«Se crollo io, il Mediterraneo diverrà un mare insicuro e l’Europa conterà i morti […]. Se la rivoluzione libica cadesse nelle mani degli islamisti, i fondamentalisti potrebbero dominare tutto il Nord Africa». Mu’ammar Gheddafi
Emblematica stretta di mano tra l’ex premier francese Nicolas Paul Stéphane Sárközy de Nagy-Bócsa e Mu’ammar Gheddafi
Due governi in guerra, tre regioni – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – da sempre rivali, 30 tribù divise da ostilità secolari, oltre 300 milizie armate di tutto punto coinvolte in un conflitto volto al controllo dei traffici di armi e di carburante, del contrabbando di uomini e della droga. Questo è in estrema sintesi il tragico bilancio di quella «primavera araba», che nei primi mesi del 2011, con l’aiuto militare dell’Occidente, portò alla fine del regime di Mu’ammar Gheddafi.
La caduta del Colonnello, che sia pur con metodi brutali aveva tenuto insieme il paese per oltre quarant’anni, non inaugurò il «giorno della liberazione» come venne annunciato in maniera frettolosa dai grandi organi di stampa, quanto piuttosto una nuova guerra di tutti contro tutti che continua ancora oggi.
Nel primo cinquantenario dell’unità d’Italia, il quarto governo Giolitti, con una spiccata fisionomia di sinistra, voleva collocare il Paese nel novero delle compagini europee con un «posto al sole», accanto alla Francia che esercitava già un protettorato su Tunisia e Marocco, mentre l’Inghilterra controllava le sorti del Paese chiave del Mediterraneo, ossia l’Egitto, che però faceva sempre parte dell’Impero ottomano. Nel frattempo il Banco di Roma aveva iniziato una «penetrazione pacifica» in Tripolitania e in Cirenaica alla fine del XIX secolo, espandendo gradualmente il proprio controllo sull’industria leggera, l’agricoltura, la navigazione e i commerci del territorio, con l’apertura di agenzie a Tripoli, Bengasi, Zlitan, al-Khums e Misurata. Nel 1911 quando il nuovo governo ottomano (i Giovani Turchi) tentò di ostacolarli, gli italiani organizzarono una spedizione militare. Occuparono i porti principali, ma i beduini accorsero in aiuto alle truppe turche. L’Italia portò quindi la guerra nel Mar Egeo, finché i turchi non furono costretti a cedere il paese (1912). Roma battezzò il territorio conquistato «Libia», antica parola greca che designava il Nord Africa.
Sayyid Ahmed ash-Sharif es-Senussi capo della ṭarīqa (confraternita islamica) Sanūsiyya che si era già opposto alla penetrazione francese nel nord del Ciad, decise di proclamarsi emiro della Cirenaica e proseguire la resistenza contro gli italiani. Dopo la sua deposizione a favore del cugino Muhammad Idris, nel 1918, Roma confermò i privilegi dei Senussi. Tuttavia gli italiani faticavano a controllare il paese. Per far fronte a tale situazione l’allora Duce Benito Mussolini decise di organizzare un massiccio intervento militare. Tra il 1923 e il 1932 verranno riconquistate prima la Tripolitania, poi il Fezzan e infine la Cirenaica – che nel 1927 erano ritornate alla loro vecchia partizione ottomana – con un notevole accrescimento del prestigio, sia nazionale che internazionale del neonato regime fascista.
L’unico vero ostacolo al processo di conquista era rappresentato da Sayyid ʿOmar al-Mukhtār, uno shaykh senussita che in passato aveva combattuto con Ahmed ash-Sharif per poi raggiungere Sayyid Idris nell’esilio al Cairo, dove visse fino al 1923. Egli guidò per circa otto anni bande di guerriglieri beduini in una guerra sempre più aspra e impari contro il Regno d’Italia, riuscendo a tener testa con le sue ridottissime truppe a circa ventimila soldati italiani, dotati dei mezzi più moderni ed efficienti, riforniti con larghezza e protetti da un’aviazione tra le più avanzate dell’epoca.
La lotta proseguì con questo andamento per tutto il 1930 e per i primi mesi dell’anno successivo. La svolta, dal punto di vista tattico si ebbe grazie all’azione del nuovo responsabile del comando Gebel cirenaico, il colonnello Giuseppe Malta, che nell’estate del 1931 riorganizzò le forze a sua disposizione costruendo un gruppo squadroni a cavallo da utilizzare come massa di manovra, lasciando ai gruppi mobili misti il compito di bloccare le vie di fuga alle bande armate (duar) nemiche. L’11 settembre 1931 calò infine il sipario sull’epopea del guerrigliero senussita, quando dopo l’ennesimo scontro con le truppe italiane venne catturato dagli uomini del capitano Bertè. Alle 9 del mattino del 16 settembre 1931 nel campo di Soluch a 56 chilometri a sud di Bengasi, in Cirenaica, ventimila libici assistettero all’impiccagione dell’allora settantenne capo della resistenza in catene sul patibolo, le cui ultime parole furono Inna lillahi wa inna ilayhi raji’un («A Dio apparteniamo ed a Lui ritorniamo»).
