Stefan Zweig: esegesi del secolo breve

di Stefan Zweig  03/06/2017 – traduzione di Lavinia Mazzucchetti

Premessa: “Die Welt von gestern (Il mondo di ieri) del 1942, è la ricostruzione autobiografica di un’epoca, che nella consapevolezza di Zweig – fuggito in terra brasiliana, per la persecuzione nazista in Austria – è ormai prossima all’imminente catastrofe politica e morale; una catastrofe alla quale egli non sopravviverà. Riportiamo la prefazione del romanzo autobiografico, che ci descrive in un’esposizione lucidissima l’epoca del secolo breve, quel novecento capace di creare progresso e barbarie. Il libro verrà pubblicato postumo, segnando la consapevolezza della definitiva scomparsa degli antichi valori e dalla rassegnazione (siamo in pieno secondo conflitto) di fronte all’irreversibilità degli eventi, un’atmosfera autunnale che imprime all’intera opera il severo suggello della modernità”. Giuseppe Baiocchi

Stefan Zweig (Vienna, 28 novembre 1881 – Petrópolis, 23 febbraio 1942) è stato uno scrittore, drammaturgo, giornalista, biografo e poeta austriaco naturalizzato britannico. Animato da sentimenti pacifisti e umanisti, è noto come autore di novelle e biografie. Politicamente era internazionalista, cosmopolita ed europeista, e come ebreo laico, considerava il sionismo nazionalista di Theodor Herzl un’idea errata, propugnando una pacifica assimilazione degli ebrei. Oppositore fermo dei totalitarismi, lasciò l’Europa dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo, rifugiandosi infine in Brasile dove si suicidò nel 1942.

Non ho mai attribuito tanta importanza alla mia persona da sentire il desiderio di raccontare ad altri la storia della mia vita. Molte cose dovevano accadere, molti più eventi, catastrofi e prove di quanto solitamente tocchi a una singola generazione, prima che trovassi il coraggio di iniziare un libro che ha il mio io come protagonista, o per meglio dire quale centro. Lungi da me l’idea di mettermi alla ribalta, o almeno se lo faccio, è soltanto quale commentatore in una conferenza con proiezioni. L’epoca offre le immagini e io vi aggiungo le didascalie e non narrerò tanto il destino di me solo, quanto quello di tutta una generazione, della nostra inconfondibile generazione, la quale forse più di ogni altra nel corso della storia è stata gravata di eventi.
Ciascuno di noi, anche il più piccolo e trascurabile, è stato sconvolto sin nell’intimo della sua esistenza delle quasi ininterrotte scosse vulcaniche della nostra terra europea, e fra questi innumerevoli io non mi posso attribuire che un privilegio: come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse sono erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformato la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel “dove andrò?” a me già ben noto. Ma non lo voglio deplorare, giacché appunto chi è senza patria ritrova una nuova libertà, e solo chi non è più a nulla legato non ha bisogno di avere riguardo per nulla.

Cartina europea satirica del 1914.

Per questo spero almeno di rispondere a una delle condizioni essenziali di ogni onesta cronaca: sincerità spregiudicata. Io sono in verità come raramente altrui fu mai, divelto da tutte le radici, persino dalla terra che queste radici nutrivano. Sono nato nel 1881 in un grande possente Impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta fu ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici milioni di lettori. Io ora non appartengo a nessun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto; l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro la mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità.
Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. Nel breve lasso da quando cominciò a crescermi la barba a quando prese a farsi grigia, in meno di mezzo secolo, si sono determinate più metamorfosi radicali che nel corso di dieci generazioni; e ognuno di noi sente che furono anche troppe! Il mio oggi è così differente dal mio ieri, le mie ascese e i miei crolli, che a volte mi sembra di aver vissuto non una, ma molteplici esistenze totalmente staccate e diverse. Spesso mi accade, se dico distrattamente: “La mia vita”, di domandarmi poi: “Quale vita?”. Quella antecedente alla guerra mondiale, alla Prima o alla Seconda, oppure la vita di oggi? Poi mi sorprendo a dire: “La mia casa”, e non so quale delle mie case di un tempo alludo, se a quella di Bath o a quella di Salisburgo o alla casa paterna viennese. Oppure dico: “Da noi”, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria più che degli inglesi o degli americani, che là non sono più organicamente congiunto e che qui non sarò mai del tutto inserito; il mondo nel quale sono cresciuto, il mondo odierno e ancora il mondo posto fra questi due si scindono sempre più nel mio sentire in tre mondi del tutto dissimili.

Stefan Zweig (a sinistra) e Joseph Roth (a destra) nella città portuale belga di Ostenda nel 1936.

