22 Giu La vita in “Cacania” dell’Imperatore Franz Joseph
di Domenico Giglio 23/06/2017
Che Vienna, nel 2016, centenario della morte di Francesco Giuseppe, abbia dedicato numerose mostre ed esposizioni allo stesso ed alla sua epoca, cominciando da Schonbrunn, il palazzo dove era nato il 18 agosto 1830 ed era mancato la sera del 21 novembre 1916, è logico ed opportuno, trattandosi dell’Imperatore che vi aveva regnato per 68 anni, dal lontano 2 dicembre 1848 e che vi fu sepolto nella Cripta dei Cappuccini, sepolcreto degli Asburgo dal 1633, il successivo 30 novembre, cripta che dette il titolo ad un celebre romanzo storico di Joseph Roth ed il rituale per accedervi fu a sua volta ricordato da Franz Werfel nel suo “Nel crepuscolo di un mondo”.
Questo ricordo, doveroso per gli austriaci, per cui le poste dell’attuale repubblica austriaca hanno dedicato un francobollo commemorativo del centenario della morte dell’ Imperatore, inizia con la sua ascesa al trono, nel dicembre 1848, dopo l’abdicazione praticamente imposta all’Imperatore Ferdinando, che visse poi in serenità a Praga fino al 1873, e l’altrettanto forzata rinuncia del padre, l’Arciduca Francesco Carlo, coronava gli sforzi che la madre, la bavarese arciduchessa Sofia, aveva fatto, perché questo suo figlio primogenito, fosse imperatore, cominciando dalla sua educazione fin da bambino.
Purtroppo il momento della assunzione all’Impero non era dei più felici, perché da mesi Vienna e l’Ungheria tutta, erano in rivolta contro l’assolutismo asburgico, impersonato dal Metternich, anche con eccessi come la barbara uccisione del Ministro della Guerra, il vecchio conte Latour, raggiunto nei suoi uffici, massacrato e poi appeso ad un lampione! Rivolte, quasi rivoluzioni represse a Vienna dalle truppe comandate dal maresciallo Von Windish-Graetz, ed in Ungheria, con l’intervento ancora peggiore, dell’esercito mandato dallo Zar Nicola I, in virtù dei principi della “Santa Alleanza”, truppe che avevano avuto ragione dei ribelli, così che questo giovane di diciotto anni, saliva su di un trono macchiato di sangue, cancellando quella Costituzione che Ferdinando, aveva, forse a malincuore concessa. Ed in Ungheria, dopo il vittorioso intervento russo, aprendo un solco parzialmente riempito solo dopo un ventennio, un generale austriaco, Haynau, già tristemente noto in Italia, nel 1848, per la sua repressione, che gli aveva meritato il titolo di “jena di Brescia”, fucilava ed impiccava ad Arad, ben 13 generali ungheresi e 114 altri militari, le cui domande di grazia erano state respinte, come avverrà pure nel 1852 per la domanda di grazia per il patriota e sacerdote, Enrico Tazzoli, reo di un delitto di opinione, impiccato poi a Mantova nel dicembre.
Questo , mentre un altro giovane di 28 anni, Vittorio Emanuele II, salito al trono il 3 marzo 1849, dopo una sconfitta militare, in quel di Novara, aveva mantenuto la bandiera tricolore e soprattutto aveva conservato quello Statuto, concesso dal padre Carlo Alberto, con i relativi ordinamenti parlamentari che l’Austria avrebbe conosciuto solo nel 1867. Interessante questo parallelo tra un governo, quello del Regno di Sardegna, con l’intensa attività parlamentare e governativa nel decennio dal 1849 al 1859, mentre nell’Impero d’Austria, vigeva un regime assolutistico, da stato di polizia. Così da una parte si affermava il liberalismo di Cavour e dall’altra, mancato nel 1852, il principe di Schwarzenberg, campione del dispotismo, non emergeva nessuna personalità di valore che indirizzasse l’Imperatore, di per sé digiuno di esperienza politica e poco amante di letture, verso le necessarie riforme.
