Le prime misure adottate dal governo israeliano per sedare la rivolta consistettero nell’espulsione di alcuni leader. I servizi segreti interni (Shin Bet) diedero la caccia ai dirigenti clandestini dell’Intifada, ma il movimento popolare riuscì a far emergere nuove figure. La repressione non fece altro che aumentare la partecipazione e l’intensità dell’Intifada. I palestinesi riuscirono con mezzi primitivi a mettere in crisi l’apparato militare israeliano: così Rabin, con l’inizio del 1988, mise in atto una politica ancora più dura e repressiva di quella già fino ad allora portata avanti. Iniziò allora un periodo cupo durante il quale l’esercito perdette ogni freno: gli abusi e gli eccessi di brutalità, che comunque non erano mancati nel passato, contro la popolazione civile si moltiplicarono. Già alla fine del 1990 si contarono 1.025 vittime, più di 37.000 feriti e quasi 40.000 arrestati. La risposta israeliana alle manifestazioni era caratterizzata da un’estrema durezza: da ambo le parti fu una lotta senza quartiere. Il 30 ottobre 1991, a Madrid, si riunì una “Conferenza Internazionale per la Pace in Medio Oriente”. La Conferenza, seguita alla Prima guerra statunitense contro l’Iraq, era stata proceduta da svariati atti preliminari.
Nel maggio 1989, Yāsser ʿArafāt, presidente dell’OLP e leader di al-Fatḥ aveva dichiarato “decaduta” la Carta dell’OLP (quella elaborata nel 1964 e rivista nel 1968). Negli ultimi mesi del 1989 e nei primi del 1990 l’emigrazione di ebrei sovietici verso Israele, conobbe un’accelerazione senza precedenti e nell’ottobre 1991 l’Unione Sovietica ristabilì le relazioni diplomatiche con Israele, interrotte nel 1967. Nel gennaio del 1991 erano stati assassinati a Tunisi tre capi di al-Fatḥ. Dei 15 fondatori del movimento rimanevano in vita Yāsser ʿArafāt e l’inoffensivo Fārūq al-Qaddūmī, formalmente capo del Dipartimento politico, ma nei fatti privo di qualsiasi potere contrattuale.
L’OLP non era formalmente ammessa alla Conferenza, ma partecipava ai lavori una folta delegazione di palestinesi emersi negli anni dell’Intifada come leader popolari ben accetti alla dirigenza dell’OLP a Tunisi. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, i negoziati proseguirono a Washington, ma si interruppero dopo l’espulsione di 415 attivisti palestinesi decisa dal governo Rabin nel dicembre 1992. Il 13 luglio 1993 il capo dell’OLP, Yāsser ʿArafāt, firmò una lettera indirizzata al capo del governo israeliano, Yitzhak Rabin, in cui si impegnava a “rinunciare al terrorismo” e a “riconoscere lo Stato d’Israele”. Il 13 settembre 1993 L’OLP e Israele firmarono alla Casa Bianca una “Dichiarazione di principi”, in seguito nota come “Oslo I”, che avrebbe dovuto portare a un “autogoverno dei palestinesi”. Il 1994 si aprì all’insegna del proseguimento dei massacri dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo, ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi (DOP), sono una serie di accordi politici conclusi a Oslo (Norvegia) il 20 agosto 1993.
Il 25 febbraio il colono Baruch Goldstein irruppe nella Moschea d’Abramo a Hebron e uccise 29 fedeli in preghiera. Proseguirono le trattative fra l’OLP e il governo Rabin. Pochi giorni dopo verranno firmati accordi riguardanti questioni economiche (Parigi, 29 febbraio 1994), sulle modalità di applicazione della “Dichiarazione dei principi” (Il Cairo, 4 maggio 1994), sull’estensione del regime dell’autonomia alla Cisgiordania (Washington, 28 settembre 1995), in seguito noto come “Oslo II”.
Nell’ottobre 1994 Israele e Giordania firmarono un trattato di pace. Il 4 novembre 1995 venne ucciso – da un colono estremista – il presidente israeliano Yitzhak Rabin.
Punto centrale degli accordi era la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese con corpi di polizia e servizi di informazione ai quali venne ben presto chiesto di partecipare alla repressione. Già nell’aprile 1995 la polizia palestinese, presente allora solo a Gaza, arrestò 170 presunti “simpatizzanti di Hamas”, mentre il governo diede una forte accelerazione alla politica degli “omicidi mirati” uccidendo Yaḥyā ʿAyyāsh, leader di Hamas. Il 20 gennaio 1996 si organizzarono le elezioni vinte da al-Fatḥ che ottenne l’80% dei seggi del “Consiglio Legislativo”. ʿArafāt venne eletto “Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese”.
