06 Lug Palestina: opportunismi britannici e nascita del sionismo
di Gabriele Rèpaci 07/07/2017
Forse mai nella plurimillenaria storia dell’umanità un così piccolo fazzoletto di terra quale è la Palestina è apparso carico di valori e simboli, fonte di tensione e di conflitti, teatro di aspirazioni e di guerre e di nostalgie struggenti.
I simboli legati alla storia di questo paese – Yāsser ʿArafāt, la kefiah, il ragazzo che lancia un sasso contro il carro armato – sono entrati nell’immaginario comune sia dei sostenitori della causa palestinese che dei suoi oppositori.
Questo breve saggio, senza alcuna pretesa di sistematicità, ripercorrerà le fasi salienti di quel processo storico che ha determinato uno dei problemi di più difficile soluzione nella storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell’indipendenza e dell’identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è a tutt’oggi ben nota.
Per circa tre secoli e fino alla conquista Ottomana nel 1516, la Palestina era rimasta nell’orbita dei mamelucchi. Il dominio ottomano si protrarrà per quattro secoli esatti, fino al 1917, anno dell’ingresso a Gerusalemme delle truppe britanniche del generale Edmund Henry Hynman Allenby. Si trattò di un periodo di quiescenza; fortemente integrata con il territorio circostante, abitata da una popolazione in gran parte araba o musulmana e una consistente e vivace minoranza cristiana, vide al tempo stesso la presenza di una piccola comunità ebraica rimasta costantemente sul territorio e che comincerà a espandersi, pur sempre in misura limitata, nel corso del XIX secolo.
L’interesse delle potenze europee per la Palestina ebbe inizio dopo la spedizione di Napoleone in Egitto. Nel mondo anglosassone la regione divenne oggetto di particolare attenzione.
Nel 1865 a Londra venne creato il Palestine Exploration Fund, che, come altre future organizzazioni mise a disposizione cospicui finanziamenti per esplorare la Palestina. Nei resoconti di tali spedizioni, gli arabi palestinesi non erano ancora diventati degli “assenti”, ma non vennero considerati gli abitanti del luogo, bensì “coloro che si trovano sul luogo” come se si trattasse di una presenza casuale.
Sempre nella prima metà dell’ottocento videro la luce i primi progetti europei per la Palestina. Nel 1838 il facoltoso filantropo britannico Sir Moses Montefiore sponsorizzò la creazione di duecento villaggi ebraici in Galilea mettendo a disposizione un capitale iniziale di un milione di sterline. Nel 1839 il Globe di Londra, portavoce del Foreign Office, pubblicò una serie di articoli, nei quali si preconizzava la creazione di uno stato indipendente tra l’Egitto e la Turchia in Siria e Palestina e una colonizzazione massiccia da parte del popolo ebraico.
Nel 1841, sempre il Regno Unito, con il Jerusalem Bishopric Act, istituì un vescovado anglicano a Gerusalemme. Nel 1847 venne ristabilito, dopo 556 anni, il patriarcato latino a Gerusalemme. Tutti questi progetti avevano come minimo comun denominatore l’obiettivo di liquidare l’Impero Ottomano.
Gli ebrei, cittadini dell’Impero Ottomano, nella loro stragrande maggioranza, preferivano vivere al di fuori della Terra Santa, nonostante non esistessero limitazioni al loro insediamento in Palestina. Nell’Ottocento alcuni ebrei europei si recarono in Palestina per passare gli ultimi anni di vita e morire a Gerusalemme. Si trattava di persone pie che vivevano della carità dei loro correligionari in Europa. Il loro numero andò crescendo, da 10.000 nella prima metà del secolo a 24.000 nel 1880. Per dividere i proventi della carità formarono diverse congregazioni nazionali e linguistiche. Ce ne erano di parlanti yiddish, arabo, tedesco, ladino, francese, inglese, persiano e georgiano.
La loro presenza non turbava la popolazione palestinese, da sempre abituata ai pellegrini e agli stranieri. Gli ebrei residenti a Gerusalemme vissero in tutti i quartieri della città e parteciparono alla vita cittadina. Gli ebrei stranieri erano ispirati da ideali religiosi, non politici e non formarono nessuna colonia, ma delle piccole comunità di fedeli. Le prime colonie straniere create in Palestina, a partire dal 1868, non erano opera di ebrei, ma di templari tedeschi che erano ispirati da motivi religiosi più che politici. La presenza ebraica in Palestina iniziò ad assumere consistenza e significato diversi per cause che si svilupparono ben lontano dal territorio palestinese, principalmente nella Russia zarista.
Nel 1881 in Russia venne ucciso Alessandro II, lo zar che aveva abolito la servitù della gleba nel 1861. Del gruppo degli assassini faceva parte anche un ebreo. A causa di ciò, venne scatenata un’ondata di pogrom anti-ebraici, orchestrati dalla “Santa Legione”, un’organizzazione segreta creata da un gruppo di granduchi e ufficiali della guardia imperiale russa. Tra il 1881 e il 1900 oltre un milione di ebrei abbandonarono l’Impero zarista. In quegli anni i governi europei divennero più attivi nel dirottare gli immigrati ebrei lontano dai paesi dell’Europa Occidentale. La prima grande ondata di immigrati russi si diresse soprattutto negli Stati Uniti e in misura minore in Sud Africa, in Inghilterra e Austria e negli altri paesi europei. Solo un esigua minoranza, sollecitata dalla propaganda sionista, scelse di andare in Palestina.
