Il professor Derville afferma come nel dono della vita, la maternità resta un mistero, perché non può, in nessun caso, ridursi a uno scambio di natura materiale: a un do ut des. «La mamma surrogato anche se ha deciso, intellettualmente, di non “investirsi”, è dotata di un cuore di madre».
La relazione di una madre a suo figlio è, dunque, più profonda di quello che non si creda. La maternità non può ridursi ad una relazione “carnale”, ma c’è, in essa, un qualcosa di più profondo; il legame che la nuova madre instaura con suo figlio e che non può essere ridotta ad una semplice relazione biologica, sanguigna o carnale, ma implica un legame misterioso che non può essere concettualizzato.
All’interno di queste pratiche, possiamo rintracciare, dunque, una duplice riduzione. In primis, vi è una “sottomissione della donna” e, in seguito, una riduzione della maternità, come avvenimento.
In effetti, esse sfruttano il corpo della donna, che non solo è prestato a terzi, ma è ridotto a un semplice mezzo per raggiungere un fine; per soddisfare i desideri di qualcun altro. La decostruzione dell’essere umano è qui duplice: da un lato, abbiamo, certo, la riduzione del corpo femminile a una sorta di merce, ma dall’altro, ancora peggio, la riduzione del nuovo nato, del bambino a prodotto. In effetti, cosa viene ad essere il bambino frutto di queste pratiche? Nient’altro che un prodotto; oggetto del nostro desiderio e che può essere, sotto pagamento, ordinato e scelto. Come ogni prodotto, poi, ci sono i prodotti ben riusciti, e che rispondono pienamente ai desideri dei compratori-genitori, e quelli mal riusciti o imperfetti: i bambini malati o portatori di handicap. Essi sarebbero, solo, degli errori di cui sarebbe meglio non parlare.
Tuttavia, di fronte alla richiesta legittima, di un padre, che si rifiuta di avere un bimbo malformato e che chiede alla donna portatrice di abortire, può avvenire che la donna si rifiuti. Perché? Non è forse l’emblema di ciò che abbiamo detto in precedenza, ovvero che il legame madre-figlio è più forte di ogni tecnica?
In effetti, questo dimostra non solo che il legame affettivo è molto più forte di quello tecnico, ma, soprattutto, che la maternità non può ridursi a una pratica di commercio. Diremmo allora che questa riduzione della «ricchezza della maternità biologica» è una trasgressione. Ma se questa trasgressione è uno sconvolgimento della vita è perché si ha la tendenza a negare quella complessità che caratterizza l’umano, assumendone dei tratti caricaturali.
Ora, pretendendo d’imitare il reale, la tecnologia si sforza di negarne la complessità, cancellando il mistero dell’imprevedibilità. E’ lo stesso Derville a ricordarcelo: «quando si tratta di ridisegnare la vita, ne facciamo una caricatura!».
In effetti, dal momento che la tecnica si trova incapace a riprodurre ogni sfera della vita umana, la quale è troppo complessa e articolata, e che vuole comunque riprodurla, si trova costretta a semplificarne gli avvenimenti. È così, però, che quello che si chiamava vita, diventa, ipso facto, un’altra cosa, perché la complessità è caratteristica primaria della vita.
In effetti, come abbiamo affermato, la maternità è ridotta ad una semplice relazione “esteriore”, che nega il surplus della gioia proprio alla relazione madre-figlio; un surplus che la tecno-scienza, pretendendo d’imitare il reale, non riconosce.
In questo contesto, la procreazione è vista, sempre più spesso, come “produzione” di bambini ed è per questo che queste pratiche ci invitano a riflettere meglio sullo statuto del matrimonio, ovvero sulla relazione coniugale. Che cosa diviene la relazione coniugale all’epoca della tecno-scienza? In questo contesto, essa non è più il luogo dell’accoglienza, ma della produzione volontaria. Occorrerà spiegare meglio questo passaggio.
La relazione tra i coniugi è una di quelle relazioni che, nel mondo dominato dalla tecnica, ha subito il peso di ciò che abbiamo chiamato riduzione. In effetti, oggi, pensiamo che essa sia il luogo della creazione, quando invece è il luogo della procreazione. Qual è la differenza?
Con il termine di creazione, ci riferiamo a un atto d’invenzione o di produzione. Per questo motivo diciamo che scopo della tecnica è inventare o creare strumenti e prodotti. Ma, come abbiamo affermato, un bambino non può essere in alcun modo il risultato di una produzione e, dunque, a fortiori, nemmeno di una creazione.
Procreare significa donare la vita, essere aperti ad essa e accettare il dono gratuito di una nuova vita. Ora, ciò che ci urge sottolineare è che se la tecnica ci illude di poter creare la vita, e il bimbo in particolare, è la vita stessa che ci ricorda quest’impossibilità: né la madre, né il padre creano il bambino, ma accolgono una vita che non solo non hanno prodotto, ma che possono alle volte nemmeno avere desiderato.
L’amore è dunque, apertura alla vita; al dono gratuito e, ipso facto, la procreazione è l’atto attraverso il quale questo amore si offre e si dona.
Per concludere, ci piace citare le pacate parole pronunciate da Giovanni Paolo II, in cui si afferma che il rischio, sempre più elevato, è che le tecnologie possano arrivare a sostituire la maternità o la paternità:
«[esse sono] sostitutive della vera paternità e maternità e, ipso facto, nocive per la dignità sia dei genitori, che dei figli. [l’atto coniugale] non può essere sostituito da un semplice intervento tecnologico […]».
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