La creazione dell’ANP non fermò la continua erosione del territorio palestinese con la creazione di nuovi insediamenti per coloni israeliani. Il 27 settembre 1996 l’apertura di un tunnel sotto la collina della Spianata delle Moschee divenne motivo di una protesta popolare. La polizia israeliana sparò sui manifestanti e uccise 44 persone, mentre circa 700 rimasero ferite. Il 25 febbraio 1997 cominciarono i lavori di costruzione di un grande insediamento a Gerusalemme Est, in violazione degli stessi accordi di Oslo, mentre gli Stati Uniti posero il veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il 14 maggio 1998, in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, l’IDF sparò sui manifestanti palestinesi, ne uccise 9 e ne ferì 200. Il mese dopo il governo israeliano approvò un piano per l’ampliamento del territorio di Gerusalemme. In ottobre l’ANP firmò a Wye River un nuovo accordo in cui si impegnava a “reprimere i gruppi ostili alla pace”.
Il 28 settembre 2000, il capo del Likud, il generale Ariel Sharon, si recò sulla Spianata delle Moschee accompagnato da centinaia di poliziotti. Le manifestazioni di protesta che esplosero spontaneamente a Gerusalemme vennero represse secondo le solite modalità: la polizia sparò sui manifestanti, ne uccise 7 e ne ferì 250. La protesta popolare ben presto dilagò dando inizio a un nuovo periodo di forte mobilitazione popolare che verrà in seguito definito come Seconda Intifada o Intifada di al-Aqṣā. Ben presto i moti popolari cedettero il passo all’azione di gruppi armati. Infatti, in base agli accordi di Oslo erano stati introdotti nei Territori Occupati ingenti quantità di armi e di uomini armati provenienti dall’estero, all’evidente scopo di spostare sul terreno militare lo scontro tra il disarmato e pacifico movimento di resistenza popolare palestinese e l’esercito di occupazione israeliano.
La repressione dei moti popolari dell’ottobre 2000, proseguì con uso massiccio di armi pesanti. Nel febbraio 2001, il generale Sharon sostituì Ehud Barak alla guida del governo israeliano. I raid con elicotteri da guerra israeliani si intensificarono e alla fine di marzo l’esercito israeliano invase le zone assegnate alla polizia palestinese secondo gli accordi di Oslo. Da parte palestinese, continuarono gli attentati su tutto il territorio israeliano.
In aprile le vittime civili palestinesi della Seconda Intifada salirono a 400. Il 18 maggio, un attentatore suicida palestinese si fece esplodere in un supermercato uccidendo cinque soldati israeliani. Pochi minuti dopo l’attentato i caccia F16 israeliani bombardarono le città di Ramallah, Nāblus e Ṭūlkarem causando decine di morti. In luglio vennero creati dieci nuovi insediamenti israeliani nei Territori Occupati.
Il 29 agosto venne ucciso a Ramallah Abū ʿAlī Muṣṭafā, leader del FPLP (Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), con due missili lanciati dall’esercito israeliano. Per tutta risposta il 17 ottobre un commando del FPLP uccise il ministro israeliano Rehavam Ze’evi. Il 18 l’aviazione israeliana bombardò le sei città affidate all’ANP nei Territori Occupati uccidendo 40 civili palestinesi. In dicembre i caccia F16 bombardarono l’ufficio del capo dell’ANP ʿArafāt a Gaza accusato di “non fare abbastanza per combattere il terrorismo”. ʿArafāt venne confinato nel suo ufficio a Ramallah sotto assedio israeliano. Il 16 gennaio 2002, la polizia dell’ANP arrestò il nuovo leader del FPLP Ahmad Saʿdāt.
Si alternarono attentati suicidi palestinesi a bombardamenti e omicidi mirati israeliani. In aprile l’esercito israeliano occupò di nuovo la città di Betlemme, Qalqīlya e Ṭūlkarem, precedentemente consegnate all’ANP.