Così, quando nel 1854, scoppiò quella che fu chiamata “Guerra di Crimea” con Francia, Regno Unito, Impero Ottomano, unite contro l’Impero Russo, l’Austria rimase neutrale, con grande amarezza e delusione dello Zar Nicola I, che riteneva fosse un dovere di Francesco Giuseppe, appoggiare militarmente la Russia, in ricordo e ricambio dell’aiuto ricevuto per debellare la rivolta ungherese, mentre proprio in questa vicenda si inserì abilmente Cavour, fortemente appoggiato dai Savoia, mandando un corpo di spedizione in Crimea, che gli dette così l’opportunità di partecipare, unico rappresentante di uno stato italiano, al Congresso di Parigi nel 1856 e denunciare la situazione dell’Italia, ponendo le basi di quell’accordo con Napoleone III, definito due anni dopo a Plombieres. E peggio ancora si comportò l’Austria, cioè l’Imperatore, che nel 1859, addirittura lasciando all’oscuro il proprio Ministro degli Esteri, il conte Buol, inviò il 23 aprile il famoso “ultimatum” al Regno di Sardegna, seguito il 27 dalla dichiarazione di guerra, che fece scattare la clausola dell’alleanza “difensiva” con l’ Impero di Napoleone III, che così in tal modo poté intervenire militarmente in aiuto al Piemonte, portando alla vittoria, insieme con Vittorio Emanuele II, le truppe franco-piemontesi.
Questa inesperienza di Francesco Giuseppe, – in materia di conoscenze dirette dell’impero, avendo compiuto un solo viaggio nel 1845 a Venezia ed uno in Dalmazia -, fu pagata cara perché non bastava da una parte il coraggio personale, di cui aveva dato prova nel 1848, ancora arciduca, nel combattimento di Santa Lucia ed il senso del dovere e dell’ordine, l’amore e l’inclinazione al lavoro, che rispettò fino all’ultimo giorno e che ne fecero il primo impiegato dell’ impero, quando invece sarebbe stato necessario lo spirito d’iniziativa e decisioni rapide e nette, confermando un vecchio giudizio di Napoleone I che “l’Austria arrivava sempre troppo tardi sia con l’esercito che con le idee”.
E sempre nel 1859 l’infelice scelta, quale comandante dell’esercito austriaco che doveva invadere il Piemonte, del maresciallo Gyulay, anziché dell’Hess, costrinse Francesco Giuseppe, dopo i primi insuccessi, ad assumere personalmente il comando delle truppe, venendo sconfitto a Solferino e San Martino, perdendo la Lombardia, assegnata al Regno di Sardegna.
Così ci descrive la sua inesperienza, unita a grande coraggio, il letterato Joseph Roth nella celebre “Marcia di Radetzky”: “A un tratto si stava nel tepore meridiano di un sole argenteo, coperto da nubi burrascose. Allora, tra il sottotenente e le schiene dei soldati, comparve l’Imperatore con due ufficiali del suo stato maggiore. Fece per portarsi agli occhi un binocolo da campo che uno degli accompagnatori gli porgeva. Trotta sapeva che cosa ciò significava: ammesso pure che il nemico stesse ripiegando, la sua retroguardia aveva pur sempre il viso rivolto verso gli austriaci, e chi alzava un binocolo si faceva riconoscere come un bersaglio che vale la pena colpire. E questi era il giovane Imperatore. Trotta si sentì il cuore in gola. La paura per l’inimmaginabile, immensa catastrofe che avrebbe annichilito lui stesso, il reggimento, l’esercito, lo Stato, il mondo intero, gli trapassò il corpo con brividi ardenti. Le ginocchia gli tremarono. E l’eterno malanimo dell’ufficiale subalterno di prima linea verso gli alti papaveri dello stato maggiore, che non avevano alcuna idea dell’amara realtà del fronte, dettò al sottotenente quel gesto che impresse il suo nome a lettere indelebili nella storia del reggimento. Con entrambe le mani afferrò le spalle del Monarca perché si chinasse. La presa del sottotenente fu fin troppo energica. L’Imperatore cadde a terra di botto e gli accompagnatori si precipitarono in suo aiuto. In quell’istante una pallottola trapassò la spalla sinistra del sottotenente, quella pallottola, appunto, che era destinata al cuore dell’imperatore. Mentre questi si rialzava, il sottotenente piombava a terra. Ovunque, lungo tutto il fronte, si ridestò il confuso e sporadico scoppiettio dei fucili impauriti e strappati al loro sopore. (…) Trotta guarì nel giro di quattro settimane. Quando fece ritorno alla sua guarnigione nell’Ungheria meridionale, era insignito del grado di capitano, della più alta onoreficenza, l’Ordine di Maria Teresa, e del titolo nobiliare. Si chiamò da allora in poi: capitano Joseph Trotta von Sipolje”.