Nonostante il fatto che un primo insediamento, Pitah Tikva, fosse già stato fondato nel 1878, gli storici concordano nel ritenere il 1881 come la data d’inizio del processo di colonizzazione della Palestina. Questo inizio fu segnato dall’arrivo di 16 studenti russi di Kharkov che fondarono un’associazione che mirava a stabilire uno Stato Ebraico in Terra Santa. Il fatto più saliente restava il finanziamento della colonizzazione sionista iniziato quell’anno da parte del banchiere parigino Edmond de Rothschild.
Le idee in merito alla colonizzazione europea della Palestina, che sin dai primi del ‘800 circolavano nell’Europa Occidentale come parte di una discussione sulle prospettive coloniali riguardanti i territori dell’Impero Ottomano, si insinuarono nel dibattito sulla questione ebraica nell’Europa Orientale. Le idee circa la possibilità di uno Stato ebraico in Palestina affioravano qua e là in molti scritti, alcuni di autori ebrei, come Moses Hess, uno dei primi ideologi del sionismo che nel suo Rom und Jerusalem, die Letzte Nationalitätsfrage del 1862 scrisse: «Quando in Oriente le condizioni politiche saranno tali da permettere l’organizzazione di un primo processo di ricostruzione dello Stato ebraico, il primo passo sarà la fondazione di colonie ebraiche nella terra dei padri».
Come Chateaubriand, Lamartine e molti altri pensatori europei che si erano espressi a favore del trasferimento della popolazione ebraica europea in Palestina, il pensiero di Hess dimenticava un dato di non poca importanza: l’esistenza di una popolazione autoctona palestinese.
La negazione dell’esistenza della popolazione indigena divenne costante negli scritti degli ideologi della colonizzazione, così Israel Zangwill, alla fine del ‘800, riassunse in una formula il concetto basilare dell’idea sionista: «Una terra senza un popolo, per un popolo senza una terra». Theodor Herzl, invece animato da spirito pratico, non era solo consapevole del problema rappresentato dai palestinesi, ma individuò le possibili soluzioni e scrisse nel suo diario nel 1895: «Dovremmo incoraggiare questa misera popolazione palestinese ad andarsene oltre confine procurando loro un lavoro nei paesi di destinazione, e negandoglielo nel nostro. Sia il processo di espropriazione che quello di allontanamento devono essere effettuati con discrezione e cautela».
Tuttavia la negazione dell’esistenza della popolazione autoctona divenne «il più solido filo conduttore del sionismo» che, come scriveva l’orientalista francese Maxime Rodinson, lo legava all’imperialismo: «L’elemento che portò a collegare le aspirazioni dei commercianti, artigiani, ambulanti ed intellettuali ebrei, in Russia ed altrove, all’ombra concettuale dell’imperialismo fu un piccolo dettaglio apparentemente senza importanza: la Palestina era abitata da un altro popolo». Le idee sioniste trovarono una sistemazione organica nell’opera del giornalista ungherese di Vienna Theodor Herzl che pubblicò nel 1896 un’opera intitolata Der Judenstaat, “Lo Stato ebraico”, divenuta poi il manifesto programmatico del movimento sionista.
Così lo descrive Stefan Zweig Herzl, nel suo “Il mondo di ieri”: “Theodor Herzl a Parigi aveva avuto un’esperienza che lo aveva profondamente scosso, una di quelle ore che trasformano tutta un’esistenza: aveva assistito quale giornalista alla degradazione pubblica di Alfred Dreyfus, aveva veduto quell’uomo pallido al quale strappavano le spalline mentr’egli esclamava ad alta voce: «Sono innocente!». In quell’istante aveva avuto nell’intimo del cuore la certezza che Dreyfus era veramente innocente e che l’orrendo sospetto di tradimento era pimbato su di lui soltanto perché ebreo. (…) aveva concepito il disegno fantastico di porre fine una volta per tutte al problema giudaico e precisamente fondendo l’ebraismo con il cristianesimo per mezzo di volontari battesimi di massa. Incline sempre a concezioni drammatiche, già s’immaginava di guidare in lunghi cortei le migliaia e migliaia di ebrei austriaci sino alla cattedrale di Santo Stefano, per liberare così, grazie a un rito esemplare e simbolico, il popolo perseguitato e disperso della maledizione dell’isolamento e dell’odio. Aveva dovuto riconoscere presto l’inattuabilità del suo piano, poi anni di lavoro lo avevano allontanato da quel problema originario, in cui vedeva la missione della sua vita; ora tuttavia, nel momento della degradazione di Dreyfus, il pensiero dell’eterna condanna gravante sul suo popolo gli trafisse il cuore come una pugnalata. Se l’isolamento è inevitabile, disse a se stesso, sia completo. (…) Pubblicò quindi il suo famoso saggio Der Judenstaat (Lo Stato ebraico), nel quale proclamava impossibile per il popolo israelitico ogni assimilazione e ogni fede in una totale tolleranza. Bisognava fondare una patria nuova nell’antica terra d’origine, la Palestina. Quando comparve quel fascicolo, breve ma dotato della forza penetrante di un cuneo d’acciaio, io frequentavo ancora il ginnasio, ma posso benissimo rammentare il disorientamento e l’irritazione generale degli ambienti ebraici borghesi. (…) Perché dovremmo andare in Palestina? La nostra lingua è il tedesco, non l’ebraico; la nostra patria è la bella Austria. Non viviamo forse ottimamente sotto il buon imperatore Francesco Giuseppe? Non abbiamo qui i nostri leciti guadagni, la nostra sicura posizione? Non siamo sudditi con pieni diritti, cittadini residenti e fedeli all’amata Vienna? E non viviamo in un’epoca di progresso, che annullerà nel corso di pochi decenni tutti i pregiudizi confessionali? (…) La risposta non venne dagli ebrei borghesi e agiati, viventi con tutti i comodi in Occidente, ma dalle grandi masse orientali, nel proletariato dei ghetti galiziani, polacchi, russi. Senza prevederlo, Herzl con il suo opuscolo aveva fatto divampare una fiamma dell’ebraismo che covava sotto la cenere dell’esilio: il sogno millenario e messianico confermato dai libri sacri di un ritorno nella Terra Promessa. (…) Persino seduto a quel vecchio scrittoio sovraccarico di carte, in un’angusta e miserevole stanzetta di redazione, dava l’impressione di un capo beduino di tribù del deserto; (…) Ma io non riuscivo a sentirmi veramente unito a quell’iniziativa; m’irritava anzitutto la mancanza di rispetto, oggi quasi incredibile, con cui i più diretti compagni di partito si compartavano nei riguardi di Herzl. (…) Parlando un giorno con lui dell’argomento, gli confessai con sincerità il mio malumore per la scarsa disciplina nelle sue file. Sorrise con un pò d’amarezza e rispose: «Non dimentichi che da secoli siamo avvezzi a gingillarci con i problemi, a litigare con le idee. Noi ebrei da duemila anni non abbiamo storicamente alcuna pratica nel realizzare qualche cosa per il mondo. La dedizione senza limiti va prima imparata, e io stesso non vi sono ancora giunto, giacché continuo a scrivere e a fare il redattore letterario della “Neue Freie Presse”, mentre sarebbe mio dovere non avere che un pensiero solo, non scrivere una parola per alcun altro fine. Ma io sono avviato a migliorarmi, voglio prima imparare io stesso la dedizione illimitata, sperando che forse insieme con me la imparino anche gli altri»“.