Alla fine di marzo del 2002 Israele lanciò, colpendo aree residenziali, la più grande offensiva militare dai tempi dell’inizio dell’Occupazione della Cisgiordania nel 1967. Chiamata Operazione “Scudo difensivo”, l’invasione di città palestinesi raggiunse livelli incredibili di violenza nei confronti della popolazione civile, la distruzione di edifici e infrastrutture governative, l’incendio di numerosi negozi, centri e attività commerciali, danni incommensurabili al patrimonio culturale e distruzioni di infrastrutture civili. L’esercito israeliano tagliò acqua ed elettricità dalla maggior parte delle aree e impose pesanti coprifuoco sugli abitanti della città. Tutte le città palestinesi e il loro tessuto sociale ed economico hanno subito un livello incomparabile di violenza e distruzione, ma la parte più grave dell’Operazione “Scudo difensivo” è stata condotta nel campo profughi di Jenin, la cui invasione è stata etichettata da tutte le organizzazioni per la difesa dei diritti umani come “crimine di guerra”.

Frammento fotografico dell’operazione “scudo difensivo”. L’operazione è stata una grande operazione militare condotta dalle Forze di difesa israeliane nel 2002, nel corso della Seconda intifada. È stata la più grande operazione militare nella Cisgiordania, dopo la guerra dei sei giorni del 1967. L’obiettivo dichiarato era quello di porre fine all’ondata di attacchi terroristici palestinesi. Il casus belli fu l’attentato suicida avvenuto il 27 marzo al Park Hotel a Netanya; un attentatore palestinese si fece esplodere, uccidendo 30 persone e ferendone altre 140.
L’offensiva ha avuto inizio con l’attacco al quartier generale di Yāsser ʿArafāt a Ramallah. L’esercito entrò a Betlemme, Ṭūlkarem, Qalqīlya il 1 aprile e Jenin e Nāblus il 3 e 4 aprile. Queste aree vennero dichiarate “zone militari chiuse”, ogni via d’accesso venne bloccata e fu impedito il passaggio ai soccorsi umanitari e medici. Jenin venne assediata e l’accesso alla città impedito dal 3 al 18 aprile circa. Un fuoco sostenuto, l’assalto dei carri armati e missili sparati dagli elicotteri Apache diedero il via all’attacco contro il campo profughi. Poiché i blindati non poterono entrare nei vicoli, i bulldozer demolirono le case sui due lati delle strade. Con la morte di ʿArafāt, nel novembre 2004 vennero indette le elezioni presidenziali per la designazione del suo successore.
Il primo dei quattro round di elezioni municipali – che si svolsero tra il dicembre 2004 e il dicembre 2005 – inaugurò per i palestinesi un anno di appuntamenti con le urne. Nel gennaio 2005 Maḥmūd ʿAbbās fu eletto dopo una campagna elettorale che mostrò forti divisioni all’interno di al-Fatḥ: Marwān Barghūthī – che dall’aprile 2002 era detenuto nelle carceri israeliane – si presentò come candidato alternativo ad ʿAbbās. La candidatura di Barghūthī creò scompiglio nelle file di al-Fatḥ – diversi sondaggi prevedevano un testa a testa fra i due leader per la presidenza – ma venne ritirata un mese prima delle elezioni. Il ritiro di Barghūthī e il rifiuto di Hamas di presentare un proprio candidato consegnarono la vittoria ad ʿAbbās, che prevalse con il 62,5% dei voti. Il successo di ʿAbbās era però più fragile di quanto le percentuali potessero far supporre: ʿArafāt era stato eletto dieci anni prima con quasi il 90% dei voti in elezioni che avevano visto un affluenza molto più alta – il 71% dell’elettorato contro il 45% del 2005 – e la vittoria di ʿAbbās si doveva, in buona parte, alla trattativa dell’ultimo minuto con la “nuova guardia” del partito che aveva portato al ritiro di Barghūthī. La crisi di al-Fatḥ fu resa evidente dall’andamento delle consultazioni successive, dove gli islamisti presentarono le proprie liste. Hamas ottenne un sostanziale successo dapprima nelle elezioni locali: dal primo round – in cui l’organizzazione conquistò oltre il 35% dei voti, e 13 municipi su 28 – al quarto – quando essa si impose a Nāblus, Jenin e al-Bireh – il movimento islamista mostrò per la prima volta quanto fosse solido il consenso di cui godeva nei Territori, anche al di fuori delle proprie tradizionali roccaforti di Gaza e Hebron. Alla vigilia delle elezioni per il Consiglio la “minaccia” nei confronti del monopolio di al-Fatḥ aveva dunque assunto tratti molto concreti. Numerosi osservatori dubitavano tuttavia che Hamas sarebbe riuscita a replicare il buon risultato locale in un’elezione nazionale; immaginare una sconfitta di al-Fatḥ – centro della politica palestinese dalla fine degli anni Sessanta – per opera di quella che era principalmente considerata un’organizzazione terroristica sembrava impossibile. L’esito del voto del 25 gennaio 2006 fu dunque per molti versi un fulmine a ciel sereno e uno shock per la comunità internazionale: non solo Hamas vinse le elezioni, ma si impose in modo netto, aggiudicandosi quasi il 45% delle preferenze e 72 seggi su 132, mentre al-Fatḥ si fermò al 41% e 45 seggi. Hamas ottenne così la maggioranza assoluta dei seggi del Consiglio e la possibilità di formare un governo. Nel marzo 2006 Ismāʿīl Haniyeh – tra i fondatori di Hamas – divenne così il primo ministro dell’ANP.
