Ma un’operazione così ambiziosa, da chi è stata finanziata? Anche di questo parlano le informative del SID: è la data dell’undici Maggio 1969 – «il comandante Borghese nel corso di una riunione di esponenti del mondo imprenditoriale genovese, ha deciso la costituzione di gruppi di Salute Pubblica, per contrastare anche con l’uso delle armi, l’ascesa al potere del PC (Partito Comunista)».
La base di questa nota del SID è in un rapporto dei Carabinieri: «Il 12 Aprile, ultimo scorso, a Genova in una villa appartata a picco sul mare, sita in via Capo Santa Chiara 39, il noto comandante Valerio Borghese si è incontrato con l’armatore Cameli Alberto, con l’avvocato Meneghini Gianni, con il presidente Lagorio Serra Gianluigi e con il proprietario della villa, l’industriale Canale Guido».
Così racconta il giornalista Camillo Arcuri: «Lui venne qui a Genova nel 1969, fece queste sue proposte e alla fine chiese anche questi finanziamenti, preannunciando il colpo di Stato per il periodo di Luglio-Agosto del 1969. Da qui aderì e fece giungere fondi, ai piani di Borghese, – uomini paragonati al potere degli Agnelli – Piaggio, l’avvocato De Marti, il re del caffè Tubino, la crema economica ligure».
Trame, dunque, con i Movimenti dell’estrema destra, con i militari, con il mondo imprenditoriale – ricordo come tutti gli imprenditori citati sono stati assolti -, ma tornando alle indagini del 1971 subito dopo i primi arresti, la Magistratura chiede al SID cosa sappia sul Fronte Nazionale e del tentativo di Colpo di Stato. Il 13 Agosto del 1971, con il documento 13-03 il capo del servizio segreto militare italiano – il generale Vito Miceli – scrive: «quale capo del servizio informazioni della difesa, riferisco che dai controlli disposti, non emerse alcuna conferma della notizia riferita. Ogni ricerca informativa in merito svolta dal servizio ha portato all’esclusione di collusioni, connivenze e partecipazioni di ambienti o persone militari in attività di servizio».
Ma né Miceli, né altri al SID, trasmettono alla Magistratura tutte le informazioni, le quali sono di contro chiare prove d’accusa verso Borghese e verso i suoi contatti. Il 25 Febbraio del 1972, Remo Orlandini, Sandro Saccucci e tutti gli altri imputati vengono scarcerati. Il primo Dicembre del 1973, viene revocato il mandato di arresto di Borghese. La notte dell’otto Dicembre del 1970, insomma, non sarebbe successo assolutamente niente.
Quando tutto sembrava concluso, il 15 Settembre del 1974, un clamoroso colpo di scena, riapre d’improvviso il caso: l’autorità giudiziaria riceve un voluminoso dossier, inviato dal responsabile politico del SID, il Ministro della Difesa Giulio Andreotti (1919 – 2013). Tale plico voluminoso è diviso in tre parti e in specificato modo la prima, studia nei dettagli il golpe Borghese vero e proprio, descrivendo le fasi di preparazione del piano eversivo e gli obiettivi dei cospiratori.
A fornire a Giulio Andreotti il Dossier fu il numero due del Servizio Segreto Militare, il generale Gianadelio Maletti (1921), Capo del contro-spionaggio militare. L’inchiesta è delicatissima, poiché indaga su un gruppo di personaggi che sta cospirando ai danni delle Istituzioni Repubblicane: Maletti ne tiene all’oscuro lo stesso leader del SID, il generale Vito Miceli.
Antonio Labruna, capitano dei Carabinieri, fungerà da supporto tecnico a Maletti, registrando e ottenendo tutte le informazioni sugli aspiranti golpisti, fingendosi un loro complice, legato all’Arma. Il 17 Giugno del 1974, l’agente Labruna registra alcune informazioni determinanti legate ai cospiratori. Ne evince che Remo Orlandini era l’individuo più preparato sotto il punto di vista militare, ma secondo la testimonianza era coinvolto nel tentativo golpista anche Vito Miceli, il Capo del SID. Secondo le registrazioni degli infiltrati di Maletti, a casa di Remo Orlandini avvenne l’incontro tra Julio Valerio Borghese e Vito Miceli.
Davanti a queste fonti autentiche Gianadelio Maletti, si rivolge direttamente al Ministro della Difesa Giulio Andreotti, che racconta in uno spaccato Rai: «Maletti viene da me e mi dice “guardi dalle indagini che ho fatto c’è un colloquio che ha avuto personalmente, il generale Miceli con il principe Borghese”. Nel fare questa inchiesta si ritrova il suo superiore, in combutta con Borghese – dunque non poteva dirlo al suo superiore, ma doveva dirlo a me (…) e sentimmo questa registrazione e il tecnico di questa, era il capitano Labruna».
Miceli una volta sentito da Andreotti si difende, con l’affermazione che egli doveva prendere informazioni, ma come Andreotti affermò «non è il Capo del Servizio, che va a prendere le informazioni».