L’anno successivo Herzl organizzò a Basilea un congresso al quale parteciparono 197 delegati che crearono l’Organizzazione Sionista Mondiale, avente come scopo la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Il programma di Basilea proclamava che «il movimento sionista aspira alla creazione di un rifugio del popolo ebraico in Eretz Yisra’el che dovrà essere garantito da una legge internazionale». Il secondo congresso sionista si svolse nel 1898 e aggiunse l’imperativo della colonizzazione della Terra di Israele per il raggiungimento di questo fine. In occasione del terzo congresso, Herzl propose di sostituire la ricerca di una legittimazione internazionale con l’ottenimento di una concessione in affitto ufficiale da parte del Sultano Ottomano. Era convinto che denaro e pressione dell’Europa, avrebbero indotto il Sultano ad acconsentire a una simile concessione. Herzl si recò quindi a Istanbul, senza però riuscire a essere ricevuto da ʿAbd ul-Hamid II, il Sultano Ottomano dal 1876 al 1908. I collaboratori del Sultano respinsero decisamente la richiesta di concessione in affitto della Palestina agli ebrei. Neppure l’offerta di una somma astronomica, di cui per altro Herzl non disponeva, riuscì a convincere il governo di uno Stato turco sull’orlo della bancarotta.
In seguito alla ferma opposizione da parte delle autorità Ottomane Herzl comprese che l’unico modo attraverso cui il progetto sionista poteva realizzarsi era attraverso la benedizione di una potenza straniera.
La scelta cadde sulla Gran Bretagna le cui mire di natura coloniale nei confronti del Medio Oriente l’avevano condotta a occupare l’Egitto nel 1882. I residenti britannici al Cairo, al pari di una scuola di pensiero espansionista presente in seno al Colonial Office in Inghilterra, guardavano alla Palestina come a una prossima acquisizione in caso del crollo dell’Impero Ottomano. Se gli ebrei, al pari dei missionari anglicani, facilitavano l’espansione britannica in terra di Palestina non c’era motivo per non ritenerli benvenuti. L’inclinazione filo sionista assunta dalla politica mediorientale britannica verso la fine del XIX secolo fu il risultato di una considerazione neo-coloniale della realtà e di un’antica concezione teologica che collegava il ritorno degli ebrei in Palestina al secondo avvento del Messia.
L’entrata dell’Impero Ottomano nella Prima guerra mondiale a fianco degli Imperi Centrali segnò una svolta di portata storica per il destino delle popolazioni e dei territori arabi dell’Impero Ottomano.
La particolare posizione strategica della Palestina, base di partenza per l’offensiva turco-tedesca contro il Canale di Suez che ne faceva un paese di prima linea, ha avuto conseguenze di grande importanza per il suo futuro.
Così racconta il giovane Thomas Edward Lawrence, ne “I sette pilastri della saggezza”: “Con la venuta dei Turchi, questa felicità divenne un sogno. Gradatamente i popoli semitici d’Asia passarono sotto il giogo ottomano, con una lenta morte. Furono spogliati dei beni, il loro spirito tarpato dalla presenza opprimente di un governo militare. L’ordine dei Turchi, era disciplina di gendarmi, la loro politica violenta, in teoria quanto in pratica. I Turchi insegnarono agli Arabi che gli interessi di una setta superavano quelli del patriottismo, che le cure piccine d’una provincia contavano più dei problemi nazionali.
