25 Gen Antropologia lavorativa
di Gabriele Rèpaci 25/01/2018
«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953).
Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali – «ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi – esso diventa un valore intrinseco.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.
Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.
Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asseriva come «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà», se l’attività si presentava manuale.
Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”. Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).
Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.
Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese Alain Caillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non è esclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnografiche concordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte del tempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti». Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto di accumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi (nota 1).
Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.
L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.
Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.
Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti i principali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono stati partiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hanno sacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuovere l’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizione sopra l’ingresso del lager di Auschwitz.
Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista – così come i regimi comunisti – ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo – elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe – dell’ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare – accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
Note:
_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 63-64;
_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.
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