Le incertezze riguardavano anche la politica interna oscillante tra centralismo e federalismo e dominavano la politica estera austriaca relativamente al problema dell’unità germanica e del ruolo di comando nella Confederazione Germanica, per cui, anche in questo caso Francesco Giuseppe fu abilmente giuocato da Bismarck, il potente cancelliere del Regno di Prussia, che nel 1866 lo spinse a mobilitare per primo, senza che l’esercito fosse pronto e forzando il riluttante, ma fedele, generale Benedeck, ad assumerne il comando, con il risultato di essere travolto dai prussiani di Moltke a Sadowa, perdendo definitivamente il primato tra gli stati tedeschi, che così passava dai cattolici Asburgo ai luterani Hoenzollern, ed il Veneto, assegnato al Regno d’Italia, alleata della Prussia, in quella che per noi è considerata la Terza Guerra d’Indipendenza, però con un confine quanto mai infelice, tra Italia ed Austria, con il Trentino incuneato tra Lombardia e Veneto e ben lontano da Trieste. Inoltre l’Austria e quindi l’ Imperatore, a cui era demandato anche il più piccolo problema, dettero prova dopo la guerra, di ingratitudine nei confronti dell’ammiraglio Tegetthof, il vincitore di Lissa e del Benedeck, sulle cui uniche spalle fecero ricadere la sconfitta di Sadowa.
In questi anni si inserisce l’amara vicenda del fratello Massimiliano, quel fratello che nominato viceré del Regno Lombardo-Veneto, nel 1857, aveva cercato di riconciliare con l’ Impero gli abitanti del Regno, sollecitando inutilmente Vienna a liberalizzazioni e riforme, per cui inascoltato era partito sulla carducciana “fatal Novara”, lasciando il Castello di Miramare, con le sue “(…) bianche torri, attediate per lo ciel piovorno (…)”, per salire al trono di Imperatore del Messico, dopo essere stato obbligato dal fratello, prima di partire, a firmare l’atto di rinuncia al trono austriaco, per finire poi fucilato il 19 giugno 1867 a Queretaro, mentre pochi giorni prima, l’ 8 giugno, Francesco Giuseppe con la moglie, la bavarese Elisabetta, il cui fascino aveva colpito gli ungheresi, erano incoronati a Budapest, Re d’Ungheria, dando così origine e consacrazione a quella che da allora fu definita “duplice monarchia” che prese il noto nome de “Impero Austro- Ungarico”. Ed il successivo 18 agosto, a Salisburgo, si celebravano solennemente i 37 anni dell’ Imperatore, presente anche Napoleone III, con la moglie Eugenia, a cui non rimordeva la coscienza di aver spinto Massimiliano all’avventura messicana, praticamente lasciandolo solo ed indifeso quando aveva ritirato e reimbarcato per la Francia, il corpo d’armata francese comandato da Bazaine.