Per il movimento islamista la scelta di partecipare alle elezioni rappresentò una svolta fondamentale: per la prima volta Hamas accettava di partecipare al sistema politico creato dagli accordi di Oslo, pur senza riconoscerli apertamente.
La dirigenza del movimento aveva già discusso questa possibilità nel 1996, ma allora era stata scelta la strada del boicottaggio. Nel 2005 il contesto era cambiato, per via della crisi di al-Fatḥ e del crollo catastrofico del processo di Oslo.
La Seconda Intifada era stata combattuta da tutti i gruppi armati palestinesi, ma aveva rafforzato Hamas rispetto ai suoi concorrenti politici. La delusione per l’esito di Oslo aveva premiato politicamente la credibilità di chi vi si era sempre opposto fin dall’inizio, e fin dall’inizio della rivolta di Hamas era stata sempre in prima linea nello scontro con Israele. Tracciando un parallelo col Libano degli Hezbollah, politicamente vicini all’organizzazione islamista, Hamas si trovava nelle condizioni migliori per rivendicare come un successo della resistenza il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, avvenuto pochi mesi prima delle elezioni. Capace di coniugare un seguito di massa con l’efficienza delle proprie milizie, rinforzate da una schiera apparentemente inesauribile di aspiranti kamikaze, Hamas venne duramente colpita da Israele; tuttavia la repressione finì per favorire gli islamisti. Hamas non dipendeva per la sua attività dalla macchina dell’ANP, che fu quasi interamente distrutta nelle fasi più violente dell’Intifada; l’organizzazione fu inoltre in grado di mantenere un’unità logistica e una catena di comando incomparabilmente più solide rispetto a quelle di al-Fatḥ, preda invece di incontrollate spinte centrifughe. Le risorse della sua rete di assistenza, dopo il collasso dell’ANP, erano più che mai fondamentali per le impoverite famiglie palestinesi; inoltre i quadri del movimento si erano fatti negli anni una reputazione di onestà, abnegazione ed efficienza che contrastava con la gestione disinvolta di al-Fatḥ. Anche la politica israeliana di esecuzioni mirate produsse risultati controproducenti: gli omicidi di alti dirigenti di Hamas come lo shaykh Aḥmad Yāsīn e Abd al-Aziz al-Rantissi rafforzarono il consenso verso gli islamisti senza intaccarne la capacità politica e operativa. La morte di Yāsīn in particolare, assassinato da un razzo lanciato da un elicottero mentre stava uscendo da una moschea a Gaza, fece di lui un martire e decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali.
Hamas affrontava dunque la prospettiva di partecipare alle elezioni locali e nazionali da un nuovo punto di vista: la forza dell’organizzazione era cresciuta, il momento era politicamente propizio e il crollo del processo di pace offrì la possibilità di compiere un simile passo senza dover sottoscrivere la linea politica di al-Fatḥ. Gli osservatori internazionali, non furono tuttavia gli unici ad essere sorpresi dalla vittoria di Hamas: secondo Khaled Hroub la stessa leadership dell’organizzazione non si aspettava una vittoria così netta, ma puntava piuttosto a svolgere un ruolo di “cane da guardia” nei confronti di al-Fatḥ. Agendo dall’interno delle istituzioni dell’ANP, Hamas avrebbe potuto controllare al-Fatḥ cercando di far pesare nel dibattito le ragioni della resistenza. L’ingresso nell’ANP avrebbe inoltre potuto garantire qualche protezione rispetto alla repressione israeliana. Questo tentativo di sperimentare un cauto ingresso nel sistema andò però oltre le previsione della leadership e Hamas si trovò ad affrontare direttamente la responsabilità di governare l’ANP, in un momento di grande tensione. Il nuovo premier Ismāʿīl Haniyeh – dirigente dalle posizioni pragmatiche che aveva sostenuto l’idea della partecipazione di Hamas alle elezioni già nel 1996 – assunse la carica lanciando appelli di relativa moderazione e cercando di formare un governo di unità nazionale con le altre organizzazioni.
