Romanino qui attinge a piene mani agli schemi della tradizione lombarda, e a un’aria colma di umori, tipicamente lagunare, preferisce così un’atmosfera più solenne, più aulica, più formale, dove il sacro rimane sacro e il profano resta profano. Senza possibilità di confondersi e di fondersi l’uno nell’altro. Romanino guarda sì Tiziano e Giorgione, oltre che al Lotto, ma in verità la sua pittura non sarai mai puramente tonale. L’accordo e l’equilibrio che Romanino cercherà di realizzare tra maniera lombarda e colorismo veneto avrà però esiti sorprendenti e inaspettati. La luce resterà per il pittore un elemento superficiale, capace di far risaltare la brillantezza delle stoffe e il metallo delle armature; e le scene saranno affollate da uomini analfabeti che parlano il dialetto; un variopinto repertorio di visi e di profili preso direttamente dalla strada. Così, se il Romanino nelle prime opere è composto e sobrio, quasi marmoreo, e dove le figure sono statiche quasi quanto le architetture, in quelle della maturità è popolare, vernacolare, al limite del caricaturale. E ciò lo vediamo chiaramente nei maturi affreschi realizzati nella chiesa della Madonna della Neve a Pisogne nella prima metà del quarto decennio, dove, nella scena della Crocifissione, una Maddalena dalle forme tozze e per nulla eleganti, e dal viso imbambolato, vacante e incantato, si aggrappa come fosse un koala alla croce, e pare fatta non di carne ma di gommapiuma; una marionetta. Si noti anche il gruppetto di quei balordi, all’estrema destra della composizione, che giocano ai dadi perché hanno scommesso qualcosa e sono stoltamente indifferenti al dramma che si sta compiendo.
Ma già negli affreschi del duomo di Cremona del 1519, il pittore acquisisce una certa libertà nell’esecuzione. Nel duomo cremonese, il carattere di Romanino si può rapportare a quello del manierista ed esplosivo Pordenone, che lavorerà nel medesimo luogo. Le sue storie della Passione di Cristo sono la perfetta antitesi di quelle del de Sacchis. Se Pordenone riempirà tutto lo spazio a disposizione con figure robuste e non lascerà respirare, colto da una sorta di horror vacui, Romanino preferisce spazi scanditi da classiche architetture, e fa uso di una luce chiara e cristallina per descrive meticolosamente le superfici degli archi e dei colonnati eburnei, così come per descrivere quelle dei corpi di ogni singola figura agghindata o seminuda. C’è molta verità in queste drammatiche scene del Romanino, e da buon lombardo quale è, egli si esprime senza alcuna reticenza; indugia, piuttosto, alla Dürer, sul più piccolo difetto riscontrabile nelle cose reali e lo accentua, ce lo fa vedere, non lo nasconde. Comprese le smorfie e le più meschine abitudini della gente rozza e popolana. Ed ecco allora il muschio, ora qua e ora là, deturpare romanticamente gli edifici; occhi curiosi affacciati ai parapetti per vedere fin dove la cattiveria dell’uomo arrivi; abiti alla moda e dalle pregiate stoffe occupare quegli spazi freddi che parlano solo di decadenza e di morte, e che sembrano abbandonati anche da Dio. E questo realismo, così schietto e così evidente, arriva a concentrarsi nello sguardo obliquo del Cristo alla colonna mentre viene flagellato. Solo Romanino poteva dare al Redentore un’espressione così umana. Veloce corre il pennello del bresciano in queste storie, come a voler rincorrere un pensiero subitaneo, un’idea improvvisamente spuntata nella sua testa accesa di immaginazione. Una rapidità che egli non perderà mai. In alcuni momenti della sua lunga e prolifica attività pare addirittura anticipare la pittura impressionista, ossessionato com’è nel catturare ogni attimo, ogni aspetto, ogni particolare, ogni variazioni di tono e ogni ombra della natura.
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