05 Feb Girolamo Romanino: drammatico e vernacolare
di Michele Lasala 06/02/2018
Romanino è un pittore composto, misurato, «bonissimo pratico e buon disegnatore», come scrive Vasari; ma anche bizzarro, fantasioso, innovativo. Nato tra il 1484 e il 1487 a Brescia, si forma tra la sua città natale e Venezia, guardando con molta attenzione il più intimo tra i pittori lagunari: Giorgione, rimanendone estasiato. La prima testimonianza della sua aderenza ai modi del maestro di Castelfranco è una vaporosa e poetica Madonna col Bambino (Parigi, Louvre), in cui tutto sembra così evanescente, così onirico: dalle carni alla verzura, dalle vesti al paesaggio che si apre sullo sfondo, un paesaggio che sembra per un momento evocare i paesi sognati da Klee. Ma già nel Compianto di qualche anno dopo, Romanino dimostra di aver appreso anche la lezione di Tiziano, e quell’intimismo di matrice giorgionesca si smorza quasi del tutto.
Dopo una breve sosta nell’Eremo di Sant’Onofrio a Bovezzo, dove esegue alcuni affreschi a contatto diretto con Altobello Melone, Romanino giunge a Padova nel 1513 e vi realizza la Pala di santa Giustina, un’opera che presenta delle affinità con la più nota Pala Martinengo di Lorenzo Lotto, realizzata a Bergamo tra i 1513 e il 1516. Una grande tavola, questa del Lotto, con cui il pittore introduce un linguaggio del tutto nuovo, mai visto prima, mai pensato in terra orobica: quello caldo e suadente della serenissima pittura veneziana, con l’aggiunta però di qualche elemento ironico e scherzoso, cifra inequivocabile della sua mano. E Romanino deve averla certamente osservata.
La Pala di Santa Giustina ha infatti uno schema simile a quello della pala lottesca. Due opere simili, somiglianti, ma quanto lontane l’una dall’altra! Tanto dinamica e giocosa quella del Lotto, quanto composta e concentrata quella del Romanino. Tanto libera nella sintassi la prima, quanto rigorosa la seconda. Lotto si permette di riscrivere la grammatica dell’iconografia tradizionale della sacra conversazione e risistema nello spazio della pittura, a proprio piacimento, tutti gli elementi. Gli angeli che sorreggono la corona non stanno semplicemente a mezz’aria, ma galleggiano attraversati da un fresco vento che muove le loro vesti leggere così come i loro capelli; la Madonna si scompone un po’ e con un gesto della mano cerca di tenere calma la folla di santi lì in basso; il Bambino si contorce e dà la benedizione quasi distrattamente a quei signori incappucciati e in maschera sotto di sé; san Sebastiano si distrae e languido ci guarda perché accortosi della nostra presenza; i puttini ai piedi del trono si divertono perché non riescono a sistemare il lenzuolo sul basamento di marmo bianco. Tutto questo manca nella pala del Romanino: la Madonna sta in alto pensosa sul suo trono; i santi sono concentrati, silenziosi, immobili, soli; gli angeli, ai lati della Vergine, sorreggono la corona e sembrano stanchi per le troppe ore di posa, senza poter batter ciglio né poter sgranchire le gambe; ai piedi del trono non ci sono puttini schiamazzanti, ma un angelo musico, dalle belle forme paffute, con in mano un tamburello che forse non ha mai suonato. Anche l’architettura, nella pala del Romanino, entro cui fanno la loro comparsa le figure, sembra troppo rigida, classica: memoria del Bramante milanese. In Lotto, invece, le forme architettoniche sono più morbide, e i pennacchi ben visibili in alto accompagnano con l’eleganza delle loro geometrie la lirica danza degli angeli.
Romanino qui attinge a piene mani agli schemi della tradizione lombarda, e a un’aria colma di umori, tipicamente lagunare, preferisce così un’atmosfera più solenne, più aulica, più formale, dove il sacro rimane sacro e il profano resta profano. Senza possibilità di confondersi e di fondersi l’uno nell’altro. Romanino guarda sì Tiziano e Giorgione, oltre che al Lotto, ma in verità la sua pittura non sarai mai puramente tonale. L’accordo e l’equilibrio che Romanino cercherà di realizzare tra maniera lombarda e colorismo veneto avrà però esiti sorprendenti e inaspettati. La luce resterà per il pittore un elemento superficiale, capace di far risaltare la brillantezza delle stoffe e il metallo delle armature; e le scene saranno affollate da uomini analfabeti che parlano il dialetto; un variopinto repertorio di visi e di profili preso direttamente dalla strada. Così, se il Romanino nelle prime opere è composto e sobrio, quasi marmoreo, e dove le figure sono statiche quasi quanto le architetture, in quelle della maturità è popolare, vernacolare, al limite del caricaturale. E ciò lo vediamo chiaramente nei maturi affreschi realizzati nella chiesa della Madonna della Neve a Pisogne nella prima metà del quarto decennio, dove, nella scena della Crocifissione, una Maddalena dalle forme tozze e per nulla eleganti, e dal viso imbambolato, vacante e incantato, si aggrappa come fosse un koala alla croce, e pare fatta non di carne ma di gommapiuma; una marionetta. Si noti anche il gruppetto di quei balordi, all’estrema destra della composizione, che giocano ai dadi perché hanno scommesso qualcosa e sono stoltamente indifferenti al dramma che si sta compiendo.
