L’idea dello spazio pittorico nel trecento italiano

di Michele Lasala 28/06/2017

Con Cimabue si è soliti far iniziare la grande avventura della pittura italiana. È con questo artista che per la prima volta assistiamo a una vera rivoluzione iconografica, nonostante l’artista sia fortemente legato agli stilemi e al linguaggio dell’arte “grecula“. Ma il probabile allievo di Coppo di Marcovaldo evidentemente ha qualcosa in più rispetto ai suoi contemporanei, ed è l’umanità che traspare dalle sue Madonne e dai suoi Cristi, inseriti all’interno di uno spazio pur sempre bizantino, arcaico, ma già caratterizzato da un leggero senso del volume. Questa la vera rivoluzione. Le Madonne di Cimabue sono donne che cominciano ad abitare un mondo che assomiglia già al nostro. Lo possiamo notare nella Madonna col Bambino in trono e due angeli (1300 ca.) in Santa Maria dei Servi a Bologna, dove la Vergine, elegante, delicata e malinconica, ci fissa stando seduta su un trono tridimensionale. Qui la prospettiva non è ancora quella di Paolo Uccello o di Piero della Francesca, quella di Brunelleschi o di Lorenzo Ghiberti; ma quella assonometrica che denuncia la mancanza di ogni regola matematica e geometrica, di ogni numero e misura.
Tuttavia, all’interno le figure si caricano di umanità: la Vergine non è più uno schema, ma un corpo che si muove; gli angeli sono capaci di provare passioni, e il Bambino comincia ad essere irrequieto, tanto da toccare la spalla della Madre quasi come a voler attirare la sua attenzione. Con Cimabue, dunque, la pittura sta per diventare racconto.
Più o meno negli stessi anni, il pittore toscano realizza uno dei testi più significativi della storia dell’arte italiana: la Madonna di Santa Trinita, dove continua a parlare sì un linguaggio antico, però dimostra allo stesso tempo una certa scioltezza, e non manca di modificare la sintassi degli elementi raffigurati per creare qualcosa di mai visto prima, mai concepito. Lo si può capire chiaramente dalla rappresentazione del trono su cui siede la Madonna col Bambino; una architettura complessa e originale tutta giocata sui pieni e sui vuoti, al punto da ricordare qualcosa di Borromini. In basso, il trono infatti presenta tre aperture, in cui sono disposte, come in un trittico, le figure di quattro profeti: Abramo e David nella cavità centrale, Geremia in quella di sinistra, e Isaia nell’apertura di destra. Ad ambo i lati del trono, invece, come a volerlo sollevare verso la luce celeste, una schiera di angeli dalle vesti leggere e dalle ali policrome. Essi rievocano quelli dipinti da Pietro Cavallini nel Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere a Roma (1293 ca.), ma rispetto a quelli sembrano essere meno materiali. Vere e proprie intelligenze galleggianti nella luce dorata di Dio.

Cimabue, pseudonimo di Cenni (o Bencivieni) di Pepo (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302), è stato un pittore italiano. Nella immagine centrale: La Maestà di Santa Trinita, 1290-1300 – 385×223 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze; Pietro Cavallini: Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere (particolare), Roma 1293. 