E questo 1867 fu anche importante perché finalmente l’Impero si dotava di una Costituzione, con il suo parlamento, il Reichsrat, costituzione che avrebbe regolato teoricamente la vita politica austriaca fino al 1918, ma come commentarono diversi storici in realtà lo Stato era in balia dell’arbitrio burocratico sotto la maschera del costituzionalismo, anche quando fu concesso il suffragio universale maschile ed il parlamento raggiunse i 507 deputati, con 233 seggi previsti per i tedeschi e 255 per gli altri gruppi slavi, mentre solo 19 erano assegnati alle minoranze italiane: ricorderemo il socialista, ma irredentista, Cesare Battisti ed il cattolico Alcide De Gasperi. Questa ridotta presenza italiana era il frutto della politica, messa in atto dopo le nostre guerre d’indipendenza, che avevano dato all’Italia la Lombardia ed il Veneto, malgrado la “Triplice” stipulata nel 1882, di favorire croati e slavi, fomentando la loro avversione nei confronti degli italiani, modificando ad esempio i collegi elettorali in modo da ridurre o far scomparire la rappresentanza italiana, che nel 1848 era maggioritaria in Dalmazia e totale in Istria.
L’accenno alla incoronazione a Budapest di Elisabetta Regina, ci fa soffermare sulla figura di questa consorte di Francesco Giuseppe, principessa bavarese, sposata a 16 anni, per libera scelta del giovane Imperatore, contravvenendo alla volontà della madre che aveva invece scelto per lui, la sorella maggiore di Elisabetta, la principessa Elena. Matrimonio effettivamente d’amore da parte imperiale, che le fu fedele per tutta la vita, che la assecondò in tutti i suoi desideri, che le scrisse sempre lettere affettuose, non considerando la relazione, in età più tarda, con l’attrice Caterina Schratt, relazione nota ed anche favorita dalla stessa Elisabetta. Diverso invece l’atteggiamento della giovane Elisabetta, oppressa fin dall’inizio del matrimonio dal rigidissimo cerimoniale asburgico, di derivazione spagnola, soffocante per una giovane abituata ad una vita libera a contatto con la natura, in una famiglia senza dubbio di origine regale, essendo un ramo cadetto della dinastia dei Wittelsbach, ma non schiava delle forme. Non potevano essere due caratteri più differenti e lontani fra loro, con esigenze diverse ed anche con passioni diverse dai viaggi che videro Elisabetta andare da Madera a Corfù, per finire tragicamente a Ginevra, all’amore della poesia, particolarmente Heine, mentre è noto lo scarso interesse culturale di Francesco Giuseppe, tra l’altro poco disponibile ad accettare i progressi tecnici dal telefono, alle automobili e alle attrezzature ginnastiche e balneari che amava invece la consorte. Questo distacco di Elisabetta dai suoi doveri di Imperatrice va ad esempio confrontato, non certo a suo vantaggio, con il ruolo che quasi negli stessi anni veniva svolto in Italia, a favore dell’unità nazionale dalla Regina Margherita, oggi quasi sconosciuta e dimenticata, nei viaggi nella penisola ed in tutte le manifestazioni ufficiali, sempre a fianco del marito, il Re Umberto I, di cui pure conosceva e perdonava certe debolezze!
Amante della poesia Elisabetta era ella stessa poetessa ed ora dopo oltre un secolo dalla morte le sue poesie riscoperte recentemente sono state pubblicate in un libro curato dalla storica viennese Brigitte Hermann e tradotte anche in italiano, che aprono, come sottolineato dallo storico Waldimaro Fiorentino, che ha recensito questo libro, uno scenario incredibile sui veri sentimenti della imperatrice, smitizzandone il personaggio, perché le sue poesie “sulla famiglia Asburgo e sulla politica imperiale degli anni Ottanta sono a volte spietate , addirittura provocatorie” e di questa spietatezza è prova, ad esempio, una poesia dove dice: “voi amati popoli di questo vasto impero, in gran segreto io vi ammiro tanto, perché col sudore e col vostro sangue, nutrite generosi questa schiatta depravata”, cioè gli Asburgo. E da queste poesie si comprende chi avesse ereditato il carattere ribelle, libertario, repubblicaneggiante di Elisabetta e cioè proprio il figlio, l’Arciduca Ereditario Rodolfo , morto suicida in quella alba tragica del 29 gennaio 1889 a Mayerling. Così, più tardi Francesco Giuseppe, dopo la morte di Elisabetta avvenuta il 10 settembre 1898, pare abbia detto che nulla nella vita gli era stato risparmiato, mai pensando a quanto sarebbe avvenuto a Serajevo sedici anni dopo!