Nella foto, Sayyid ʿOmar al-Mukhtār arrestato dalla polizia dell’Africa Italiana (PAI)
Proprio da quel momento cadrà la resistenza libica ed incomincerà l’epopea di ʿOmar al-Mukhtar’, il quale assumerà i contorni di simbolo dell’anti-colonialismo e dell’identità delle popolazioni arabe e nord-africane, tratti che persistono ancora oggi.
Nel 1941 la Libia divenne un campo di battaglia dove si scontrarono, da un lato gli italiani, presto affiancati dalle truppe tedesche de “Deutsches Afrikakorps” (DAK), e dagli inglesi. Furono questi ultimi ad avere la meglio sotto il comando del generale Bernard Law Montgomery e a penetrare in Tunisia nel gennaio del 1943. La Libia, devastata dalla guerra, si trovò in seguito sotto l’occupazione britannica (escluso il Fezzan, occupato dai francesi).
All’indomani della seconda guerra mondiale, un intenso e complesso gioco diplomatico vide protagoniste le grandi potenze occidentali in merito al destino delle regioni storiche della Libia (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan).
In particolare Londra e Washington, mosse da preoccupazioni strategiche (basi militari), erano impegnate sul futuro assetto politico-istituzionale del paese. La Gran Bretagna premeva per una soluzione federale dello Stato in modo da poter riconfermare il proprio controllo sulla Cirenaica che, in quanto «Stato indipendente», non sarebbe rimasto soffocato dal peso economico-demografico della Tripolitania. Non a caso lo sbocco politico di tale soluzione fu la proclamazione dell’autogoverno della Cirenaica da parte britannica (1 giugno 1949). Gli Stati Uniti, a loro volta propendevano per uno stato unitario sul quale avrebbe regnato Idris dei Senussi, buon amico di Londra. La Francia osteggiò il disegno unitario, interessata com’era a conservare il controllo sul Fezzan, ampliato nella sua base territoriale e inserito nella Union Française. Successivamente, in seguito all’accordo fra il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin e l’omologo italiano Carlo Sforza, venne fuori l’idea di un amministrazione fiduciaria da parte delle tre potenze europee sulle tre regioni costituenti della Libia. I patteggiamenti di corridoio vennero però bocciati dalla risoluzione dell’ONU del 21 novembre 1949, che fissava il 1 gennaio 1952 il conseguimento dell’indipendenza della Libia, proclamata il 24 dicembre 1951 in forma di Stato unitario. Il Paese nordafricano diventò, così, uno Stato monarchico retto da Idris, dotato di ampi poteri al suo interno. Uno Stato che, nato sulla base di compromessi e patteggiamenti, svelava da subito più di una debolezza strutturale. Il suo bicefalismo – basti pensare all’esistenza delle due «capitali» Tripoli e Bengasi – dimostrava la surrettizietà dell’unione federale e istituzionalizzava, per così dire, i persistenti dualismi storici antropologici regionali, divenuti ormai dualismi politici. Quella di Idris appariva una sovranità riflessa, dal momento che il suo insediamento sul trono era stato il risultato dei patteggiamenti fra le grandi potenze. Il suo destino politico dipendeva da cospicui finanziamenti esteri, in grado di inventare la Libia «indipendente». Per mantenere questo embrione di Stato, Senusso e governo erano costretti a vivere di elemosine affittando basi militari a inglesi, americani e francesi.
Il 1956 fu l’anno della scoperta del petrolio nel sottosuolo libico. I giacimenti, sfruttati da compagnie americane e inglesi, erano così abbondanti che, nel giro di pochi anni la Libia ricavò enormi royalties. Questo improvviso afflusso di ricchezza sconquassò la società libica: mentre i cittadini si arricchirono, i capi delle confraternite e delle tribù perdettero potere. Una nuova generazione, istruita, aspirava al cambiamento e aveva come modello il capo di Stato egiziano Gamāl ʿAbd al-Nasser. Il prestigio di Idris gli permise nondimeno di conservare il trono fino al 1969.
Il 1 settembre 1969 un gruppo di giovani ufficiali rovesciò la monarchia e si impossessò del potere in nome del Consiglio del Comando Supremo della Rivoluzione (CCR). A guidarli era l’allora ventisettenne Mu’ammar Gheddafi. Mu’ammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi meglio noto come Mu’ammar Gheddafi nacque e trascorse la sua infanzia e l’adolescenza a Qaṣr Abū Hādī , un villaggio berbero della Sirte, dove rimase sino ai ventiquattro anni di età. Una fanciullezza vissuta nell’ambiente duro e povero del nomadismo, contrassegnato dalla severità dei costumi tribali islamici. Il padre lo affidò a un maestro che gli insegnò a memoria il Corano. A dieci anni, Gheddafi entrò in una scuola elementare distante decine di chilometri dai pascoli della famiglia. Per poterla frequentare pernottava in una moschea.
Nella foto del 1969 sulla destra troviamo il colonnello Mu’ammar Gheddafi (معمر محمد أبو منيار القذافي), nato a Qaṣr Abū Hādī, il 7 giugno 1942 e morto a Sirte, il 20 ottobre del 2011. E’ stato un dittatore militare e politico libico.