A forza di sottili discrepanze li indussero a sospettarsi l’un l’altro. Perfino la lingua araba fu bandita dalle corti e dagli uffici, dalla burocrazia dello stato e dalle scuole superiori. Per poter servire lo stato un arabo doveva ripudiare le proprie caratteristiche di razza. Queste costrizioni non furono tollerate tranquillamente. La tenacia semitica affiorò nelle numerose rivolte di Siria, Mesopotamia, Arabia contro le forze più scoperte di penetrazione turca. (…) gli Arabi non volevano barattare la loro lingua ricca e duttile per le forme volgari del turco: invece permearono il turco di vocaboli arabi, e rimasero attaccati ai tesori della loro letteratura. Persero il senso geografico, le memorie razziali, politiche, storiche, ma si legarono tanto più fortemente alla lingua, elevandola quasi ad una nuova patria. Primo dovere di ciascun moslem era lo studio del Corano, il libro sacro dell’Islam, e incidentalmente, il massimo monumento della letteratura araba. (…) Poi venne la rivoluzione in Turchia, la caduta di Abdul Hamid, il predominio dei “Giovani Turchi”. Per un momento l’orizzonte arabo si schiarì. Il movimento dei “Giovani Turchi” combatteva la concezione gerarchica dell’Islam e le teorie panislamiche del vecchio Sultano che, erigendosi a capo spirituale del mondo musulmano, avrebbe voluto guidarne senza ricorso anche le sorti temporali. I giovani rivoluzionari, infervorati dalle teorie costituzionali dello Stato Sovrano, imprigionarono Abdul Hamid. (…) «La Turchia turca, per i Turchi: Yeni Turan» diventò il loro motto. (…) ma innanzi tutto dovevano eliminare dal loro impero tutte le irritanti razze inferiori che osavano resistere al popolo dominatore; prima gli Arabi, la minoranza più numerosa.
Perciò i rappresentanti degli Arabi furono dispersi, proscritti i loro notabili, proibite le loro associazioni. Ogni manifestazione araba e l’arabo stesso come lingua furono soppressi da Enver Pasha più rapidamente che non da Abdul Hamid prima di lui. (…) Con la guerra del 1914 (…) la mobilitazione concentrò il potere nelle mani dei Giovani Turchi più crudeli, ma anche più freddi e ambiziosi: Enver, Talaat, Jemal. Costoro si proposero di sterminare tutte le correnti non turche dello Stato, a cominciare dai nazionalismi arabi ed armeni. (…) I Turchi sospettavano degli ufficiali e dei soldati arabi nell’esercito. Speravano di annientarli con la stessa tattica di dispersione sperimentata contro gli Armeni. (…) I Turchi li dispersero dappertutto, purché capitassero presto in prima linea”.
A forza di sottili discrepanze li indussero a sospettarsi l’un l’altro. Perfino la lingua araba fu bandita dalle corti e dagli uffici, dalla burocrazia dello stato e dalle scuole superiori. Per poter servire lo stato un arabo doveva ripudiare le proprie caratteristiche di razza. Queste costrizioni non furono tollerate tranquillamente. La tenacia semitica affiorò nelle numerose rivolte di Siria, Mesopotamia, Arabia contro le forze più scoperte di penetrazione turca. (…) gli Arabi non volevano barattare la loro lingua ricca e duttile per le forme volgari del turco: invece permearono il turco di vocaboli arabi, e rimasero attaccati ai tesori della loro letteratura. Persero il senso geografico, le memorie razziali, politiche, storiche, ma si legarono tanto più fortemente alla lingua, elevandola quasi ad una nuova patria. Primo dovere di ciascun moslem era lo studio del Corano, il libro sacro dell’Islam, e incidentalmente, il massimo monumento della letteratura araba. (…) Poi venne la rivoluzione in Turchia, la caduta di Abdul Hamid, il predominio dei “Giovani Turchi”. Per un momento l’orizzonte arabo si schiarì. Il movimento dei “Giovani Turchi” combatteva la concezione gerarchica dell’Islam e le teorie panislamiche del vecchio Sultano che, erigendosi a capo spirituale del mondo musulmano, avrebbe voluto guidarne senza ricorso anche le sorti temporali. I giovani rivoluzionari, infervorati dalle teorie costituzionali dello Stato Sovrano, imprigionarono Abdul Hamid. (…) «La Turchia turca, per i Turchi: Yeni Turan» diventò il loro motto. (…) ma innanzi tutto dovevano eliminare dal loro impero tutte le irritanti razze inferiori che osavano resistere al popolo dominatore; prima gli Arabi, la minoranza più numerosa.
Perciò i rappresentanti degli Arabi furono dispersi, proscritti i loro notabili, proibite le loro associazioni. Ogni manifestazione araba e l’arabo stesso come lingua furono soppressi da Enver Pasha più rapidamente che non da Abdul Hamid prima di lui. (…) Con la guerra del 1914 (…) la mobilitazione concentrò il potere nelle mani dei Giovani Turchi più crudeli, ma anche più freddi e ambiziosi: Enver, Talaat, Jemal. Costoro si proposero di sterminare tutte le correnti non turche dello Stato, a cominciare dai nazionalismi arabi ed armeni. (…) I Turchi sospettavano degli ufficiali e dei soldati arabi nell’esercito. Speravano di annientarli con la stessa tattica di dispersione sperimentata contro gli Armeni. (…) I Turchi li dispersero dappertutto, purché capitassero presto in prima linea”.
