29 Lug Tempesta perfetta ad Amburgo
di Dario Neglia 01/08/2017
Se si vuole andare per mare, i nodi sono importanti. In particolare, ce n’è uno che di solito s’impara per primo, semplice ma al contempo molto utile. È un nodo cosiddetto di giunzione, serve a unire due corde di uguale spessore e regge anche discretamente la tensione di carico: quanto più essa aumenta, tanto più le due corde si stringono tra loro. Si chiama nodo piano, in inglese reef knot.
Un nodo piano è il simbolo scelto dalla Cancelliera Merkel per il G20 appena conclusosi. Per due giorni, il 7 e l’8 luglio, i capi di Stato e/o di governo delle prime venti economie al mondo si sono riuniti nella città fluviale di Amburgo, nel nord della Germania. È stato facile per Mme Merkel, leader del paese ospitante, spiegare la metafora del nodo durante la sessione inaugurale del vertice. A fronte della crescente difficoltà delle sfide mondiali, i leader politici devono stringersi sempre più tra di loro, unirsi, senza spezzare la corda. Ma il simbolismo va oltre. Infatti, la stessa città ospitante, Amburgo, (oltre ad aver dato i natali alla Cancelliera) è stata un emblema di apertura fin dal XVI secolo, soprattutto commerciale ma anche lato sensu (politicamente è molto progressista). Si tratta di un riferimento evidente, data la situazione attuale della vita politica internazionale. A questo si aggiunge il titolo programmatico dell’evento: “Dare forma ad un mondo interconnesso”.
Ad ogni modo, simboli a parte, ci sono almeno tre ragioni per le quali il vertice della settimana scorsa merita di essere ricordato. In primo luogo, la tempistica. La politica internazionale è sempre stata dominata dall’incertezza, ma il livello che si è raggiunto al giorno d’oggi è tale che molti parlano di una vera e propria età del caos. Il mondo è diventato talmente complesso da essere ingovernabile, si dice, tanto all’interno quanto all’esterno dello Stato, a causa dei profondi cambiamenti geopolitici, tecnologici, socioeconomici degli ultimi vent’anni. Terrorismo internazionale, climate change, crisi finanziarie, migrazioni di massa, hanno aumentato a dismisura le variabili in questa equazione da risolvere, rendendo immane il lavoro dei policy makers.
Il vertice di Amburgo era importante, quindi, in primis per tale motivo: benché di rado tali incontri raggiungano conclusioni espressive, stavolta le attese erano se possibile anche più alte del solito. I leader mondiali erano chiamati a pareggiare la fortissima domanda di ordine e stabilità con un’offerta adeguata. D’altronde, rappresentando circa l’85% del PIL e i 2/3 della popolazione mondiale, le decisioni prese in una sede del genere – se implementate in modo adeguato – possono davvero essere efficaci e cambiare le cose. A fortiori, peraltro, se si considera che le più importanti date elettorali sono passate da tempo. Gli Stati Uniti hanno già eletto Trump, la Francia Macron, la Brexit è alle spalle, così come le elezioni anticipate inglesi. La stessa Merkel, unica tra i grandi leader europei a dover ancora passare dalle urne a settembre (in realtà ci saremmo anche noi, ma ormai la nostra situazione è diventata una triste costante…) sembra proiettata verso una vittoria quasi sicura. Insomma, i principali partecipanti della conferenza erano in una condizione di full powers, per così dire. Avendo superato buona parte dei principali giri di boa, il momento era quello di un “ora o mai più”, considerate le circostanze e l’assenza di scusanti.
In secondo luogo, il G20 di Amburgo era di per sé importante già per la sola gravità dei problemi in agenda. Al primo posto, il cambiamento climatico, uno dei fenomeni meno appariscenti (rectius più controversi) eppure più nefasti nell’intera storia del mondo. L’Accordo di Parigi siglato nel 2015 nell’ottica di un contrasto al riscaldamento globale è stato fortemente depotenziato dall’America di Donald Trump, che ha denunciato il trattato tirandosene fuori. Quella che sembrava una questione non di certo archiviata, ma se non altro indirizzata sulla buona strada, peraltro dopo un lungo e faticoso processo negoziale durato anni, oggi è tornata prepotentemente ai primi posti della lista di questioni più spinose da risolvere.
