14 Lug La portata secolare del dadaismo
di Giovanni Tartaglia 15/07/2017
“Per comprendere come è nato Dada è necessario immaginarsi, da una parte, lo stato d’animo di un gruppo di giovani in quella prigione che era la Svizzera all’epoca della prima guerra mondiale e, dall’altra, il livello intellettuale dell’arte e della letteratura a quel tempo. Certo la guerra doveva aver fine e dopo noi ne avremmo viste delle altre. Tutto ciò è caduto in quel semi-oblio che l’abitudine chiama storia. Ma verso il 1916-1917, la guerra sembrava che non dovesse più finire. In più, da lontano, sia per me che per i miei amici, essa prendeva delle proporzioni falsate da una prospettiva troppo larga. Di qui il disgusto e la rivolta. Noi eravamo risolutamente contro la guerra, senza perciò cadere nelle facili pieghe del pacifismo utopistico. Noi sapevamo che non si poteva sopprimere la guerra se non estirpandone le radici. L’impazienza di vivere era grande, il disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta moderna, alle sue stesse basi, alla logica, al linguaggio, e la rivolta assumeva dei modi in cui il grottesco e l’assurdo superavano di gran lunga i valori estetici. Non bisogna dimenticare che in letteratura un invadente sentimentalismo mascherava l’umano e che il cattivo gusto con pretese di elevatezza si accampava in tutti i settori dell’arte, caratterizzando la forza della borghesia in tutto ciò che essa aveva di più odioso (…)”.
Partendo dalla definizione di Tristan Tzara, dare un significato al termine Dadaismo e’ un compito assai arduo, da non sottovalutare.
Parallelo – ma non incidente – al resto delle avanguardie del novecento, il Dada si sviluppò a cavallo delle due guerre, in particolare, come reazione “non-artistica” alle atrocità della Grande Guerra.
Se nello stivale italiano si sviluppava il militarismo e l’ode alla guerra con i Futuristi, e nei Paesi Bassi si facevano spazio le forme geometriche dei padri del De Stijl, nella Svizzera neutrale e non belligerante nasceva (e floridamente si sviluppava) il più emblematico dei movimenti d’avanguardia.
Per decenni, dopo la “fine” del Dada come movimento artistico – anche se tracce dei suoi insegnamenti si riscontrano nel Surrealismo, nelle neoavanguardie e tutte le correnti artistiche conseguenti -basti guardare l’Arte povera e la pop art – molti studiosi e sociologi cercarono di spiegare le origini del nome. C’è chi lo attribuì alla parola russa “da” – enfatizzando la possibilità che il movimento avesse una matrice comunista (e in particolare Leninista); altri lo fecero risalire alla parola francese “cavallo a dondolo”, o all’ancestrale “Da-da” pronunciato dai neonati italiani e tedeschi per matrice linguistica. La verità è che nessuna di queste ipotesi, sebbene non totalmente false, può essere definita completamente vera.
L’analisi etimologica, per quanto spicciola, è necessaria per capire a fondo le radici e il vero senso della rivoluzionaria tendenza culturale e sociale che rappresentò il Dada.
L’incertezza, il non-senso, il rifiuto di razionalità e logica furono i caratteri portanti della cultura dadaista, che si prefigurava – anche semplicemente nel nome, cui origine rimane priva di fonti – come una delle più prolifiche fucine d’avanguardia del suo secolo.
Nato nella Zurigo del 1916, immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, il movimento si sviluppa dal piccolo palcoscenico del “Cabaret Voltaire” (che fa da culla all’intera corrente artistica), attraverso le menti creative di Tristan Tzara e dal regista Hugo Ball, che dirige i primi spettacoli Dadaisti.
La forma degli spettacoli non è dissimile da quelli presentati durante le “Serate Futuriste” nella vicinissima Milano – la differenza è che il Dadaismo protesta contro la guerra, e lo fa scardinando la società del tempo, negando ogni sviluppo, e servendosi dell’arma a doppio taglio dell’irrazionalità. I primi spettacoli Dada erano il delirio dell’arte scenica, cui partecipazione con il pubblico si poneva come punto cardine: questo era coinvolto nell’opera, chiamato a partecipare allo spettacolo d’arte messo in scena e l’ospite era invitato a cantare canzonette assurde, ironiche, su un sottofondo “rumoroso” di metallo e plastica che formavano i vestiti di scena dei ‘non artisti‘ Dada.
Ancora Tristan Tzara: “Per fare un poema dadaista. Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada”.
Per la prima volta, la danza entrava di diritto tra i cardini di un’avanguardia, basti pensare agli spettacoli di danza moderna astratta di Sophie Taeuber-Arp, che portava in scena le sue ballerine senza coreografia, indossando maschere prive di volti.
Il Dada fu tra i primi sperimentatori del ‘ready-made‘ – in realtà sperimentato in primo luogo da Duchamp, poi adottato nelle tendenze Dadaiste – che faceva di un oggetto qualsiasi (quale, ad esempio, la ruota di una bicicletta) un opera d’arte, non dissimile dai quadri dei grandi artisti; da qui, l’idea che “se tutto è arte, nulla lo è”.
Il ready-made fu probabilmente la “scoperta” più rivoluzionaria della cultura Dada, il picco massimo del loro anarchismo.
Nonostante l’aspra critica alla cultura, alla società e, in particolare, all’arte del suo tempo – senza risparmiare Cubisti e Futuristi, che erano “disprezzati” dai Dadaisti perché considerati troppo ‘istituzionali‘ – dopo una primissima “fase” caratterizzata da pura sperimentazione artistica, il Dadaismo si omologò lentamente al resto delle Avanguardie, sviluppando un proprio “Manifesto” e accettando nei suoi circoli o “Galerie Dada” le opere futuriste e cubiste, perdendo il suo spirito rivoluzionario per rifugiarsi in una sorta di nichilismo artistico, di rifiuto totale verso le altre forme d’arte, che non fossero completamente, indiscutibilmente, libere.
Proprio seguendo questo principio nel 1918, il Manifesto del movimento portò uno dei suoi fondatori, Tristan Tzara, a definire il Dadaismo come «Dada non significa nulla».
I vari circoli Dada, come quello di Berlino – ormai completamente politicizzato ed asservito alla Rivoluzione Spartachista – o al prolifico Dadaismo d’oltreoceano (era l’epoca di Man Ray e di Ballet mécanique, agli albori del Surrealismo) diventarono autonomi e si consolidarono in altre correnti o sparirono del tutto.
Il Dadaismo, quindi, è stato a tutti gli effetti un “fuoco di paglia”. Nonostante l’abnorme impatto mediatico, e la sua fondamentale impronta nella storia dell’arte contemporanea, il Dada fu un periodo di passaggio che quasi spinge molti storici dell’arte ad esitare nel definirlo “movimento artistico” – esso fu, coerentemente alla sua primissima impronta concettuale, una “sperimentazione continua” che finì per ritrovarsi isolato dalle canoniche forme d’arte, quali pittura, scultura, danza, proprio per il suo disprezzo verso le stesse.
Per approfondimenti:
_Valerio Magrelli, “Profilo del dada” – Edizioni Laterza;
_Luigi Di Corato, Elena Di Raddo, Francesco Tedeschi, “Dada 1916. La nascita dell’antiarte” – Silvana Editoriale
_Tristan Tzara, “Con totale abnegazione” – Editore: Castelvecchi
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