Successivamente la famiglia si trasferì a Sebha, nel Fezzan: era il 1956, anno che vide l’aggressione franco-britannico-israeliana all’Egitto. Un anno di manifestazioni nel mondo arabo e di incipiente, spontanea «politicizzazione» di Gheddafi. Il giovane Mu’ammar partecipò attivamente alle dimostrazioni anticoloniali negli anni di Sebha (1956-1961). Una di queste venne organizzata per condannare l’assassinio di Patrice Lumumba, padre del Congo indipendente. Altre manifestazioni popolari – di studenti, artigiani e contadini – si tennero contro lo scioglimento della RAU (Repubblica Araba Unita, l’unione fra Egitto e Siria), visto come un tradimento della causa araba.
Implicitamente, le proteste erano dirette contro la monarchia senussita, tiepida nei confronti del panarabismo, corrotta e infeudata alla Gran Bretagna e dalla quale bisognava liberarsi. Il nazionalismo del futuro Raʾīs si andava così a delineare assumendo colorazioni panarabe idealizzate. Le dimostrazioni degli studenti – che prendevano di mira anche il notabilato locale con le sue ossequiose clientele – vennero affrontate dalla polizia con centinaia di arresti.
La militanza politica di Gheddafi si concretizzò nella costituzione di una cellula studentesca segreta dagli obiettivi politici che si andavano via via definendo. Gli anni trascorsi al liceo si rivelarono, in effetti, il laboratorio del suo apprendistato politico. Egli ebbe modo di estendere lo sguardo sull’inquieta Africa nella fase della sua prima decolonizzazione e di porre orecchio a quello che accadeva in Algeria. Il suo attivismo non sfuggì alla polizia, tant’è che, unitamente alla famiglia, Mu’ammar venne espulso dal Fezzan. Un nuovo trasferimento lo condusse a Misurata. Gli anni trascorsi in questa città (1961-1963) – che in quel periodo contava circa duecentomila abitanti – confermavano la pressoché totale scomparsa del suo originario «ribellismo beduino» a favore di sentimenti politici nazionalisti sempre più solidi.
All’età di ventidue anni, Gheddafi riuscì a entrare quindi nell’accademia militare di Bengasi, nonostante un dossier della polizia sul suo conto. Il comitato centrale del gruppo, costituito nel 1964, cominciò a lavorare segretamente ai preparativi del putsch anti-monarchico. Nel 1966, per la prima volta, ebbe un contatto diretto con il mondo occidentale, seguendo in Gran Bretagna un corso sui sistemi di comunicazione. Punto di riferimento politico ideologico era il nazionalismo panarabo di Nasser. Allo stesso tempo, Mu’ammar prestava attenzione al progetto unitario maghrebino di Allal al-Fasi. La formazione politico-ideologica di Gheddafi affondava nella cultura beduina e nella tradizione coranica, sulle quali si riversavano, in maniera disordinata, l’accostamento alla letteratura illuministica – da Voltaire a Rousseau – agli scritti di Sun Yat-sen, padre della prima Repubblica cinese, fino a Dickens e in seguito Sayyid Qutb, teorico del radicalismo islamico militante. Era attratto dalla Rivoluzione francese e da quella americana, oltre che dall’esempio cubano, senza dimenticare l’esperienza rivoluzionaria cinese.
Al contrario di molti suoi omologhi africani, che si sono limitati a prendere il potere senza cambiare la struttura economica del proprio paese, Gheddafi, ispirato dal «socialismo arabo» di Nasser, ha come prima cosa nazionalizzato, nel novembre del 1969, l’intero settore bancario e quello petrolifero. A ciò seguì la limitazione, pari al sessanta per cento del salario, dei trasferimenti all’estero dei fondi appartenenti ai residenti stranieri. In materia sociale, il nuovo regime si distinse per il notevole incremento dei salari, la riduzione del trenta-quaranta per cento degli affitti e l’avvio di una politica di controllo dei prezzi per frenare l’inflazione.
Per effetto di tali politiche economiche i miglioramenti sociali sono stati notevoli. La speranza di vita si è allungata fino a raggiungere quasi i settantacinque anni, un vero record considerando che in alcuni Paesi del continente africano la media è attestata intorno ai quarant’anni. Quando Gheddafi prese il potere, nel settembre del 1969, il tasso di analfabetismo in Libia era circa del novantaquattro per cento mentre oggi l’ottantotto per cento della popolazione è alfabetizzato. Lo stesso profilo stilato dal Federal Research Division della libreria del Congresso federale USA, un ente certo non sospettabile di simpatie verso il regime di Gheddafi, così scrive: «Un servizio sanitario di base è fornito a tutti i cittadini libici. Salute, formazione, riabilitazione, educazione, alloggio, sostegno alla famiglia, ai disabili e agli anziani sono tutti regolamentati dai […] servizi assistenziali. Il sistema sanitario non è puramente pubblico , ma piuttosto un mix di assistenza pubblica e privata. Paragonato ad altri Stati del Medio Oriente, lo stato di salute è decisamente buono. Le vaccinazioni infantili coprono la quasi totalità della popolazione. La fornitura di acqua potabile è in crescita e le condizioni igieniche sono migliorate. Gli ospedali più grandi si trovano a Tripoli e Bengasi e le cliniche mediche private e i centri diagnostici, che offrono un’attrezzatura più moderna e un servizio migliore, sono competitivi con il settore pubblico. Il numero dei medici e dei dentisti è cresciuto ben sette volte nel periodo fra il 1970 e il 1985, per cui si ha un medico ogni 673 cittadini. Nel 1985 circa un terzo dei dottori era nato in patria, mentre i restanti erano stranieri espatriati. Nello stesso periodo il numero dei posti letto negli ospedali è triplicato. La malaria è stata sradicata. Nel 2004 è stato stimato che il tasso di mortalità è sceso al di sotto del 20 per mille».