Ma già negli affreschi del duomo di Cremona del 1519, il pittore acquisisce una certa libertà nell’esecuzione. Nel duomo cremonese, il carattere di Romanino si può rapportare a quello del manierista ed esplosivo Pordenone, che lavorerà nel medesimo luogo. Le sue storie della Passione di Cristo sono la perfetta antitesi di quelle del de Sacchis. Se Pordenone riempirà tutto lo spazio a disposizione con figure robuste e non lascerà respirare, colto da una sorta di horror vacui, Romanino preferisce spazi scanditi da classiche architetture, e fa uso di una luce chiara e cristallina per descrive meticolosamente le superfici degli archi e dei colonnati eburnei, così come per descrivere quelle dei corpi di ogni singola figura agghindata o seminuda. C’è molta verità in queste drammatiche scene del Romanino, e da buon lombardo quale è, egli si esprime senza alcuna reticenza; indugia, piuttosto, alla Dürer, sul più piccolo difetto riscontrabile nelle cose reali e lo accentua, ce lo fa vedere, non lo nasconde. Comprese le smorfie e le più meschine abitudini della gente rozza e popolana. Ed ecco allora il muschio, ora qua e ora là, deturpare romanticamente gli edifici; occhi curiosi affacciati ai parapetti per vedere fin dove la cattiveria dell’uomo arrivi; abiti alla moda e dalle pregiate stoffe occupare quegli spazi freddi che parlano solo di decadenza e di morte, e che sembrano abbandonati anche da Dio. E questo realismo, così schietto e così evidente, arriva a concentrarsi nello sguardo obliquo del Cristo alla colonna mentre viene flagellato. Solo Romanino poteva dare al Redentore un’espressione così umana. Veloce corre il pennello del bresciano in queste storie, come a voler rincorrere un pensiero subitaneo, un’idea improvvisamente spuntata nella sua testa accesa di immaginazione. Una rapidità che egli non perderà mai. In alcuni momenti della sua lunga e prolifica attività pare addirittura anticipare la pittura impressionista, ossessionato com’è nel catturare ogni attimo, ogni aspetto, ogni particolare, ogni variazioni di tono e ogni ombra della natura.
Dopo l’esperienza cremonese, Romanino è al fianco del Moretto per dipingere le tele della cappella del Sacramento in san Giovanni Evangelista a Brescia tra il 1521 e il 1524. E anche qui egli è drammatico e aspro. Poi saranno gli affreschi del castello del Buonconsiglio di Trento, negli anni Trenta, dove Romanino lavora accanto ai fratelli Dossi e al Fogolino, e dove la sua pittura vira finalmente verso una sensualità libera, sprigionata da quei corpi michelangioleschi che morbidi si stagliano sul cielo azzurro. Qui sono rappresentate diverse scene veterotestamentarie, Dalile e Giuditte alle prese con i loro Sansoni e Eoloferni. Figure gonfie d’aria che sembrano avere la stessa consistenza delle nubi.
Nella successiva tela con lo Sposalizio della Vergine, datata tra il 1540 e il 1545, quindi dopo l’esperienza in Valcamonica, Romanino ritorna alla sobrietà dei primordi, ma non rinuncia in alcun modo alla verità del dato naturale. Il momento è solenne, san Giuseppe e la sua sposa si scambiano sguardi profondi e colmi d’amore, eleganti le stoffe coi riflessi sulle pieghe, curiosi gli astanti. Sul margine sinistro della tela un ragazzo spezza sul ginocchio una verga, perché la sua non è fiorita come quella di Giuseppe e quindi non può sposare Maria. E tutte le teste, virili e muliebri, sono di una commovente bellezza.
Seguiranno, dopo questo Sposalizio, altri interessanti lavori tra Verona, Brescia e Modena. Sino agli ultimi anni Romanino esprimerà la sua poetica visionaria, instancabilmente. E l’ultima impresa sarà un affresco con la Predica di Gesù alle turbe in San Pietro a Modena nel 1557. Cinque anni più tardi Romanino si spegnerà, a Brescia, la città da cui tutto è partito e da cui ha avuto inizio la sua lunga e sorprendente avventura.
Per approfondimenti:
_Alessandro Ballarin, La salomè del Romanino – Bartoncello Arti grafiche;
_Giovanni Reale, Romanino e la sistina dei poveri a Pisogne;
_Piazzoli Angelo e Larovere Fabio, Romanino. Il testimone inquieto – edizioni 2016.
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