Con Cimabue assistiamo a un primo, serio tentativo di rompere con la tradizione, poi sarà la volta di Duccio di Buoninsegna, che però allo spazio e alla forma preferirà la poesia della linea. Sulla sua Maestà del 1308-1311 per il Duomo di Siena valgono le parole di Longhi: «Guardate ora per un istante la rappresentazione sacra di Duccio: se vi cercaste spazio e forma, ancora una volta resterete delusi. Le mani della Vergine non sostengono il Bambino ma quale molle ondeggiamento è impresso, per tal modo alle dita! I santi e gli angeli non scortano e non hanno posizione nello spazio, ma, per questa ragione, quanto abilmente decorano tutta la superficie della tavola dall’alto al basso con uno svolgersi lento dal vertice della cuspide centrale. Tutto quello che ci appare deficiente come forma e come spazio riappare, per la stessa ragione, sovranamente delizioso come linea floreale». E in virtù di questa «linea floreale», tale perché ricorda «lo stelo incurvato dal vento» o «un’alga insinuata dalla corrente», Duccio risulta più lirico di Cimabue.
Ma ancor più lirico di Duccio e di Cimabue è Simone Martini, raffinatissimo fino all’inverosimile e capace di trasfigurare ogni cosa in pura essenza, in pura idea. Si pensi alla Annunciazione del 1333 (Uffizi), dove non compaiono né architetture né rocce e né paesi, perché ciò che a Simone interessa è rendere visibile alla mente ciò che agli occhi rimane invisibile: il dogma. Solo il vasetto coi gigli è un richiamo al mondo profano; tutto il resto appartiene allo spazio dell’assoluto, inaccessibile all’uomo. Simone è un pittore concettuale, utilizza la linea per creare non già storie, ma teoremi; non racconti, ma pensieri.
La sua Maestà in palazzo Pubblico a Siena, inoltre, riprende quella di Duccio, ma si trasforma in un ideale politico: «La Maestà di Simone Martini (1315) propone […] un’immagine riformulata in termini più esplicitamente politico-cerimoniali. Dopo l’esempio di Duccio, il soggetto richiedeva uno spazio larghissimo, una posizione centrale: il passaggio del tema dalla tavola all’affresco può spiegarsi anche così. […] Più scopertamente dunque la Civitas Virginis chiama la sua patrona nella sala del Consiglio del suo Palazzo Pubblico, circondandola degli stessi santi che la accompagnavano nel Duomo, sotto un larghissimo baldacchino sorretto da otto santi. […] Di regina coeli, com’era ancora nel Duomo […] Maria s’è fatta sovrana terrena, partecipa al Concistoro del Comune».

Simone Martini e Lippo Memmi: “L’Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita”, tempera e oro su tavola (305×265 cm), del 1333, presso gli Uffizi a Firenze. Si tratta di un trittico ligneo dipinto a tempera, con la parte centrale ampia il triplo dei due scomparti laterali. Considerato il capolavoro di Simone Martini, della scuola senese e della pittura gotica in generale, venne realizzato per un altare laterale del Duomo di Siena. Simone Martini: “La Maestà del Palazzo Pubblico di Siena”, affresco (970×763 cm) che occupa tutta la parete nord della Sala del Mappamondo (detta anche Sala del Consiglio) del Palazzo Pubblico di Siena. L’affresco è datato 1315 ed è considerato una delle principali opere dell’artista, nonché una delle opere più importanti dell’arte trecentesca italiana. 

La vera rivoluzione dello spazio nella pittura del Trecento in Italia (e da qui poi in tutta Europa) si ha comunque con un pittore lontanissimo da Simone e opposto rispetto a Duccio: Giotto. Prima del grande maestro toscano infatti le forme sembravano delle silhouette ritagliate e inserite in un ambiente che aveva tutta l’aria di essere più ideale che reale. Giotto invece colloca i suoi personaggi, vere e proprie persone e non certo archetipi, all’interno di uno spazio architettonico e paesaggistico tratto dalla realtà, quella stessa realtà che il pittore vede coi propri occhi e sente nella sua anima, anticipando così il realismo di Masaccio. Uno spazio fisico, vero, vissuto. Tuttavia, Giotto non si limita a riprodurre fedelmente quello che osserva, ma cerca piuttosto di esprimere il senso delle cose, e conferisce inoltre agli oggetti più vari, alle rocce sullo sfondo di un paesaggio, ai cieli azzurri delle città e delle campagne, agli animali e agli uomini vestiti alla moda, una qualche identità. Tutto è per Giotto pieno di vita, perché tutto è frutto della creazione di Dio. Lo spazio che egli rappresenta è lo spazio fisico e mondano dove tutto ha il carattere del transeunte, perché con la Creazione del mondo ha avuto inizio anche lo scorrere del tempo. Giotto è stato ciò che Dante è stato in letteratura e Duns Scoto in filosofia.
Da Giovanni Boccaccio a Cennino Cennini, da Filippo Villani a Lorenzo Ghiberti, non c’è intellettuale tra XIII e il XIV secolo che non abbia visto in Giotto il rinnovatore dell’arte dopo una secolare decadenza cominciata con la fine dell’Impero romano. Il pittore toscano finalmente avrebbe liberato l’arte dalla «rozeza de’Greci», come scrive Ghiberti nei suoi Commentarii, alludendo egli alla stile dei bizantini, considerato appunto rozzo, vecchio, statico, per nulla gentile rispetto alla raffinatezza di quello “moderno”. Mentre Boccaccio – mettendo in rilievo il naturalismo del pittore – diceva nel Decameron che Giotto «ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura […] che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse» sino a ingannare l’osservatore.
Questo naturalismo e questa capacità di conferire volume e spessore alle cose emergono con molta evidenza nella città più spirituale d’Italia, Assisi, e in particolare nel cantiere degli affreschi della basilica superiore di san Francesco, dove il giovane Giotto, assieme ad altri dotati maestri, come Jacopo Torriti, narra la storia del santo in una serie di riquadri che corrono lungo le pareti inferiori della chiesa. Ma le storie francescane sono solo una parte della decorazione ad affresco della basilica cui Giotto pose mano, perché accanto ai ventotto episodi della vita del santo, il maestro toscano dipinse con ogni probabilità anche le storie di Isacco. Sulla giusta attribuzione a Giotto di questo o quell’episodio la critica è ancora oggi divisa e il problema circa le storie da lui effettivamente dipinte rimane infatti tuttora aperto. Sta di fatto, però, che le maestranze che operarono nel cantiere assisiate cominciarono a parlare una lingua nuova nella pittura, giocando sul rapporto tra architettura dipinta e architettura reale, tra spazio vero e spazio raffigurato, e conferendo inoltre ai personaggi un certo espressionismo.

