19 Mag Eichmann: il processo del secolo e la banalità del male
di Miriana Fazi 20/05/2017
Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad un dilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delle Schutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processo tedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica della divisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilità connessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpa collettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finito per spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondo problema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare o mostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.
Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali, inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco Otto Adolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovvero l’apparato competente sugli affari ebraici, dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione – voluta da Himmler – del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segreta o Gestapo.
Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l’ufficio ricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regime nazionalsocialista: aveva coordinato – a livello europeo – l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagli agenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti“. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista americana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio “La banalità del male” (Eichmann a Gerusalemme).
In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano, possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della fine dell’anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.
La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso“. La percezione dell’autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell’organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agito all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei “mostri”, egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vita regolare e monotona – nell’eseguire ordini – i suoi atti erano terribili. In questa “mostruosa normalità” della burocrazia, capace di commettere la più grande atrocità che l’umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della “banalità del male“. La “normalità” espressione di atteggiamenti comuni ripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trova il suo elemento all’interno del comportamento del cittadino comune, il quale non riflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Il nazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparire incredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessun pentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali della quotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.
Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali rappresentano il nucleo tematico dell’opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di “fare il male“.
La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa si domanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di “operare il male“. Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male.
La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell’introduzione de “La Vita della Mente“: assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: ” mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male“.
Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne “Le Origini di Totalitarismo” (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l’aumento di totalitarismo, era dovuto all’esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, “non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia“. Nasceva un “hostis generis humani“, tradotto dal latino nemico del genere umano.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa – secondo la Arendt – gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall’attuale società. La filosofa si interroga sul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere “giudicati da loro stessi“; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di “giusto e sbagliato” siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopo aver commesso certe azioni.
La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, ma semplicemente l’abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l’io e l’io, che da Socrate è stato chiamato “pensare“.
L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali consiste nel fatto che un’intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.
La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l’uomo di fronte ad un quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l’aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degli avvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocare perplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su “Eichmann a Gerusalemme” nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che “banalità” significa “senza radici”, non radicato nei “motivi cattivi” o “impulso” o forza di “tentazione“.
La Arendt asserisce inoltre: “la mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il bene ha profondità e può essere integrale.”
Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne considerata una seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi alla convocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzo del c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzati per la prima volta nel 1945, ndr).
Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio di retroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus da considerare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.
Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questione squisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario, che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fu accolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quel processo sembrava essere destinato ad assumere.
Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediante l’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco alla fattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare: facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso in omicidio – capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile da provare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.
Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmann all’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann e ucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo. Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise di procedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridico rivoluzionario.
Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimini nazisti della questione ebraica, infine sfociata nella “soluzione finale” rischiasse di avere una pena lieve, per i crimini contro l’umanità commessi.
Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunale ordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza del processo di Norimberga.
Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali, coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La legge sulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.
La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiara interpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice di Norimberga.
Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì una potente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forte inasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea a condannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico di responsabilità.
Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propria inappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteria maniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazione degli ebrei.
Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propria scusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume di speranza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del diritto internazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazione illegale condotta da Mossad.
Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzato nella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimento all’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo di Gerusalemme.
Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamente brevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questione giuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente con voci assonanti sul piano dottrinale.
Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexatae questiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività della legge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposero negativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva lo Stato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista venne alfine condannato.
Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portata sarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della legge penale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteri l’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si è consumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.
Per approfondimenti:
_Hannah Arendt, La banalità del male – Edizioni Feltrinelli
_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann – Edizioni Einaudi
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