Tra tanti eventi non certo positivi, si arrivava, grazie finalmente ad un uomo politico audace e spregiudicato, l’ungherese Andrassy, nel 1878, dopo il Congresso di Berlino, che poneva un punto fermo alla storica inimicizia tra gli Imperi Russo ed Ottomano, il congresso da cui l’Italia seppe solo uscire con le “mani nette”, alla assegnazione all’Impero Austro-Ungarico, della Bosnia-Erzegovina in amministrazione fiduciaria, che nel 1908 sarebbe divenuta annessione, rafforzandolo nei Balcani e dando inizio a quel lungo periodo di pace. Periodo di cui si giovò l’intera Europa, ma particolarmente l’Impero asburgico, per la parte economica e per lo sviluppo industriale, anche se nel suo interno crescevano le rivalità delle nazionalità componenti questo grande insieme multietnico, di oltre cinquanta milioni di abitanti, ed apparivano degli spunti antisemita. In questo scenario la figura di Francesco Giuseppe, fotografato in centinaia di occasioni diveniva simbolica e quasi carismatica, assurgendo ad elemento unificatore, anche se negli ambienti più qualificati culturalmente e politicamente si capiva che il mantenimento dello “status quo” non solo non risolveva i problemi, ma lentamente li aggravava e quindi non bastava a fermare il declino la ripetuta immagine dell’Imperatore, ancora alto, snello e sempre elegante nelle sue divise, sia nei balli di Corte che nelle riviste militari od anche a caccia che era forse la sua unica passione oltre il lavoro di ufficio. Ed in tutte queste manifestazioni e nelle sue vacanze nei territori dell’Impero, sembrava essere vicino al popolo, anche se riservava la stretta della sua mano solo all’alta nobiltà! E di questa sterile nostalgia c’è chi si nutre ancor oggi in varie parti dell’ex impero, meno in Austria, tranne forse il Tirolo.
In questo periodo di pace, che permetteva anche al giovane Regno d’Italia, di consolidarsi all’interno e di trovare il suo ruolo nel concerto europeo delle grandi potenze – dove “Europa” voleva dire “il Mondo” -, sia Vittorio Emanuele II, nel 1873 ed Umberto I , nel 1881, si recavano in visita a Vienna, visite ricambiate da Francesco Giuseppe a Venezia, non volendo venire a Roma, dove il Pontefice non riconosceva l’annessione all’Italia, considerando i cattolici Savoia, come usurpatori. Nasceva così in Italia, il problema dell’irredentismo, con la relativa reazione anti-italiana, da parte austriaca, con punte di frizione come quando il triestino Guglielmo Oberdan(k), per un presunto possibile attentato all’Imperatore veniva impiccato nel 1882, malgrado la domanda di grazia presentata dalla madre e gli appelli di numerose personalità tra le quali Victor Hugo. In questa ed in altre occasioni il governo italiano, considerando l’alleanza difensiva conclusa con gli Imperi Germanico ed Austro-Ungarico, si comportò sempre con estrema correttezza nei confronti degli alleati, come quando Giolitti, Presidente del Consiglio, nel 1911, fu costretto a censurare l’ode di Gabriele d’Annunzio, “La Canzone dei Dardanelli”, in quanto “ingiuriosa verso una potenza alleata e verso il suo sovrano”, censura da cui derivò il vero e proprio odio del poeta per Giolitti , culminato nel 1915, in quanto nella canzone Francesco Giuseppe era indicato come “(…) angelicato impiccatore, l’angelo dalla forca sempiterna (…)” e l’Austria come “(…) la schifiltà dell’aquila a due teste,che rivomisce come l’avvoltoio, le carni dei cadaveri indigesta (…)”.