E che dire del terrorismo? Gli Europei ne sono stati testimoni e vittime negli ultimi anni. La crisi geopolitica in Medio Oriente, specialmente Siria e Iraq, ha prodotto un’ondata di attacchi nel Vecchio Continente – ad opera del sedicente Stato Islamico – che è quasi riuscita a piegare migliaia e migliaia di persone alla dittatura del terrore. Ma questo è niente se si guarda al fenomeno delle migrazioni di massa. Si tratta del vero e proprio trend di lungo periodo dei nostri tempi, destinato a durare per decenni. Demograficamente l’Africa è una sorta di bomba ad orologeria pronta ad esplodere nel prossimo futuro. Ceteris paribus, gli analisti prevedono che il continente supererà Cina e India come tasso di crescita della popolazione. Entro il 2100 quattro persone su dieci nel mondo saranno nate in Africa. Se a ciò si unisce la miseria e il sottosviluppo di molti paesi soprattutto nella fascia sub-sahariana, si capisce perché così tanti disperati provino ad attraversare il Mediterraneo rischiando la propria vita, nella speranza di ottenere un futuro migliore di quello a cui sono condannati.
Il commercio e l’economia si inseriscono analogamente nell’agenda di Amburgo, quali temi anzi privilegiati, essendo appunto il G20 un forum per discutere principalmente di questioni economico-finanziarie. L’economia mondiale si è ormai quasi del tutto ripresa dalla crisi del 2008, tuttavia ora i rischi provengono dal protezionismo di matrice americana, che ha già mietuto le prime vittime, ossia i due trattati di libero scambio TTIP e TTP, rispettivamente tra USA e UE, e USA e paesi del Pacifico. Last but not least, i tre grandi focolai di crisi che avvelenano le falde della politica internazionale. Primo, la più grande crisi dell’ultimo decennio: la Siria. Secondo, il conflitto che allora si credeva avrebbe portato il mondo sull’orlo di una nuova guerra mondiale: l’Ucraina. Terzo, quello più recente e che con ogni probabilità ha il curriculum migliore per aspirare al ruolo di miccia se davvero dovesse scoppiare la Terza guerra mondiale: la Corea del Nord.
Come si vede, gli argomenti erano dunque molti, e la loro importanza era tale da fare tremare le vene e i polsi. Ma di certo Amburgo passerà ai libri di storia anche per un terzo motivo. C’era un incontro, un vero e proprio vertice nel vertice, che i media di tutto il mondo stavano aspettando, e che avrebbe dovuto avere luogo per la prima volta proprio in occasione del G20 in Germania: il primo faccia a faccia tra Donald Trump e Vladimir Putin. Eufemisticamente, si è detto tutto e il contrario di tutto riguardo alla relazione più che tra i due paesi, proprio tra questi due uomini. E se le cose che i detrattori di Trump sostengono fossero vere, anche in minima parte, sarebbe forse lo scandalo più grande nell’intera storia della presidenza statunitense. In ogni caso, l’incontro c’è stato ed è durato un’ora e mezza più del previsto. Segno che evidentemente qualcosa da dirsi i due l’avevano.
È inutile negarlo, Trump è il catalizzatore dell’attenzione di tutti gli osservatori di politica internazionale, né potrebbe essere altrimenti trattandosi del Capo di Stato e di governo del paese primo al mondo per forza militare e secondo per potenza economica. Ma il 45° presidente degli Stati Uniti è a digiuno di affari internazionali, sicché quando a maggio si tenne il G7 a Taormina, l’attenzione era su di lui a causa del suo debutto sulla scena dei Grandi. Ma adesso, oltre ad attendere la sua entrata in scena su un palcoscenico più grande come il G20 e il primo incontro con l’omologo russo, si cerca di studiarlo per cercare di intuire quali saranno le sue prossime mosse. Compito alquanto difficile per un presidente che, alla meglio, è stato definito erratico.