Vito Miceli, in breve, viene scaricato dalle altre autorità militari. Ancora Andreotti ricorda come: «l’errore fu di chi l’aveva messo a capo dei Servizi, perché non aveva né la professionalità di questo, né forse quel tanto di malizia, che forse può darsi sia necessaria pure per dirigere i Servizi». Il giorno successivo il Ministro della Difesa Giulio Andreotti destituisce Vito Miceli e una ventina tra generali e ammiragli, sostituendoli senza una particolare spiegazione.
Un vero e proprio terremoto ai vertici dei Servizi Segreti e delle forze armate, ma quel Dossier riapre anche le indagini della Magistratura il 10 Ottobre del 1974, con la Procura di Roma che spicca 23 mandati di cattura e nell’elenco figurano tutti i nomi dell’inchiesta del 1971, poi scarcerati dopo un anno, ma questa volta tra gli arrestati vi è anche Adriano Monti.
Un anno più tardi, dopo aver negato tutto, Adriano Monti uscito per problemi di salute, fugge all’estero, dove resta latitante per dieci anni. Nel frattempo il processo Borghese costruito proprio a partire da quel Dossier del SID, si apre a Roma nell’aula bunker del Foro italico il 30 Maggio del 1977.
Gli imputati sono ben 78, tra loro anche Vito Miceli – ormai destituito da Capo del SID, che è stato arrestato il 30 Ottobre del 1974. Tra i latitanti, oltre ad Adriano Monti, anche l’imputato chiave Remo Orlandini. E sulla base di quel Dossier l’accusa propone uno scenario sconcertante: un vero e proprio tentativo di golpe, che avrebbe dovuto avere luogo il 7 Dicembre del 1970, quando un commando di uomini legati ad Avanguardia Nazionale e del Fronte Nazionale penetrano dentro il Ministero degli interni e saccheggiarono l’armeria. Così, sotto intercettazione, racconterà Remo Orlandini: «Nel primo pomeriggio, sono entrati nel deposito, nell’armeria insomma, hanno caricato tutti i caricatori, hanno tirato fuori le armi, le hanno ingrassate, hanno messo a posto tutto quanto. Hanno messo in ordine le mitragliatrici pesanti e le hanno portate nei punti per la difesa del Ministero degli Interni. Eh! – sorride – chi c’entrava più lì! (…) arrivati alla sera – era piuttosto tardi – c’è voluto molto tempo perché gli uomini erano pochi, (…) dal Ministero degli Interni dovevano uscire 200 militari – invece di 200, ne uscirono 180 – che dovevano arrivare a me e che io dovevo dare a determinate persone, per un altro obiettivo (…) le armi non le ho avute, perché poi è arrivato l’ordine di rientrare e abbiamo fatto in tempo a riprenderle per strada, abbiamo ripreso l’autocarro per strada, lo abbiamo fatto rientrare e scaricare, poi le armi sono state di nuovo incassate e rimesse a posto (…) mancava una sola pistola e non è stata portata via dagli uomini di Avanguardia Nazionale, ma da uno dei miei a cui piaceva troppo, erano belle quelle armi, veramente belle. Di sei ne sono rientrate cinque, ne mancava una e l’ho fatta arrivare dalla Germania, dopo quindici giorni l’abbiamo rimessa a posto e nessuno si è accorto di niente».
Da sinistra a destra: Giulio Andreotti, Adriano Monti, Claudio Vitalone.
Come racconta Claudio Vitalone – Pubblico Ministero al processo Borghese -, «in un colpo di Stato, il Viminale ha dei centri di comunicazione, con tutta l’autorità periferica, che può essere disinformata, attraverso una gestione della linea superiore di comando, occasionalmente finita nelle mani di chi vuole destabilizzare la vita del Paese (…). Rinvenimmo accanto a dei MAV (Moschetti automatici Beretta), un’arma visivamente contraffatta e l’arma che fu periziata, era un’arma assemblata con parti diverse e quindi non era l’arma originale».
Quella pistola contraffatta sembrerebbe la conferma definitiva alle parole di Orlandini sul furto d’armi al Viminale, ma sempre – secondo l’accusa – quelle prelevate al Ministero degli Interno non sono le sole armi a disposizione dei golpisti: quasi 200 uomini – 197 per l’esattezza – partirono nella tarda serata del 17 Dicembre dalla caserma di Città Ducale al comando di Luciano Berti, apostrofato dal Monti come «un uomo tutto d’un pezzo, d’intelligenza superiore, di una fedeltà assoluta e di una lealtà assoluta».
Fu accertato infatti, dalla requisitoria del Pubblico Ministero – Claudio Vitalone, che l’auto colonna lungi dal dirigersi lungo i Colli Albani, punta dritta su Roma, arrestandosi sulla via Olimpica a poca centinaia di metri dagli impianti della televisione. Il segnale d’arresto è impartito dal Berti, il quale fermatosi dietro un autoveicolo in sosta, dal quale discendono due individui e con i quali intrattiene una discussione, fa riprendere la via del ritorno verso la caserma di Città Ducale. Non ci fu nessuna spiegazione agli ufficiali, sulle motivazioni della “mancata esercitazione”.