Alla fine del 1915 almeno 250.000 soldati britannici e coloniali erano stanziati permanentemente in Egitto. Con la guerra, Gemā´l Pascià, membro anziano del Comitato unione e progresso (İttihat ve Terakki Cemiyeti) e ministro della marina, venne nominato comandante della IV armata in Siria. Gemā´l Pascià attuò una persecuzione senza precedenti contro i nazionalisti arabi. La repressione ebbe un carattere di massa con gravi conseguenze. Al momento dell’inizio della rivolta araba del Hijaz, nel giugno del 1916, i tribunali militari turchi avevano condannato a morte oltre 800 attivisti. La repressione mirava a eliminare l’élite araba. Decine di migliaia di persone vennero rinchiuse nei campi di concentramento nel deserto. Molti morirono di fame e di malattie. Nel 1915 ebbe inizio il genocidio armeno. I profughi affluirono dall’Anatolia in Siria-Palestina. Con la guerra la Palestina venne ridotta alla fame. Dopo la disfatta dell’esercito ottomano in Iraq, nell’aprile del 1916, il territorio palestinese divenne il fronte principale sul quale si decisero le sorti della guerra. La Gran Bretagna cercò di stringere alleanze con i principi arabi dei territori semi indipendenti della Penisola Arabica. In questo quadro si concluse l’accordo con Hussein, custode dei luoghi santi della Mecca e di Medina, noto come accordo Hussein-MacMahon. Secondo l’accordo, Hussein si sarebbe ribellato all’autorità sultanale e avrebbe aiutato la Gran Bretagna nella sua guerra contro l’Impero Ottomano. In cambio, il governo britannico si sarebbe impegnato a garantire l’indipendenza dei paesi arabi allora ancora sotto sovranità ottomana. L’accordo verrà completamente disatteso da parte britannica e lo stesso MacMahon scriverà nel luglio 1937: «Nel prendere questo impegno verso re Hussein non intendevo comprendere la Palestina nella zona entro la quale fu promessa l’indipendenza araba».
Nel giugno 1916 Hussein diede inizio alla rivolta. Alla Mecca si formò, sotto il comando di Faisal, figlio di Hussein, un esercito di volontari arabi che in breve tempo prese il controllo di tutto il Hijaz. Nel novembre 1916 Hussein si proclamava “re d’Arabia”, mentre l’esercito di Faisal raggiungeva la Siria. L’inizio dell’avanzata britannica in Palestina accrebbe l’importanza delle operazioni dell’esercito dei rivoltosi al comando di Faisal.
La violazione dell’accordo Hussein-McMahon rientrava in un disegno preciso del governo britannico. Parallelamente e contemporaneamente alle trattative anglo-arabe si svolsero quelle anglo-francesi per definire i termini della spartizione dei territori arabi fra le due potenze. L’accordo anglo-francese, noto come “accordo Sykes-Picot”, venne poi definitivamente firmato il 16 maggio 1916.
Il 1917 fu un anno tragico per la Palestina ridotta alla fame. Le truppe inglesi di stanza nel Sinai scatenarono un’offensiva su larga scala nella Palestina meridionale. Il 16 novembre cadde Giaffa e il 9 dicembre Gerusalemme. Per la seconda volta nella sua storia la Città Santa venne occupata da europei. L’anno dopo le truppe britanniche occuparono la Palestina settentrionale, ma già prima del loro arrivo gli inglesi avevano prefigurato il destino del paese. Il 2 novembre 1917 il governo inglese aveva trasmesso, tramite il ministro degli esteri Arthur James Balfour, la seguente lettera indirizzata al vice presidente dell’Organizzazione Sionista, oggi nota come “Dichiarazione Balfour”:
«Caro Lord Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede nazionale” (National Home) per il popolo ebraico, e intende fare tutti i suoi sforzi per favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese».
Il “popolo ebraico” in Palestina al momento della Dichiarazione raggiungeva, nelle migliore delle stime, 50.000 immigrati, mentre le “comunità non ebraiche”, cioè quella parte degli abitanti autoctoni delle regioni che sarebbero divenute obiettivo dell’insediamento coloniale, era di almeno 750.000, cioè 15 volte tanto. La trasformazione del popolo della Palestina in “assenti” era compiuta. Nella dichiarazione del governo britannico, i palestinesi diventavano i “non ebrei”. Negato il loro nome si negava la loro esistenza. Sarà un leitmotiv che accompagnerà tutta la politica sionista: i palestinesi non esistono. La Dichiarazione inaugurò una nuova fase storica nei rapporti fra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei (arabi e non arabi) all’insegna dello scontro.
Il ministro degli esteri firmatario della lettera era lo stesso Lord Balfour, noto per il suo antisemitismo, che primo ministro nel 1905, aveva promosso la “Legge sulla immigrazione degli stranieri”, Aliens Immigration Act, intesa ad arginare l’immigrazione in Gran Bretagna degli ebrei senza mezzi che fuggivano dalle persecuzioni antisemite nell’Europa Orientale. Le trattative che avrebbero portato alla Dichiarazione Balfour risalivano al 1914, quando Herbert Samuel, membro dell’Organizzazione Sionista, futuro primo Alto Commissario britannico in Palestina e allora ministro delle amministrazioni locali del governo britannico, preparò il primo dei memorandum relativamente alla possibilità di creare uno Stato Ebraico in Palestina. In questo memorandum, intitolato “Il futuro della Palestina” si prospettava una annessione della Palestina alla Gran Bretagna che avrebbe dovuto favorire il trasferimento e l’impianto di 3 o 4 milioni di ebrei europei.
Tuttavia l’insistenza dei sionisti per ottenere dal governo inglese un impegno preciso di cedere loro la Palestina una volta occupata, ricevette all’inizio della guerra vaghe promesse, che vennero precisate man mano che la crisi dell’Impero Zarista e dell’Impero Ottomano divennero più acute.
All’inizio della guerra una “sezione di propaganda ebraica” – creata nel Foreign Office – venne incaricata di propagandare le idee sioniste per guadagnare alla causa dell’Intesa gli ebrei dell’Europa Orientale. Il 7 febbraio 1917 iniziarono in forma ufficiale trattative tra il governo britannico e l’Organizzazione Sionista per raggiungere un accordo sulle aspirazioni sioniste. In un memorandum del 13 giugno 1917 il governo britannico concluse che: «Dobbiamo assicurarci tutto il vantaggio politico che può venirci dalla nostra unione con i sionisti e non c’è dubbio che questo vantaggio sarebbe considerevole, soprattutto in Russia».