In effetti, tutta una serie di questioni latenti ruotano attorno all’America trumpiana, vera e propria incognita della politica internazionale ancor più della Gran Bretagna post-Brexit. Anzitutto la qualità delle relazioni transatlantiche. I paesi dell’UE, padrona di casa tedesca in primis, devono ancora prendere le misure al nuovo inquilino della Casa Bianca, soprattutto sui grandi temi della lotta al cambiamento climatico e del sostegno al commercio mondiale. Dal canto suo, la Cina pare si sia già portata avanti col lavoro, alternando tra loro toni conciliatori e perentori rivolti a Washington, e soprattutto cercando di riempire il vuoto geopolitico che il neo-isolazionismo trumpiano sta creando. In ogni caso la relazione sino-statunitense è più unica che rara, data l’eccezionalità dei due soggetti, una superpotenza militare e l’altra economica. Quanto alla Russia…cela va sans dire. Sulla presunta liaison tra Trump e Putin i critici dipingono trame fosche di intorbidimento del processo democratico americano, mentre i sostenitori la sbandierano come esempio di una nuova “distensione” che potrebbe finalmente regolare la politica mondiale. Amburgo è stato il contesto in cui tutte questi temi si sono incrociati, aumentandone di molto l’importanza.
Tuttavia, sottolineare l’importanza e il valore particolare di questa conferenza, non implica che alla fine, anche in questo caso, si possa dire che si sono prese decisioni sensazionali o dall’effetto dirompente. Su molti temi la distanza tra i paesi resta troppo grande. Eppure la Merkel ha cercato in ogni modo – aiutata anche dalla sua innata capacità diplomatica – di ottenere quel minimo grado di condivisione che permette di arrivare ad un compromesso. Anche a scapito dell’efficacia delle decisioni prese. Difatti, così è stato, e traspare in un modo o nell’altro nel communiqué finale.
Riguardo al cambiamento climatico, vero e proprio pomo della discordia e tema fondamentale della conferenza, i paesi del G20 si sono limitati a “prendere atto” della decisione statunitense di abbandonare l’Accordo di Parigi, ma allo stesso tempo hanno sancito che esso è – e resta – “irreversibile” per le altre parti contraenti. Se l’UE, Germania e Francia in testa, riusciranno a legare la Cina (principale paese inquinatore al mondo) e l’India agli impegni presi nella capitale francese, come pare avverrà, e considerando anche che molti singoli Stati degli Stati Uniti hanno già detto che si impegneranno per rispettare l’accordo, la decisione trumpiana non sortirà il tanto paventato effetto di rendere de facto inefficace il trattato. Peraltro, va segnalato che – mai come in questa occasione e su questo tema – si è verificata una notevole frattura tra i paesi mondiali, e specialmente tra i paesi del G7 e gli USA. Alcuni commentatori hanno già coniato l’espressione “G19 +1” per sintetizzare l’isolamento dell’America di Donald Trump sul tema, ma forse sarebbe più corretto parlare di un “G6 +1”. Infatti, di certo nell’ambito del G7 la frattura è nettissima, mentre in ambito G20 alcuni paesi potrebbero pur sempre scegliere di schierarsi dalla parte degli USA (ad esempio Arabia Saudita, o Turchia).
Allo stesso modo, parlando di commercio internazionale – un altro tema avvelenato – si è consumata un’altra frattura silenziosa nello scontro tra i fautori del protezionismo e quelli del libero commercio. Così, quantunque nel comunicato finale si scriva che il commercio internazionale va stimolato, in qualità di volano della crescita mondiale, si aggiunge anche che contro le pratiche commerciali scorrette va riconosciuto un ruolo agli “strumenti di difesa”. Ma quali? E su quali prodotti? Come sempre, l’ambiguità dell’espressione non è un buon segno, perché indica che i diretti interessati che hanno fatto pressione per inserire questa piccola frase (ovvero gli Stati Uniti) potranno sfruttare tale vaghezza per avere più margine di manovra. Le voci di corridoio indicano l’acciaio europeo come probabile bersaglio di nuovi dazi che Washington sarebbe pronta ad imporre, arrivando anche al 25%. Così, le relazioni transatlantiche verrebbero invelenite anche sotto l’aspetto commerciale, dopo quello del climate change e il già menzionato fallimento del TTIP.