Giotto da Bondone: “Il Giudizio universale”, affresco del 1306 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. Occupa l’intera parete di fondo e conclude idealmente le Storie. Viene di solito riferito all’ultima fase della decorazione della cappella e vi è stato riscontrato un ampio ricorso di aiuti, sebbene il disegno generale sia riferito concordemente al maestro. 

Espressionismo che poi tornerà negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, il luogo in cui ha avuto inizio veramente la pittura moderna e – oseremmo dire, senza alcun timore di smentita – il Rinascimento. Qui Giotto racconta lungo le pareti laterali dell’Arena le storie di Anna e Gioacchino, di Maria e di Gesù entro riquadri che sembrano quasi dei monitor; mentre nella controfacciata realizza il grandioso Giudizio Universale. Natura e architettura, in questi episodi, convivono in stretto rapporto con gli uomini e con le bestie. In tutte le scene gli ambienti sono descritti con estrema precisione, e la storia sacra entra in intima relazione con la dimensione del quotidiano; gli edifici infatti sono contemporanei a Giotto e i cieli e le campagne sono i medesimi che si possono vedere una volta usciti dalla cappella. Anzi si può perfino dire che i riquadri entro cui il pittore ha rappresentato magistralmente gli episodi biblici non siano altro che delle finestre da cui osservare, al di là delle pareti, ciò che sta accadendo proprio ora su questa e su quella roccia, sotto questo e quell’albero, o davanti a questa e a quella povera capanna. Spazio interno e spazio esterno non si confondono, ma comunicano, determinando una sorta di contemporaneità tra il nostro tempo e quello neotestamentario; come a voler suggerire che in fondo la storia di Cristo non appartiene al passato, ma al presente, perché è qualcosa che sempre accade e sta accadendo anche ora. La scena dell’Incontro alla Porta dell’Oro, dove Anna e Gioacchino si baciano fondendo i loro visi in uno solo, l’azione avviene davanti alla porta aurea della città di Gerusalemme alla presenza di alcune pie donne e di un pastore, che Giotto pone all’estrema sinistra del riquadro. Il ponte su cui Anna e Gioacchino si uniscono nell’amore è l’elemento che mette in relazione due mondi, due realtà: quello rurale dominato dal silenzio e dalla lentezza, e quello urbano fatto di rumori, suoni e innumerevoli voci. Due spazi che dialogano fra loro non soltanto grazie al medium architettonico, ma anche in virtù dei sentimenti, che dai genitori di Maria si ripercuotono nell’animo delle donne sotto l’arco e in quello del pastore con la cesta in mano poco più in là, a dimostrazione che l’umanità trascende le classi e unisce le vite di ciascuno in un unico corpo. In pochi centimetri quadri Giotto, in questo episodio come in tutti gli altri, è stato in grado di raccontare quello che uno scrittore come Pavese avrebbe fatto in un romanzo. Anche in Pavese la campagna e la città sono i luoghi dove si soffre e si ama, ma i tempi in cui tutto questo viene narrato sono più lunghi. In Giotto invece tutto accade nel presente. Qui e ora.