Nessuno in tutto questo periodo voleva una guerra e realisticamente il Regno d’Italia pensava a soluzioni diplomatiche per la soluzione degli italiani irredenti, se non fosse intervenuto il 28 giugno del 1914, a Serajevo, capitale della Bosnia –Erzegovina, l’attentato e la morte dell’ Arciduca Ereditario, Francesco Ferdinando, e della moglie morganatica Sofia Chotek, ricordati, anche loro, nel centenario del triste evento, incredibile a dirsi, dalle poste della repubblica austriaca, con l’emissione di un “foglietto”, contenente due francobolli con i loro ritratti! Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, in quanto figlio del fratello minore dell’Imperatore, succeduto nella linea ereditaria, dopo la morte dell’unico figlio maschio, l’arciduca Rodolfo, era uomo dal carattere deciso come aveva dimostrato anche nel caso del suo matrimonio con una nobile di modesto rango, che non sarebbe mai potuto diventare imperatrice, né i suoi figli ereditare il trono, ed era di temperamento autoritario, diverso da quello dello zio. Poco amato dalla popolazione, aveva progetti di ristrutturazione dell’impero per dare spazio a boemi e slavi, cambiandone completamente il volto e frenandone la dissoluzione. Questo assassinio all’inizio, oltre allo sdegno, non aveva generato particolari reazioni, ma fu successivamente preso a motivo, da parte della classe dirigente militare e politica, più austriaca che ungherese, per dare al Regno di Serbia, considerato mandante dell’attentato e da alcuni definito “il Piemonte dei Balcani”, una solenne lezione, dimentichi che sugli slavi ortodossi esisteva l’alta protezione dell’Impero Russo. Così si ripeteva l’errore dell’ultimatum del 1859 e si metteva il vecchio, ottantaquattrenne, Imperatore, quasi di fronte al fatto compiuto.
In effetti Francesco Giuseppe non era più per le guerre, ricordando Solferino, con le migliaia di morti e feriti, lui che lì era stato presente, ma “ingravescente aetate” , non aveva più sufficiente energia per opporsi ai suoi sconsiderati ministri, che arrivavano anche ad affermare fatti inesistenti, per cui, con la stanca mano appose la firma alla dichiarazione di guerra alla Serbia, mai pensando che con quella sottoscrizione avrebbe dato inizio a quella che fu poi definita “Prima Guerra Mondiale” e posto fine non solo al suo impero, ma a tutto il principio monarchico predominante in una Europa che al momento vedeva solo tre repubbliche: Portogallo, Svizzera e Francia. Successivamente si sarebbe visto proprio l’Austria proclamare la repubblica e la decadenza della sua Casa e cadere altri tre imperi, germanico, russo ed ottomano, tutti, anche loro, sostituiti da repubbliche, cambiando così l’aspetto geopolitico ed istituzionale dell’Europa.
Per approfondimenti:
_Elsabetta d’Austria –“Diario poetico” – a cura e prefazione di Brigitte Harman – Edizioni MCS;
_Eugenio Bagger, “Francesco Giuseppe” – Edizioni Mondadori, 1929;
_Francois Feito, “Requiem per un Impero defunto” – Edizioni “Il giornale”, 1990;
_Franz Werfel, “Nel crepuscolo di un mondo” – Edizioni Mondadori, 1950;
_Gabriele d’Annunzio, “Merope” – Edizioni Il Vittoriale degli italiani, 1943;
_Joseph Roth, “La marcia di Radetzki” – Edizioni Adelphi, 1987;
_Joseph Roth, “La cripta dei Cappuccini” – Edizioni Adelphi;
_Nora Fugger, “Gli splendori di un impero “ – Edizioni Mondadori;
_Stefan Zweig, “Il mondo di ieri” – Edizioni Mondadori, 1946;
_Waldimaro Fiorentino, “Nessuna nostalgia ….” – da “Il sole -24 ore” del 12 agosto 1995 ed altri articoli
_Waldimaro Fiorentino, “La prima guerra mondiale” – Edizioni Catinaccio, 2015.
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