Uno degli obiettivi prioritari del CCR fu lo smantellamento delle basi militari straniere. Stati Uniti e Gran Bretagna apparvero in serie difficoltà dinnanzi a tali iniziative, ma furono costrette a cedere dinnanzi alle pressioni libiche. L’accordo raggiunto con Londra prevedeva il ritiro dei britannici dal territorio libico entro il 31 marzo 1970. L’11 giugno 1970 spettò a Washington ritirare da Wheelus Field le proprie installazioni con relativo personale.
Nel 1973, Gheddafi lanciò la «rivoluzione culturale libica», che nel 1977 portò alla proclamazione della Jamahiriya araba libica popolare e socialista (il neologismo jamahiriya, formato a partire dal termine jamahir, masse, significa pressappoco «massocrazia»).
Fu in questo periodo che vennero poste le basi della Terza Teoria Universale enunciata nel “Libro Verde“, una sorta di risposta islamica al “Libretto Rosso” di Mao Tse-tung, pubblicato tra il 1976 e il 1979.
La Terza Teoria Universale venne elaborata con l’intento di superare sia il sistema democratico-parlamentare di matrice liberale, sia i sistemi sorti in seguito alla Rivoluzione bolscevica.
Gheddafi legge il “Libro Verde” in età avanzata. A destra, l’attuale “edizione italiana” a cura della casa editrice Circolo Proudhon.
La prima parte del Libro Verde attacca la democrazia parlamentare vista come schermo legale che separa il popolo dall’esercizio effettivo del potere. La democrazia rappresentativa si avvale dei meccanismi elettorali per celare «il sistema dittatoriale» sulla quale si regge. I parlamenti, pertanto, si sostituiscono alle masse nell’esercizio del potere. Scrive Gheddafi: «Il parlamento è una rappresentanza ingannatrice del popolo (…). Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perché democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso. L’esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. (…). I parlamenti, escludendo le masse dall’esercizio del potere, e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera legale tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia, che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti». In definitiva, prosegue Gheddafi, il parlamento «è il risultato della vittoria elettorale di un partito, è il parlamento del partito e non del popolo. Rappresenta il partito e non il popolo ed il potere esecutivo detenuto dal parlamento è il potere del partito vincitore e non del popolo». Tanto meno il pluripartitismo è sinonimo di democrazia, in quanto legittima lo strapotere di gruppi oligarchici. Gheddafi non ha dubbi sulla funzione del partito in una democrazia parlamentare. Esso esprime la dittatura contemporanea. È costruito da una minoranza che governa dopo aver raggiunto i propri obiettivi: rendere esecutivi gli interessi e le opinioni di una minoranza giunta al potere. Nota Gheddafi: «La lotta tra i partiti, se non si risolve nella lotta armata, il che avviene raramente, si svolge per mezzo della critica e della denigrazione reciproca». In quanto detentore del potere il partito rappresenta soltanto parte del popolo; ne viola la sovranità indivisibile. Il partito «è la tribù e la setta dell’età moderna. (…)Per la società, la lotta dei partiti ha lo stesso effetto negativo e distruttivo della lotta tribale o settaria».
Per sfuggire all’imposizione della maggioranza Gheddafi propone l’instaurazione della sovranità popolare diretta. Premessa del governo popolare è l’organizzazione della società attraverso i Congressi popolari ed i Comitati popolari.
Tali organi rappresentano la garanzia contro eventuali involuzioni dittatoriali o pseudo democratiche di governo. Nel Libro Verde sono delineati strutture e funzionamenti del sistema a democrazia diretta. I Comitati popolari fungono da collegamento fra i livelli superiori di governo (Congresso generale del popolo) e dell’amministrazione con le richieste della base. Si legge nel testo: «In primo luogo il popolo si divide in congressi popolari di base. Ognuno di questi congressi sceglie la sua Segreteria. Dall’insieme delle Segreterie si formano , in ogni settore, congressi popolari non di base. Poi, l’insieme dei congressi popolari di base sceglie i comitati popolari e amministrativi che sostituiscono l’amministrazione governativa. Da questo si ha che tutti i settori della società vengono diretti tramite comitati popolari. I comitati popolari che dirigono i settori divengono responsabili dinanzi ai congressi popolari di base; questi ultimi dettano ai comitati popolari la politica da seguire e controllano l’esecuzione di tale politica. (…). Tutti i cittadini che sono membri di questi congressi popolari appartengono, per la loro professione e per le loro funzioni, a varie categorie o settori quali gli operai, i contadini, gli studenti, i commercianti, gli artigiani, gli impiegati, i professionisti. Essi, oltre ad essere cittadini membri, o cittadini aventi funzioni direttive nei congressi popolari di base o nei comitati popolari, devono costituire congressi popolari a loro propri. I problemi discussi nei congressi popolari di base, nei comitati popolari, prendono forma definitiva nel Congresso Generale del Popolo, dove s’incontrano tutti i direttivi dei congressi popolari, dei comitati popolari. Tutto quello che viene deciso nel Congresso Generale del Popolo, che si riunisce una volta all’anno, è riferito ai congressi popolari, ai comitati popolari, per la sua messa in atto da parte dei comitati popolari che sono responsabili dinanzi ai congressi popolari di base. Il Congresso Generale del Popolo non è un gruppo di membri di un partito o di persone fisiche come i parlamenti ma è l’incontro dei congressi popolari di base, dei comitati popolari».