Riguardo al terrorismo poco si è fatto, ma va detto che il G20 non è il luogo privilegiato dove discuterne e prendere decisioni degne di tale nome. Tra i paesi partecipanti non si riesce nemmeno a trovare una definizione comune riguardo a quali soggetti annoverare tra i gruppi “terroristi” e quali no. Per i Turchi sono i Curdi, ma non per gli Occidentali, mentre il legame tra Arabia Saudita e frange estremiste conclamate è stato ampiamente dimostrato, ma tant’è.
Riguardo all’immigrazione e – lato sensu – alla cooperazione allo sviluppo verso l’Africa, pur in assenza di decisioni definitive, va riconosciuto che la Cancelliera si è prodotta in un notevole sforzo in prima persona per promuovere uno schema di patti bilaterali tra i paesi industrializzati e quelli africani, onde stimolare l’afflusso di capitali e sostenere lo sviluppo economico soprattutto dei paesi della fascia centrale del continente africano. Se non altro, questa rappresenta una novità che mai prima d’ora un paese organizzatore del G20 aveva messo in atto. Al contrario, il problema degli sbarchi di migranti sulle coste italiane non è stato affrontato nel forum, ma la discussione – che di sicuro ci sarà stata a livello informale – principalmente tra il nostro paese e gli altri partecipanti ha fatto registrare toni abbastanza diversi da quella solidarietà di facciata che gli altri paesi sembrano fare a gara per mostrarci, appunto solo a parole.
È stata poi la volta del colloquio Trump/Putin. Analizzato in ogni fotogramma e studiato fin nella mimica facciale o nel linguaggio del corpo, i due maschi alfa, come è stato detto, hanno optato in realtà per una sorta di basso profilo durante il summit. Il presidente statunitense, peraltro, appena il giorno prima dell’inizio del G20, a Varsavia, aveva tenuto un discorso dai toni quasi da scontro di civiltà tra l’Occidente ed il resto del mondo, ammonendo la Russia di smettere di interferire negli affari di altri paesi sovrani. D’altronde, la Polonia non è solo uno dei pochi paesi della NATO che rispetti l’impegno del 2% del PIL da destinare alle spese militari – come hanno sempre richiesto gli Americani – ma anche uno di quelli dove la russofobia è più radicata.
Ma, al dunque, tra i due uomini forti ha prevalso la sintonia o il presunto sforzo per trovare un’intesa (e – chi può dirlo – forse qualcosa di altro?). Tuttavia, l’Ucraina è argomento poco importante per l’America (mentre vale l’opposto per Putin) perché si possa giungere ad una soluzione che non sia il congelamento dello status quo. In modo analogo si è arrivati ad un nulla di fatto sulla Corea del Nord, stante la volontà della Cina di gestire un suo alleato come il regime di Pyongyang che – seppur pericoloso – fa comunque parte di quello che Pechino considera il giardino di casa sua, dove quindi non tollera ingerenze, neppure dagli Stati Uniti. Il principale risultato è stato dunque sulla Siria: un cessate il fuoco nella zona sud-occidentale del paese, che si aggiunge ad altre quattro zone di de-escalation già negoziate in altra sede. Non è un granché, ma probabilmente si voleva dimostrare che il conflitto siriano potrà essere risolto unicamente da un accordo russo-statunitense, cosa che è vera solo in parte, perché in gioco ci sono molti altri attori, dall’Iran alla Turchia, dall’ISIS ad Assad.