Tutte le volte che conversando con amici più giovani rievoco episodi dell’epoca precedente la prima guerra, mi avvedo alle loro domande stupite come infinite cose, che sono ancora per me realtà naturalissima, sono già per loro o storiche o inimmaginabili. E un istinto segreto mi induce a dare loro ragione: sì, fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati. Io stesso debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa nel breve spazio di un’unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi stupisco se la paragono al modo di vivere dei miei predecessori. Che cosa hanno veduto mio padre e mio nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un’unica volta, un’unica esistenza dal principio alla fine, senza vette e senza cadute, senza scosse né pericoli; una vita di piccole emozioni, di inavvertiti paesaggi; l’onda del tempo li ha portati con ritmo regolare, tacito e calmo, dalla culla alla tomba. Hanno vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi sempre persino nella stessa casa; quel che accadeva fuori nel mondo non si svolgeva in fondo che nel giornale e non batteva alla loro porta. Ai tempi loro in qualche punto del mondo si combatté bensì una qualche guerra, ma, commisurata alle dimensioni odierne, una guerricciola, che si svolgeva lontano dai confini; non si sentivano le cannonate e dopo sei mesi tutto era finito, dimenticato, ridotto foglia secca della storia mentre già riprendeva la solita monotona vita. Noi invece tutto sperimentammo senza ritorno, nulla restò del passato, nulla si ripeté; a noi toccò il privilegio di partecipare a ciò che la storia suole suddividere con parsimonia si un paese e su di un secolo. Una generazione aveva tutt’al più fatto una rivoluzione, un’altra una sommossa, la terza una guerra, la quarta aveva subito una carestia, la quinta un fallimento dello Stato, e vi erano persino dei paesi benedetti, delle generazioni fortunate, che nulla di tutto questo avevano conosciuto. Ma noi, che abbiamo oggi sessant’anni, e che de jure avremmo ancora un certo tempo da vivere, che cosa non abbiamo veduto, che cosa non abbiamo sofferto?
Abbiamo percorso da cima a fondo il catalogo di tutte le catastrofi pensabili, e non siamo giunti ancora all’ultima pagina. Per conto mio sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità e le ho anzi vissute ciascuna si un fronte diverso, la prima su quello tedesco, l’altra su quello anti-tedesco. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo, in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea.
Inerme e impotente, dovetti essere testimone dell’inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece con il suo potente e programmatico dogma dell’antiumanità. A noi fu concesso di vedere, dopo secoli e secoli, guerre senza dichiarazioni di guerra, ma con i campi di concentramento, torture, saccheggi e bombardamenti sulle città inermi, di vedere orrori che le ultime cinquanta generazioni non avevano più conosciuto e che quelle future è sperabile non più tollereranno.
D’altra parte, quasi per paradosso, nello stesso periodo in cui il nostro mondo regrediva moralmente di un millennio, ho veduto la stessa umanità raggiungere mete inconcepite nel campo tecnico e intellettuale, superando in un attimo quanto era stato fatto in milioni di anni: la conquista dell’aria con l’aeroplano, la trasmissione della parola umana nello stesso secondo per tutto il pianeta e quindi il superamento dello spazio, la disgregazione dell’atomo, la guarigione delle più subdole infermità, la quasi quotidiana attuazione insomma di quanto ieri era ancora attuabile. Mai prima d’oggi l’umanità nel suo insieme si è comportata più satanicamente e non mai d’altra parte ha compiuto opere così prossime a Dio.
Testimoniare questa nostra esistenza tutta tensione e drammatiche sorprese, mi pare un dovere, giacché, lo ripeto, ognuno fu costretto a essere testimone di quelle inaudite metamorfosi. Per la nostra generazione non ci fu modo, come per le precedenti, di esimersi, di trarsi in disparte; in grazia della nuova, organizzata contemporaneità, noi fummo sempre legati al nostro tempo. Quando bombe distruggevano le case di Shanghai, noi in Europa lo apprendevamo nelle nostre stanze prima che i feriti fossero portati fuori da quelle case. Quello che accadeva a mille miglia oltre l’oceano, ci veniva incontro, vivo, nell’immagine. Non v’era modo di difendersi da questo perenne essere informati e chiamati in causa. Non v’era paese ove rifugiarsi, non v’era pace da conquistare, sempre e dovunque la mano del destino ci afferrava per trascinarci nel suo gioco mai sazio.
Di continua bisognava subordinarci alle esigenze dello Stato, farsi preda della più stolta politica, adattarsi ai mutamenti più inauditi; eravamo sempre incatenati alla sorte comune; per quanto ci si difendesse, questa ci portava irresistibilmente co sé.
Chi dunque ha percorso, o meglio è stato rincorso e incalzato attraverso quest’epoca – ben poche pause ci furono concesse! – ha vissuto più storia di qualunque dei suoi avi. Anche oggi siamo di nuovo a una svolta, a una conclusione e a un inizio. Non senza intenzione dunque io lascio per ora che questo sguardo retrospettivo alla mia vita si chiuda con una data precisa. Quel settembre 1939 segna infatti il limite definitivo dell’epoca che ha plasmato ed educato noi sessantenni. Se però con la nostra testimonianza tramanderemo alla generazione futura anche soltanto una scheggia di verità, non avremo lavorato invano.
Ho chiara coscienza delle circostanze sfavorevolissime, e pure caratteristiche del nostro tempo, in cui tento dar forma a questi miei ricordi. Li scrivo in piena guerra, in terra straniera e senza il minimo soccorso alla mia memoria. Nella camera d’albergo non ho a disposizione né un esemplare dei miei libri, né appunti, né lettere di amici. A nessuno posso chiedere una notizia, perché in tutto il mondo la posta da paese a paese è interrotta o ostacolata dalla censura.
Viviamo separati come centinaia d’anni or sono, prima che fossero stati inventati navi a vapore, ferrovie, aeroplani. Di tutto il mio passato non ho quindi con me altro che quanto porto dietro la fronte. Il resto è in questo momento irraggiungibile o perduto. Ma la nostra generazione ha imparato a fondo l’arte preziosa di non rimpiangere il perduto, e forse la mancanza di documentazione e di particolari tornerà di vantaggio al mio libro. Considero infatti la nostra memoria un elemento che non conserva casualmente l’una cosa per perdere fortuitamente l’altra, bensì un’energia ordinatrice e saggiamente selezionatrice. Tutto quanto si dimentica della propria esistenza era già da un pezzo condannato per istinto a essere dimenticato. Solo ciò che io stesso voglio conservare può aspirare a essere conservato per gli altri. Parlate e scegliete dunque, o i miei ricordi, al posto mio, e restituite almeno un riflesso della mia vita, prima che essa scenda nel buio!

 

Per approfondimenti:
_ Stefan Zweig, Il mondo di ieri – Edizioni Oscar Mondadori

 

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