Nel Libro Verde il rigetto del «modernismo» (democrazia parlamentare, pluripartitismo, socialismo) si concentra nell’opposizione al concetto ed al metodo della lotta di classe. Ciò in forza della considerazione che il sistema politico di classe «è identico a quello dei partiti, delle tribù o delle sette». La classe rappresenta solo una parte del popolo. Ne consegue che l’egemonia di classe è sostanzialmente la medesima del dominio della tribù. Quando ci si trova al cospetto di un gruppo – comunque inteso – la società è proiettata verso la dittatura. «Tuttavia, la coalizione di classi o di tribù è preferibile alla coalizione di partiti perché il popolo, alla sua origine, è costituito da un insieme di tribù, mentre tutti fanno parte di una determinata classe». Prosegue ancora Gheddafi: «Ogni classe che diviene l’erede della società ne eredita allo stesso tempo le caratteristiche. Se, per esempio, la classe operaia annientasse tutte le altre, diverrebbe l’erede della società; diverrebbe, cioè, la base materiale e sociale della società». Respinta, così, la soluzione marxista – secondo la quale l’emancipazione della classe oppressa emancipa l’umanità intera – il leader libico ritiene che il comunitarismo tribale sia preferibile perché evita il ricambio dell’egemonia delle classi. «Ogni società, in cui vi è conflitto di classi, è stata in passato una società composta da un’unica classe; in seguito all’inevitabile evoluzione delle cose, questa stessa classe ha generato le altre».
Nelle intenzioni di Gheddafi il Libro Verde doveva figurare come un manifesto per l’azione politica. Esso aveva lo scopo di intensificare i suoi precedenti tentativi di mobilitazione che fino a quel momento erano stati fatti fallire, secondo quanto egli sosteneva «perché il sistema politico del Paese non era in grado di esprimere la vera voce del popolo, perché i libici non controllavano direttamente le proprie risorse economiche e per l’arcaicità delle strutture sociali presenti». Idee molto chiare, come si vede, e che insieme all’insistenza sull’egualitarismo e sull’assenza di gerarchia, tendono a riflettere anche un ethos di tipo tribale.
Consapevole del fatto che un paese con le dimensioni territoriali e demografiche della Libia poteva garantire stabilmente la propria libertà dal dominio straniero solamente integrandosi in una più vasta unità geopolitica, Gheddafi ha perseguito con ammirevole perseveranza il disegno dell’unificazione politica con altri paesi che condividevano con la Libia l’identità araba e islamica. Cercò di realizzare l’unione – rispettivamente – con Egitto e Siria (1972), Tunisia (1974) e Marocco (1984), ma questi tentativi si risolsero in altrettanti fallimenti. Nel 1989, un trattato siglato da Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania diede vita all’Unione del Maghreb; ma dopo qualche anno anche questo progetto finì in un vicolo cieco. Nel 1973 il Raʾīs trascinò il paese in un’avventura militare in Ciad che durò più di vent’anni.
A spingere Gheddafi nell’impresa ciadiana furono più fattori. Innanzitutto il tentativo statunitense di destabilizzare il regime di Tripoli creandogli difficoltà politico-militari, mentre quest’ultimo era impegnato a sostenere forze e movimenti ritenuti anti-imperialistici. In più dietro l’ambizioso disegno di unificare politicamente ed ideologicamente il Sahara si stagliava il problema dell’acqua. Ma a fronte dell’iniziativa militare esistevano tradizionali rivendicazioni e referenti storici. Al riguardo, la dirigenza libica faceva riferimento agli accordi Laval-Mussolini coi quali la Francia aveva ceduto all’Italia i contrafforti settentrionali del Tibesti. Al momento Parigi restò in attesa degli sviluppi della situazione, pressata com’era tra le esigenze petrolifere e la tradizionale politica interventistica. In sostanza, il Ciad rappresentava, per molti versi, l’epicentro della politica francese in un’aerea di confine fra l’Africa araba e l’Africa sub sahariana, via di comunicazione che metteva in contatto Parigi con le risorse minerarie poste più a sud nel continente. Dopo l’assassinio del Presidente François Tombalbaye e l’ascesa al potere del generale Félix Malloum la Libia non cessò di sostenere i movimenti di opposizione mentre il governo ciadiano cercava di internazionalizzare la questione della «striscia di Aouzou», occupata da truppe libiche dal 1973, portandola all’attenzione dell’OUA e dell’ONU. Soltanto l’intervento militare francese (1978) consentì a Malloum di respingere le forze di Goukouni Oueddei sostenuto dalla Libia. Gli sviluppi del conflitto debordavano ormai dall’ambito strettamente regionale. L’Egitto e il Sudan – in rotta di collisione con Tripoli – oltre ad altri Stati dell’area s’impegnarono a sostenere i movimenti