Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista – così come i regimi comunisti – ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo – elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe – dell’ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.

Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (allora appartenente all’Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroe del lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1936).
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare – accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
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