Lord Balfour chiese quindi a Chaim Weizmann e Lord Rothschild di redigere il testo di una dichiarazione da sottoporre alla firma del governo. Nelle manovre sotterranee che si svolsero per raggiungere l’obiettivo, i sionisti sottoposero a forti pressioni gli scettici e i contrari. Organizzarono massicci invii di lettere compiendo grandi sforzi per guadagnare la simpatia del movimento sionista. Obiettivo di violenti attacchi fu il ministro delle colonie Edwin Montagu, ebreo contrario a un accordo con i sionisti, convinto che il riconoscimento della Palestina come sede nazionale degli ebrei sarebbe stato dannoso per gli ebrei non sionisti.
Il precipitare degli eventi nell’Impero Zarista accelerò i tempi di definizione della Dichiarazione allo scopo di convincere gli ebrei russi a sostenere lo sforzo bellico dell’Intesa. Prima della sua approvazione il presidente americano Wilson diede il suo assenso e il 16 ottobre il governo degli Stati Uniti comunicò a quello di Londra: «Il testo proposto dal movimento sionista ha la nostra piena approvazione». La Dichiarazione venne approvata dal governo britannico in forma definitiva il 31 ottobre 1917, mentre Montagu era in missione in India. La lettera contente la Dichiarazione era indirizzata a Lord Rothschild, vice presidente della Federazione Sionista Britannica e non al presidente Chaim Weizmann, che non era cittadino britannico.
Della Dichiarazione Balfour vennero fatte svariate letture. Una definizione sintetica ed efficace nella sua semplicità fu quella dello scrittore ebreo Arthur Koester: «In questo documento una nazione prometteva solennemente a una seconda nazione il paese di una terza».
Il documento era privo di valore giuridico dato che il governo britannico non aveva nessun diritto di disporre di un territorio non sottoposto alla sua giurisdizione e non aveva l’autorità di mettere in pratica gli scopi dichiarati. La Palestina al momento della Dichiarazione, formalmente e nei fatti, faceva parte dell’Impero Ottomano. Fu per dare una parvenza di legalità che il governo britannico si adoperò per rendere pubblica l’adesione dei governi dell’Intesa. L’ultimo governo zarista spazzato via dalla Rivoluzione d’Ottobre, cinque giorni dopo la consegna del documento a Rothschild, non fece in tempo a rendere pubblica la propria adesione. Il governo francese, che già il 4 giugno 1917 aveva dichiarato la propria “simpatia” alla causa dell’Organizzazione Sionista, renderà pubblica la sua approvazione della Dichiarazione Balfour il 14 febbraio 1918, mentre il governo italiano lo farà il 9 maggio 1918. Gli Imperi Centrali, d’altro canto, tentarono di guadagnare la simpatia dei sionisti. Il 17 novembre 1917, il ministro degli esteri austro-ungarico Czernin promise a una delegazione sionista l’appoggio del suo governo alla realizzazione delle aspirazioni sioniste in Palestina.
Il governo tedesco pubblicò il 21 novembre 1917 un comunicato in cui si impegnava a non trasformare Gerusalemme in un campo di battaglia di fronte all’avanzata dell’ esercito britannico, il 7 dicembre 1917 l’Alto comando tedesco ordinò alle truppe turco-tedesche di ritirarsi dalla città. A Istanbul, il 12 dicembre 1917, il gran visir Talat Pascià ricevette una delegazione sionista alla quale assicurò che erano venuti meno i motivi che in passato avevano imposto talune limitazioni all’insediamento degli ebrei in Palestina. Il 5 gennaio 1918, il governo tedesco assicurò a una delegazione ebraica l’adesione ai propositi di Talat Pascià di promuovere un fiorente insediamento ebraico in Palestina. Il governo ottomano farà una dichiarazione più impegnativa il 27 luglio 1918, in cui si impegnava a favorire «la creazione di un centro ebraico in Palestina per mezzo di un immigrazione e di una colonizzazione ben organizzate».
Mentre nel novembre 1917 l’esercito di Lord Allenby cominciava la conquista del territorio palestinese, il movimento sionista in Europa otteneva dichiarazioni di simpatia dai governi impegnati nella guerra, il governo britannico tessé la rete delle alleanze per ottenere il controllo della Palestina e i bolscevichi resero pubblici i trattati segreti conclusi dal governo zarista con le potenze dell’Intesa. L’accordo Sykes-Picot venne pubblicato sui quotidiani sovietici Izvestia e Pravda il 23 novembre 1917.
I primi anni trenta furono un momento cruciale dal punto di vista politico. L’immigrazione ebraica accelerò il suo ritmo: nel 1939 in Palestina vi erano 1.070.000 palestinesi e 460.000 ebrei – che rappresentavano quindi circa un terzo della popolazione del mandato – e l’acquisizione dei terreni era proceduta di pari passo.
Gli insediamenti coloniali divennero campi di addestramento per le neonate organizzazioni armate sioniste. A Giaffa, il centro economico più importante con il porto più frequentato dal commercio internazionale, la situazione peggiorò continuamente. La vicinanza con la città ebraica di Tel Aviv in rapida crescita divenne fonte di attriti e scontri. La scintilla che fece scoppiare la rivolta fu la costruzione di due scuole arabo-palestinesi affidata dall’amministrazione britannica a un costruttore ebreo. Questi si rifiutò di assumere maestranze palestinesi locali e fece affluire operai ebrei dagli insediamenti vicini. I lavoratori del porto di Giaffa, seguiti da tutti gli altri, scioperarono in solidarietà con i loro compagni esclusi da lavoro.