Secondo l’accusa, accanto agli uomini di Borghese e di Avanguardia Nazionale, c’era un gruppo di guardie forestali proveniente da Rieti, che a pochi metri dalle sedi Rai di Via Teuladia, avrebbe misteriosamente ricevuto un contrordine. Ma davvero poche centinaia di uomini, avrebbero potuto creare un regime militare in Italia? Qual era allora il vero obiettivo di quella azione? Ancora secondo Claudio Vitalone, l’ipotesi più plausibile è in una ricostruzione della strategia golpista. Creare le premesse per un intervento di tipo autoritario: una volta che si fossero accesi vari focolari di infezione nella Capitale, probabilmente sarebbe stato legittimo l’intervento degli apparati dello Stato e se mai uno di questi “apparati” fosse stato coinvolto nella strategia golpista, avrebbe avuto un titolo di apparente legittimazione dell’intervento. Rimuovere la condizione eccezionale, nella quale ci si era venuti a trovare, per effetto della “provocazione” e della reazione “legittima”, dipendeva soltanto da chi gestiva il progetto eversivo.
L’ipotesi più plausibile, chiama in causa le presunte complicità di apparati dello Stato, eppure nella notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970, queste complicità non ci sono o forse – per così dire – non scattano.
Ancora dalle intercettazioni a Remo Orlandini capiamo come l’ordine di rientro arriva all’01:00 di notte. Orlandini era al comando del “reparto B”, mentre al “comando A” vi era il comandante Borghese, che comunica al suo amico l’ordine perentorio di “far rientrare tutti”.
Inquietante e irrisolto l’interrogativo di chi impartì a Borghese l’ordine di cessare l’attività golpista: nemmeno nella ricostruzione accusatoria il quesito trova una risposta sensata. Secondo Orlandini la mancata presa del Ministero della Difesa nei termini previsti, avrebbe fatto “saltare” le operazioni.
Il principe Borghese, riparato nella Spagna franchista, non rientrerà mai in Italia, poiché morì all’età di 68 anni a Cadice in circostante mai veramente chiarite nell’Agosto del 1974. Adriano Monti, anche lui assente al processo, ha testimoniato nel 2012 il suo ruolo all’interno dei cospiratori: doveva fungere da “ambasciatore” in Europa – attraverso le sue personali conoscenze internazionali – per capire se il cambio “presidenziale” fosse gradito in determinati ambienti europei, poiché l’Italia aveva degli accordi internazionali con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti d’America.
Il 19 Dicembre del 2004, grazie al Freedom of Information Act (FOIA), il quotidiano La Repubblica, acquisisce documenti esplosivi: 5 informative che l’ambasciata americana a Roma, spedisce a Washington tra l’Agosto e il Settembre 1970: oggetto di queste informative – fino ad oggi segretate – è proprio il progetto di Borghese. Gli americani, dunque, sapevano del colpo di Stato. Tra le informative si fa riferimento ai cospiratori e ad una personalità americana in attività a Roma che di questi contatti riferisce all’ambasciatore a Roma Graham Martin.
Da ciò uscirà, come detto, il nome di Adriano Monti: una figura di spessore e rilievo nell’inchiesta, poiché avrebbe fatto da tramite tra il gruppo dei golpisti e l’ambasciata americana. Da parte statunitense avrebbe mediato, con Monti, Ugo Fenwich riferito nelle informative genericamente come un importante uomo d’affari americano, rappresentante in Italia per il Partito Repubblicano statunitense, in stretto contatto con Henry Kissinger e Richard Nixon. Fenwich era apparentemente un ingegnere che si occupava di questioni imprenditoriali e commerciali, ma in realtà era indicato come uno dei fornitori di danaro ai congiurati.
Il giorno degli arresti Ugo Fenwich e la sua famiglia lasciano Roma d’urgenza, richiamati negli States: dunque la Casa Binaca di Nixon era a conoscenza di tutto il piano golpista di stampo militare, ma solo una parte della Cia, ha spinto in tale direzione, poiché parte dell’intelligence americana, sognava una cintura italiana militare anti-sovietica, riprendendo i modelli dell’America Latina, che gli Stati Uniti proteggevano.
Monti non si limitò solo ad intrattenere rapporti con gli americani, ma compì diversi viaggi in Spagna, a Madrid, per incontrarsi più volte con Otto Skorzeny (1908 – 1975), ex ufficiale delle Waffen-SS, uomo artefice della liberazione di Benito Mussolini dalla reclusione sul Gran Sasso, nel Settembre del 1943 e grande amico del principe Borghese. Ma che ruolo ricopre Skorzeny in questa storia? Otto Skorzeny era uno dei fiduciari dell’Organizzazione Gehlen – una organizzazione di intelligence tedesca, che aveva operato molto bene negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale e che fu praticamente cooptata dagli americani e fu inserita come una delle forze di intelligence fiancheggiatrici della Cia.
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