Tanto il programma elettorale che quello del governo, e altri documenti dello stesso periodo, rappresentavano un’evoluzione in senso pragmatico rispetto a precedenti occasioni; a partire dal 2002 l’organizzazione, assieme ad altri gruppi, aveva anche proposto inutilmente a Israele di discutere una tregua – in termini islamici una hudna – e ne aveva dichiarate diverse unilateralmente a partire dal 2003.
L’impressione di molti osservatori fu che Hamas volesse esplorare le possibilità offerte dal nuovo contesto avviando una trattativa indiretta – il cui onere formale sarebbe toccato al Presidente ʿAbbās – che si fosse concentrata sulla prospettiva di una tregua a tempo indefinito fondata sui termini della soluzione dei “due popoli due Stati”. Un tale meccanismo avrebbe consentito di trattare con Israele senza affrontare scogli formali quali il riconoscimento dello Stato ebraico o l’adesione agli accordi di Oslo.
Il contesto post-elettorale mise tanto al-Fatḥ quanto Hamas davanti a uno scenario, il cui nodo problematico riguardava la definizione della loro relazione reciproca e di quella con la società palestinese. Fin da subito, tuttavia, gli eventi iniziarono a precipitare, portando ben presto Hamas e al-Fatḥ in rotta di collisione. Israele dichiarò di non riconoscere il nuovo governo, rifiutandosi di effettuare i trasferimenti di fondi che erano dovuti all’ANP e arrestando decine di esponenti di Hamas, tra cui diversi parlamentari e ministri. La comunità internazionale, almeno per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea, seguì la medesima linea, sospendendo i finanziamenti o cercando di aggirare il governo di Hamas. Il boicottaggio contribuì a esasperare la tensione fra Hamas e al-Fatḥ, creando un conflitto politico e istituzionale. La macchina amministrativa dell’ANP, e in particolare i servizi di sicurezza, era costituita da personale vicino ad al-Fatḥ, poco propenso a collaborare con il nuovo esecutivo. Mentre il governo era boicottato dai paesi arabi donatori, questi ultimi continuavano a finanziare la presidenza di ʿAbbās e a fornire addestramento ai servizi di sicurezza a lui vicini. Pochi mesi dopo le elezioni del gennaio 2006 al-Fatḥ rifiutò per la prima volta di prendere parte al governo di unità nazionale proposto da Hamas; nello stesso tempo la presidenza dell’ANP attuò una specie di golpe non violento nei confronti del governo appropriandosi di competenze nel campo legislativo e amministrativo. A partire dal quel momento vi fu uno stillicidio tra sostenitori delle due organizzazioni, che lasciarono sul campo diverse decine di morti prima della fine dell’anno. A dicembre, la minaccia di ʿAbbās di convocare nuove elezioni nel caso non si fosse trovato un accordo per il governo di unità nazionale innalzò ulteriormente la tensione, solo temporaneamente smorzata dalla costituzione di un fragile esecutivo d’intesa formato da rappresentanti di quasi tutte le liste elette al Consiglio. Gli scontri fra Hamas e al-Fatḥ ripresero a maggio e il conflitto esplose in modo definitivo il mese successivo. All’inizio di giugno quattro giorni di combattimenti a Gaza provocarono 500 feriti; la battaglia si concluse con la vittoria di Hamas. ʿAbbās reagì esautorando il governo di Haniyeh e nominando Salām Fayyāḍ primo ministro, mentre i militanti di al-Fatḥ iniziarono una serie di rappresaglie contro le strutture e i militanti di Hamas in Cisgiordania. Nonostante la situazione rimanesse tesa Hamas riuscì a consolidare il suo controllo sulla Striscia di Gaza. Gli eventi del giugno 2007 determinarono dunque una drammatica spaccatura istituzionale – tra la presidenza e il governo dell’ANP – e territoriale tra Gaza e Cisgiordania. Israele reagì isolando completamente Gaza; il blocco aggravò ulteriormente le condizioni della popolazione residente nonostante l’espansione del sistema dei tunnel verso l’Egitto, che consentiva di contrabbandare generi di prima necessità. Hamas si dimostrò tuttavia in grado di mantenere l’ordine, senza tuttavia rinunciare a colpire Israele con ripetuti lanci di razzi artigianali – i famosi Qassam – verso le località israeliane più vicine ai confini di Gaza.
No Comments