La tensione salì e in seguito sfociò in scontri tra gli operai palestinesi disoccupati e i dipendenti del costruttore che non aderirono allo sciopero e si recarono al lavoro scortati da squadre di sionisti armati. Lo scioperò si allargò ad altre città. A Giaffa intervenne l’esercito che nei giorni 16, 17 e 18 aprile 1936 represse le proteste con violenza. Il 19 aprile il Partito Arabo Palestinese invitò allo sciopero generale. Il 21 aprile si fermò ogni attività in tutto il paese. Fu subito evidente che lo sciopero generale era destinato a durare a lungo. Infatti era appena terminato quello che per cinquanta giorni aveva paralizzato a Siria. Sul modello siriano, il giorno 21 aprile si formò a Giaffa un Comitato Nazionale per lo sciopero a cui parteciparono tutte le associazioni cittadine, oltre al Partito Arabo Palestinese e al Partito dell’Indipendenza. I due partiti promossero la creazione di Comitati Nazionali unitari che sorsero in pochi giorni i tutte le città della Palestina.
Il 24 aprile 1936 rappresentanti dei Comitati Nazionali si riunirono a Gerusalemme e decisero di creare un organismo rappresentativo unitario. Nacque così l’Alto Comitato Arabo della Palestina la cui presidenza venne affidata al muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī.
Il 7 maggio 1936, 150 delegati dei Comitati Nazionali tornarono a riunirsi a Gerusalemme, decisero di proseguire lo sciopero, diedero alle autorità il termine di una settimana per il blocco totale dell’immigrazione e invitarono in caso negativo allo sciopero fiscale: il paese intero avrebbe smesso di pagare tasse e imposte. A Giaffa si riunì il congresso dell’Associazione delle donne che l’11 maggio annunciò la propria partecipazione allo sciopero; il 12 si riunirono tutte le camere di commercio della Palestina; il Congresso nazionale degli studenti creò una “Guardia Nazionale”; l’ordine degli avvocati decise di bloccare tutte le cause, escluse quelle contro gli scioperanti; l’ordine dei medici stabilì cure gratuite per gli scioperanti; i decani delle comunità pastorali del Naqab aderirono allo sciopero; i dirigenti amministrativi di 18 città si riunirono e decisero il blocco delle attività a partire dal 1 giugno; tutti i sindaci restituirono i loro sigilli; il 30 maggio entrarono in sciopero tutti i 137 funzionari e 1200 impiegati arabo-palestinesi del governo.
Il 23 maggio vennero arrestati due dirigenti dei comitati dello sciopero. Gli agricoltori della zona di Nāblus marciarono su Tûbâs dove erano tenuti i prigionieri, ma vennero respinti dai nuovi contingenti militari inglesi arrivati dall’Egitto.
La mattina dopo le truppe britanniche intervennero a Nāblus per reprimere una manifestazione di protesta uccidendo quattro manifestanti. Attacchi di gruppi armati contro i campi militari britannici e le basi sioniste si segnalarono un po’ ovunque. Un attentato con la dinamite distrusse l’oleodotto della britannica Iraq Petrolium Company. Il drenaggio del petrolio si bloccò e così il porto di Haifa. Durante l’estate gli attacchi degli insorti divennero battaglie campali. Arrivarono in Palestina volontari dalle altre regioni della Siria e tra questi emerse la figura del comandante siriano Fawzī al-Qāwuqjī. Da settembre tutto il paese divenne un campo di battaglia. Affluirono altre truppe britanniche dall’Egitto, da Malta e dall’Inghilterra. La repressione fu feroce: un’ondata di arresti colpì migliaia di cittadini che vennero tenuti nei campi militari e le punizioni collettive vennero impiegate su larga scala. Solo nei primi 3 mesi di sciopero i palestinesi versarono 30.000 sterline di multe collettive, quando il salario medio era di 3 sterline mensili.
L’amministrazione britannica inaugurò una nuova tecnica di punizione collettiva che nei successivi 70 anni sarà largamente usata come strumento di cancellazione della realtà palestinese. Il 16 giugno gli aerei britannici lanciarono volantini che annunciarono “lavori di urbanizzazione” del centro storico di Giaffa, “al fine di ampliare e migliorare la città vecchia costruendo due strade che saranno utili all’intera città”.
Alla popolazione si diedero 24 ore di tempo per lasciare le proprie abitazioni. Il 18 giugno i militari circondarono il centro della città con un vasto spiegamento di forze. Procedettero a svuotare l’area. Gli abitanti vennero deportati e i militari cominciarono una sistematica distruzione con la dinamite di tutti gli edifici. Il 21, dopo tre giorni di demolizioni, il centro storico di una delle città più antiche del mondo non esisteva più. Il 29 e il 30 giugno 1936 vennero demoliti altri 150 edifici e 850 capanne: 10.000 persone restarono senza dimora. Negli anni successivi la demolizione sarà la tecnica repressiva preferita dagli inglesi e successivamente dagli israeliani.
Il governo emanò delle “Leggi d’Emergenza” che consentirono arresti senza mandato, censura della stampa, controllo della posta, restrizione della libertà di movimento di singoli o gruppi, deportazione di singoli o collettive, confisca delle proprietà, demolizione delle abitazioni e di qualsiasi altro edificio, singolarmente o in blocco, chiusura di determinate aree, imposizione del coprifuoco, ecc. Le misure adottate in base alle Leggi d’Emergenza vennero considerate misure amministrative che non richiesero il ricorso all’autorità giudiziaria. Non c’erano cioè accuse formali, non richiedevano processi, non c’era giudizio e non ci si poteva appellare.