Il naturalismo di Giotto verrà immediatamente recepito dai pittori locali, e poi dai numerosi maestri lungo tutta l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, ma verrà declinato in molteplici maniere a seconda dell’area geografica o addirittura della città in cui si manifesterà, presentando così particolari e singolari inflessioni dialettali. E così la pittura riminese si distinguerà da quella bolognese, così come quella padovana da quella veneziana, quella milanese da quella fiorentina, quella napoletana da quella fabrianese, quella pugliese da quella sicula. I pittori riminesi, e più in generale i pittori emiliani, furono coloro che aderirono fedelmente al nuovo linguaggio codificato da Giotto, e in particolare a quello assisiate; ciò fu possibile anche grazie alla presenza del maestro toscano nella Chiesa di san Francesco a Rimini, dove egli lasciò una meravigliosa croce dipinta (1297-1305), caratterizzata particolarmente dalla potenza anatomica del Cristo.
Neri da Rimini dimostrerà di aver compreso la lezione giottesca, e lo farà nelle figure delle sue iniziali miniate, dove avrà modo di conferire eleganza e raffinatezza ai personaggi collocati entro spazi a metà strada tra il sogno e la realtà.
Ma ad aderire al giottismo ortodosso furono già Giuliano da Rimini e il cosiddetto Maestro del 1302. Quest’ultimo, negli affreschi realizzati nel Battistero di Parma, inerisce i personaggi all’interno di uno spazio in cui compaiono architetture moderne e cieli azzurri. Stessi spazi si ritroveranno negli affreschi dell’Abbazia di Chiaravalle della Colomba (Piacenza) di un anonimo maestro emiliano e poi in quelli di Sant’Antonio in Polesine a Ferrara, realizzati dal cosiddetto Primo Maestro di Sant’Antonio in Polesine. Mentre Giovanni da Rimini si spingerà più avanti; elaborerà infatti architetture più complesse e profonde per conferire maggiore verità alla scena rappresentata. È il caso della Presentazione al Tempio nella Chiesa di Sant’Agostino a Rimini, dove i personaggi «si collocano con straordinaria plausibilità fisica e spaziale sullo sfondo dello svettante colonnato del tempio, sul pavimento sostenuto da robuste mensole prospettiche di chiarissima ascendenza assisiate, in uno spazio intriso da un’atmosfera arcana e antichizzante, delimitato da due colonne tortili che sono tra le più belle di tutto il Trecento pittorico italiano». Nella medesima chiesa, nel 1315, invece, il cosiddetto Maestro del coro di Sant’Agostino (ma forse più verosimilmente la bottega dello stesso Giovanni da Rimini) realizzerà una scena alquanto concitata: il Terremoto di Efeso. Uno straordinario fotogramma che racchiude in maniera superba tutta la tragedia e la disperazione di una città che sta crollando a causa della forza tellurica della terra. Si vedono infatti gli edifici cadere a pezzi e frantumarsi; la gente disperata fuggire confondendosi coi muri colorati della città oramai distrutta. Una scena in grado di evocare le città cubiste di Picasso, dove l’ordine e la misura sono andati irrimediabilmente perduti.
Diversa e singolare maniera di declinare il giottismo oramai dilagante in tutta Italia è quella dello Pseudo Jacopino di Francesco, che dalla Natività e Adorazione dei Magi di Raleiht alla Crocifissione di Avignone, dalla Morte di san Francesco di Roma al Polittico con la Pietà e la Presentazione al Tempio di Bologna, pur aderendo a un certo naturalismo, pare non rinunciare allo sfondo dorato di marca evidentemente bizantina; così rocce, animali, architetture e uomini sembrano inseriti in uno spazio per così dire surreale.