antilibici. Ormai il tempo era maturo per l’intervento delle grandi potenze, a cominciare dalla Francia che non intendeva rinunciare alle proprie posizioni in Africa, né ad abdicare alla sua funzione di mediatrice continentale fra le grandi potenze, in linea con gli interessi strategico-commerciali che sorreggevano la sua politica maghrebina ed araba (Algeria, petrolio libico, ecc.). A sua volta l’interferenza statunitense mirava a mettere piede in un continente verso il quale la Casa Bianca aveva mostrato tradizionalmente scarso interesse. In questo modo Washington intendeva spezzare il monopolio politico-diplomatico francese sulla fascia sahariana e sub sahariana ed a puntellare la propria presenza in funzione antisovietica colpendo indirettamente il regime libico. Il ritiro francese dal Ciad (1980) lasciò via libera all’intervento libico culminato nell’annuncio della fusione fra i due paesi (1981), condotta dal vittorioso Gheddafi e dal tiepido assenso di Oueddei, presidente del governo transitorio di unità nazionale. La firma degli accordi di Kano comportò l’esilio per il presidente cristiano filo francese Malloum. Ma di lì a poco gli accordi stessi sarebbero divenuti carta straccia. La Libia non si limitò alle operazioni militari e concesse sostanziosi prestiti in petrodollari al ceto burocratico dirigente ed all’esercito ciadiani oltre a promettere la riapertura della Banca Centrale. Un simile munifico atteggiamento rispondeva all’esigenza libica di vedere riconosciuta l’annessione della «striscia di Aouzou», ricca di minerali, e trasformare il Ciad in un’eventuale testa di ponte pan sahariana, con proiezione islamica, verso Camerun e Nigeria. Intanto si fece più consistente l’intervento di Washington a sostegno della fazione antilibica di Hissène Habré che sferrato un attacco sulla capitale N’Djamena, sconfisse Oueddei (1981) prima di riprendere i negoziati con i libici che occupavano il Ciad settentrionale fino al quindicesimo parallelo. Viste le difficoltà nelle quali si dibatteva Habré sotto l’incalzante controffensiva libica, Parigi decise di inviare (1983) una forza d’interposizione che consentì al leader ciadiano di riorganizzare le proprie forze. Con l’operazione «Manta», affidata al generale Jean Poli, un veterano della guerra d’Algeria, vennero fatti affluire nel Ciad 3.500 soldati francesi, aerei Jaguar e Mirage, carri armati e batterie di missili antiaerei. L’anno successivo venne firmato un accordo franco-libico che prevedeva il ritiro simultaneo dei contingenti dei due paesi. Ma Tripoli, in reazione al continuo flusso di armamenti che Washington inviava ad Habré, riprese l’offensiva nel nord ciadiano in via di «libizzazione». Intanto scattò l’offensiva di Habré (1987) che inflisse pesanti perdite all’esercito libico, peraltro scosso da complotti, in uno dei quali restò implicato il governatore della Sirtica Hassan Ishqal, cugino di Gheddafi. A questo punto il conflitto mise a nudo non soltanto la debolezza militare libica ma soprattutto la demotivazione delle truppe di Tripoli. In seguito, auto criticamente, lo stesso Gheddafi riconobbe che il coinvolgimento libico nel contesto arabo e saheliano si era rivelato controproducente. Su questo sfondo maturò l’accordo Habré- Gheddafi (1989) che faceva della Libia il paese aggressore ed impegnava i due leaders a un patto di non-aggressione ed a risolvere la questione di Aouzou. Il bilancio della guerra ciadiana si rivelò, a più livelli, politicamente fallimentare per il regime libico. La guerra inferse un duro colpo alla strategia di Gheddafi compromettendo l’ipotesi di uno «Stato transahariano» capace di proiettare i popoli del Sahel fuori dalla povertà e dal sottosviluppo. La guerra, inoltre, ridiede fiato alle disunite e deboli opposizioni interne, incapaci di trasformare in arma politica la sconfitta militare del regime. Per giunta, la demotivazione dell’esercito e il cospicuo sforzo finanziario sostenuto con la guerra sottrassero alla Libia risorse umane e materiali che finirono per bloccarne lo sviluppo. A sua volta il Ciad restò esposto a continui ed imprevedibili colpi di scena ed irretito in un’instabilità di fondo che nel 1990 portò all’uccisione di Habré ed all’insediamento del filo libico Idris Déby – alla testa del Movimento patriottico di salute – impegnato a ripristinare la «pace civile». La transizione ciadiana e i migliorati rapporti con le capitali dell’area indussero Gheddafi a riprendere le ingerenze, stavolta in maniera morbida e senza dichiarazioni particolarmente clamorose. Intanto, la controversia sulla striscia di Aouzou venne risolta dalla decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia che il 3 febbraio 1994 emise una sentenza che attribuiva al Ciad la piena sovranità sul territorio conteso.
