26 Dic Il piacere di Dio in Jean d’Ormesson
di Giuseppe Baiocchi 26/12/2017
Jean d’Ormesson (1925 – 2017) è recentemente scomparso esaudendo anche un suo ultimo desiderio «Non ho paura di morire. Mi dispiacerebbe solo che a pronunciare la mia orazione funebre fosse François Hollande». Lo scrittore francese entrato a soli 48 anni presso la prestigiosa Académie française il 18 ottobre 1973, è stato un personaggio amato anche dallo stesso premier Macron che durante i funerali di Stato ha espresso il suo pensiero sul grande lascito di d’Ormesson: «una chiarezza che ci mancherà […] antidoto ai giorni grigi».
Le parole di Macron sono di sincerità, oltre il ruolo istituzionale ricoperto, poiché nonostante la diversità politica, lo scrittore aveva oltrepassato la divisione ideologica, aprendo dialoghi con molti amici di sinistra tra i quali Jean-Luc Mélenchon. In Italia l’evento è passato in sordina, quasi la letteratura francese e quindi europea, non fosse fatto rilevante di interesse pubblico.
Così la mattina di venerdì otto dicembre 2017, presso la Cour d’honneur des Invalides, la pioggia si ferma improvvisamente: le nuvole si dissipano e il cielo è nuovamente di quel blu brillante, come se non potrebbe essere altrimenti, per onorare l’ex direttore generale del «Figaro», uno dei più grandi scrittori popolari francesi, di stampo conservatore.
Accanto alla famiglia si trovano una trentina di deputati, quarantacinque accademici dell’Istituto di Francia, il segretario perpetuo del Quai Conti, Hélène Carrère d’Encausse, diversi membri del governo, due ex Presidenti della Repubblica (Nicolas Sarkozy e François Hollande), un ex primo ministro (Francois Fillon) e il Cancelliere dell’Institut de France Gabriel de Broglie.
Dietro di loro, quasi centocinquanta persone sono venute a salutare lo scrittore, con la cerimonia aperta al pubblico così come lo era, in luglio, quella in onore di Simone Veil. Quasi tutti avranno letto il suo capolavoro letterario: Au plaisir de Dieu (A Dio piacendo). La sua ascendenza verso l’elemento aristocratico gli proviene dall’essere figlio di un diplomatico discendente dalla nobiltà di toga – quella al servizio del re, nei ranghi dell’amministrazione. Tale situazione famigliare gli aveva fatto vivere la sua infanzia in Baviera, proprio mentre montava la marea nazionalsocialista. Ricordava di aver ricevuto il primo e ultimo schiaffo da suo padre quando da bambino, trascinato dall’entusiasmo della folla, aveva applaudito un drappello di giovani tedeschi in divisa paramilitare che marciavano cantando sotto una bandiera con la svastica. Il romanzo che lo lancerà verso la grande letteratura è la storia di una famiglia dell’alta aristocrazia francese, dal XIX secolo alla stagione del terrorismo, che alterna, sapientemente, sacro e profano, dramma e pochade, danza e passo marziale.
La prosa di D’Ormesson è signorile e cristallina: la traduzione le rende giustizia, come raramente accade in questo genere di operazioni. I principi di Plessis-Lez-Vaudreuil sono dei Buddenbrook luminosi e solari, che vestono organza e tulle, eppure la storia che filtra dalle pagine del romanzo secondo una scelta tangenziale che sa di verismo, è quella drammatica di due guerre mondiali: di morti, di vittime, di carnefici.
Ciò nonostante, in una sorta di immutabilità genetica, in cui tutto pare cambiare tranne che il carattere di famiglia, il racconto rimane come sospeso in un’Arcadia campagnola ed elegante, tra tazze di tea e conversazioni all’ombra di piante secolari. Perfino quando sembra che tutto sia rovinato, con la vendita del castello e il definitivo ingresso della famiglia principesca nella modernità borghese, rimane viva nel lettore la sensazione che nulla sia finito: che i principi rimangano tali a tempo indeterminato, fino ad un loro ciclico e prevedibile ritorno alle antiche glorie, iniziate con le crociate.
Il giovane rampollo ribelle, che compie attentati in nome della rivoluzione, firmerà i propri volantini di rivendicazione con «Au plaisir du peuple», che altro non è se non un contorto e mimetizzato atto d’amore verso il proprio millenario blasone. Un libro di lieve lettura, che imporrà al lettore considerazioni tutt’altro che superficiali. Dal libro era stato anche tratto uno sceneggiato televisivo in sei puntate, diretto da Robert Mazoyer, che aveva raggiunto astronomici picchi di ascolto, accrescendo ulteriormente la popolarità dell’autore.
Un uomo brillante e malizioso, volutamente seducente dietro i suoi maliziosi occhi azzurri, tutti i suoi libri erano nelle liste dei best-seller: un raro privilegio, dalla casa editrice Gallimard, la quale aveva introdotto lo scrittore nella prestigiosa collezione La Bibliothèque de la Pléiade. Un onore riservato a lui e al ceco Milan Kundera.
