Per questo spero almeno di rispondere a una delle condizioni essenziali di ogni onesta cronaca: sincerità spregiudicata. Io sono in verità come raramente altrui fu mai, divelto da tutte le radici, persino dalla terra che queste radici nutrivano. Sono nato nel 1881 in un grande possente Impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta fu ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici milioni di lettori. Io ora non appartengo a nessun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto; l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro la mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità.
Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. Nel breve lasso da quando cominciò a crescermi la barba a quando prese a farsi grigia, in meno di mezzo secolo, si sono determinate più metamorfosi radicali che nel corso di dieci generazioni; e ognuno di noi sente che furono anche troppe! Il mio oggi è così differente dal mio ieri, le mie ascese e i miei crolli, che a volte mi sembra di aver vissuto non una, ma molteplici esistenze totalmente staccate e diverse. Spesso mi accade, se dico distrattamente: “La mia vita”, di domandarmi poi: “Quale vita?”. Quella antecedente alla guerra mondiale, alla Prima o alla Seconda, oppure la vita di oggi? Poi mi sorprendo a dire: “La mia casa”, e non so quale delle mie case di un tempo alludo, se a quella di Bath o a quella di Salisburgo o alla casa paterna viennese. Oppure dico: “Da noi”, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria più che degli inglesi o degli americani, che là non sono più organicamente congiunto e che qui non sarò mai del tutto inserito; il mondo nel quale sono cresciuto, il mondo odierno e ancora il mondo posto fra questi due si scindono sempre più nel mio sentire in tre mondi del tutto dissimili.

Stefan Zweig (a sinistra) e Joseph Roth (a destra) nella città portuale belga di Ostenda nel 1936.
Tutte le volte che conversando con amici più giovani rievoco episodi dell’epoca precedente la prima guerra, mi avvedo alle loro domande stupite come infinite cose, che sono ancora per me realtà naturalissima, sono già per loro o storiche o inimmaginabili. E un istinto segreto mi induce a dare loro ragione: sì, fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati. Io stesso debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa nel breve spazio di un’unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi stupisco se la paragono al modo di vivere dei miei predecessori. Che cosa hanno veduto mio padre e mio nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un’unica volta, un’unica esistenza dal principio alla fine, senza vette e senza cadute, senza scosse né pericoli; una vita di piccole emozioni, di inavvertiti paesaggi; l’onda del tempo li ha portati con ritmo regolare, tacito e calmo, dalla culla alla tomba. Hanno vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi sempre persino nella stessa casa; quel che accadeva fuori nel mondo non si svolgeva in fondo che nel giornale e non batteva alla loro porta. Ai tempi loro in qualche punto del mondo si combatté bensì una qualche guerra, ma, commisurata alle dimensioni odierne, una guerricciola, che si svolgeva lontano dai confini; non si sentivano le cannonate e dopo sei mesi tutto era finito, dimenticato, ridotto foglia secca della storia mentre già riprendeva la solita monotona vita. Noi invece tutto sperimentammo senza ritorno, nulla restò del passato, nulla si ripeté; a noi toccò il privilegio di partecipare a ciò che la storia suole suddividere con parsimonia si un paese e su di un secolo. Una generazione aveva tutt’al più fatto una rivoluzione, un’altra una sommossa, la terza una guerra, la quarta aveva subito una carestia, la quinta un fallimento dello Stato, e vi erano persino dei paesi benedetti, delle generazioni fortunate, che nulla di tutto questo avevano conosciuto. Ma noi, che abbiamo oggi sessant’anni, e che de jure avremmo ancora un certo tempo da vivere, che cosa non abbiamo veduto, che cosa non abbiamo sofferto?
Abbiamo percorso da cima a fondo il catalogo di tutte le catastrofi pensabili, e non siamo giunti ancora all’ultima pagina. Per conto mio sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità e le ho anzi vissute ciascuna si un fronte diverso, la prima su quello tedesco, l’altra su quello anti-tedesco. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo, in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea.
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