Con l’invio di Carlo di Valois (1270-1325) in Firenze, mandato dal Papa come teorico paciere, ma di fatto conquistatore, la Repubblica spedì a sua volta a Roma Dante come membro di un’ambasceria, accompagnato da Maso Minerbetti, uomo senza volontà propria, e da Corazza da Signa. Il poeta si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano: il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio (1260 ca.-1335 ca.) fu nominato Podestà di Firenze. Questi appartenente ai Guelfi Neri, diede inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al Papa, e che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell’esilio. Con due condanne successive (quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302), le quali colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi e soprattutto dei Gherardini di Montagliari (di cui l’amico Andrea Gherardini), il Sommo Poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.
Fuoriuscito da Bologna, Dante riparò probabilmente a Pistoia, presso l’amico Cino. Poi si trasferì in Romagna, ove fu quindi ospite di diverse corti e famiglie, fra cui gli Ordelaffi, signori ghibellini di Forlì, e dove probabilmente si trovava quando l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel (1220-1295), che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita. Dopo altre peregrinazioni, il Nostro tornò a Forlì nel 1310-1311, ed ancora nel 1316 (data incerta, quest’ultima).
Dante terminò le sue peregrinazioni in quel di Ravenna, dove trovò asilo presso la corte di Guido Novello da Polenta (1275 ca.-1333), signore della città, tuttavia i rapporti con Verona non cessarono, come testimoniato dalla sua presenza nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la “Quaestio de aqua et terra”, ultima sua opera in lingua latina.
Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del Paradiso (58-60) in cui Cacciaguida prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]». Il poeta morì a Ravenna il 14 settembre 1321 di ritorno da un’ambasceria a Venezia, avendo contratto la malaria in quel di Comacchio.
I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, dove, sotto un portico laterale, venne posto il primo sarcofago del Poeta. Intorno al sarcofago nel 1483 venne costruita una cella, su progetto dello scultore Pietro Lombardo (1430-1515); nel 1780, l’archietto Camillo Morigia (1743-1795), su incarico del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga (1725-1808), progettò il tempietto neoclassico tuttora visibile.
Senza dubbio l’idea di una Italia unita culturalmente era molto, ma molto antecedente ai Secoli XVIII e XIX. La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi le grandi e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni. La penisola italica – così veniva definita – era considerata una semplice espressione geografica e appariva come terra di conquista. Inizialmente Francia, Spagna e Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti Stati Italiani, di ridotte dimensioni geografiche – avevano conservato la loro indipendenza, ma di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei. Per lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, i francesi, i tedeschi o gli spagnoli comandavano. In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese. Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti. Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio e quell’esigenza di libertà e per raggiungere questa, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.
Scriveva Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad Italiam”: «O nostra Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare, famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte e la natura e fecero maestra del mondo».
Il sogno dell’Unità politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da generazioni successive di giovani e di intellettuali, convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai trovato pace e prosperità. Diviso politicamente per secoli, debole e fragile, il territorio fu facile preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi, più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come abitanti della Penisola, siamo stati – come recita il nostro inno nazionale – per secoli «calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché divisi».
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