D’Ormesson sapeva anche essere progressista: altra sua impresa fu la sua personalissima battaglia per accogliere la prima donna, Marguerite Yourcenar, all’Académie française, nel 1980; fu indiscutibilmente un uomo di destra, il quale aveva raccolto le confidenze del presidente socialista François Mitterrand pochi minuti prima che lasciasse l’Eliseo, al successore Jacques Chirac, nel 1995. Anzi addirittura più tardi, nel 2012, aveva impersonato proprio Mitterrand nel film La cuoca del presidente di Christian Vincent.
Soprannominato «Jean d’O», era legato ai suoi romanzi best-seller amati dal pubblico e in genere apprezzati anche dalla critica. Dopo alcuni libri ben riusciti, ma non di grande risonanza, era giunto al successo vero e proprio nel 1971 con La gloria dell’impero (1973), in cui narrava le vicende di un’immaginaria grande potenza dell’antichità, collocata alcuni secoli prima della nascita di Cristo: «il mio editore Julliard era morto, allora ho portato il manoscritto a Grasset, dove mi hanno detto: “I tuoi libri precedenti erano anche divertenti, ma questo è noioso, illeggibile”. Allora ho riprovato da Gallimard, e ho venduto trecentomila copie».
Successivamente conseguì gli studi all’École normale superieure, poi l’approdo all’Unesco: per l’esattezza al Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane (Cipsh la sigla francese), dove d’Ormesson era rimasto per quarant’anni, ricoprendo anche la carica di presidente e coltivando amicizie illustri.
Aveva anche un particolare rapporto con l’Italia, dove aveva abitato per brevissimo tempo. Spesso nei fine settimana aveva l’irresistibile attrazione verso la nostra penisola: partiva da Parigi in auto con qualche amico il venerdì sera, raggiungendo all’alba la Liguria e successivamente arrivava a Roma in tempo per pranzare a piazza Navona, per poi ripartire la domenica pomeriggio per tornare in Francia e assolvere i suoi impegni lavorativi.
Oltre allo scrittore il letterato fu anche giornalista dalla penna finissima: «dirigere un giornale mi sembrava il colmo della felicità» asseriva, nonostante aveva avuto contrasti forti con il direttore del Figaro Pierre Brisson. Di quest’ultimo in gioventù scrisse: «c’è comunque una giustizia a questo mondo, non si può essere direttore di ‘le Figaro’ e avere pure del talento”. Il bello è che 15 anni dopo sono diventato direttore di “le Figaro”».
D’Ormesson faticò per via delle troppe incombenze amministrative che un giornalista deve assolvere, ma riconosceva in questo mestiere – oggi sempre più svilito – una piena dignità, pur rimarcandone la distanza da uomo di lettere, dovuta soprattutto al mistero del tempo. Difatti secondo lo scrittore «Il giornalismo è interamente dalla parte del tempo che passa e la letteratura è interamente dalla parte del tempo che dura. La parola d’ordine del giornalismo è l’urgenza. La preoccupazione della letteratura è l’essenziale».
Solo alla fine degli anni settanta, dopo essersi dimesso dal Figaro, scelse la strada definitiva dello scrittore, mantenendo il solo ruolo di editorialista. Ne era scaturita una fitta produzione di libri, tutti premiati dall’interesse del pubblico. Anche in età molto tarda l’autore teneva un’intensa corrispondenza con i lettori. Non è un caso che la sua unica figlia, Heloise, abbia intrapreso l’attività di editrice.
Nel conferirgli la Legion d’Onore, Hollande, il più impopolare presidente francese della Quinta Repubblica, non nascose l’invidia: «Nel corso di tutta la sua vita lei è riuscito a farsi amare. Come ci è riuscito? Forse grazie allo spirito acuto? All’eleganza? Allo sguardo vivo? Al talento di scrittore? I suoi libri suscitano sempre complimenti, anche tra coloro che non li leggono. Lei è popolare tra gli uomini, le donne, celebre in Francia e non sconosciuto all’estero… Mi sono interrogato su questo mistero: perché questo dono divino? Perché a lei? E perché Dio è così selettivo?».
La risposta può venirci dall’ultimo scritto rilasciato al «Corriere della Sera», nel 2014: «Molti hanno la fede. Io ho solo la speranza. Spero che Dio esista, perché sennò la vita sarebbe solo una farsa crudele. Ma ammiro gli atei che fanno del bene al prossimo, senza aspettarsi una ricompensa ultraterrena. A destra di Dio, per me, siederà un ateo che non crede a nulla […]. Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella».
Per approfondimenti:
_Jean d’Ormesson, A Dio piacendo, Edizioni Super Beat, 2016;
_Jean d’Ormesson, Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella, Edizioni Neri Pozza, 2016;
_Jean d’Ormesson, Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, Edizioni Clichy, 2014.
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