Nel corso degli anni la rendita petrolifera permise a Gheddafi di finanziare diversi gruppi rivoluzionari e antimperialisti del Terzo Mondo. Il Raʾīs infatti fornì denaro ed armi al Frente de Libertaçao de Moçambique (FRELIMO) di Eduardo Mondlane e Samora Machel e al Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde (PAIGC) di Amilcar Cabral, movimenti di liberazione nazionale che lottavano per l’instaurazione del socialismo nei loro rispettivi paesi. La politica estera libica irritò non poco diverse cancellerie occidentali tanto che alla fine gli Stati Uniti decisero di reagire: nel 1986 bombardarono Tripoli e Bengasi. Il presunto coinvolgimento di Tripoli nell’attentato di Lockerbie del 21 dicembre 1988, portò l’ONU a decretare un embargo contro il paese che durerà fino al 1999. Il governo libico si sforzerà allora di giungere a una normalizzazione dei suoi rapporti con i paesi europei e con gli Stati Uniti, rinunciando alla fabbricazione di armi di distruzione di massa. Alla liberalizzazione economica intrapresa a partire dal 1988, non si accompagnò un cambiamento politico.
All’inizio del 2011 anche il regime di Gheddafi, come quello di Ben Ali e Mubārak, venne investito dal fenomeno delle «primavere arabe». Soltanto che, a differenza di quanto era accaduto in Tunisia e in Egitto, non si ebbe l’immediata caduta della dittatura, ma l’inizio di una sanguinosa guerra civile.
In Libia le prime manifestazioni di violenza si verificarono principalmente in Cirenaica, fra Bengasi e Tobruk, e nel giro di una settimana l’intera regione riusciva ad eliminare ogni presenza delle forze lealiste e a costituire un «Consiglio Nazionale di Transizione» (CNT), che subito si accampò diritti sul petrolio libico e sui fondi sovrani. Del resto la Cirenaica, dove è ancora forte l’influenza della Sanūsiyya, la confraternita politico-religiosa che ha espresso Muhammad Idris, il sovrano deposto da Gheddafi nel 1969, era stata una spina nel fianco del Raʾīs e non era nuova a movimenti di ribellione, sbaragliati con l’impiego dell’esercito e dell’aviazione.
L’entità del conflitto e la presunta necessità di proteggere i civili autorizzavano il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a promulgare la risoluzione n.1973, che accordava a una coalizione internazionale, capeggiata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, di intervenire militarmente in Libia, con operazioni di no-fly zone.

20090710 – L’AQUILA – POL – G8: G8:LEADER OSSERVERANNO MINUTO DI SILENZIO PER VITTIME SISMA. (da sin.) Il presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, Kanayo F. Nwanze,
il presidente francese, Nicolas Sarkozy, presidente russo, Dmitry Medvedev, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il segretario generale dell’ ONU, Ban Ki-Moon, il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero e il presidente dell’Unione Africana Muammar al-Gheddafi, nell’ultimo giorno di lavoro del G8, oggi 10 luglio 2009, prima di scoprire la targa che ricorda il terremoto, nella grande piazza della scuola della guardia di Finanza sede del vertice, che da oggi cambiera’ nome: non piu’ piazza d’Armi ma piazza 6 aprile, il giorno in cui il terremoto ha colpito. ANSA/ETTORE FERRARI/on
G8: i leader osservano un minuto di silenzio per le vittime del Sisma dell’Aquila. Da sinistra a destra: Silvio Berlusconi, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, presidente russo, Dmitry Medvedev, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il segretario generale dell’ ONU, Ban Ki-Moon e il presidente dell’Unione Africana Muammar al-Gheddafi, nell’ultimo giorno di lavoro del G8, il 10 luglio 2009, prima di scoprire la targa che ricorda il terremoto.
Tra tutti i governi europei quello italiano si distinse per vigliaccheria e doppio-giochismo. Dopo aver sottoscritto appena tre anni prima a Bengasi un «trattato di amicizia e cooperazione» con la Libia, in cui si impegnava, fra le altre cose, a non usare né permettere l’uso del proprio territorio in qualsiasi atto ostile contro Tripoli, esso offrì l’utilizzo di ben sette basi militari oltre a partecipare alle ostilità con un gran numero di cacciabombardieri. Molto meglio sarebbe stato per l’Italia se si fosse defilata come ha fatto la Germania della Merkel. Oramai risulta chiaro che gli obiettivi di questa guerra non erano il ripristino della democrazia e dei diritti umani, ma una nuova spartizione delle ingenti risorse petrolifere (60 miliardi di barili di greggio e 1.500 di metri cubi di gas naturale) e l’acquisizione dei fondi sovrani libici, la cui immane consistenza ha consentito al Colonnello di operare investimenti in tutti i paesi del mondo, particolarmente in Africa.
Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbero realizzato il vecchio sogno di un Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, euro o dollaro statunitense. Gheddafi, come capo dell’Unione africana, aveva annunciato quattro giorni prima dell’intervento militare contro la Libia un ambizioso piano per unificare il continente nero attraverso la creazione di una moneta unica per circa un miliardo di persone. Nel progetto era previsto di utilizzare il dinaro d’oro anche per i pagamenti delle risorse energetiche, come il petrolio e il gas naturale. Ciò avrebbe obbligato Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia e molti altri partner commerciali a tener riserve di questa nuova moneta per le transazioni con i Paesi dell’Unione Africana. La proposta del Raʾīs di sostituire le varie monete locali africane con il dinaro d’oro era impossibile da accettare per l’Occidente. Che il petrolio sia denominato e pagato in dollari, infatti, è di vitale importanza per gli Stati Uniti e per il sistema di relazioni economico finanziarie edificato da Bretton Woods in poi, che in tale modo continua a mantenere il biglietto verde come la moneta internazionale di riferimento.