Stesso discorso varrebbe anche per un altro interessantissimo maestro emiliano, Vitale da Bologna. La sua maestosa e monumentale Madonna dei denti (1345, Bologna, Museo Davia-Bargellini) siede elegantemente su un trono gotico, e potente si staglia su di uno sfondo bizantineggiante, che crea un forte contrasto col suo manto scuro. Vitale ha però conferito alla Vergine una certa volumetria e un ceto spessore, e ha così evitato di appiattire il blocco della Madonna col Bambino sulla astratta foglia d’oro. Inoltre ha dato vita alle figure: così il ricciolo Gesù tocca con delicatezza estrema il trasparente velo sul volto della Madre, e quest’ultima inclina la testa verso il Figlio guardandoci languidamente come se fosse stata dipinta da Modigliani. L’umanità di Vitale si riscontra, tra l’altro, in altri maestri lungo tutto il Trecento italiano, e numerose infatti sono le tavole a fondo oro con la Madonna e il Bambino piene di candore e tenerezza.
Bellissima la tavoletta di Nicolò da Voltri (conservata nella Chiesa di San Rocco a Genova), dove Gesù si tocca il piedino come se stesse grattandosi; un gesto che si ritrova anche in una tavola conservata a Francoforte del poeticissimo Barnaba da Modena. Per non parlare poi della Madonna col Bambino di Bernardo Daddi (1320, Pinacoteca Vaticana), o di quella di Maso di Banco del 1340, dove il piccolo Gesù sembra voler immergere la mano nella veste di Maria in corrispondenza del seno, oppure del Polittico di Badia (1295-1300, Uffizi) dello stesso Giotto, realizzato poco prima dell’impresa assisiate. In tutte queste tavole lo spazio è ancora astratto, luminoso, ma le figure acquistano movimento e vitalità.
Ritornando a Vitale da Bologna, possiamo affermare che se da un lato egli non si scolli completamente da una certa tradizione iconografica, non volendo rinunciare allo schema ormai consolidato della Madonna assisa su un trono stagliata su un uno sfondo oro; dall’altro lato, il maestro emiliano sembra assumere un atteggiamento di apertura nei confronti del nuovo, e negli affreschi dell’Oratorio di Mezzaratta le cose sembrano infatti cambiare nella direzione di un realismo tutto moderno. La scena della Natività è in effetti un tripudio di corpi colorati in movimento gravitanti intorno alla capanna, che occupa il centro della intera rappresentazione. Gli angeli danzano e suonano, mentre il bue e l’asino assistono incuriositi al grande evento sacro. San Giuseppe versa contorcendosi dell’acqua nella stessa bacinella dove Maria bagna le sue dita aristocratiche. L’atmosfera è animata, il clima è quello della festa; e le figure sono corpi che si muovono in uno spazio non più celeste e irreale, ma fisico e mondano. Vitale ha reciso finalmente ogni possibile legame col mondo bizantino, e la sua lingua non è più il greco ma il latino.
Così come latina e non più greca è la lingua parlata dai Lorenzetti. Pietro e Ambrogio avranno Duccio di Buoninsegna come punto di partenza, anche se poi le strade che essi seguiranno si allontaneranno dai dettami ducceschi, sino a raggiungere esiti originali. I loro rispettivi percorsi a lungo andare divergeranno e fu il grande Toesca nel 1951 a definire i due fratelli come «tra loro diversi ma uniti nell’orbita dell’arte gotica in cui ciascuno trovò il proprio cielo». E l’arte gotica è proprio quella nata con Giotto sotto il segno della rivoluzione spaziale: «Proprio l’atteggiamento nei confronti della rappresentazione dello spazio è uno dei tratti per cui i pittori della nuova generazione si distinguono più nettamente dal loro maestro [Duccio], sostituendo al suo sovrano disinteresse un’attenta ricerca» .