In fin dei conti, cosa resta del vertice di Amburgo? Senza alcun dubbio rimarrà la frattura, abbastanza profonda finora, che si è venuta a creare tra gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali. Se aumenterà o meno in futuro dipenderà dalle scelte di Trump. Gli Europei, tuttavia, sembrano aver ormai capito che devono prepararsi a tempi duri. A voler guardare il lato positivo, questo potrebbe essere lo stimolo tanto agognato per far sì che il Vecchio Continente raggiunga finalmente una maggiore unità politica. In ogni caso, l’UE dovrà iniziare a giocare quel ruolo da player mondiale che si addice al suo peso economico e demografico. O altri faranno al posto suo… Nella geopolitica esiste infatti una legge ferrea, l’horror vacui, ed è curioso che soprattutto i sostenitori della distensione Putin-Trump (piuttosto che Russia-USA) non considerino quest’ultimo aspetto.
Riguardo a quest’ultimo punto, infatti, come ha detto efficacemente Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group, non si sono mai visti nella storia «due leader così amichevoli a capo di due paesi con interessi così opposti». È quindi incredibile che lo stesso Trump, pur considerando il mondo un insieme di relazioni a somma zero, dove c’è chi vince e chi perde senza che si possano dare possibilità di mutua collaborazione per una vittoria condivisa, non applichi tale struttura di pensiero alle stesse relazioni russo-statunitensi. Qui, invece, si ritiene che l’America possa collaborare proficuamente con la Russia, in vista di non si sa bene quale fine. O meglio, per Mosca l’obiettivo risulta chiaro: uscire dall’isolamento geopolitico a cui il paese (giustamente) era stato relegato dopo l’illecito internazionale dell’annessione della Crimea. Tuttavia, ad esempio proprio sulla Siria, dove in più di ogni altro caso – si dice – dovrebbero vedersi i frutti di questa tanto declamata collaborazione, si osserva da più parti che Mosca ha vinto, ma cosa ne hanno ottenuto gli Stati Uniti oltre ad un loro disimpegno dalla regione con tutte le conseguenze del caso? Nella politica internazionale, come dicevo sopra, se lasci un vuoto altri lo riempiranno.
In conclusione, forse il vero aspetto di quest’ultimo G20 che bisognerà ricordare è legato ad un’altra celebre definizione, sempre di Ian Bremmer, che indica quale sarà il futuro a cui ci avviciniamo: un «G-Zero», un mondo confuso poiché privo di quei centri di potere capaci di dar forma alle relazioni internazionali in modo sistemico. Nella seconda parte del secolo scorso sono stati gli Stati Uniti a plasmare il nostro mondo, ma adesso assistiamo ad «un’America unilateralista, una Gran Bretagna che si ritrae, una Francia che si sta ancora riprendendo, una Russia revisionista e una Cina che ancora non è potenza dominante» (The Economist online, 7 luglio). A nulla servono questi consessi di leader politici, perché il mondo ormai è diventato tutto una grande incognita, e i processi sfuggono al potere che vorrebbe controllarli, di qualunque natura esso sia.
Tutto ciò è esemplificato proprio dalla stessa Germania merkeliana: una potenza commerciale, aperta e multiculturale, legata a doppio filo alla globalizzazione e che da essa trae la propria forza ed in essa prospera. Ciò nondimeno, essa è incapace di governarla da sola, debole sotto il profilo del potere militare a causa delle cicatrici del suo recente passato, disperatamente bisognosa di alleanze e diplomazia. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 6 luglio, la Cancelliera aveva detto che il vertice di Amburgo, il «suo G20», avrebbe dovuto rifondare «un ordine globale giusto». C’è da chiedersi se questo non sia un compito irrealizzabile, non tanto per la Germania quanto per la nostra epoca tout court. Forse dobbiamo sperare che si inventino altri nodi, per resistere alle tensioni future, perché pare che quelli vecchi – incluso il nodo piano – siano pericolosamente vicini al punto di rottura. E si sa, non si può andare per mare senza nodi che tengano.
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