L’economia americana rischierebbe il collasso se il prezzo del greggio venisse denominato in altre valute, e il petrolio non fosse più pagato in dollari.
Il 20 ottobre, dopo due mesi di aspri combattimenti nella città di Sirte, Mu’ammar Gheddafi decise di abbandonare la città assediata dagli insorti per raggiungere il suo villaggio natale di Qaṣr Abū Hādī, ad una ventina di chilometri. Ormai lui e i suoi uomini erano privi di munizioni e da settimane si nutrivano soltanto con riso e pasta. Alle 7 del mattino, una trentina di veicoli abbandonava il Quartiere n.2, l’ultimo ridotto ancora nelle mani dei lealisti, e cercava di spezzare la morsa dell’assedio.
A questo punto Gheddafi commise un grave errore, quello di usare il suo cellulare di tipo satellitare. La comunicazione venne intercettata dagli aerei-spia e pochi minuti dopo un drone Predator, decollato da Sigonella, in Sicilia, attaccava il convoglio con numerosi missili Hellfire. Al fuoco del Predator si aggiunse quello di alcuni Mirage-2000 francesi, che sganciarono sui veicoli bombe Paveway da 500 libbre. Alle 8.30 metà del convoglio era distrutto, compreso il gippone di Gheddafi, che aveva alla guida il cugino e guardia del corpo Mansour Dhao. Dal veicolo il Colonnello e il cugino uscirono però vivi, anche se feriti. Youssef Bachir, comandante della brigata degli insorti «Ghiran», che aveva avuto la ventura di catturare Gheddafi, così lo descrive: «Era ferito alla tempia e al fianco e i suoi abiti erano intrisi di sangue».
Alle 9, dunque Gheddafi era ancora vivo, si reggeva sulle sue gambe. «Ma era talmente indebolito – precisa Bachir – che aveva difficoltà a parlare». Poi la situazione sfuggì di mano. I suoi uomini, che avevano già giustiziato 66 soldati del convoglio, circondarono il Raʾīs, lo strattonarono, lo ingiuriarono, gli tolsero la giacca a vento, la camicia e gli stivaletti, gli strapparono ciocche dei capelli. Questo linciaggio durò una manciata di minuti, nel corso dei quali un insorto lo sodomizzò con un bastone. Alla fine Gheddafi venne scaraventato sul pianale di un automezzo, mentre qualcuno gridava: «Tenetelo vivo, tenetelo vivo».
Secondo una prima versione dei fatti, Gheddafi veniva ucciso durante uno scontro fra gli insorti e i partigiani del Colonnello. Ma la verità era un’altra, e la raccontò l’ex primo ministro del CNT, Mahmoud Jibril. Egli precisò, infatti, che il Raʾīs era stato ucciso «per ordine di un’entità straniera, una nazione o un leader, perché non si voleva che i suoi segreti fossero rivelati». Nel corso dell’autopsia, eseguita a Misurata, vennero estratti due proiettili, uno cervello e l’altro dall’addome. Un’esecuzione in piena regola. Un «assassinio di Stato», come specificò Mahmoud Jibril.
La brutale uccisione di Gheddafi non ha posto fine solo al suo regime, ma anche alla Libia come Stato. Avamposto dello Stato Islamico nel Mediterraneo centrale, crocevia del traffico di esseri umani dall’Africa sub-sahariana verso l’Europa e terreno di scontro fra fazioni rivali, difficilmente essa tornerà a essere mai il paese che era prima del 2011.
_Dirk Vandewalle, Storia della Libia contemporanea, Roma, Salerno editrice, 2007;
_Paolo Sensini, Libia. Da colonia italiana a colonia globale, Milano, Jaca Book, 2017;
_Alessandro Aruffo, Muammar Gheddafi e la nuova Libia, Roma, Datanews, 2001;
_Alessandro Aruffo, Gheddafi. Storia di una dittatura rivoluzionaria, Roma, Castelvecchi Editore, 2011;
_Giorgio Rochat, Guerra italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari, Treviso, Pagus, 1991
_Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931), Roma, Manifestolibri, 2005;
_Gheddafi Templare di Allah. La rivoluzione libica nei discorsi di Mo’ammar El-Gheddafi. introduzione, traduzione e scelta dei testi di Claudio Mutti, Padova, Edizioni di Ar, 1975;
_Mu’ammar Gheddafi, Libro Verde, Roma, Circolo Proudhon Edizioni, 2015;
_Mu’ammar Gheddafi, Fuga all’inferno e altre storie, Roma, Manifestolibri, 2006;
_Mino Vignolo, Gheddafi: Islam, petrolio e utopia, Milano, Rizzoli, 1982;
_John K. Cooley, Muammar Gheddafi e la rivoluzione libica, Milano, Corno, 1983;
_Dino Frescobaldi, La riscossa del Profeta, Milano, Sperling & Kupfer, 1988;
_Bob Woodward, Veil: le guerre segrete della CIA, Milano, Sperling & Kupfer, 1978.
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