Nella Crocifissione del 1320 (San Francesco, Siena) questa attenta ricerca porta Pietro a dipinge un Cristo dalla anatomia fortemente accentuata inchiodato su una croce che è l’asse portante di tutta la scena. Ai piedi della stessa sono i corpi dolenti delle Marie e di Giovanni Battista, ma in alto, intorno ai suoi bracci, ruotano gli angioletti straziati dal dolore galleggiando in uno spazio fatto soltanto di aria. Il giottismo di Pietro però è già presente negli affreschi con le storie della Passione del 1315-19 nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Nella scena della Cattura di Cristo «lo sfondo è dipinto con il tradizionale azzurro ultramarino che nella pittura murale medievale era equivalente al fondo oro delle tavole dei mosaici; tuttavia nel cielo notturno appaiono stelle a distanze irregolari, che riprendono l’effettiva disposizione delle costellazioni, mentre la falce della luna tramonta dietro un costone roccioso» . È questo uno dei primi e lirici notturni della storia dell’arte.

Più moderno di Pietro è Ambrogio, che raggiunge esiti di grande originalità nella resa spaziale degli ambienti che va dipingendo dalle tavole ai muri. Una ricerca ossessiva, quella di Ambrogio, che va verso la conquista dello spazio e che avrà come punto più alto gli affreschi sul malgoverno e sul buongoverno in Palazzo pubblico a Siena, realizzati tra 1338 e il 1339. Nell’affresco con gli Effetti del buongoverno in città e campagna viene rappresentata la turrita città di Siena, rielaborata dalla fantasia del pittore, coi suoi palazzi moderni, i suoi scorci e le sue mura merlate che la dividono dalla vasta campagna. Una città animata in cui tutto funziona come dovrebbe: c’è il maestro che impartisce la lezione ai suoi studenti all’interno di un’aula universitaria; dei muratori al lavoro; delle fanciulle che danzano a suon di tamburello; ma anche dei contadini raccogliere il grano nell’agro limitrofo. Lo studio, il lavoro, il gioco, nella loro reciproca armonia, sono l’effetto più immediato di una politica retta dalla Giustizia e dal Bene.
Diversi saranno invece gli scenari cinematografici, quasi da colossal, concepiti da Altichiero da Zevio, il più grande tra i veronesi. Si pensi alla magnifica e drammatica Crocifissione, realizzata insieme a Jacopo Avanzi, nella Cappella di San Giacomo della Basilica di Sant’Antonio a Padova tra il 1372 e il 1379.

Altichiero da Zevio: “La Crocifissione” è dipinta entro tre arcate, ma le diverse scene sono trattate come un unico spazio. Al centro la Croce, isolata in alto e contornata da angeli, ricorda il medesimo soggetto di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, al pari del gruppo delle pie donne. Ma straordinario è il dispiegarsi della folla attorno al Golgota, con un campionario di stati d’animo e di scene di vita quotidiana che non ha paragoni in un soggetto del genere: soldati indifferenti, passanti, spettatori incuriositi o inconsapevoli, madri coi bambini alla mano, persone che commentano… e poi le scene secondarie, come quella degli sgherri che rientrano in città, o quella delle vesti tirate a sorte, il tutto con una tale vividezza che pare di trovarsi di fronte ad un vivido spaccato di una piazza trecentesca, con un’amplissima gamma di tipi umani e di atteggiamenti emotivi. 

 

Ariose e complesse architetture, che sembrano ricostruite direttamente a Cinecittà, compaiono poi negli affreschi che Altichiero realizzerà qualche anno più tardi nell’Oratorio di San Giorgio, sempre a Padova. Si veda la scena coi Funerali di santa Lucia oppure la Decollazione di san Giorgio, dove le lance dei soldati anticipano quelle che si vedranno, circa settant’anni dopo, nella Battaglia di san Romano di Paolo Uccello. E anche il paesaggio sullo sfondo sembra anticipare, nelle rocce e nelle architetture, qualcosa della pittura quattrocentesca. È con Altichiero che lo spazio diventa il protagonista della narrazione; ed è con gli occhi di Altichiero che possiamo già vedere in largo anticipo le sperimentazioni di Masaccio e Piero della Francesca. Ma con Masaccio e Piero siamo già nel pieno Quattrocento.
Per approfondimenti:
_G. Ragionieri, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2009;
_A. Tartuferi, I giotteschi, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2011;
_Cfr. M. Tomasi, L’arte del Trecento in Europa, Einaudi, Torino 2012;
_S.Settis, Iconografia dell’arte italiana. 1100-1500: una linea, Einaudi, Torino 2005;
_R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana (intr. C. Garboli), Rizzoli, Milano 1994;

 

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