Nel 1936 l’autorità britannica in collaborazione con la Haganah, l’organizzazione militare sionista, formò la “Polizia d’Insediamento Ebraico” al fine di “difendere gli insediamenti”. L’amministrazione britannica si incaricò di provvedere all’armamento della nuova formazione militare sionista. Nello stesso anno, il governo britannico della Palestina incaricò Orde Wingate, capitano dell’esercito, di addestrare squadre specializzate in attacchi notturni reclutate nelle fila della Haganah. Lo sciopero generale palestinese si scontrò con l’infrastruttura sionista che colse l’occasione dello sciopero dei lavoratori palestinesi nell’amministrazione, nei servizi pubblici, specialmente nei porti e nelle ferrovie, e negli stabilimenti commerciali, per conquistare posizioni nevralgiche per l’economia del paese. Involontariamente lo sciopero palestinese completò l’opera del segregazionismo sionista. Esempio tipico: la costruzione del porto di Tel Aviv che soppianterà quello di Giaffa.
La repressione a cui si è appena accennato alimentò la rivolta. Gli insorti aumentarono di numero, in capacità d’iniziativa e nella qualità delle loro azioni contro le truppe d’occupazione e le squadre dei coloni sionisti che le affiancarono. In pochi mesi il controllo di vaste aree del Paese passò nelle mani di rivoltosi.
La guerriglia si diffuse nelle campagne dove i dirigenti politici dei ceti urbani godevano di prestigio e autorità, ma non controllavano il movimento. I leader cittadini credevano comunque di aver acquisito un sufficiente peso contrattuale nei confronti del governo britannico. L’alto Comitato Arabo presieduto dal muftì si rivolse ai monarchi dell’Arabia, dell’Iraq e della Transgiordania che diffusero un comunicato rivolto ai palestinesi in cui chiesero la cessazione dello sciopero, il ritorno alla normalità e affermarono: «Noi abbiamo fiducia nelle buone intenzioni della Gran Bretagna nostra amica». L’Alto Comitato Arabo invitò a sospendere lo sciopero. L’11 ottobre 1936, dopo 175 giorni, lo sciopero in Palestina, il più lungo sciopero generale mai effettuato, venne sospeso, ma le azioni insurrezionali non si fermarono.
Vennero chiamati in Palestina altre truppe britanniche ed esperti antiguerriglia quali il generale Bernard Law Montgomery, Charles Tegart e David Petrie, che sin dal 1937 ritennero che: «È chiaro che la liquidazione della ribellione con i mezzi militari sarà un’impresa lunga e costosa e che si impone una guerra contro la maggioranza della popolazione araba» Per tre anni, dal 1936 al 1939, le campagne palestinesi divennero un vero formicaio, e tra il settembre 1937 e l’aprile 1939 gran parte della Palestina sfuggì al controllo militare britannico.
Il culmine della ribellione fu raggiunto nel 1938, anno in cui i rivoltosi, oltre a controllare le campagne, cominciarono a organizzare un’amministrazione parallela. Nell’estate del 1938 i ribelli controllavano molte città importanti quali Giaffa e Nāblus e il 17 ottobre conquistarono la vecchia città di Gerusalemme. Nelle città controllate parzialmente dagli insorti la milizia sionista, la Haganah, compì attentati nei luoghi pubblici facendo stragi di civili. Il 6 luglio 1938 i miliziani sionisti fecero esplodere una bomba al mercato della verdura di Haifa facendo 23 morti. Ordigni esplosero nelle piazze e nei mercati di Giaffa, Gerusalemme e in altre città. Nel febbraio 1939, mentre era in corso la Conferenza di Londra, un’altra ondata di attentati sionisti colpì i mercati di frutta e verdura uccidendo 38 palestinesi.
La repressione fu spietata. Secondo le stime ufficiali britanniche, che sono di gran lunga inferiori alla realtà, più di 2.000 palestinesi vennero uccisi. Gli studiosi hanno valutato invece in 15.000 il numero dei palestinesi uccisi nella repressione della rivolta. Lo studioso Walid Khalidi ha documentato 5.032 uccisioni, 14.760 ferimenti e 5.600 imprigionati palestinesi.
Il 1948 rappresentò per il mandato di Palestina l’epilogo del ventennio turbolento che era iniziato nel 1929, con la prima rivolta palestinese contro lo Yishuv sionista. Gli avvenimento del 1948 segnarono la nascita dello Stato di Israele e quella del problema palestinese così come lo conosciamo oggi.
Per approfondimenti:
_Edward Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995;
_Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, BUR, 2003;
_Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970;
_Elias Sanbar, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire, Milano, Jaca Book, 2005;
_Janet Abu-Lughod, The Demographic Transformation of Palestine, in Id., The Transformation of Palestine: Essays on The Origin and Development of The Arab-Israeli Conflict, Northwestern University Press, Evanston, 1971;
_Marco Allegra, Palestinesi. Storia e identità di un popolo, Roma, Carocci, 2010;
_Ilan Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005;
_Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008;
_Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001;
_Antonio Moscato, Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, Roma, Sapere 2000, 1984;
_Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese, Pistoia, Editrice CRT, 2004;
_Nakba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Roma-Salerno, Fondazione Internazionale Lelio Basso, 1988;
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi, Firenze, Sansoni, 1973;
_Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought, 1882-1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992;
_Nur Masalha, A Land Without a People, Transfer and the Palestinians 1949-1985, Londra, Faber & Faber, 1997;
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Roma, Gamberetti, 1995;
_Patrick Seal, Abu Nidal, una pistola in vendita. I mille volti del terrorismo internazionale, Roma, Gamberetti, 1994;
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Milano, Il Saggiatore, 2010;
_Khaled Hroub, Hamas: un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano, Mondadori, 2006;
_Michel Warschawski, Israele-Palestina. La sfida binazionale: un sogno Andaluso del XXI secolo, Roma, Sapere 2000, edizioni multimediali, 2002;
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
No Comments